A cura di SLAI COBAS – sindacato di classe – provinciale
VENEZIA, ed.12-12-2006
GLI ATTI PUBBLICI SONO DELLE MASSE NON PRIVATI !
Petrolchimico: la sentenza del 15.12.2004 della corte d’appello di
Venezia
Gli imputati (OMISSIS) Peraltro bel noti al proletariato
FATTO E DIRITTO
Con sentenza
in data 2/11/2001 del Tribunale di Venezia, gli imputati venivano assolti, nei
termini in epigrafe riportati, in ordine ai reati ascritti in rubrica.
Circa il primo capo
d’imputazione, ricordava il predetto giudice in premessa della sentenza che,
così come già esposto dal P.M. nella sua esposizione introduttiva illustrata
all'udienza del 29 maggio 1998, le indagini avevano preso avvio a seguito di un
esposto presentato da Gabriele Bortolozzo componente del comitato di redazione
della rivista Medicina Democratica, che segnalava la produzione presso il
petrolchimico di Porto Marghera di una sostanza chimica denominata CVM
riconosciuta cancerogena dalla organizzazione mondiale della sanità (OMS) e
dalla Comunità Economica Europea che aveva provocato la morte per tumore di 120
lavoratori, addetti alla lavorazione nella filiera del cloro, che indicava
nominativamente. Un altro esposto era stato trasmesso all'autorità giudiziaria
dallo stesso Bortolozzo in data 6/5/1985
in cui già allora denunciava il pericolo
derivante dalla esposizione al
cloruro di polivinile, ma che non aveva dato seguito a nessuna indagine
e di cui era stata disposta la archiviazione.
Dai primi elementi
raccolti e da una consulenza orientativa affidata al professor Carnevale risultava
che 37
dei 120 lavoratori segnalati dal Bortolozzo erano affetti da patologie
correlate alla esposizione al CVM-PVC. Si sviluppava allora un’ampia attività
di indagine con acquisizione della documentazione scientifica in materia ed
espletamento di specifici accertamenti, pervenendo il P.M. alla conclusione che
sulla base degli esaminati studi sperimentali ed accertamenti medici
effettuati nelle industrie di
lavorazione di tali sostanze, sarebbe
risultato che i primi sospetti di tossicità risalivano agli anni '40 e '50 e
che la cancerogenità era stata
segnalata per la prima volta dal
dottore Gian Luigi Viola, medico di fabbrica della industria Solvay di
Rosignano, nel 1969.e confermata dagli studi
sperimentali che la Montedison
affidò al professor Cesare Maltoni, noto oncologo, i cui primi risultati furono comunicati ai committenti
nel 1972 e alla comunità scientifica nel l974, quando oramai era stata data
notizia della morte di lavoratori addetti alla produzione di CVM dipendenti della società statunitense
Goodrich per angiosarcoma epatico, identico tumore individuato dal professor
Maltoni nei suoi esperimenti sui ratti.
Sia in America che in Italia si rivalutarono alloro le patologie tumorali di
taluni lavoratori nel frattempo deceduti che vennero riclassificati come
angiosarcomi epatici, rara forma tumorale che venne associata alla esposizione
al c v m.
Tale esposizione venne
altresì correlata dalla agenzia per il cancro (IARC) nelle monografie
pubblicate nel 1974, 1979, 1987, ai tumori al fegato, ai polmoni, all'encefalo,
e al sistema emolinfopoietico, individuando evidenze anche per i tumori della laringe in particolare per i
lavoratori addetti all'insacco del PVC che erano, insieme agli autoclavisti, i
più esposti al cvm. Pur a fronte di tali evidenze, secondo il P.M., e
nonostante le pressioni sindacali, protrattesi fino al 1977, che ebbero come risultato l'indagine dell‘Istituto di
Medicina del Lavoro di Padova e che invocavano una drastica riduzione della
concentrazione del c v m negli ambienti di lavoro, la Montedison non operò
quegli interventi sugli impianti necessari a raggiungere tale obiettivo, anche
approfittando della crisi economica che indusse il sindacato alla moderazione
sui temi della nocività e della salute
a fronte del ricatto occupazionale .
Né le successive vicende societarie, che
porteranno nel 1987 Enichem a subentrare a Montedison nella gestione degli
impianti di produzione del c v m, determinarono sostanziali mutamenti . Si
sosteneva in particolare che i risultati degli accertamenti disposti sui
sistemi di controllo per monitorare l'ambiente di lavoro, attuati dall’azienda
mediante la installazione dei gascromatografi monoterminali, avevano
evidenziato la loro inadeguatezza e inaffidabilità, poiché era risultato
possibile alterare i dati con assoluta facilità, sicché l'abbattimento dei
valori di concentrazione che appariva dai tabulati di tali apparecchiature era
da considerarsi fittizio, non essendo neppure giustificato dagli interventi
effettuati sugli impianti ritenuti del tutto insufficienti e inadeguati.
E così, nel
primo capo di imputazione vengono contestati i reati di lesioni e di omicidio
colposo plurimi anche come conseguenza della omissione dolosa di cautele e di
dispositivi diretti a prevenire il verificarsi
di eventi lesivi o di danno dei singoli lavoratori esposti alla produzione del CVM - PVC (art.
437 co2 c p) nonché il reato di disastro innominato (art. 434 co2 e 449 c p)
per la gravità, l'estensione e la diffusività del pericolo per la pubblica
incolumità e, in particolare, per la vita e l'integrità fisica della
collettività operaia del petrolchimico. Veniva altresì contestato il delitto di
strage colposa che secondo l’accusa doveva ritenersi punito dall'articolo 449
in riferimento all'articolo 422 codice penale. Si attribuiva in particolare
rilevanza unitaria a condotte protrattesi per circa trent'anni (dal 1969 al
2000), mediante la contestazione della cooperazione colposa tra gli imputati
che avevano ricoperto posizioni di garanzia e altresì mediante la contestazione
della continuazione.
L’ ipotesi
accusatoria sceglieva quindi un modello unitario di qualificazione della
fattispecie concorsuale nella forma colposa ex art.113 cp, ponendosi quindi
l’obbiettivo di dimostrare non solo che tra gli imputati vi era piena e
reciproca consapevolezza di condotte inosservanti i precetti volti a prevenire
gli eventi tipici, ma altresì che gli effetti penalmente rilevanti delle
proprie condotte si ricollegavano a quelli causati dalle condotte di chi precedentemente
aveva rivestito un ruolo di garanzia, nel comune perseguimento di un medesimo
disegno criminoso che portava alla con contestazione della continuazione
(interna ed esterna) tra tutti i reati, assumendosi che “il disastro è unico e
riguarda sia il primo che il secondo capo di accusa in quanto l’attività di
industria ha esplicato i suoi effetti dannosi sia all’interno che all’esterno
della fabbrica”, e con addebito agli imputati della previsione dell’evento ex
art. 61 n°3 cp.
A fronte di tale
generale quadro di accusa, le difese degli imputati, sempre come ricordato dal
Tribunale, ponevano in rilievo che successivamente alla pubblicazione delle
monografie di IARC del 1978 e del 1987 era stata pubblicata nel 1991 da
Simonato e altri , sempre nell’ambito di detta Agenzia, uno studio
multicentrico europeo i cui risultati epidemiologici differivano dalle
precedenti indicazioni cui aveva fatto riferimento il PM e concludevano
affermando che l'ipotesi relativa agli effetti cancerogeni sul polmone, sul
cervello e sul sistema emolinfopoietico non risultava confermata. Precisavano
ulteriormente le difese che sia l'organizzazione mondiale della sanità che la
commissione europea avevano concluso che l'unico organo bersaglio del c v m è
il fegato e l'unico tumore associabile all'esposizione a tale sostanza è l'
angiosarcoma epatico.
Anche per i
tumori al polmone associati ad esposizione al PVC, cui in particolare erano
interessati gli insaccatori, i risultati degli studi e cui si era riferito il
pubblico ministero non sarebbero stati confermati da studi successivi. Si
contestava comunque che gli studi epidemiologici cui aveva fatto riferimento
prevalentemente il pubblico ministero fossero sufficienti all'accertamento del
nesso di causalità che necessitava di una legge di copertura scientifica
universale o di elevata significatività statistica.
Si sosteneva
infine che, allorquando ebbe a manifestarsi la cancerogenità e tossicità del
CVM, tra la fine del 1973 e gli inizi
del 1974, gli impianti ebbero a subire urgenti e rilevanti modifiche. Si concludeva affermando che
proprio i risultati di tali interventi determinarono sin dal 1974 una drastica
riduzione delle concentrazioni: dai 500 ppm degli anni 50- 60 sino raggiungere
nel 1975 concentrazioni al di sotto del valore soglia : dapprima fissato in 50
ppm e successivamente stabilito in 3 ppm
con DPR n° 962 del 1982 .
Concentrazioni
che risultavano documentate dai bollettini di analisi e dai tabulati dei
gascromatografi installati in quell'anno (1975) la cui affidabilità era
confermata anche dai dati rilevati nei
mesi precedenti mediante i misuratori personali che indicavano un trend in
progressiva diminuzione. La configurazione della imputazione ha poi indotto le
difese a individuarne le caratteristiche in una sorta di “massificazione delle
condotte”, espresse in termini impersonali e cronologicamente indifferenziati,
che “si compattano attraverso meccanismi di accumulo, concentrazione e
sovrapposizione in guisa tale da far emergere non singoli, specifici comportamenti
ascrivibili a questo o a quel soggetto, ma a una sorta di politica di impresa
riferibile all’ente societario in quanto tale”.
Questi,
puntualizzava il Tribunale, i temi dibattuti nel corso della lunga istruttoria
dibattimentale, durante la quale, relativamente al 1° capo di imputazione, sono
stati sentiti numerosi consulenti introdotti dalle parti processuali, esperti
non solo in epidemiologia e in medicina legale, ma altresì in biologia, in
genetica molecolare, in tossicologia, in chimica industriale, in ingegneria
impiantistica; inoltre sono stati escussi numerosi testi in particolare sulle
condizioni ambientali dei luoghi di lavoro, sulle modificazioni impiantistiche intervenute e sui risultati ottenuti.
Il Tribunale,
nell’affrontare le problematiche poste dal primo capo di imputazione, ha
ritenuto di trattare separatamente, pur a fronte di condotte casualmente
orientate, il problema del nesso di condizionamento tra le condotte e gli
eventi contestati e gli addebiti di colpa rimproverati, occupandosi
preliminarmente dell'accertamento del nesso causale tra esposizione a CVM-PVC e
l'insorgenza delle malattie e dei tumori agli organi o apparati che sono stati
individuati come " il bersaglio "
di tali sostanze.
Si è soffermato
quindi sulle caratteristiche chimiche e tossiche e cancerogene del CVM-PVC,
ritenendo che, sulla scorta dell’evidenza probatoria e valutati gli studi e
conoscenze scientifiche che negli anni si erano sviluppate, all'inizio della
produzione industriale del PVC, mediante
la polimerizzazione del monomero, la principale preoccupazione che si nutriva era legata alla idoneità
della sostanza gassosa di causare miscele esplosive con l'aria a concentrazioni
di circa 30.000 ppm; per contro era
considerato scarsamente tossico tanto che fu impiegato come gas anestetico ed utilizzato come
propellente per spray fino ai primi anni '70, e che in tale contesto di
conoscenze furono condotti i primi studi sulla tossicità del cvm che ebbero attenzione
agli effetti conseguenti ad esposizioni a dosi molto elevate. Analiticamente
quindi si soffermava su quelle che erano le conoscenze scientifiche degli anni
‘60 – ’70, richiamando già i primi studi negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi
gli studi in Europa -Mastromatteo e
altri 1960, Torkelson 1961, Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi
sugli gli studi di VIOLA e MALTONI.
Pier Luigi Viola
era un medico di fabbrica della Solvay di Rosignano, che presentò nel 1969 a
Tokyo, nell'ambito di un congresso di medici del lavoro, i dati relativi ad una
sperimentazione sugli animali in cui aveva individuato lesioni polmonari,
emorragia addominale, lesioni al cervello, fegato ingrossato, lesioni
osteolitiche e alterazioni degenerative del tessuto connettivo; lesioni di
uguale genere vennero osservate in
ratti esposti a 30.000 ppm per 12 mesi in un successivo studio realizzato con
il prof. Caputo dell'Istituto Regina Elena di Roma. Tali studi di Viola sugli
animali erano stati provocati dalla osservazione sui lavoratori addetti alla
pulizia delle autoclavi di casi di osteolisi e di alterazioni vascolari alle
estremità, tipiche del fenomeno di Raynaud, dato emergente dal rapporto Suciu e altri pubblicato nel 1967 dopo che
già a metà degli anni sessanta erano state accertate e pubblicizzate insorgenze
nelle fabbriche americane di Sindromi di Raynaud e acrosteolisi causate dal
contatto con la sostanza.
A parte tali
patologie, riteneva però il Trtibunale che detti studi ancora non acclarassero
scientificamente la cancerogenità per l’uomo del cvm-PVC, cui si pervenne solo
a seguito degli studi del prof. Maltoni incaricato proprio da Montedison dopo
l’allarme lanciato da Viola, ed a seguito dell’accertamento, nel gennaio 1974,
presso la Goodrich Company di tre casi di angiosarcomi in operai addetti alla
produzione del cvm, e, nei mesi successivi, di altri casi presso altre
industrie americane.
La valutazione
degli studi e diffusione delle conoscenze scientifiche in quegli anni
(1970-1974), e delle testimonianze sul punto, porta il Tribunale a ritenere:
1) che determinanti per la conoscenza della
cancerogenità furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola
reputati inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate
esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e
nei polmoni e non già angiosarcomi);
2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60 avevano
provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi di
acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola era
stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia
senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla
scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che sollecitò
l'approfondimento affidato a Maltoni;
3) che i dati degli esperimenti di Maltoni circolarono
tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu altresì autorizzato a visitare il laboratorio di Maltoni e a
controllare i protocolli sperimentali;
4) che i risultati, ancorché parziali, furono
comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al
convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni
pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo
tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza e si ridussero alla fine in una moratoria di
15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei risultati
alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich evidenziasse i
primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti deceduti;
5) che già si poneva al centro dell'attenzione la
individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le imprese dovevano
adeguarsi (Maltoni in udienza ha precisato questo aspetto, affermando che in un
processo stocastico quale è la cancerogenesi teoricamente una soglia
biologicamente accettabile non esiste anche se può essere ricercata una soglia
socialmente accettabile).
Tali elementi,
secondo il Tribunale, smentivano altresì la tesi del P.M. del patto di
segretezza tra le industrie del settore in ordine alla diffusione della notizia
della cancerogenità del cvm, patto che non avrebbe in realtà avuto la finalità
di occultare i dati della ricerca, ma era piuttosto finalizzato ad un reciproco
controllo tra le imprese interessate in ordine alla pubblicizzazione dei dati
per evitare il rischio di essere posti fuori mercato o comunque di ritrovarsi
in gravi difficoltà operative a seguito di iniziative unilaterali e non
concordate.
E comunque la
clausola di riservatezza sarebbe
rimasta di fatto inosservata come risulterebbe inequivocabilmente dagli
avvenimenti, oltre che dalle documentate e riscontrate dichiarazioni di
Maltoni, posto che lo stesso diffuse pubblicamente i risultati delle sue
ricerche nel convegno di Bologna tenutosi nell'aprile del 1973 di cui furono
partecipi la comunità scientifica e le pubbliche istituzioni.
Osserva dunque il
Tribunale come dal 1974 ha inizio un’ampia revisione delle diagnosi per decessi di lavoratori dell’industria di
polimerizzazione con tumore al fegato e vengono accertati casi di angiosarcoma
che per la sua rarità era anche di difficile identificazione. A tal punto
resterebbe acclarato che: il cvm è oncogeno per l’uomo, onde gli interventi
delle Agenzie (EPA, WHO, ACGH, IARC che classificano appunto il CVM come
sostanza cancerogena per l'uomo e la inseriscono in categoria 1) e la
fissazione di limiti di esposizione lavorativa richiamati in sentenza.
In particolare,
ricorda il Tribunale come in Italia, dove i contratti collettivi di lavoro
erano soliti recepire i valori indicati dalla A.C.G.I.H. (America Conference
Governemental Industrial Hygienists) - che sino a tutto il 1974 mantiene un
valore di 200 ppm come media giornaliera - nel contratto collettivo di data
12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in quello successivo del 31
ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi il valore di 200 ppm
come valore limite di soglia riferito alla media delle concentrazioni per una
giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40 ore e tale valore
viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17 aprile 1976 anche se
la definizione di un valore adeguato alla accertata cancerogenità per l'uomo è
in corso di individuazione .
Solo con il
contratto collettivo del 23 luglio 1979
il limite di soglia TLV-TWA viene fissato in 5 ppm . Tale valore è
definito come la “concentrazione media ponderale in una normale giornata
lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40 ore, a cui praticamente tutti i
lavoratori possono essere ripetutamente esposti, giorno dopo giorno, senza
effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro del Lavoro nell'aprile del 1974-
su proposta e sollecitazione del prof Maltoni- aveva emanato una
raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL come valore di
riferimento tendenziale. E solo con la
direttiva CEE n° 610/78 recepita con
DPR n°962/82 i valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.
Passa quindi in
rassegna il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali in materia e la
loro valutazione scientifica in primo della IARC cui hanno fatto principalmente
riferimento i consulenti del P.M., ma poi attestandosi sui successivi studi
epidemiologici che mettevano in discussione le comclusioni di IARC 1987.Si
ricorda come IARC avesse effettuato tre diverse valutazioni della cancerogenità
del CVM , nel 1974, nel 1979 e nel 1987 e tale sostanza è stata oggetto anche
di rapporti interni nel 1975 e nel 1989
e le conclusioni di ques’ultimo anticipano i risultati dello studio
epidemiologico multicentrico europeo del 1991 coordinato dal dott. Simionato al
quale, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, è sopravvenuto
l'aggiornamento curato da Ward nel 2000 e di cui ha riferito in aula il dott .
Boffetta che ne è coautore.
La monografia
del 1974 prende in esame, ai fini della valutazione del rischio cancerogeno nell'uomo, i risultati delle
sperimentazioni di Maltoni e di Viola
cui si è già fatto riferimento. Riferisce che la prima associazione tra
esposizione al c v m e lo sviluppo del
cancro è stata avanzata da Creech e
Jonnshon nel 1974 che avevano osservato tre casi di angiosarcoma del fegato in
operai che lavoravano a contatto con questa sostanza (si tratta dei lavoratori dellaGoodrich).
Riferisce
inoltre che dall'esame dei registri medici e da una analisi del
materiale patologico erano stati scoperti altri dieci angiosarcomi in lavoratori addetti alla lavorazione del c v m e
il tempo intercorso tra la prima esposizione e la diagnosi del tumore andava
dai 12 ai 29 anni e la durata complessiva dell'attività aveva comportato una
esposizione di 18 anni (Heath e altri 1974). Precisa inoltre che nello stesso
stabilimento erano stati accertati 48 casi di malattie del fegato non
maligni in esposti mediamente da oltre
vent'anni e che dalla biopsia era stata riscontrata una fibrosi portale e
noduli della fibrosi subcapsulare.
Altri studi avevano accertato, tra la metà e la fine
degli anni ‘60 l'insorgere di
acrosteolisi generalmente localizzata nelle falangi distali delle mani
negli addetti alla pulizia delle autoclavi. Nei lavoratori addetti a tali
mansioni, i più esposti alle alte concentrazioni, in uno stabilimento per la
produzione di PVC in Germania, sottoposti a test di funzionalità epatica e a
esame istologico dei frammenti di biopsia epatica, è stata rilevata
splenomegalia , epatomegalia e fibrosi
portale ovvero fibrosi della capsula del fegato . Sulla base di tali dati - che
erano quelli conosciuti alla data del 26 giugno1974 - la valutazione
dell'agenzia era la seguente: “considerata l'estrema rarità dell’angiosarcoma
del fegato nella popolazione comune, il riscontro di 16 casi in lavoratori esposti
al c v m prova che c'è una relazione causale".
In conclusione
la prima valutazione sulla base dei pochi dati sperimentali e della scarsa
casistica di osservazione sull'uomo indicava una relazione causale tra l'esposizione
al c v m e l’angiosarcoma epatico e la presenza di fibrosi portale e subcapsulare ; infine individuava l‘insorgere di acrosteolisi nei lavoratori
addetti alla pulizia delle autoclavi.
La successiva
monografia pubblicata nel febbraio del 1979, sulla base di ulteriori ricerche
sperimentali e, in particolare, di studi epidemiologici, così concludeva per
quanto riguarda i risultati sperimentali in topi, ratti e criceti: " il
cloruro di vinile si rivelava cancerogeno in tutte e tre le specie e produceva
tumori in vari siti compreso l’angiosarcoma del fegato...... È stata dimostrata
la relazione dose –risposta”. Per quanto concerne l'uomo si affermava che
" i vari studi tra loro indipendenti, ma i cui risultati si confermavano
a vicenda, hanno dimostrato che l'esposizione al cloruro di vinile comporta un
aumento del rischio cancerogeno negli umani riguardante il fegato, il cervello,
i polmoni e il sistema emolinfopoietico".
Si concludeva
pertanto per la cancerogenità del c v m per l'uomo indicando quali organi
preferiti il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico. Per
quanto riguarda l'effetto dose-risposta si affermava che "nonostante dai gruppi di lavoratori esposti ad alte
dosi di c v m si sia avuta la prova della cancerogenità del c v m per l'uomo,
tuttavia non si ha la prova del fatto che esiste un livello di esposizione al
di sotto del quale non si verifichi un incremento del rischio di cancro
nell'uomo". Si affermava infine che gli studi esistenti sul p v c non erano
sufficienti a stabilire la cancerogenità di tale composto.
Con la
valutazione del 1987 si afferma che in un gran numero di studi gli
epidemiologici hanno comprovato il rapporto causale esistente tra il cloruro di
vinile e l'angiosarcoma del fegato . Numerosi studi inoltre confermano che
l'esposizione al cloruro di vinile causa altre forme di cancro e cioè il
carcinoma epatocellulare, tumori al cervello, tumori al polmone e tumori del
sistema linfatico- ematopoietico. Si afferma inoltre che in uno studio
(Waxvejler) l'esposizione alla polvere di PVC è stata associata all'aumento della incidenza del tumore al
polmone e gli autori hanno pensato che
il responsabile fosse il c v m intrappolato.
Peraltro
l'agenzia continua a classificare il PVC nel gruppo 3 per la inadeguata
evidenza di cancerogenità sia per l'uomo che per gli animali da esperimento.
Osserva peraltro
il Tribunale come tali conclusioni di IARC 1987, alle quali i consulenti
medico-legali della accusa si sarebbero principalmente riferiti ai fini di
ritenere le patologie discusse correlabili o meno con l'esposizione a c v m o PVC, siano state poste in
discussione dagli studi epidemiologici
successivi. In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da
IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti
americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati
rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999).
Nell’analizzare
tali studi il tribunale ricorda come nel primo si fosse concluso che non
sussiste alcuna associazione tra esposizione a cvm e i tre organi bersaglio
diversi dal fegato (polmone, cervello, sistema linfatico), mentre per il cancro
del fegato l’analisi basata sulle variabili temporali ha rivelato eccessi
statisticamente rilevanti nel periodo di assunzione 1945 - 1954 e 1955- 1964
mentre è stata osservata una diminuzione del rischio per quelli assunti negli
ultimi anni ‘60 e nei primi anni '70 anche se viene precisato che il tempo di
osservazione è troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori
assunti recentemente.
La mortalità da
cancro del fegato, secondo il tipo di lavoro, distingue i lavoratori addetti
all'autoclave fra i " sempre " e gli " altri " e dimostra che
l'aumento del rischio è concentrato fra coloro che hanno lavorato all'autoclave
in ogni momento (" sempre").
Ma si evidenziava altresì che per i lavoratori con 15 o più anni dalla prima
esposizione (15 anni di latenza) un aumento del rischio statisticamente
significativo compare anche per quelli classificati come " altri ".
Onde l’'analisi dei decessi da cancro del fegato basata sulla esposizione
cumulativa rivela un rischio crescente con l'aumento dell'esposizione e con una
consistente relazione esposizione – risposta, e per tutti i decessi da cancro
al fegato la latenza varia da 16 a 33 anni con una media di 24 anni mentre la
durata media dell'esposizione è di 18 anni (da 16 a 33 anni).
In proposito
riteneva il Tribunale importante rilevare che l'anno di assunzione e'
soprattutto ricompreso nell'ambito degli anni anni 50 (solo 6 negli anni 60 e 2
negli anni 40); e che veniva rilevata una tendenza verso una diminuzione del
rischio per quelli assunti negli ultimi anni ’60 e nei primi anni ’70, sebbene si
precisi che il tempo di assunzione era ancora troppo corto per poter valutare
il rischio per i lavoratori assunti recentemente. Inoltre sono molto chiare le
relazioni esposizione - risposta fra l'esposizione cumulativa al c v m e
rischio di cancro del fegato e
angiosarcomi. Distinguendo, invece, l' angiosarcoma dalle altre
neoplasie del fegato il rapporto di queste ultime era pressoché sovrapponibile
all'atteso.
Questa
osservazione assume, secondo il Tribunale, particolare rilievo nella
controversa discussione in ordine alla associazione cvm-epatocarcinoma, e si
ricorda che nelle considerazioni conclusive si afferma che i risultati dello
studio confermano l'associazione fra cancro del fegato e l'esposizione al c v
m: l'eccesso di mortalità-quasi il triplo con 24 osservati e 8.4 attesi (RSM
2,86)- è associato con la durata dell'impiego e con il livello delle
esposizioni e i risultati sono rafforzati dalle analisi di regressione che
indicano che il rischio di cancro del fegato dipende significativamente dall'esposizione
cumulativa e dagli anni trascorsi dalla prima esposizione.
Si
osserva poi come l'aggiornamento dello studio multicentrico europeo (di Ward -
Boffetta e altri 2000).ha esteso per gli anni 90 l'accertamento dello stato in
vita dei lavoratori di 17 delle 19 aziende incluse nello studio:
l'aggiornamento della mortalità e dell'incidenza varia dall'anno 1993 all'anno
1997. ed è stata pressochè identica a quella attesa (RSM 0,99), leggermente
inferiore a quella dello studio precedente.
Nessun angiosarcoma si è verificato tra gli operai assunti dopo il 1973
e non si era verificato alcun decesso per cancro del fegato prima che fossero
trascorsi 15 anni dalla prima esposizione.
Inoltre,
neppure nel predetto aggiornamento della corte europea si è rilevata alcuna associazione tra
esposizione al c v m e mortalità per cancro del polmone, sottolineandosi
tuttavia che quando le analisi vengono ristrette a quei soggetti che avevano soltanto
ricoperto mansioni relative all'insacco si nota un trend significativo per il
cancro del polmone con l 'aumentare dell'esposizione cumulativa al cvm. Si
aggiunge che lo studio non ha rilevato prove di un aumento di mortalità dovuta
a tutte le malattie del sistema respiratorio (pneumoconiosi, bronchite,
enfisema, asma) e neppure alcuna
indicazione di un aumento di mortalità per malattie respiratorie più
specificamente tra i lavoratori addetti all' insacco o al miscelamento ancorché
si precisi che tali risultati non contraddicono studi incrociati (Mastrangelo e
altri) poiché è possibile che gli effetti respiratori dell'esposizione e al c v
m o alla polvere di PVC non conducano alla morte.
Così, ancora
nell’aggiornamento Ward, neppure si presenta un eccesso statisticamente
significativo di cancro al cervello, ed altrettanto si conclude per i tumori
del sistema emolinfopoietico.
Si analizzano
poi gli studi della coorte USA, in particolare Wong -1991; Mundt -2000).
L'aggiornamento di Mundt, più informativo, individua l'esistenza di una
associazione tra esposizione a cvm e aumentata insorgenza di tumori del fegato;
indica la insussistenza di una associazione tra esposizione a c v m e
insorgenza di tumori del polmone.
Nel commentare i
risultati dello studio, gli autori affermano che le cause di morte per tumore
già segnalate non sono risultate in eccesso e tra di esse il tumore del polmone
e i tumori emolinfopoietici e altresì le malattie respiratorie quale enfisema e
pneumoconiosi. Viene inoltre precisato che l'associazione tra esposizione a
cloruro di vinile e tumore del polmone non ha trovato alcuna evidenza e pertanto
non è suggerito neppure un piccolo rischio. Per il tumore al cervello si afferma che la associazione è incerta perché
le elevate età al primo impiego nell'industria del c v m suggeriscono che i
lavoratori potrebbero avere avuto rilevanti esposizioni ad altri cancerogeni
prima dell'esposizione al cvm.
Si afferma in
conclusione che lo studio ha confermato una forte associazione tra durata
dell'esposizione lavorativa prima del 1974 e tumori del fegato per la gran
parte dovuta ad un grande eccesso di
angiosarcomi.
Richiama
poi il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali che hanno affrontato
il problema della eventuale associazione tra esposizione a PVC e insorgenza di
tumori, in particolare all'apparato respiratorio e al polmone, nei lavoratori
che abbiano svolto sempre o prevalentemente la mansione di insaccattori, studi
che in conclusione ritiene indichino che il
p v c ha una scarsa o assente attività biologica e la sua presenza
fisica nei polmoni produce pneumoconiosi benigne.
Partendo
dall'ipotesi che l'esposizione a polvere di PVC possa dar luogo a una aumentata
insorgenza di tumori del polmone, avanzata da Waxweiler (1981) che suggeriva
l'idea che l'eccesso osservato fosse da attribuire non tanto alla polvere di
PVC bensì al c v m intrappolato nella polvere, il tribunale richiama i
successivi non confermativi studi di Storevedt-Heldaas che riscontra un eccesso
solo apparente, di Jones ( 1987) che indica un chiaro difetto per la mansione di
insaccattore, di Wu (1989), che esamina la stessa corte di Waxweiler (quattro
impianti di polimerizzazione in attività da almeno 15 anni in uno stabilimento
di sintesi di sostanze chimiche con un totale di 3635 rispetto ai 1294
lavoratori precedentemente considerati con almeno cinque anni di esposizione e
dieci anni di latenza in aree e mansioni con esposizione a c v m nel periodo
1942-1973, e che non accerta nessun eccesso escludendo ogni relazione tra
esposizione a polveri di PVC e tumore del polmone; di Comba- Pirastu e Chellini
in cui viene invece evidenziato un eccesso per la mansione di insaccattori,
peraltro con un andamento per latenza decrescente contrario, secondo il
Tribunale, ad una spiegazione di natura eziologica d’altra parte non avvalorata
neppure dalle sperimentazioni.
Si
ricorda poi che in particolare sugli insaccattori di Porto Marghera sono stati
condotti tre studi: una analisi di
mortalità degli insaccattori dipendenti di Montedison Enichem, una analisi di mortalità
degli insaccattori appartenenti a cooperative esterne che hanno lavorato in
appalto e infine su questi lavoratori è stato condotto uno studio di prevalenza
sulla morbilità (Chellini), peraltro
subito ponendosi in rilievo alcuni aspetti che hanno incontrato le maggiori
critiche: da un lato la scarsa informatività di detti studi per la esiguità
delle sottocoorti (208 insaccattori dipendenti e 272 appartenenti alle
cooperative) e dall'altro l'inaccettabilità di una analisi congiunta delle due
categorie di insaccattori stante l'assenza di omogeneità dei selezionati e per
di più l'età media elevata di ingresso al lavoro degli appartenenti alle
cooperative e lo svolgimento di attività plurime con possibili differenti
esposizioni.
E
comunque i rapporti di mortalità, presenterebbero un andamento di relazione
inversa tra la durata della latenza e l'insorgenza del tumore che, come detto
nei precedenti studi già commentati, depone per l'insussistenza di una
associazione. Lo studio di prevalenza della dottoressa Chellini ha incontrato
critiche ancor più radicali inquantoche' non era stata effettuata alcuna
validazione sulla qualità dei dati anamnestici
raccolti, posto che le patologie
riportate nelle schede fanno riferimento a malattie diagnosticate nell'arco
della vita, e pertanto non sono correlate alla attività svolta in qualità di
insaccatori, venendo così a mancare la garanzia dell'antecedenza tra
esposizione e malattia.
In questi studi comunque, si afferma
che: per quanto riguarda il tumore epatico (sia esso angiosarcoma o
epatcarcinoma) la mortalità ha superato significativamente quella attesa
particolarmente fra gli addetti alle autoclavi e da questa osservazione si trae
la conseguenza che sia di natura causale anche la relazione fra esposizione a cvm
e epatocarcinoma: tale relazione sarebbe anche plausibile sul piano biologico e
sostenuta da una considerazione di tipo analogico inquantoche' i due altri
agenti conosciuti che inducono
angiosarcomi epatici (arsenico e thorotrast) causano anche essi carcinomi
epatici (Popper 1978 ).
Per
quanto riguarda la mortalità per tumore polmonare si è osservato un incremento
significativo fra gli insaccattori in considerazione dell'intensità
dell'esposizione a c v m , in particolare fra il 1950 e il 1970 (non meno di 50 ppm) e tenuto conto
che nell'attività dell'insacco del PVC si era in presenza di elevati livelli di
polverosità (in proposito si citano gli autori di studi che hanno descritto
casi di pneumoconiosi insorti in soggetti esposti a polveri di PVC e tra questi
lo studio di Mastrangelo).
Per
quanto riguarda gli altri tumori che
secondo IARC 1987 sarebbero ricollegabili all'esposizione a c v m si osserva
che nella corte Montedison Enichem di Porto Marghera sono stati individuati due
casi di tumore dell'encefalo (SMR 77) e 9 tumori del sistema emolinfopoietico (SMR 134): si
riconosce peraltro la ignota eziologia dei tumori cerebrali che anche gli studi
epidemiologici più ampi non sono stati in grado di ricollegare a specifiche
esposizioni; si riconosce altresì che la categoria dei tumori del sistema
emolinfopoietico comprende entità che hanno caratteristiche nosologiche assai
diverse per le quali sono diversi anche i fattori di rischio ipotizzati.
Si afferma
conclusivamente che i risultati relativi a questi due tipi di tumore devono
essere considerati tenendo conto dell'esiguità numerica delle osservazioni e
delle conoscenze disponibili sulla eziologia.
I
suddetti dati sarebbero poi sostanzialmente confermati dalla memoria depositata
dai consulenti epidemiologici del pubblico ministero contenente un
aggiornamento della mortalità al 31 luglio 1999, peraltro non sottoposto al
contraddittorio dibattimentale e comunque esaminata e utilizzata dal Tribunale
come un approfondimento, proveniente dalla pubblica accusa, degli studi
precedenti. In particolare, sulla base dell' incremento nel numero di decessi
per tumore epatico primitivo accertato nella coorte di Porto Marghera alla data
del luglio 1999 si ribadisce con questo ulteriore elemento la sussistenza di un
eccesso di tumori epatici diversi dall' angiosarcoma, sia con riguardo ai
lavoratori della coorte nel suo complesso che in maniera ancora più evidente
tra coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti che notoriamente sono
stati esposti alle concentrazioni più elevate. E così sarebbe stato rilevato un
eccesso di tumori polmonari nell'ambito della coorte, con specifico riferimento
alla mansione di insaccattore esposto alle polveri di PVC.
Circa i fattori
di confondimento, sia rispetto ai tumori epatici che a quelli polmonari, i
consulenti del pubblico ministero, facendo ricorso ad un raffronto tra i
lavoratori della coorte e i lavoratori di altri settori (municipalizzata di
igiene urbana e amministrazione provinciale di Venezia) per quanto riguarda la
propensione a bere alcolici e individuando nei primi stime più basse dei
consumi alcolici, affermano che
l'assunzione di alcol non poteva spiegare l'incremento di mortalità
rilevato per tumori epatici diversi dall’angiosarcoma sia nella coorte complessiva
e sia, a maggior ragione, nella categoria degli autoclavisti.
Per quanto
riguarda il fumo si è fatto invece riferimento alla percentuale di fumatori
nella popolazione italiana (tra il 53 e 75%)
che si stimava mediamente uguale a quella presente tra gli insaccattori
e si concludeva che gli incrementi di mortalità in tali categorie per tumore
del polmone non era spiegabile con l'abitudine al fumo.
Sempre con
specifico riferimento ai lavoratori della corte di Porto Marghera, il professor
Diego Martines, consulente del pubblico ministero, ha presentato uno studio
caso- controllo sui lavoratori affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma,
cirrosi epatica, e epatopatia cronica.
Sulla scorta dei
dati rilevati e riportati in tabella si evidenzia che per tutte le malattie
considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a
quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con
esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i casi di
angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima
esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967
e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il
tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da
angiosarcoma era di 18 anni.
Per quanto
riguarda gli epatocarcinomi nella tabella numero 4 il consulente rileva 13 casi
nella categoria ad alta esposizione 1 caso nella categoria a media esposizione
e 2 per casi nella categoria a bassa esposizione. Peraltro per tutti i 3 casi
delle categorie bassa e media esposizione la riferibilità all'esposizione
professionale dell'epatocarcinoma e' messa in dubbio dallo stesso consulente. I
13 casi di epatocarcinomi ad alta esposizione presentano un tempo di latenza
medio dalla prima esposizione pari a 31 anni (range 22 - 42) e la prima
esposizione in tutti questi pazienti si è verificata in un arco ristretto di
tempo compreso tra i 1952 e il 1961.
Due pertanto le
conclusioni da trarre: tutti i casi di
angiosarcoma e di epatocarcinoma della coorte di Porto Marghera riguardano
soggetti esposti ad alte esposizioni e il tempo di calendario è tra gli anni
'50 e '60.
Nelle successive
precisazioni a seguito dell’osservazione
dei consulenti della difesa secondo i quali dalle stesse suddette
conclusioni emergeva la presenza di una soglia di fatto del rischio, sosteneva
il consulente che l'insorgenza di angiosarcoma
anche dopo esposizioni limitate a c v m veniva ad escludere in linea
generale la presenza di una soglia nell'azione del cloruro di vinile sia per la
diversa suscettibilità individuale (genetico e biochimica) al c v m sia per
l'azione tossica sinergica dell'alcol e del cloruro di vinile, in quanto la
responsabilità del consumo di alcol e dei virus B e C nel determinare la cirrosi epatica e l’epatocarcinoma andava
valutata in uno con l’eventuale effetto aggiuntivo o primario dell'esposizione
al c v m.
Si insisteva dunque
nell’affermare che l'esposizione al c v
m è in grado di stimolare la fibrogenesi conseguente al danno
epatocellulare provocato dai fattori eziologici extralavorativi, quali alcool o
i virus B e C , e di innescare e accelerare tutti quegli eventi che portano
alla cirrosi, agendo in tal caso come fattore
concausale.
Ricorda poi il
Tribunale gli studi caso-controllo dei consulenti dell’accusa privata,
professor Gennaro e professor Mastrangelo, volti all’approfondimento della
relazione tra mortalità per tumore polmonare ed esposizione alle polveri di
PVC.
In particolare
Mastrangelo, sulla scorta dei dati analizzati e delle valutazioni peraltro
analiticamente criticate dai consulenti della difesa, afferma che il fumo non
rappresenta un fattore di confondimento nella associazione tra esposizioni a
polveri di PVC e rischio di cancro polmonare inquantoché, pur essendo il fumo
di tabacco una causa di cancro polmonare, esso non è risultato correlato con le
esposizioni a polveri di PVC nella popolazione in studio, e si ribadisce il concetto
della concausalità sostenendosi che,
anche se tutti i casi esaminati (eccetto uno) erano fumatori e anche se
qualcuno di loro era stato esposto ad altri cancerogeni polmonari prima di
lavorare come insaccatore di PVC a Porto Marghera, la responsabilità della
esposizione a polvere di PVC rimane comunque per il fatto che la sostanza
attiva il penultimo stadio della cancerogenesi, sicché sarebbe pur sempre un
agente concausale.
Ricorda al
riguardo il Tribunale come il professor Mastrangelo, nelle precisazioni che ha
ritenuto di fare per iscritto rispetto alle contestazioni cui è stato
sottoposto in sede di controesame dai difensori degli imputati, evidenzia il
suo assunto nel modo seguente: entrambe le sostanze (c v m ePVC) sono
cancerogene e la seconda può veicolare la prima; entrambe provocano la fibrosi
polmonare che può indurre a un eccesso di cancro polmonare.
Si ricordano
altresì le obiezioni dei consulenti della difesa: non solo il prof. Mastrangelo
ha proposto proprie ipotesi non convalidate scientificamente e ha mosso
critiche infondate agli studi epidemiologici che non evidenziano eccessi
significativi di tumore polmonare associato a cvm/PVC, ma la sua ipotesi
principale si basa su premesse destituite di ogni fondamento, in quanto si
osserva che il PVC non è di per sé considerato una sostanza cancerogena , posto
che lo IARC lo classifica nel gruppo 3 proprio per la inadeguata evidenza di
cancerogenità per l'uomo e per l'animale da esperimento, e ancora meno è
dimostrato che esso possa indurre fibrosi polmonare, sicché non può
condividersi che la causa di eccessi di tumore al polmone possa essere il PVC.
Passando alla
problematica del rischio da esposizione, il Tribunale ha ricordato come accusa
pubblica e privata hanno sottoposto all’attenzione del collegio valutazioni di
rischio sulla base di modelli matematici. Al riguardo si evidenzia che: l' E P
A ha divulgato due diverse stime di rischio per l'esposizione a c v m: la prima
nel 1994 e la seconda nel 2000 in cui il rischio è stato stimato di dieci volte
più basso rispetto alla stima precedente.
Si osserva però
che le valutazioni dell‘EPA non intendono stabilire il rischio effettivo o le
conseguenze sulla salute per le persone, ma piuttosto sui rischi potenziali
utilizzando i dati sperimentali sugli animali, ma anche opzioni di default
mediante metodologie matematiche di estrapolazione lineare alle basse dosi per
i cancerogeni oppure estrapolazioni non lineari (e cioè modelli matematici che
ammettono una soglia) per le sostanze non genotossiche, per cui, essendo il cvm
considerato genotossico la risposta e
il rischio sono nulli solo per una dose nulla; egualmente l’Unione Europea e
l’Organizzazione mondiale della sanità assumono esplicitamente il principio di
assenza di soglie per i cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva
Tossicologica Nazionale ha assunto
identica posizione.
La ragione
fondamentale della assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva
dall'osservazione che la relazione tra formazioni di addotti e dose di regola è lineare con la dose e la
probabilità che una molecola attiva incontri il punto critico del DNA è
proporzionale al numero di molecole presenti. Un ulteriore argomento, basato su
semplici criteri matematici, è quello che in presenza di un'esposizione di
fondo a cancerogeni, una ulteriore piccola
esposizione si andrà a collocare nel tratto lineare della relazione
dose- risposta.
Ma l’OMS stima
il rischio cancerogeno anche sulla base di dati epidemiologici e a tal fine utilizza il parametro della rischio
relativo (RR) definito come il rapporto tra il numero di casi osservato e
atteso nella popolazione esposta; diversamente il centro tossicologico e
ecotossilogico europeo dell'industria chimica (ECETOC 1998), nel rapporto
dedicato al cloruro di vinile, nelle sue conclusioni, specifica che
"sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli sicuri di
esposizione per i cancerogeni genotossici, l'evidenza presentata in questo
rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai livelli correnti nel
rispetto del limite di 3 ppm comporti
rischi significativi per la salute "; il professor Zapponi, consulente
tecnico dell'accusa privata Presidenza del Consiglio e Ministero dell'Ambiente,
partendo dalla premessa che non può essere identificata una soglia per i
cancerogeni genotossici non essendo possibile definire un livello senza
effetto, passa in rassegna le
principali stime, su dati
epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio cancerogeno per il c v m, e
nelle considerazioni conclusive trae una prima considerazione: che queste
valutazioni di rischio, pur operate da autori diversi e pur considerando che le
diverse stime si basano su diverse categorie di dati (epidemiologici e sperimentali),
pur tuttavia pervengono a risultati molto simili.
L'indicazione
che se ne trae è che una esposizione
lavorativa presumibilmente priva di un rischio significativo dovrebbe
andarsi a collocare a livelli di frazione relativamente piccole di 1 ppm e
l'uso del modello a soglia, pur in presenza di un cancerogeno genotossico, ha
portato a stime di livelli di esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono
valori di un ordine di grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni
di rischio che assumono l'assenza di soglia;il consiglio nazionale delle
ricerche degli Stati Uniti (NCR), cui è stato chiesto dal congresso americano
di valutare l'operato dell' EPA per quanto attiene la valutazione del rischio,
ne ha innanzitutto individuato l'ambito di applicazione, assumendo che "le
stime del rischio ottenute non sono stime scientifiche del vero rischio di
tumore ma sono utili ai regolatori per stabilire delle priorità di
intervento": si tratta cioè di stime estremamente conservative che ricomprendono
opzioni inevitabilmente politiche di protezione della salute pubblica.
Si
evidenzia conseguentemente che le scelte politiche portano a opzione di default
utilizzate ai fini di aggirare il problema dell'incertezza sui seguenti
problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di dati scientifici che correlino
in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze chimiche con i rischi per la
salute; 2) divergenze di opinioni all'interno della comunità scientifica sul
livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza di una conformità nel riportare
i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei risultati prodotti dai modelli
teorici.
E
così, ogni qualvolta il procedimento di valutazione del rischio si scontra con elementi in cui il livello di
conoscenza scientifica può risultare incompleto, problematico, discordante, non
convincente, è necessario far ricorso a congetture e semplificazioni, assumendo
per l'appunto opzioni di default di cui le più importanti sono:
1) gli animali
da laboratorio sono un surrogato per gli esseri umani nella valutazione del
rischio dei tumori e i risultati positivi negli esperimenti sono presi come
evidenza della capacità di una sostanza chimica di causare il tumore negli
uomini;
2) gli esseri umani sono sensibili come le più
sensibili specie animali;
3) gli agenti
che risultano positivi negli esperimenti a lungo termine sugli animali e che
mostrano anche evidenza di attività promovente devono essere considerati
cancerogeni completi;
4) anche una
sola molecola della sostanza chimica ha associata una probabilità di indurre
tumori che può essere calcolata mediante il modello linearizzato multistadio.
Osserva dunque
il Tribunale che in realtà nella comunità scientifica e' messo in discussione
soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi; ed in proposito si
ricorda l’affermazione di un ricercatore di biologia molecolare (Ames) secondo
la quale "vi sono sempre più prove che la scissione cellulare causata
dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza chimica in se', aumenti il
tasso di positività poiché ogni volta che una cellula si divide aumenta la
probabilità che si verifichi una mutazione e così aumentando in tal modo il
rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli studi di Swemberg secondo cui a seguito
delle sperimentazioni a basse dosi effettuate "esiste la prova che bassi
livelli di esposizione non sono cancerogeni né per gli uomini né per i
roditori".
Onde nella
comunità scientifica si propone una valutazione realistica del rischio che superi
il postulato ritenuto estremo e irrazionale che "nessuna dose è
sicura" proprio alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse
dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti
delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto
per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta
essere affetto da angiosarcoma, così da far ritenere che le esposizioni normativamente imposte e osservate
sono sufficientemente protettive ( Storm-1997).
In conclusione
secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che stanno alla
base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni di default,
che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati cui è
pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati a fini
precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in
particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni
sull’uomo.
Ad analoghe
conclusioni di incertezza a livello scientifico ai fini di utilizzo
nell’accertamento probatorio del nesso causale, perviene il Tribunale, dopo
avere analiticamente esaminato le posizioni dei consulenti dell’accusa e della
difesa e gli specifici studi della comunità scientifica internazionale, in
ordine al tema dei meccanismi molecolari e della carcinogenesi, sia
relativamente alla problematica della soglia che alla problematica degli organi
bersaglio.
Quanto alla soglia,
rimarca inoltre il Tribunale i risultati dello studio di Storm e Rozman ( 1997)
che ha esaminato 80 mila lavoratori esposti ai bassi livelli dopo il 1968 negli
Stati Uniti e dopo il 1972 in Europa e non ha osservato alcun angiosarcoma, e
che conclude ammettendo l'esistenza di una soglia che resta avvalorata dalla
considerazione delle informazioni derivanti dagli studi epidemiologici e dagli
stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui risulta per l'appunto
che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun angiosarcoma nei lavoratori
esposti per la prima volta al c v m a partire dal 1968, pervenendo gli autori
alla conclusione che la riduzione delle esposizioni entro il range e 0. 5 - 5
ppm possa ritenersi adeguatamente
protettiva.
Gli autori mettono
anche in discussione l'ipotesi di default che l'uomo abbia una suscettibilità
alla angiosarcoma indotto da c v m pari a quella dei ratti esposti: infatti non
solo l'uomo sarebbe meno sensibile dei ratti ai cancerogeni genetici in
generale a causa della durata di vita più lunga, della minore velocità del suo
metabolismo basale e delle maggiori capacità di riparazione del DNA, ma anche
perché dai risultati sperimentali è stata osservata un'incidenza di
angiosarcomi tra i ratti almeno 100 volte superiore rispetto all'uomo esposto
al c v m e nell'ambiente di lavoro.
Da parte del
Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere compatibili
con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi dell'assenza di soglia
e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a quella degli animali non
hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati che possono avere validità
in un ambito prettamente precauzionale, ma sono smentiti dall’osservazione
scientifica, potendosi concludere pertanto che i risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali
proprio perché convergenti hanno una
loro rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non
effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual
certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che peraltro dagli studi
analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le basse dosi vigenti
successivamente alla oncogenità del c v m abbiano avuto un qualsiasi effetto su
incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.
Comunque, sulla base delle opinioni espresse dai consulenti delle parti e dell'ampia
letteratura cui hanno fatto riferimento, il tribunale rileva come gli approdi
scientifici siano ancora parziali e non sempre coerenti con le ipotesi assunte,
sicchè appare difficile poter affermare che si siano raggiunti risultati di
conoscenza in base ai quali poter affermare che sussiste un meccanismo
specifico di azione del cvm nella causazione dei tumori.
Si evidenzia al
riguardo che l' oncogenesi è una scienza in rapida evoluzione, come e' messo in
rilievo dai risultati degli studi sperimentali o osservazionali sopra riferiti, e non sempre i protocolli
sperimentali sono basati su modelli comuni. E' ancora in discussione il modello
di cancerogenesi, e cioè se si tratta di un processo multistadio in cui un
numero pur limitato di alterazioni genetiche sia alla base dell'insorgenza del
tumore ovvero una più ampia instabilità genetica che determinerebbe la
mutazione di una gran parte dei geni a seguito di un difetto dei sistemi di
riparazione del DNA che favoriscono l'instabilità del genoma: già queste due
contrapposte o divergenti teorie rendono problematico stabilire la rilevanza,
pur osservata, di mutazioni ai geni p53 e k-ras ai fini della causazione del
tumore, affermandosi da questa ultima teoria che la loro mutazione non sarebbe
che la conseguenza delle alterazioni della struttura del DNA causate dalla
instabilità genetica.
Per quel che
riguarda il cloruro di vinile la stessa esistenza di un meccanismo d'azione
specifico di tale sostanza è affermato dai
consulenti dell'accusa ma al tempo stesso dagli stessi viene ammesso che "i
dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità
specifica che permetterebbe di identificare l'azione del cloruro di vinile".
E d’altra parte la stessa relazione EPA (2000) manifesta (pag 52 e seguenti)
problematicità al riguardo, circostanza che non può non lasciare intendere
quale sia lo stato delle conoscenze ancora incerte e passibili di
falsificazioni nel loro progredire.
Peraltro ritiene
il Tribunale non si possa negare il dato di fatto che il cvm è cancerogeno,
anche se non si conoscono i particolari del suo percorso genotossico di cui
emergono sperimentalmente in via ipotetica alcuni tratti pur significativi: il
cvm si metabolizza nel metabolita reattivo "presumibilmente il CEO"
che "diversi indizi indicano come genotossico in quanto interagisce
direttamente con il DNA" (in tal senso il citato rapporto EPA a
pagg.48-59).
E, quanto agli
organi bersaglio, se ne rileva, sulla scorta degli studi esaminati che lo hanno
evidenziato, maggior incidenza e specificità negli angiosarcomi di animali
inalati e di lavoratori esposti a cvm. Tale maggior incidenza non è stata
invece individuata in altri organi (polmone e cervello) attraverso studi
metodologicamente corretti, condivisi e reiterati. Si ricorda al riguardo che
le mutazioni a p53 sono state osservate sia in lavoratori esposti che non
esposti pressochè in pari percentuale affetti da epatocarcinoma e comunque tali
mutazioni non solo non sono specifiche ma "possono riflettere meccanismi
endogeni piuttosto che essere indotte da cancerogeni esogeni"(Weihrauch).
Osserva poi il
Tribunale come la tesi accusatoria si
sviluppi ulteriormente deducendo l’ipotesi
della concausalità, a tal fine sostenendo la potenzialità dell'alcol di
interagire con il cvm. Sulla scorta delle critiche dei consulenti della difesa,
metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse dinamiche del
processo metabolico del cvm e dell'alcol si ritiene però che non sussistano dati scientifici su cui
solidamente basare l'esistenza della asserita interazione tra etanolo e cvm
e, anzi, l'analisi delle reazioni metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere improbabile
l'interazione suggerita dai consulenti del pubblico ministero che non hanno
dimostrato come verrebbero a determinarsi gli effetti sinergici tra le due
sostanze.
Sulla scorta dei
dati e studi di cui sopra, il Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei
fatti di cui in imputazione, premettendo brevi cenni sulle note teorie della
causalità, che riteneva necessari perché nel processo che ci occupa vi sarebbe
stata la insistita tendenza a sostituire il modello classico di causalità con
la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre
certi tipi di evento, oltretutto senza preoccuparsi di verificare tutti gli
apporti scientifici e forzando i passaggi con ipotesi di default o presunzioni
o assimilazioni e, soprattutto, trascurando di verificare la effettiva
incidenza della sostanza sul singolo caso. Impostazione che, secondo il
Tribunale, non può trovare consenso posto che, in via di principio, la
causalità generale non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il
nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l'idoneità
della sostanza a causarla.
Si afferma
infatti che tra gli stessi epidemiologi vi è largo consenso nel ritenere che i
loro studi, che riguardano popolazioni generali e si propongono scopi
preventivi di tutela della salute pubblica, non sono in grado di spiegare la
causalità specifica e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli
comportamenti.
Anche perché gli
studi epidemiologici non si basano su un censimento di casi provatamente
causati dall'esposizione a sostanze tossiche (soprattutto quando la pluralità
dei casi dipende da una pluralità di fattori eziologici), ma solo di differenze
tra i casi osservati e i casi attesi: in tale ambito la causalità generale ha un
significato ancor più circoscritto nei confini di tale scienza e indica più
propriamente un eccesso di rischio senza costituire in sé una prova della
idoneità della sostanza a provocare la malattia.
E'
per questa ragione che non c'è alcuna possibilità di distinguere tra i casi
esposti chi non si sarebbe ammalato in assenza di esposizione e chi invece si
sarebbe ammalato egualmente. Infatti, salvo rari casi (tra cui rientra oltre
che il mesotelioma da asbesto, l'angiosarcoma
per esposizione a c v m) le neoplasie professionali non hanno carattere di
specificità e non sono distinguibili
neppure istologicamente sotto il profilo morfologico da quelle extra professionali.
Si ritiene
dunque che l'incertezza domina sul caso singolo proprio perché la quasi generalità
dei tumori ha cause in elevatissima percentuale extraprofessionali ignote e gli
scienziati non hanno ancora compreso appieno il modello molecolare nella
carcinogenesi e formulano pertanto ipotesi per cui qualsiasi dichiarazione
riguardo al ruolo di qualsivoglia agente in quanto cancerogeno trova un limite
nella sua ipoteticità. E si richiamano concetti espressi da epidemiologici e
dalla stessa EPA nonché studi soprattutto negli USA che hanno messo in rilievo
che solo una piccolissima parte dei tumori è in realtà ricollegabile
all'attività industriale (dall'1 al 3% secondo l'agenzia) mentre la percentuale
residua è dovuta a cause diverse, cioè all'esposizione a inquinanti diffusi
nell'ambiente o all'ingestione di inquinanti che passano nella catena alimentare
il cui uso è normalmente consentito. Ricordandosi altresì che gli stessi consulenti della accusa pubblica
e privata hanno concordemente affermato che lo studio epidemiologico non può
bastare perché suggerisce inferenze
eziologiche senza però poterle dimostrare in rapporto ai singoli
individui.
Se dunque la
causalità in epidemiologia, anche quando affermata dalle agenzie, non solo
riguarda sempre e solo il livello di popolazione e non del singolo, ma può
essere soddisfatta da evidenze scientifiche ancora deboli e incerte dovendo
assolvere a finalità precauzionali, sarebbe errato affidarsi, ai fini di
ritenere assolto ogni compito accertativo della causalità generale, alle
valutazioni e alle enunciazioni delle stesse: eppure i consulenti medico legali
dell'accusa pubblica e privata hanno assunto come dato indiscusso proprio le
indicazioni di IARC 1987, senza neppure tenere conto degli studi successivi e
in particolare degli aggiornamenti del 1991 e del 2000 illustrati in aula dai
loro coautori dott.Simonato e dott.Boffetta.
Diverso invece
l’approccio, in quanto, una volta chiarito il contributo che l'epidemiologia,
attraverso il calcolo del rischio attribuibile, può dare alla soluzione del
problema, la sussistenza del nesso causale per l’attribuzione del fatto
contestato va argomentata giuridicamente considerando tutte le implicazioni e
considerazioni che vanno ben oltre
quelle epidemiologiche, e decisa dal giudice sulla scorta dei principi di
diritto ai quali il Tribunale si ispira enucleandoli dopo excursus anche
relativo alla giurisprudenza e dottrina americana che ben metterebbero in
rilievo, pur nell'ambito del processo civile, le spinte che tendono a superare
il modello meccanicistico di causalità evocate dallo stesso P.M.: l'esigenza di
una tutela delle vittime, dei beni della salute e della vita umana.
Osserva
il Tribunale che seppur detti beni devono essere tenuti senz'altro in alta
considerazione, e seppur queste sono le motivazioni più o meno esplicite che
spingono a orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso
causale istanze di prevenzione generale (e si cita S.C 12/7/91 -sez 4° cui si
rifà il P.M.), neppure bisogna trascurare che nell'ambito del processo penale
vi sono altri beni da tutelare che sono quelli della responsabilità personale e
della libertà. Ritiene dunque il Tribunale di uniformarsi ai più recenti e più
rigorosi orientamenti della giurisprudenza della S.C. così potendosi enucleare
i principi in diritto applicati: le esigenze di certezza e garanzia, il rispetto
dei principi di legalità e personalità della responsabilità penale, di rango
costituzionale, devono essere soddisfatti mediante il mantenimento di un
rigoroso modello causale ove il rapporto di condizionamento sia spiegato o
daleggi universali, secondo il modello nomologico-deduttivo, o da legi di
copertura scientifico-statistiche, secondo il modello statistico-induttivo.
Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di un arelazione logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché qualificato “alto” o “elevato”. Il ricorso a tali criteri rischia infatti di introdurre nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese di giustizia;dalle scienze e dai limiti di conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:
1) le inferenze
causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e
corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza
scientifica;
2) l'affidabilità delle
conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono
modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che
riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica
nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo
dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una
"corroborazione provvisoria ";
3)
le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi
e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza
complessiva del risultato raggiunto;
4) l’incertezza
scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del
rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la
regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il
ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro
ordinamento;
5) la
causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre
certi tipi di evento, non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare
il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e
l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento della causalità non può
essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia aumentato il rischio del
verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una illegittima confusione tra il
piano soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre l’attribuibilità
dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;
6) gli studi
epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni generali e proponendosi scopi
preventivi di tutela della salute pubblica, non sono assolutamente in grado di
spiegare la causalità individuale e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi
a singoli comportamenti.
Osserva peraltro
il Tribunale come nella specie proprio la causalità generale da esposizione a
clorulo di vinile è stata utilizzata
dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della sostanza, ma
altresì per indicare gli indici di rischio relativo per ciascuna neoplasia che si è ritenuta in qualche
misura, forte o debole , associata all'esposizione. E però, ritiene il
Tribunale, dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali
risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del
raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica
americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività
statistica, ma ciò nonostante sempre e
comunque assunta come ineludibile
presupposto della causalità individuale
anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza
esplicativa che sono stati valutati
come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sè sufficienti e
necessari.
Si
osserva al proposito che le conclusioni di IARC 1987, punto di partenza per le
imputazioni e di approdo per le conclusioni del PM, salvo alcuni aggiustamenti
quantitativi dell'ultimo momento, che indicavano una associazione tra
esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e carcinomi epatocellulari),
tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del sistema emolinfopoietico,
melanomi, hanno subito rivisitazioni critiche e ampi aggiornamenti per la
maggior parte incorporati nei due studi multicentrici americano ed europeo (
Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di recente (Ward 2000 e
Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale. Sulla base di tali
studi, considerando anche i risultati dello specifico studio sulla coorte di Porto
Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non significatività
dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema emolinfopoietico, del fegato
diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per la cirrosi epatica e per le
malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che gli stessi consulenti epidemiologici dell’accusa(si cita l’ultima
relazione presentata dai consulenti
Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque espresso dubbi e perplessità
in ordine alla correlabilita' con le sostanze in considerazione quantomeno dei
tumori del cervello, del sistema emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe
aggiungere anche del tumore della laringe .
Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste patologie, sulla
base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e delle più perentorie conclusioni cui erano pervenuti
gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico europeo e del
successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento, può affermarsi
che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a dire della
idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene infatti, che
l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più significativi
(e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava ”non considerare
l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”) individua una associazione forte tra esposizione a c v m e angiosarcoma epatico e eccessi di rischio
nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad
elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le
altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto
riferimento IARC, non sono state confermate.
Ma il PM
non ne avrebbe tratto le logiche e
conseguenti conclusioni, in quanto, pur avendo al termine della
requisitoria presentato le schede riferite a 263 parti offese relative a 311
patologie rispetto alle 721 patologie riferite a 542 parti offese introdotte
con il decreto di rinvio a giudizio e con le successive contestazioni
supplettive nel corso del dibattimento, tuttavia, non ha ritenuto di fornire
una spiegazione di questa modificazione della contestazione originaria,
limitandosi ad affermare che i casi non ripresentati avrebbero avuto comunque
un loro rilievo nell'ambito dei reati di strage e di disastro contestati.
Sono
stati eliminati tutti i tumori gastrici e del pancreas che erano stati
associati alla esposizione a dicloroetano, ed altresì le broncopatie e le broncopneumopatie (87), nonchè le
pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto, quest'ultime
indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi epidemiologici
è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che supporterebbe
l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999 concludeva per
"inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le altre patologie
(neoplastiche e non ) siano state ritenute o non sussistenti a seguito
della esame della documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa
ovvero non correlate all'esposizione.
Ma,
secondo il Tribunale la logica conseguenza sarebbe che essendo insussistenti o
comunque non causalmente riconducibili esse non possono avere rilievo neppure
nelle fattispecie più ampie di pericolo per la pubblica incolumità cui il
pubblico ministero ha fatto riferimento.
Si
osserva che alla debolezza delle evidenze epidemiologiche il PM ha cercato di
supplire facendo ricorso alla biologia molecolare e ai risultati ancora
incerti, contraddittori e lacunosi che allo stato è in grado di offrire, in
particolare sostenendo la tesi dell’azione sinergica tra i fattori di rischio
noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione che in tal modo
assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti lesivi: non
considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso statuto
epistemologico della causa con la conseguenza che se non è dimostrato che un
fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste di concausa
Il PM nessun
rilievo ha invece dato all'evidenza epidemiologica e sperimentale che
indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto dose–risposta la
cui considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi alle esposizioni
di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad escludere la
rilevanza causale delle esposizioni
successive al 1974.
Infatti in
tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i tumori
rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in coloro
che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in coloro
che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti riconducibili ad
elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie degli anni '50 '60
e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità della sostanza. E si
citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici Simonato, Ward, Mundt,
ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può individuare un accordo uniforme
e assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente processo,
in ordine a tale conclusione. Pacifico, infatti, che nessun angiosarcoma del
fegato (che è il tumore tipico da esposizione a c v m) si è manifestato in
lavoratori assunti successivamente al 1973 nella corte europea e
successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di Porto Marghera.
Si osserva poi che se si
considera che la dose cumulativa più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma
(oltretutto di tipologia non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm
circa di esposizione giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già
presenti nella coorte di Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni
degli anni successivi, pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e
in seguito imposti di 3 ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli
stessi come documentato dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta
esservi prova di una efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero
convergenti anche gli studi tossicologici e di oncogenesi che pure individuano
un rapporto dose-risposta per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e
gli studi di Weinrauch e di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative
di 10 ppm non è stata accertata una
idoneità lesiva del c v m.
I consulenti del pubblico ministero relativamente al
problema della idoneità lesiva del cvm alle bassi dosi non hanno potuto
smentire né i risultati epidemiologici né quelli sperimentali. Si sono limitati
ad affermare "che non si può escludere", "che la soglia al di
sotto della quale non si sono osservati tumori
non è una soglia effettiva ma una soglia apparente... perché non si
possono fare degli studi che dimostrino l'inesistenza di una soglia perché
bisogna andare nell'infinitamente piccolo".. (Berrino); “attualmente una relazione tra esposizione e
cancerogenità delle sostanze genotossiche
è troppo confusa per offrire linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità
di uscire dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e
sul rischio e quindi accettare che non
vi è una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non
riesco a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso
dire assolutamente nulla " (Martines).
Resta il fatto, e questo
rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si osserva infatti
che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi riscontrati
negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e nei solo
insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza del primo,
abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica, si sono
verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni 50 e 60 e
prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate antecedenti alla
conoscenza della cancerogenità del cvm.
Nessun
tumore del fegato e del polmone ha interessato lavoratori della corte di Porto
Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data oramai è trascorso interamente il
periodo di latenza non solo medio ma approssimantesi anche alle punte
medio-alte rilevate.
Conseguentemente si può
trarre una prima incontestabile conclusione:
alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità lesiva
del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle
esistenti dal 1974 in poi.
Le incertezze della
scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni
cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza per ulteriori
approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in ambito processuale dove ci si deve attenere ai
fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione dunque le sole
esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, traendone
tutte le conseguenze sia sotto il profilo della riferibilità delle imputazioni
agli imputati tutti tratti in giudizio,
sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli eventi.
Infatti le
condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974 e,
quindi, a epoca precedente alla conoscenza della canceroginità del cvm. Mentre per
il periodo successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale
sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti
imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli
stessi (e quindi nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di
impresa), non si ravvisano neppure condotte
cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.
Invece, si
osserva, il PM compie una vera e propria traslazione dei piani temporali perché
rappresenta nella imputazione “un quadro del passato” che ci riporta a
condizioni lavorative (e a conseguenti addebiti di colpa) che sono quelle
proprie degli anni ’50-’60, e propone all’esame dibattimentale tali situazioni
come verificatesi nel successivo ampio arco temporale che va dal 1970 al 2000.
In tal modo, oltrechè non selezionare, alla stregua delle risultanze
epidemiologiche, le patologie correlabili, neppure il PM ha adottato un criterio selettivo per
individuare i soggetti cui fondatamente addebitare gli eventi lesivi : si è
scelta invece - come è stato reiteratamente affermato dalle difese - la
strategia “della massificazione degli
eventi e delle condotte“: indubbiamente “fatto“ di maggior evidenza e impatto verso l’esterno , ma di nessun
fondamento in “diritto”. Ma l'accusa ha obbiettato, in diritto, che all'epoca
erano vigenti nel nostro ordinamento i DPR n° 547/1955 e n°303/1956- di cui si
parlerà più diffusamente nella parte concernente la colpa- che ricomprendevano
norme che dovevano considerarsi cautelative rispetto ai rischi che hanno
determinato gli eventi.
Ma il Tribunale
già osserva che allora si ignorava la pericolosità e la canceroginità sia del
gas (cvm) sia delle polveri (pvc) che si diffondevano nell'ambiente di
lavoro, e quindi la rappresentazione e
la prevedibità degli eventi poi verificatisi, essendo il solo rischio noto alla
metà degli anni 60 la sindrome di Raynaud, evento di tipo tutt’affatto diverso,
patologia che determinava disfunzioni alla circolazione delle mani e che veniva a colpire i lavoratori che per le
loro mansioni venivano a diretto contatto con la sostanza nella pulizia delle
autoclavi o dei filtri o nell’insacco.
Dunque non appare
condividibile l'assunto accusatorio secondo cui quelle norme richiederebbero al
datore di lavoro, qualunque sia la nocività, prossima o remota del fattore inquinante, di mettere in atto
ogni strategia possibile per eliminarlo
o neutralizzarlo, assumendosi diversamente
la responsabilità di tutte le conseguenze potenziali derivanti da quella
violazione ancorché in quel momento impreviste o imprevedibili.
Questa
tesi dilata sino alla imputabilità oggettiva il concetto di responsabilità
colposa poiché non si fa carico neppure di assumere come elemento essenziale
non tanto la prevedibilità dell'evento tipico, ma neppure la rappresentazione
dell'evento generico di un grave danno alla vita o alla salute: non si può
eludere il problema della conoscenza o conoscibilità della nocività, e ancor
più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso particolare del cvm) in un
determinato momento storico sia in ambito scientifico che in quello industriale
secondo il modello del c.d. agente modello.
Ma soprattutto, osserva
il Tribunale, ancor meno è legittimo confondere il piano soggettivo con quello
oggettivo deducendo dalla inosservanza di quelle norme di cautela generica la
attribuibilità dell'evento lesivo "con alta probabilità riconducibile
proprio all'inalazione delle polveri o del gas", così ritenendo decisivo
per l'accertamento della causalità il solo fatto che la condotta omissiva abbia
astrattamente aumentato il rischio del verificarsi dell'evento.
La dottrina e la giurisprudenza prevalenti
escludono che nell'ambito dell'accertamento del nesso causale possa farsi
ricorso alla teoria dell'aumento del rischio, "non essendo possibili
ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo" poichè dalla
problematica oggettiva del nesso di causalità devono rimanere escluse tutte le
questioni afferenti la prevedibilità che attengono propriamente all'elemento
psicologico"( Cass 17/12/93-Ianieri-).
Ma pur seguendo il P.M.
su tale piano ci si dovrebbe interrogare, secondo il Tribunale, su quale sia
stata nel 1974 la condotta antidoverosa e quale avrebbe dovuto essere per
contro la condotta corretta che, se
posta in essere, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento. Secondo l'ipotesi
d'accusa i comportamenti antidoverosi sarebbero stati principalmente sia
l'omessa fermata degli impianti - o comunque un adeguato e tempestivo
intervento sugli stessi per ridurre l'esposizione nociva e cancerogena - sia
l'omesso allontanamento dai reparti o dalle lavorazioni a rischio dei
lavoratori maggiormente esposti ( in particolare autoclavisti e insaccatori).
Ammesso per pura ipotesi
che tali condotte omissive si siano verificate pur in presenza della conoscenza
del rischio tossico e oncogeno , si tratta di verificare se avrebbe potuto il comportamento alternativo
che si esige evitare il verificarsi dei tumori epatici e polmonari in quei
lavoratori che erano stati esposti, come risulta dalle consulenze
epidemiologiche e dalle schede personali prodotte nel corso degli esami
medico-legali, alle elevate concentrazioni degli anni 50 e 60 . I dati di
conoscenza scientifica ci dicono: a) che il cvm è una sostanza che agisce
secondo un rapporto dose risposta e che le esposizioni cumulative più elevate
sia per quantità sia per durata sono quelle maggiormente responsabili degli
effetti oncogeni; b) che secondo il modello carcinogenetico multistadio il cvm
sarebbe un cancerogeno iniziante e cioè inducente una mutazione tendenzialmente
irreversibile nei primi stadi del processo tumorale ; c ) che il periodo di
esposizione lavorativa e di latenza, anche sottratto il periodo di
"lag"( che è il periodo intercorrente tra la presumibile epoca della
induzione a seguito di esposizione alla sostanza cancerogena e la
manifestazione del tumore calcolato in circa 15 anni sulla base della
letteratura esistente), sarebbe rispettato per tutti i lavoratori che hanno contratto i tumori così da poter
ragionevolmente ritenere che le esposizioni rilevanti a determinare i tumori
siano quelle degli anni 50-60. Ne
consegue che all'epoca in cui i comportamenti doverosi erano concretamente
esigibili essi non avrebbero potuto evitare gli eventi verificatisi o, se si
vuole, non sussiste una prova
dimostrativa avente elevata probabilità che il comportamento alternativo
avrebbe impedito o ritardato il verificarsi dei tumori.
Ma il Tribunale,
ha intrapreso una diversa soluzione della problematica attinente la causalità:
tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e
aggiornati, valutati complessivamente, non consentono di ritenere sussistente
una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e
patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche
epatopatie interessanti l'endotelio.
A tali fini il
Tribunale ritiene di effettuare, con specifico riferimento alla coorte di Porto
Marghera, un esame più dettagliato e una valutazione critica dei dati
epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare
nonché di approfondire le caratteristiche nosologiche e morfologiche delle
neoplasie alla luce dei contributi dei
consulenti medico-legali e anatomo patologi. E conclude ritenendo non
individuati fattori di rischio professionale, né ipotizzabile un ruolo
concausale dell’esposizione lavorativa proprio perché non provata la causalità
del fattore professionale, per i tumori del laringe, del sistema linfatico e
omopoietico, del cervello, per i melanomi, ma anche per i tumori del polmone,
e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma.
Circa il tumore
al polmone il tribunale ha ritenuto non sussistere l'evidenza epidemiologica e
neppure la plausibilità biologica e ha accertato perdipiù la presenza in 11 dei
12 casi di un rilevante fattore di rischio extraprofessionale per elevato
tabagismo.
Con riferimento
all’epatocarcinoma, il Tribunale, pur
prendendo atto dei risultati degli studi epidemiologici che individuano eccessi
statisticamente significativi esclusivamente nei lavoratori alto esposti che
hanno svolto mansioni di autoclavisti, e pur prendendo atto anche dei risultati
degli studi sperimentali citati e altresì delle osservazioni cliniche e
istologiche sui casi in letteratura dibattuti che individuirebbero carcinomi
epatocellulari in esposti a c v m, ritiene che non possa dirsi raggiunta la
prova dell'attribuzione causale di tale tumore all'esposizione al c v m.
E ciò, non solo perché gli
studi epidemiologici riguardano ancora un piccolo numero di persone sia nella
corte europea (10 soggetti ) sia in quella di Porto Marghera (4 autoclavisti)
con problematiche ancora aperte sulla precisione della stima e con andamenti di
rischio non particolarmente elevati se si tiene conto della eziologia variegata
e dell’alta incidenza dei plurimi fattori di rischio, ma soprattutto perché in
tutti i casi esaminati mediante indagine autoptica e discussi in dibattimento
non sono state evidenziate le tipiche lesioni indotte dal c v m, e per contro
sono state invece individuate le lesioni riferibili ad accertati fattori noti
di induzione di tale tumore presenti
in tutti i casi di Porto Marghera (epatiti virali b e c, elevato consumo di
alcol, cirrosi) che proponevano giustificate soluzioni alternative.
Alla logica della
falsificazione si sono richiamati gli stessi consulenti dell’accusa,
allorquando hanno affrontato il problema se sia possibile pervenire dal dato
epidemiologico a livello di popolazione a quello individuale, e la risposta è
stata cautamente affermativa, ma ristretta sostanzialmente ai casi in cui non si è in grado di fornire una spiegazione
alternativa, cioè solo se si è in grado di affermare che il singolo soggetto
esposto a cvm non era esposto ad altro fattore eziologico che giustifichi la
insorgenza della patologia indipendentemente dal cvm.
Analogamente si ritiene
non provato il nesso causale per la cirrosi, osservandosi che tutti i casi di
cirrosi osservati nella casistica di Porto Marghera per i quali era disponibile
l'istologia hanno mostrato evidenza di processi necroinfiammatori e in tutti i
casi l'esame istologico ha consentito anche di identificare l'agente eziologico
coincidente con uno dei noti fattori di rischio (infezione virale b o c,
consumo di alcool).
Proprio la presenza di
tali fattori di rischio ha indotto i consulenti del pubblico ministero a ipotizzare comunque solo un ruolo
concausale del c v m. Ma, osserva il
Tribunale, l'esame istologico non ha evidenziato in nessun caso di cirrosi
lesioni tipiche dell'esposizione a c v
m: in particolare nei casi riguardanti i lavoratori Zecchinato e Simonetto che,
secondo i consulenti del PM, avrebbero sviluppato in sequenza prima cirrosi e successivamente
angiosarcoma epatico, così da avvalorare la associazione tra tale malattia
epatica e esposizione a c v m , tale processo patologico non ha trovato
conferma. Infatti, l' esame istologico di Zecchinato dimostra fibrosi epatica
congenita e angiosarcoma ma non evidenza di cirrosi e quello di Simonetto
dimostra epatocarcinoma in cirrosi con emocromatosi e non angiosarcoma: nel
primo caso la cirrosi è esclusa, nel secondo caso la cirrosi ha origine in una
malattia metabolica congenita e evolve in epatocarcinoma.
Analoghe,
ancora, le conclusioni per le epatopatie non caratterizzate da tipiche lesioni
da cvm, relativamente alle quali la letteratura esaminata evidenzia
associazione non già all’esposizione a cvm, bensì a consumo alcoloico o a
epatiti virali.
In conclusione,
osserva il Tribunale che all’osservazione epidemiologica gli eccessi
significativi che hanno evidenziato un associazione forte riguardano i tumori
epatici, angiosarcoma e epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico
organo bersaglio del cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori
esposti ad elevate concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60,
perlopiù svolgenti le mansioni di addetti alle autoclavi. Precisa tuttavia che
le evidenze epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa
incidenza dei due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di
fattori confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’
epatocarcinoma, rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo
una relazione dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di
conferme per soddisfare il criterio di riproducibilità del dato.
Altresì per
quest’ultimo si pone un problema di plausibilità biologica inquantochè non è
noto neppure a grandi linee il meccanismo di induzione di tale tumore, che
interessa le cellule epiteliali, da parte del cvm che, invece, tipicamente
viene a colpire le cellule endoteliali : si dovrebbe dare una spiegazione
plausibile della circostanza che una medesima sostanza produce neoplasie
nettamente diverse sul piano morfologico ancorché interessanti lo stesso
organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta neppure a livello
sperimentale.
Eguali
considerazioni merita l’ipotesi del cvm come fattore concausale che
interverrebbe cioè a interagire con i noti fattori di rischio (alcool, epatite
b e c, cirrosi): lo stato delle conoscenze
non consente di pervenire a nessuna conclusione in ordine alla
sussistenza di tali meccanismi sinergici.
Il ricorso alla
concausalità non può essere neppure un espediente per sfuggire alla prova della
efficienza causale esclusiva del
fattore professionale posto che il nostro ordinamento (art 41 c p) non
autorizza l’assunzione di un “modello debole “di causalità e lo statuto epistemologico
della concausa impone che anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di
copertura.
Pertanto trovano
spiegazione causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm solo gli angiosarcomi (otto) e, tra le patologie non neoplastiche,
le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine,
le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).
Tanto ritenuto in ordine alla
problematica del rapporto eziologico tra esposizione a cvm e a polveri di PVC
ed eventi contestati, si addentra poi il Tribunale nella disamina degli
impianti e sistemi di lavorazione del cvm, PVC e DCE in Porto Marghera
ponendoli in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità di dette
tali sostanze, procedendo quindi alla valutazione delle condotte contestate,
per verificarne la sussistenza in relazione altresì agli specifici addebiti
contravvenzionali, e per desumerne o meno la configurabilità della colpa
nell’analisi altresì delle singole e specifiche posizioni degli imputati.
In diritto, peraltro, previamente esclude la configurabilità
nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage colposa secondo
l’accusa da ritenersi punita "dall'articolo 449 in riferimento all'
articolo 422 c p". Ricordato che appunto secondo l’accusa, sulla scia di
parte della dottrina, l’accento andrebbe posto sull’articolo 449 cp che
consentirebbe di ricostruire un autonoma fattispecie aperta di disastro
innominato che si riempie via via di contenuto attraverso il rinvio che tale
norma fa ai disastri nominati di cui al capo primo e alle altre figure di
disastro indicate nel capoverso dell'articolo 449 cp, ritiene invece il
Tribunale di seguire il diverso orientamento che esclude la sussistenza della
strage colposa. Si osserva infatti, richiamandosi al riguardo le ritenute
fondate critiche della difesa, che il dato testuale dell'articolo 449 c p,
nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di
altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un richiamo
selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo,
individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione
di genere " disastro". Ha individuato nominativamente l'incendio
perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione
delle norme relative ai "disastri" e costituisce anche il limite
iniziale della serie delle disposizioni richiamate.
Ritiene invece il Tribunale corretta
la prospettata configurabilità del delitto di disastro innominato colposo,
disattendendo, quanto a tale reato, le critiche della difesa. Premesso che in
punto di fatto il pubblico ministero, come ha chiarito anche nel corso della
sua requisitoria, è ricorso a tale fattispecie per utilizzarla come "trait
d'union" tra i due capi di imputazione e, anzi, per configurare un unico
disastro in quanto " l'attività di industria e di impresa ha esplicato i
suoi negativi influssi ed effetti sia all'interno che all'esterno della
fabbrica " e cioè provocando lesioni personali e morte ai lavoratori
esposti alla sostanza oncogena e altresì determinando un grave inquinamento dei
sedimenti e delle acque nei canali industriali e nelle acque di falda
sottostanti le discariche con tutte le conseguenze che ne sono derivate anche
alla ittiofauna, si è infatti rilevato dalla difesa che, riferendo il disastro
anche ad eventi interni allo stabilimento, riuscirebbe difficile tracciare il
limite rispetto al disastro correlato all'articolo 437 comma secondo c p e che,
inoltre, richiamando l'inquinamento delle falde e dell'ittiofauna vi sarebbe
una sovrapposizione rispetto ai
contestati reati di avvelenamento e di adulterazione colposa di acque e di
sostanze alimentari, e si è sostenuto che ad integrare la fattispecie non è
sufficiente un qualsiasi pericolo, ma esclusivamente un pericolo che deriva da
una atto diretto a cagionare un disastro (comma primo) o integrato dalla
verificazione dell'evento disastroso (comma secondo).
Ma ritiene il Tribunale che una
siffatta ricostruzione della fattispecie non sia condividibile laddove nel
reato di disastro innominato si ritengano, quali elementi necessari alla sua
definizione, una sia pure relativa contestualità degli eventi e la loro
determinazione da causa violenta. Elementi, questi, specificativi e non costitutivi,
tali essendo invece la gravità e la diffusività degli eventi nell'ambito di una
comunità estesa, così da essere idonei a concretamente porre in pericolo la
pubblica incolumità, eventi determinati da condotte anche protratte nel tempo
che hanno, ciascuna con efficienza causale, realizzato con attività
predisponente o aggravante la situazione di rischio. L’evento può verificarsi
solo quando si siano determinate un complesso di condizioni: in tal caso è
irrilevante verificare se i fattori causali di quel complesso di apporti sia
prossimo, remoto o concomitante rispetto alla verificazione dell'evento poiché
anche in tal caso ricorre il principio di equivalenza delle cause
diacronicamente succedutesi ( art.41cp).
E nel caso che ci occupa il rischio
costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati ,
le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci sindromi di
Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva
dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della
comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle
mansioni più a rischio. Idoneità lesiva venuta meno con la drastica riduzione
delle esposizioni sin dal 1974.
Il Tribunale esclude infatti
completamente la configurabilità dei delitti contestati in relazione alle
condotte successive al 1973, osservandosi che, per come emerso dall’istruttoria
dibattimentale, l’accertata drastica riduzione delle esposizioni a partire
appunto dal 1974, avrebbe fatto venir meno l’idoneità lesiva della sostanza ed
ogni situazione di rischio per l’incolumità pubblica. A sostegno di tale
conclusione il Tribunale si dilunga nell’analisi delle risultanze processuali
in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità del cvm, ai
processi produttivi nei singoli reparti, agli interventi di manutenzione e di
modifica degli impianti, volti a limitare le esposizioni dei lavoratori, alle
misure di prevenzione personale predisposte, in particolare per la tutela degli
insaccatori ed autoclavisti.
Ne consegue che il predetto reato si
ritiene causalmente riferibile a quegli imputati che ricoprivano nell'epoca in
considerazione (1969-1973) posizioni di garanzia e, in tale ambito temporale
rimane circoscritto, perché per il periodo successivo viene meno anche
l'efficienza causale della sostanza e, quindi, la situazione di rischio.
Peraltro la riferibilità causale di
tale reato, così come dei reati di omicidio e di lesioni colpose per gli
angiosarcomi e per le epatopatie correlate, agli imputati che nell'epoca
considerata, ricoprendo posizioni di garanzia, avevano la gestione del rischio
relativo all'esposizione alla sostanza tossica e oncogena, non è accompagnata
anche dalla imputabilità degli eventi a titolo di colpa (tranne che per i reati
di lesioni colpose per i casi di Raynaud in ordine ai quali il proscioglimento
degli imputati specificamente interessati in relazione al predetto periodo di
causazione, consegue alla prescrizione).
Il principio ispiratore, quanto
appunto alla componente psicologica del reato, è che nei delitti colposi, la
prevedibilità dell’evento deve essere riconosciuta, in particolare per quanto
riguarda l’esercizio di attività pericolose, sulla base del criterio della
migliore scienza ed esperienza presenti in un determinato settore ed in un
preciso momento storico, costituito dall’epoca in cui viene iniziata la
condotta. La prevedibilità dell’evento può essere affermata solo quando
sussistano leggi scientifiche di copertura, le quali permettano di stabilire
che da una certa condotta possono conseguire determinati effetti. La
responsabilità dell’imputato può essere affermata solo quando l’evento
verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che la regola cautelare
intende prevenire.
E nella specie, all'epoca non era
noto sulla base di esaurienti conoscenze scientifiche fondate su affidabili
verifiche sperimentali il rischio oncogeno sull'uomo (angiosarcomi), e le
lesioni epatiche indotte da cvm non avevano manifestato segni patologici
inequivoci, anche perché, quando sono stati rilevati segni di sofferenza
epatica, i lavoratori sono stati allontanati dall'esposizione, in tal modo
osservando l'obbligo precauzionale di una adeguata sorveglianza sanitaria.
Obbligo non osservato, invece ,
relativamente ai casi accertati di Raynaud/acrosteolisi , trattandosi di
patologia nota sin dalla metà degli anni '60 e regrediente con l'allontanamento
dalle alte esposizioni cui era associata e perlopiù riguardante mansioni che
implicavano un contatto diretto con la sostanza che doveva essere evitato con
idonee misure protettive realizzate tardivamente.
Dunque secondo il Tribunale, nella
fattispecie l’impresa, e per essa gli odierni imputati, risulta essersi mossa
tempestivamente, sotto il profilo della modifica delle procedure e degli
interventi sia immediati che a medio termiune sugli impianti e sulle
apparecchiature, non appena il problema della canceroginità del cvm ebbe ad
appalesarsi con un consistente fondamento scientifico. Le opere eseguite,
comprovate documentalmente e confermate dai testi escussi, avrebbero, a parere
del Tribunale, permesso di ottenere in breve termine una drastica riduzione dei
precedenti livelli di esposizione, concretamente evidenziata soprattutto a
partire dalla seconda metà dell’anno1974 e per tutto l’anno 1975, con
successivi netti sviluppi di riduzione nei conseguenti anni 1976-1997 a valori
ampiamente ricompresi nei limiti prudenziali e rispettosi delle soglie
all’epoca individuate e successivamente stabilite dalla normativa.
Si ritiene dunque infondato
l’addebito ascritto agli imputati sotto il profilo della responsabilità
colposa, sia generica che specifica.
Né tantomeno, ed a maggior ragione,
è ipotizzabile l’elemento soggettivo del dolo, integrante l’ipotesi di reato di
cui all’art. 437 c.p., pure contestato dal P.M. Sotto quest’ultimo profilo, va
rilevato che l’accusa, sotto la qualificazione dell’ipotesi di cui all’art. 437
c.p., ascrive l’omessa collocazione “di sistemi ed apparecchi di sicurezza
destinati ed idonei a prevenire l’insorgenza di tumori e di malattie anche
gravissime”.
Osserva al riguardo il Tribunale che
tale tipologia di contestazione non contiene, nella fattispecie concreta,
l’indicazione di fatti specifici, in particolare per quanto riguarda la natura
degli apparecchi che avrebbero dovuto essere collocati, per cui si deve
ritenere che il P.M. abbia fatto riferimento a tutte le asserite violazioni
integranti gli addebiti di colpa ascritti.
Peraltro il Tribunale, nell’analisi
della suddetta norma, precisa che: la previsione normativa di cui all’art. 437
c.p. configura la più severa sanzione,
predisposta per le violazioni più gravi del dovere di sicurezza, in
quanto è caratterizzata sul piano soggettivo dalla necessarietà del dolo e sotto
il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza
aventi particolare serietà;
la fattispecie in esame non descrive specificamente in quali
situazioni sorga il dovere di attivazione, per cui deve ritenersi, secondo i
principi generali concernenti la responsabilità per omissione, che la condotta
di omessa collocazione possa essere correlata soltanto a quei sistemi o quegli
apparecchi la cui collocazione sia obbligatoria sulla base di una specifica
norma di prevenzione di disastri o d’infortuni;in sostanza, la previsione di
cui all’art. 437 c.p. costituisce una fattispecie avente riguardo non già ad
una qualunque violazione del generico dovere di sicurezza, ma soltanto alla
violazione dolosa di precise disposizioni della statuizione normativa speciale,
che di per sé siano sanzionate come contravvenzioni e che prescrivano specifici
doveri di collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire
disastri od infortuni sul lavoro.
Dunque sorgono in considerazione, nella
fattispecie, le asserite violazioni di cui ai DPR n. 547/55 e n. 303/56; sotto il profilo oggettivo, la
definizione di “impianti” individua delle installazioni caratterizzate da
stabilità, così come il concetto di “apparecchi” qualifica delle attrezzature
aventi una certa complessità tecnica, diretta specificamente alla prevenzione
summenzionata; del resto, correlativamente, il termine “collocazione”
corrisponde ad un’attività avente ad oggetto una cosa dotata di stabilità
strutturale; dunque, si possono fondatamente escludere dal novero di tale
previsione normativa i dispositivi di protezione individuale, nonché le cautele
relative all’adozione di particolari procedure di lavoro o di organizzazione
del sistema, in quanto non possiedono i requisiti suindicati. Neppure le parti
d’impianto funzionali al ciclo produttivo rientrano nell’ambito dei dispositivi
suddetti, poiché indubbiamente la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. si
riferisce a strumenti aventi specificamente ed unicamente la destinazione alla sicurezza.
E in forza di tali premesse ritiene
che: gli addebiti di omesso blocco degli impianti e di omesso risanamento dei
medesimi, di mancata manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a
deterioramento, di mancata adozione delle misure necessarie a tutelare la
salute dei lavoratori, di mancata emissione dei provvedimenti conseguenti alla
segnalazione (con la relazione del marzo 1977) dell’Istituto di Medicina del
Lavoro, sono tutti al di fuori della previsione normativa succitata, sia per la
genericità dell’oggetto, sia per la palese non correlabilità alle nozioni di
collocazione di apparecchi specifici con finalità antinfortunistica o comunque
di prevenzione; la contestazione d’insufficiente manutenzione degli impianti,
con riferimento alla sostituzione degli organi di tenuta (valvole, rubinetti),
non concerne ugualmente l’ambito applicativo della norma di cui all’art. 437
c.p. ; infatti, tali organi costituiscono parti degli impianti produttivi
normalmente funzionanti e non integrano invece specifici e distinti strumenti
con finalità preventiva; gli addebiti di omessa sorveglianza sanitaria, di
omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa adozione di
particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti procedure, di
omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di omessa
separazione delle lavorazioni insalubri, sono ugualmente tutti estranei
all’ambito della fattispecie normativa di cui all’art. 437 c.p., sempre per le
motivazioni suesposte in ordine alla circostanza che trattasi di addebiti
relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da
collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed
antinfortunistica.
Secondo il Tribunale anche la
contestazione di omessa collocazione di adeguati strumenti di monitoraggio non
appare rientrare nel novero degli strumenti anzidetti. In ogni caso, anche a
ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi tra le apparecchiature
summenzionate, si è ampiamente evidenziato che i medesimi sono stati
effettivamente collocati nel contesto dei singoli reparti, in termini di certa
tempestività e con efficacia sicuramente appropriata a controllare le singole
zone di lavoro.
E analogamente inconsistenti, alla
luce delle installazioni e delle modifiche impiantistiche adottate con le
commesse analiticamete ricordate dal Tribunale, si ritengono gli addebiti
relativi alla mancanza di cappe d’aspirazione.
Ulteriormente precisa poi il
Tribunale che l’infondatezza sul piano oggettivo dell’ipotesi di reato di cui
all’art. 437 c.p. trova riscontro sotto il profilo soggettivo, in quanto è del
tutto inesistente una consapevole volontà, negli imputati di cui al presente
giudizio, di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti a
neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale dai
medesimi. La consapevolezza della condizione di rischio correlata
all’esposizione degli operatori risulta
essere stata invece adeguatamente affrontata dall’impresa, e per essa dagli
odierni imputati, mediante l’adozione di tutte le iniziative idonee, sia per
quanto riguarda la modifica delle procedure che per quanto concerne l’adozione
degli elementi tecnologicamente più avanzati e la modifica e ristrutturazione
degli impianti.
In conclusione sarebbe rimasta
provato che solo per quanto riguarda gli operatori sui quali è stato
riscontrato il fenomeno di Raynaud i valori espositivi erano superiori ai
limiti di cui alla normativa vigente, cioè 500 ppm, nell’arco temporale sino al
1974. Trattasi in particolare dei lavoratori autoclavisti e degli operatori
all’insacco ed all’essiccamento, sopra specificamente individuati con
riferimento all’ipotesi della malattia di Raynaud ed all’acroosteolisi, per i
quali indubbiamente è emerso che, fino al momento dell’adozione delle diverse
procedure ed alla modifica ed all’aggiornamento degli elementi delle
apparecchiature, cioè fino all’epoca decorrente dall’anno 1974, non sono state
adottate le misure cautelari idonee ad evitare l’eccessivo contatto diretto tra
le mani ed il CVM.
Ma sulla scorta di tutte le
considerazioni svolte, ribadisce il Tribunale che non può però ravvisarsi
alcuna forma di continuità o di correlazione tra le predette patologie e quelle
tumorali od epatiche, assolutamente distinte quanto a tipologia e formazione e
quindi integranti un tipo di evento diverso e non prevedibile, le quali sono
state oggetto di acquisizioni scientifiche sufficienti soltanto a partire
all’anno 1974, come evidenziato da tutte le organizzazioni internazionali che
si occupavano della sostanza in esame. Del resto, si ricorda, tutte le
patologie anzidette, integranti eventi di tipo diverso, trovano origine nelle
elevatissime esposizioni degli anni cinquanta e sessanta, le quali rimangono al
di fuori della contestazione del P.M. e quindi del presente giudizio.
Conclusivamente quindi il Tribunale
individua gli imputati cui riferire i ritenuti fatti-reato solo sotto il
profilo causale (angiosarcomi e epatopatie) e talune patologie sia sotto il
profilo causale che colposo (Raynaud/ acrosteolisi), lesioni colpose ormai
estinte per intervenuta prescrizione, specificando dunque, per tutte le ipotesi
di reato ricomprese nel primo capo d’imputazione le conseguenti formule di assoluzione
o proscioglimento.
Non si esime infine il Tribunale da
valutazione e conclusione di sintesi in ordine all’accusa prospettata,
osservando che il processo ha sofferto della fuorviante impostazione
accusatoria, un procedere senza distinzioni in cui sono mancate le coordinate
spazio temporali necessarie per orientare nella individuazione delle condotte e
dei soggetti ai quali fossero imputabili.
Si ricorda che nel 1° capo di
imputazione si addebitano tumori e malattie (721 patologie – di cui 228 neoplasie-relative
a 542 parti offese, ridotte nelle conclusioni a 311 patologie – di cui 164
neoplasie - relative a 263 parti offese) riferite a condotte omissive che si
sarebbero estese in uno spazio temporale ininterrotto e non concluso di 30 anni
(il PM ha contestato la permanenza in atto).
Addebiti di colpa infondati in fatto
e eventi suggestivamente massificati configuranti i reati di disastro colposo e
di strage colposa (inesistente nel
nostro ordinamento giuridico) di grande impatto e forza evocativa.
Eventi che, nei limiti in cui siano
imputabili all’esposizione a CVM-PVC, devono essere ricollocati nel loro tempo
reale, un "quadro del passato" che ci riporta alle condizioni di lavoro incidenti sullo stato di salute
dei lavoratori che sono quelle degli anni ‘50 – ‘60 e non alla fase temporale successiva (1969-2000)
che è stata proposta all'esame dibattimentale.
Questa sfasatura temporale, secondo
il Tribunale, ha percorso tutto il processo e ne ha determinato gli esiti:
perché era reale la rappresentazione dei fatti se riferita al tempo passato e,
invece, inattuale e contraria al vero se riferita agli anni successivi.
Dunque necessaria una
contestualizzazione storica per uscire dalla confusione e dalla sovrapposizione
dei piani temporali.
Ricorda al riguardo il Tribunale che
allorquando nei primi anni ‘50 presso il petrolchimico di Porto Marghera iniziò
la produzione del cloruro di vinile e del polivinile le condizioni di lavoro erano estremamente pesanti, usuranti e
nocive e non subiranno cambiamenti fino alla fine degli anni ‘60, primi anni
'70.
Da tale periodo iniziano a
determinarsi alcuni non irrilevanti mutamenti sulla scorta delle rivendicazioni
sindacali e della presa di coscienza dei diritti degli operai.
Vi concorrono le prime conoscenze
sulla sospetta cancerogenità del c v m che gli esperimenti sugli animali
portati avanti da Maltoni evidenziano.
La definitiva conferma, nel gennaio
1974, della cancerogenità della sostanza determinerà una accelerazione degli
interventi sulle procedure di esercizio degli impianti di polimerizzazione,
sugli interventi di manutenzione e sulle modificazioni ai processi e agli
impianti.
L’incalzare del sindacato, da un
lato, la responsabile disponibilità della controparte, dall’altro, progressivamente e in uno spazio temporale
relativamente breve, ridurranno le
esposizioni drasticamente: dai 500 ppm (e oltre) degli anni '50 '60 e dai 200
ppm dei primi anni '70 si passerà
rapidamente a esposizioni di 25 ppm e già nel 1975 oscillanti tra 5 e 3 ppm,
per portarsi poi negli anni successivi al di sotto di 1 ppm.
A esposizioni, cioè, non solo
consentite sulla base del parametro di 50 ppm provvisoriamente raccomandato
nell'aprile del 1974 dal Ministero della Sanità (che è quello stesso fissato in
Germania e nel Regno Unito), ma
ampiamente al di sotto dei nuovi parametri allorquando la normativa di
recepimento della direttiva CEE fisserà con DPR n° 962 del 1982 il limite di 3
ppm come esposizione media di lungo periodo.
Nei reparti di polimerizzazione, e
quindi in quelli con i valori di esposizione più elevati e maggiormente a
rischio (CV6, CV16, CV14, CV24), nel periodo intercorrente tra l'aprile del
1974 e la fine del 1975 sono state eseguite 5351 determinazioni mediante
"pipettone": i valori medi mensili di concentrazione del c v m sono
inferiori a 50 ppm in tutti i periodi di tale arco temporale e tendono a una
progressiva diminuzione tanto da raggiungere nei primi mesi del 1975 valori
medi inferiori a 5 ppm.
I valori espressi dalle rilevazioni dei
gascromatografi entrati in funzione nel marzo 1975 vengono confrontati anche
con i campionatori personali indossati su turni di 8 ore di operai dedicati a
varie mansioni di lavoro e la correlazione è confermata : negli anni 1976-1977
il 75% delle determinazioni è risultato inferiore a 1 ppm, il 14% è risultato
compreso fra 1 e 2 ppm, il 5% compreso fra 2 e 3 ppm, il 4% compreso fra 3 e 5
ppm e lo 0, 7% superiore a 5 ppm. A novembre del 1975 i valori medi mensili
sono inferiori a 1 ppm.
Tale crollo delle esposizioni fu la
conseguenza incontestabile di modifiche delle procedure, di interventi sugli
impianti, documentata in atti e confermata dalle prove testimoniali.
Dunque, i tumori e le patologie che
il pubblico ministero ha ritenuto riferibili all'esposizione al cvm sono tutti,
pacificamente e incontrovertibilmente, come hanno detto unanimamente i
consulenti della accusa e della difesa, attribuibili alle condizioni di lavoro
e alle alte esposizioni degli anni '50 -'60.
Questa è l'epoca in cui sicuramente
si ignorava la oncogenità del c v m: in tutti paesi in cui si produceva questa
sostanza, in tutti gli stabilimenti in cui si sono compiuti i numerosi e
approfonditi studi epidemiologici, aggiornati fino ai tempi nostri, la
produzione del polivinile è avvenuta nelle medesime condizioni lavorative, con
gli stessi elevati livelli di esposizione e con gli stessi sistemi
produttivi esistenti a quell'epoca a
Marghera.
Per propria scelta quindi il
pubblico ministero non ha agito nei confronti degli amministratori e dei
dirigenti di quell'epoca perchè ha ritenuto che gli eventi verificatisi non
potevano essere loro addebitati per mancanza di colpa derivante dall'ignoranza
degli effetti oncogeni. Il pubblico ministero ha deciso invece di agire nei
confronti dei loro successori.
Per portare comunque a compimento il
suo proposito il PM è stato costretto a trasferire l’epoca della causalità a
quella della colpa: ha collocato cioè la causa degli eventi, risalenti alla
prima era degli anni '50 '60, nella
seconda era degli anni '70-2000 allorquando "si sapeva”, muovendosi su tre
direttrici.
La prima tende, nei limiti in cui è
possibile, a sovrapporre la prima e la seconda "era": la conoscenza
della oncogenità del c v m è fatta risalire al 1969, e cioè ai primi esperimenti
del dottor Viola che individua sui ratti esposti ad elevatissime concentrazioni
di c v m (30 mila ppm) dei tumori sottocutanei, ancorchè tali esperimenti siano
stati ritenuti non significativi e non estrapolabili da animale a uomo oltre
che dalla comunità scientifica anche dallo stesso autore.
Si pretende cioè dal PM un
adeguamento immediato ai risultati degli esperimenti di Viola comunicati nel
1970, ancorché lo stesso autore sia cauto sul significato degli stessi e
ritenga sia necessario un loro approfondimento.
Tutta la comunità scientifica e gli
organismi internazionali (OMS) rimasero in attesa di conferme e di sviluppi
della ricerca che era impostata su modelli sperimentali ritenuti inadeguati
(alte concentrazioni, numero e specie di animali insufficiente..) e comunque
non estrapolabili dall’animale all’uomo.
E’ stata Montedison ad assumere la
tempestiva iniziativa di uno studio
basato su modelli sperimentali che saranno unanimamente apprezzati, incaricando
sul finire del 1970 il professor Maltoni
di condurre un esperimento secondo metodologie adeguate, "meno
pionieristiche", che produrrà i primi risultati, individuando i primi
angiosarcomi al fegato in ratti, topi, criceti nel 1972, risultati che
l’oncologo comunicherà al committente nel novembre e, ancorché parziali, alla
comunità scientifica già nell’aprile dell'anno successivo.
Suggestivamente il PM insinua, ma
non prova, che le industrie sapessero e che avessero sino allora taciuto perchè
avvinte da un patto di segretezza svelato dalle prime morti per angiosarcoma
accertate su tre lavoratori della società americana Goodrich nel gennaio del
74. In proposito anche il consulente dell'accusa prof. Carnevale, che pure si è
occupato di complotti dell'industria, ha affermato che vi furono sospetti, ma
che nulla risulta in letteratura. Sotto il profilo più propriamente probatorio,
dagli atti acquisiti nel corso della rogatoria negli USA effettuata dal PM è
emerso piuttosto che le industrie europee e americane si vincolarono ad un
patto di riservatezza sino alla conclusione degli esperimenti di Maltoni con il
proposito di garantirsi da fughe di notizie e strumentalizzazioni che potessero
avvantaggiare gli uni e pregiudicare gli altri, patto che non ebbe alcuna
esecuzione per le perplessità delle industrie americane e per le notizie
preoccupanti sui primi risultati sperimentali comunicati da Maltoni.
Gli esperimenti di Viola possono
essere considerati un campanello d’allarme sulla possibile oncogenità della
sostanza e sono stati assunti da Montedison, cui si sono associate le altre
industrie europee, come un impegno ad approfondire gli studi sperimentali per
fare chiarezza e per pervenire a risultati probanti ai fini di adottare le
conseguenti decisioni.
Ma nel frattempo Montedison non
rimase inerte perché avviò commesse ed eseguì interventi già nel 1973 che
riducevano l’esposizione negli impianti di polimerizzazione (il degasaggio e lo
scarico delle autoclavi, la loro bonifica e
pulizia).
E successivamente, come si è detto,
quando la cancerogenità fu confermata sull’uomo dai casi di angiosarcoma su tre
lavoratori della industria statunitense Goodrich accertati nel gennaio 1974,
intraprese quelle modifiche agli impianti, cui si è fatto diffusamente
riferimento nella parte motiva, che ridussero drasticamente le esposizioni ai
fini di prevenire tali eventi avversi.
Nel corso degli anni successivi
l’attività di risanamento ha intrapreso ulteriori iniziative da cui è conseguito il raggiungimento di valori
ampiamente al di sotto della soglia stabilita.
Il pubblico ministero intraprende la
seconda direttrice.
Contesta l'affidabilità delle
misurazioni da parte dei gascromatografi installati nei vari reparti : ma la
comparazione con i rilevamenti effettuati con “i pipettoni” e con i campionatori
personali smentiscono tale assunto perché viene evidenziata una situazione
espositiva sostanzialmente corrispondente con diversi sistemi di rilevazione.
Anche gli accertamenti effettuati dal consulente dell’accusa privata su pretese
violazioni di procedure nell’esercizio dei gascromatografi risultano del tutto inidonei a infirmare la
validità e la correttezza del loro funzionamento e, comunque, anche a voler
ammettere l’esattezza dei rilievi, le divergenze cui si perviene sono del tutto
trascurabili.
Contesta ancor più radicalmente il
PM l’introduzione nel 1975 di un sistema di monitoraggio sequenziale
multiterminale che determinerebbe una diluizione delle concentrazioni. Ma tale
sistema è conforme alla direttiva CEE e al DPR n° 962/1982, è stato quello
prescelto anche dalla componente maggioritaria del sindacato, perché più idoneo
a rilevare l’effettiva esposizione dei lavoratori nelle zone di lavoro:
comunque dai raffronti eseguiti nei reparti CV6,CV14,CV16 è risultato che i
valori medi ottenuti dal sistema monoterminale erano sovrapponibili a quelli
acquisiti col sistema pluriterminale.
La pubblica accusa nell’intento di infirmare i valori
espositivi, ampiamente al di sotto di quelli stabiliti dalla normativa,
intraprende la terza direttrice e si attesta su una posizione di assoluta
intransigenza, negando che vi possa essere una qualsivoglia soglia di sicurezza
per gli oncogeni : "non si può escludere". Si tratta di una posizione
cautelativa condivisibile sotto l'aspetto sociale, ma la valutazione del
legislatore è stata diversa perché non ha vietato la produzione del cvm, ma ha
semplicemente imposto dei limiti di esposizione che ritiene possano essere
cautelativi rispetto al rischio oncogeno.
Gli studi tossicologici e di
oncogenesi ampiamente esaminati e discussi nella parte motiva sono convergenti,
secondo il Tribunale, nell’individuare un rapporto dose-risposta per il c v m,
individuando una dose cumulativa di non effetto a 10 ppm (Maltoni, Weinrauch,
Swemberg).
Ricorda d’altra parte il Tribunale come gli studi
epidemiologici hanno individuato un caso di angiosarcoma ad una esposizione
cumulativa per dieci anni di 288 ppm, la più bassa che ha provocato tale
tumore, equivalente a 25 - 28 ppm di esposizione cumulativa annua.
E che l'osservazione ha messo in evidenza che nessun
angiosarcoma del fegato si è manifestato in lavoratori assunti successivamente
al 1973 nella coorte europea e successivamente al 1967 nella coorte
statunitense e in quella di Porto Marghera. Ed ancora si ricorda il recente
studio (Rozman e Storm-1997-) con il quale viene confermato che " fino
all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal
registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che
erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968,
traendone la conseguenza che la riduzione dell'esposizione entro il range di
0,5- 5 ppm sembra essere stata sino ad ora adeguatamente protettiva".
Si osserva infine che il principio
di precauzione è divenuto patrimonio della cultura scientifica, industriale e
legislativa solo in tempi recenti e per quanto riguarda il CVM la sua
produzione iniziale del cvm, risalente agli anni 30, non fu sottoposta a
sperimentazioni precauzionali se non per quanto riguarda il rischio di
esplosione e fu usato negli spray e come anestetico fino ai primi anni '70.
Solo, dopo la scoperta della sua oncogenità e purtroppo delle morti causate, i
numerosi studi sperimentali e epidemiologici hanno dato delle indicazioni in base
alle quali il legislatore ha posto dei limiti cautelativi che appaiono
adeguatamente protettivi.
E se tali limiti sono rispettati (si
intende i limiti cumulativi medi e non gli sforamenti occasionali che pur
possono tutt'ora esserci per disfunzioni o per "incidenti rilevanti"
in occasione dei quali vengono tuttavie attivate le procedure di emergenza) e
se sinora non si sono verificati effetti avversi nonostante che sia trascorso
un periodo temporale che oltrepassa il periodo medio di latenza dei tumori indotti,
che è di 28-30 anni, l’ultimo fronte su cui si attesta il pubblico ministero -secondo cui
"nessuna dose è sicura"- non ha nessuna valenza giuridica e nessun
fondamento in fatto. Così come
infondata si sarebbe dimostrata la tesi dell'effetto sinergico anche a basse
dosi tra c v m, alcol ed epatiti virali b e c.
Si ricorda ancora, infatti, che in presenza di tali fattori di rischio,
che da soli possono offrire una spiegazione causale o alla patologia o alla neoplasia
(in particolare alle epatopatie, alle cirrosi, all'epatocarcinoma), il supposto
contributo del cvm non ha trovato convincenti conferme nelle ricerche
sperimentali.
Queste le ragioni in base alle quali
il tribunale ha ritenuto di non poter accogliere l'impostazione accusatoria che
contesta i reati in oggetto a 31 amministratori e dirigenti che avevano
governato e gestito il petrolchimico per trent'anni ai più alti livelli, ognuno
accusato di essere consapevole della responsabilità del predecessore, ognuno
partecipe del medesimo disegno
criminoso, tutti responsabili dei medesimi addebiti di colpa come se la
situazione all'interno dello stabilimento fosse rimasta immodificata non solo
negli ultimi trent'anni, ma fosse rimasta quella degli anni ’50-’60.
Conclude infine il Tribunale ribadendo
ancora che in questa traslazione dei piani temporali si annida il vizio
d’origine della imputazione, in un quadro del passato riportato al presente, in
una artificiosa forzatura che non consente di individuare negli imputati
condotti a giudizio i responsabili di eventi che hanno la loro causa in un'altra epoca, cui si accompagna la
rappresentazione di un quadro accusatorio che risente dell’enfasi della
formulazione “a grappolo” delle fattispecie di reato in cui è inserito un
ingiustificato accumulo di eventi.
Avverso
tale sentenza proponeva appello il P.M., nonché, ex art. 576 cpp, le costituite
Parti Civili.
In particolare,
il P.M. proponeva impugnazione e chiedeva la riforma della sentenza
relativamente alla intestazione dell’imputazione, nonché relativamente a tutti
i punti del dispositivo che fanno riferimento al primo e al secondo capo d'
imputazione e per tutte le fattispecie
di reato contestate agli imputati (fatta eccezione per quella di cui agli art.
422-449 c.p.) risultanti sia dal decreto di rinvio a giudizio, sia dalle
contestazioni ex art. 517c.p.p. di cui alle udienze dell' 8 luglio 1998 e del
13 dicembre 2000.
Il P.M. chiede,
quindi, che venga dichiarata la penale
responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati e per i periodi
di competenza rispettivamente loro contestati fin dall’udienza preliminare,
nonchè che i medesimi vengano
condannati alla pena della reclusione specificatamente per ognuno di essi
richiesta all'esito della requisitoria di primo grado.
Non viene presentato
appello relativamente al terzo capo d’accusa (parte C), perché il reato è ormai
prescritto, e in relazione all’ipotesi di reato di cui agli artt. 422-429
(rectius 449) c.p., affermandosi essere ipotesi del tutto residuale.
Sostanzialmente e
sinteticamente, i motivi che determinano l’appello per entrambi i capi d’imputazione (A e B) vengono enunciati nei
seguenti:
- omessa lettura ed
omessa considerazione di tutto il materiale probatorio fornito da Pubblico
Ministero e dalle parti civili;
- omissione dei
fatti, storici e processuali, indicati dal Pubblico Ministero e dalle parti
civili, a sostegno delle proprie rispettive richieste finali;
- travisamento dei
fatti;
- omessa
considerazione di tutti i fatti e i dati riferiti dai consulenti tecnici del
P.M. e delle parti civili;
- travisamento ed
errata interpretazione delle valutazioni di cui consulenti tecnici del P.M. e
delle parti civili.
- incompletezza e
contraddittorietà della motivazione;- omessa considerazione e omessa
applicazione di norme di legge, poste a tutela sia dei lavoratori che
dell’ambiente, norme di legge vigenti da decenni rispetto all’epoca (1974)
considerata dal Tribunale come rilevante in questo processo;
- errata
interpretazione delle norme del codice penale e delle leggi speciali penali
contestate agli imputati; errata interpretazione ed errata applicazione delle
norme processuali penali relative al rigetto di richieste istruttorie
dibattimentali sia del P.M. che delle parti civili.
Si
lamenta quindi preliminarmente la NON CORRETTA INTESTAZIONE DELLA SENTENZA e
l’ERRONEA RICOSTRUZIONE DELLE ACCUSE DEL P.M. evidenziandosi che il Tribunale
ha omesso di riportare l'integrale capo d'accusa, e in particolare, ha omesso
di riportare le contestazioni formulate ex art. 517 c.p.p. nel corso delle
udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000.
Già per tale motivo,
si chiede innanzitutto una riforma totale della sentenza di primo grado.
Quanto al merito, relativamente al primo capo
d’imputazione, esordisce il P.M. con la disamina delle ACCUSE DI CUI AGLI ARTT.
437-589-590 C.P., lamentando superficiale ed erronea valutazione da parte del
Tribunale, osservandosi che in più
punti della motivazione, ma in particolare alle pagine 462 e 463, la sentenza
riconosce per " l'arco temporale fino al 1974 "che i livelli
di esposizione al CVM per autoclavisti, insaccatori ed essiccatori erano " nettamente
superiori " ai limiti della normativa vigente, che il fenomeno di RAYNAUD
e l’acroosteolisi riscontrati e confermati anche dal Tribunale in queste
categorie di operai erano dovuti al loro lavoro, per il quale fino al 1974
" non sono state adottate le misure cautelari idonee ".
In conclusione, riconosciuto il nesso causale, il
Tribunale -a causa dell'eccessivo decorso del tempo- dichiarava la prescrizione
per le lesioni colpose in questione e, contrariamente a quanto ci si poteva e
doveva attendere, dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437
(omissione dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per
condotte tenute in un'epoca successiva al 1973 ".
Il Tribunale si sarebbe dunque dimenticato del
periodo precedente -che di dice sicuramente contestato dal Pubblico Ministero-
mentre altrettanto sicuramente, stando alle sue stesse motivazioni, il Tribunale
avrebbe dovuto dichiarare per l'articolo 437 c.p. la penale responsabilità
quanto meno degli imputati per i quali lo stesso Tribunale aveva dichiarato
la prescrizione del reato di lesioni colpose (CEFIS, BARTALINI, CALVI, GRANDI,
GATTI, D’ARMINIO MONFORTE e SEBASTIANI), anche perché l'ultimo fenomeno RAYNAUD
riconosciuto e ammesso dal Tribunale ( quello di Gabriele BORTOLOZZO) era stato
diagnosticato nel 1995 e, quindi, non era prescritto (neanche come lesione) il
2 novembre 2001 (come, peraltro, non erano prescritte le lesioni diagnosticate
dopo il 1995 per Terrin Ferruccio e per Guerrin Pietro, posizioni che il
Tribunale non ha nemmeno considerato, pur trattandosi di parti civili ancora
costituite).
Ciò
già imporrebbe la modifica della sentenza di primo grado e del dispositivo
"in parte qua". Ma comunque, secondo l’appellante, relativamente
all'accusa di cui all'art. 437 codice penale, nella sentenza si rinvengono
ulteriori e più ampi vizi, in fatto e in diritto, per i motivi che seguono, che
hanno attinenza sia alla interpretazione giuridica delle norme, sia alle
contestazioni specifiche risultanti dal primo capo d'imputazione, sia agli
studi e alle conoscenze storiche sulla tossicità e sulla cancerogenicità del
CVM, sia alle proprietà nocive, tossiche e cancerogene del CVM e del PVC.
Si sostiene, in particolare, che il
Tribunale ha gravemente errato nella scelta di affidarsi totalmente ed
esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati,
omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale probatorio acquisito,
che riguarda:
- le conoscenze storiche sulla tossicità del CVM (che
si dice risalire alla fine degli anni quaranta e non ai primi anni settanta);
- i particolari organi colpiti dal
CVM .
Si aggiunge
altresì che, altrettanto inspiegabilmente,
il Tribunale ha negato l'esistenza e comunque l'applicazione di norme a
tutela della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970,
norme sicuramente vigenti quanto meno dall’epoca dei D.P.R. nr. 547/55 e nr.
303/56.
Quanto
all’INTERPRETAZIONE GIURIDICA DELL’ART. 437 CP, per l’appellante fulcro e punto
centrale di riferimento relativamente al primo capo d’imputazione,
considerato come la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e
conseguono le singole imputazioni, premesso che il Tribunale avrebbe dedicato a
tale norma poche, carenti, contraddittorie e generiche osservazioni liquidando
come insussistente il fatto ascritto agli imputati, si precisa che nel presente
procedimento tutte le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi
dell’art. 437 c.p. sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione
penale, alle singole e specifiche violazioni delle disposizioni speciali in
materia antinfortunistica e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art.
2087 c.c., norma di chiusura: sono riferite cioè a tutte le disposizioni
normative espressamente previste nello stesso capo d’imputazione.
E
rispetto alle condotte individuate sarebbero stati esattamente individuati e provati
i fatti specifici ascritti agli imputati, affermandosi che questi fatti hanno
costituito violazione dei doveri di sicurezza in materia di lavoro; commessi
consapevolmente, sono fatti la cui volontarietà ha concretizzato il reato
dell’art. 437 1° comma c.p. determinando, nella verificazione dei
molteplici eventi costituenti malattie e il disastro colposo, l’aggravamento
della richiesta della pena come previsto dal 2° comma dello stesso articolo.
Si
sostiene preliminarmente in ordine alla natura oggettiva e soggettiva di tale
reato, che la motivazione dell’impugnata sentenza dimostra un’evidente
incongruenza che inficia già dall’inizio l’intero impianto logico su cui è
costruita. Ed infatti si fa osservare che mentre inizialmente essa nega la
configurazione del reato dal punto di vista oggettivo, soffermandosi sulla
natura e sulla nozione dei concetti di “impianti”, “apparecchi” “segnali”,
sulla locuzione “destinati a”, sull’interpretazione del termine “collocati”,
successivamente sostiene, in contraddizione con quanto poco prima affermato,
che non vi è stata alcuna consapevole volontà da parte degli imputati di
omettere quelle stesse condotte che tuttavia aveva negato essere esistenti sul
piano oggettivo (“di astenersi dal
collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di
rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi”).
Circa
l’ASSERITA INSUSSISTENZA DEL REATO EX ART. 437 C.P. SUL PIANO OGGETTIVO, ci si lamenta
che il Tribunale abbia fornito a più riprese una interpretazione capziosamente
rigorosissima - quanto assolutamente priva di seguito sia in dottrina che in
giurisprudenza - della previsione normativa e della sua applicabilità in
concreto. Interpretazione che, se si dovesse seguire la tesi del Collegio
giudicante, verrebbe a vanificare l’applicabilità della fattispecie astratta
ogni qual volta un Giudice si dovesse trovare di fronte all’imputazione per il
reato di cui all’art. 437 c.p.. Infatti esordisce il Collegio con
l’affermazione “…la previsione normativa di cui all’art. 437 c.p.……è
caratterizzata sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi
particolare serietà” (pag. 459).
E
facendo tesoro di quest’ultima gratuita asserzione, la sentenza nega la
sussistenza del reato sotto l’aspetto oggettivo sostenendo con puntiglioso
vigore che le condotte omissive attribuite agli imputati sarebbero estranee
alle nozioni espresse dalla norma
penale in questione. Si osserva invece
da parte dell’appellante che l’art. 437 c.p.
trova il suo primo, insopprimibile e fondamentale punto di riferimento
negli articoli 32 1° comma e 41 della Costituzione che sanciscono il diritto
della salute dell’individuo anchge nelle nelle sue formazioni collettive.
Dunque è dalla Carta costituzionale che derivano,
concretizzandone i principi fondamentali, le disposizioni della normativa
speciale che in questo processo sono
state enucleate e circoscritte,
quanto al primo capo d’imputazione, nei D.P.R. 547/55, 303/56, nonché nell’art. 2087 c.c., oltre
che nelle norme derivanti dai
contratti lavoro.
Tali
norme speciali, che il Tribunale avrebbe decisamente ignorato, contengono tutte
secondo l’appellante che così vuole risalire alla ratio dell’art. 437 cp, una
disposizione di carattere generale, dalla quale non si può prescindere, che
costituisce il “cappello” al rispettivo testo legislativo.Si tratta dell’art. 4 del D.P.R. 547/55 e
dell’art. 4 del D.P.R. 303/56, norme
che sono l’una lo specchio dell’altra: esse contengono il principio
imprescindibile che impone l’obbligo per il datore di lavoro di attuare ogni
misura diretta ad evitare che la sicurezza e la salute del prestatore di lavoro
possano essere poste in pericolo e/o danneggiate. E’ il bene dell’integrità dei
lavoratori l’oggetto centrale della tutela posta dall’art. 437 c.p., che
interviene con al sanzione ogni qualvolta vi sia una volontaria violazione
degli obblighi imposti a tali fini dalle norme speciali.
La
norma di cui all’art. 437 c.p. è dunque diretta ad anticipare – reprimendo
la condotta omissiva (o commissiva) – la soglia di tutela rispetto all’effettiva lesione del bene protetto,
imponendo che vengano adottate tutte le misure cautelari per evitare
ingiustificati innalzamenti del rischio nell’esercizio di qualunque attività
economica.
Il
Tribunale invece, ne ha inopinatamente, ingiustificatamente, illegittimamente e
arbitrariamente voluto restringere l’operatività, procedendo, sulla base di una
elencazione fondata sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma
penale, ad escludere dal novero della previsione normativa dell’art. 437 c.p.,
e quindi dalla possibilità di attribuzione del reato agli imputati sotto il
profilo oggettivo:
a)tutti
quegli strumenti o dispositivi (non collocati per effetto delle condotte
omissive addebitate dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non
rientranti nel concetto di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel
concetto di apparecchi (“caratterizzati dalla complessità tecnica”)(pag. 460);
b)tutte
quelle condotte omissive contestate che ritiene o generiche per mancata
individuazione dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non
correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi antinfortunistici (pag.
460-461);
c)tutte
quelle condotte omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità
operative” e non ad attività di natura preventiva ed antinfortunistica (pag.
461).
In realtà,
secondo l’appellante, la stessa dottrina più accreditata in materia e la
costante giurisprudenza sostengono unanimemente il principio di carattere
generale secondo cui l’interprete non è autorizzato, sia dal dato testuale
della norma sia dalla ratio complessiva, ad introdurre elementi restrittivi
tali da costituire insidiosi svuotamenti della norma. Richiedendosi solo,
secondo citati pronunciati della Suprema Corte, “che il comportamento
dell’agente si concreti nella omissione, rimozione o danneggiamento di
apparecchiature che risultino necessarie per la prevenzione di infortuni in
relazione ad una collettività lavorativa la cui entità pone essa stessa le
condizioni della diffusibilità del pericolo” (Cass. sez. I 2.3.1983).
Quanto dunque al
primo assunto (a), il Tribunale, per negare l’attribuibilità delle condotte specificamente
contestate agli imputati, concentra l’attenzione sulla nozione “destinati a”,
senza avvedersi che proprio quelle condotte che sono state contestate in questo
giudizio hanno tutte un comune denominatore, costituito dall’essere state
dirette a vanificare la sicurezza dei prestatori di lavoro nell’esercizio
dell’attività in termini prevenzionistici e antinfortunistici. “Destinati a” dice l’art. 437 c.p., e
dunque deve trattarsi di un qualunque congegno di qualsiasi rilievo a funzione
prevenzionistica. Dunque anche i mezzi di protezione personale che
costituiscono fondamentale strumento per il corretto esercizio di una doverosa
attività di cautela e di prevenzione ai fini della sicrezza sul luogo di
lavoro, cautela che nello stabilimento Petrolchimico non sarebbe stata
adottata, per come riconosciuto dallo stesso Tribunale almeno fino al 1974.
Quanto al
secondo assunto (b), gli addebiti liquidati dal Collegio come “generici” o “non
correlabili” (le condotte omissive relative al blocco degli impianti, al
risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli elementi degli impianti più
soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a tutelare la salute dei
lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione
dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in ordine alla
sostituzione degli organi di tenuta) non solo trovano nell’istruttoria
dibattimentale svolta la loro concretezza in situazioni di luogo e di tempo, ma
è la loro stessa individuazione nell’imputazione a trovare corrispondenza nella
fattispecie astratta descritta dalle norme speciali. Gli addebiti mossi
sarebbero infatti immediatamente riconducibili alle disposizioni che nel capo
d’imputazione identificano la condotta tenuta (ovvero, non tenuta) dagli imputati:
in primis alle norme più sopra citate (gli articoli 4 dei due D.P.R. in tema di
sicurezza e salute) che fanno parte del corpo normativo della legislazione
speciale, costituendone i principi introduttivi che fondano le condotte
doverose; a seguire le singole disposizioni citate; in chiusura l’art. 2087
c.c.
Nello specifico, il P.M., lamenta poi che il Tribunale nell’attribuire al CVM
solo l'angiosarcoma epatico, il fenomeno di RAYNAUD, l’acroosteolisi e pochi
rari casi di epatopatia, escludendo qualsiasi altra patologia, in maniera
estremamente contraddittoria, ha chiuso completamente gli occhi di fronte ad un
dato storico e processuale
incontestabile e cioè che il CVM sia, innanzi tutto, un epatotossico
generale ed ha di fatto negato l'esistenza di studi e di pronunciamenti anche
di organismi internazionali sulla natura tossica del CVM e del PVC per il
fegato e per i polmoni: natura
tossica innanzitutto e poi anche cancerogena.
L’impostazione del Tribunale sarebbe sbagliata in
fatto, in quanto tutti i maggiori organismi e organizzazioni internazionali e
nazionali (quelli di indiscutibile serietà e prestigio) hanno confermato tale
natura tossica del CVM-PVC, ed hanno ritenuto pure la cancerogenicità
del CVM. E persino gli organismi
d’origine industriale, statunitense ed europea, non hanno avuto mai dubbi sulla
tossicità del CVM e poi sulla sua cancerogenicità tanto da descriverlo come un
cancerogeno totipotente, fin dal 1974.
La natura tossica del CVM-PVC risulterebbe d’altra
parte pure da specifiche schede cosiddette di sicurezza di origine aziendale,
che costituiscono una sorta di confessione extra-giudiziale, e consapevolezza
sulla tossicità da parte degli imputati emergerebbe altresì dai loro
acquisiti interrogatori in sede di
indagine preliminare, e dalle indicazioni sul punto dello stesso sanitario
Montedison di Porto Marghera, dottor
Salvatore Giudice, che in un documento
agli atti del 1971 espressamente parlava delle “tecnopatie” causate dal
CVM e che in aula ha detto
tranquillamente che, giunto a Porto Marghera, nel 1969, sapeva già che il CVM
era un epatotossico.
Procede poi il P.M., con citazione di specifici brani della
sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi della situazione degli
impianti CVM-PVC di Porto Marghera che ritiene vetusti, obsoleti e inadeguati
alle sostanze tossiche e cancerogene trattate, e sostenendo che la sentenza
assolutoria del Tribunale deve essere radicalmente riformata per i seguenti
principali motivi:
- omessa valutazione di fatti e dati offerti all’esame del
Tribunale, così come emergenti dalla documentazione acquisita presso Enichem e
Montedison;
- omessa valutazione degli stessi dati, così come esposti e
provati dalla disamina dei consulenti del P.M. e delle parti civili;
- incomprensibile e comunque immotivato appiattimento sulle
posizioni dei consulenti tecnici di Enichem e Montedison, dei quali sono
riportati pari pari in sentenza interi brani tratti dalle loro relazione
tecniche, senza alcuna considerazione, né alcuna critica (nemmeno negativa) di
quanto sostenuto e provato in senso contrario dal P.M., dalle parti civili e
dai loro consulenti;
- deformazione e travisamento delle dichiarazioni dei
testimoni assunti in dibattimento;
utilizzazione di dati di fatto completamente sbagliati, ma
tratti pari pari dalle memorie della difesa.
Lamenta il P.M. che l’assunto indimostrato da cui
parte (e a cui, poi, arriva inevitabilmente) il Tribunale è quello relativo al
fatto che MONTEDISON, quando nel 1974 sarebbe divenuta consapevole del pericolo
cancerogeno costituito dal CVM, avrebbe fatto immediatamente di tutto per
garantire la sicurezza degli operai. Una tale asserzione del Tribunale è stata
fatta in relazione sia all'accusa di cui all'art. 437 c.p., sia a quella di
disastro innominato colposo, sia a quella di lesioni e morti colpose. E però
una tale asserzione sarebbe profondamente errata per tutta una serie di
considerazioni, soprattutto di fatto.
Primo e gravissimo errore del Tribunale sarebbe stato
quello di “cancellare” dal suo esame e dalle sue valutazioni il fattore
“tossicità” e trattare solo quello relativo alla cancerogenicità.
Infatti, la
tossicità del CVM è emersa fin dagli anni cinquanta e da quell’epoca gli
impianti dovevano adeguarsi alla normativa e tutelare la salute dei lavoratori.
A ciò va aggiunto il fatto che anche il rischio cancerogeno è emerso
durante gli anni sessanta, comunque ben prima del 1974 e quantomeno dal 1969
con gli studi del prof. Viola.
L’assoluzione dalle contravvenzioni relative alla materia,
pertanto, non solo è ingiusta ma è immotivata, tenuto conto della loro
contestata permanenza alla data della contestazione suppletiva e del pacifico
mantenimento degli impianti di monitoraggio nelle condizioni e con le stesse
modalità di funzionamento documentate sino al 1995 dalla documentazione
esaminata dal C.T. prof. Nardelli.
Procede poi il P.M., con la consueta tecnica di citazione di
specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi
delle
singole condotte omissive contestate agli imputati, erroneamente, si
sostiene, non ritenute dal Tribunale.
Si precisa in particolare l’indicazione e l’illustrazione
dei fatti che concretamente si contestano agli imputati, ognuno per il periodo
di rispettiva competenza, sostenendosi che:
1.VENIVA OMESSO
QUALSIASI INTERVENTO DI BLOCCO (definitivo o anche solo temporaneo) DEGLI IMPIANTI, in particolare di quelli più
obsoleti ed irrecuperabili, ad esempio il CV6, come evidenziato e richiesto
dalle piattaforme e dai documenti sindacali (del 1975 e del 1977), nonché dalla
mozione n. 4 presentata al Consiglio regionale Veneto il 4 agosto del 1975,
mozione cui il Presidente della Montedison Eugenio CEFIS rispondeva in data 19
agosto 1975.
2. VENIVA OMESSO DI
PREDISPORRE E COLLOCARE (o far collocare) SISTEMI E APPARECCHI DI SICUREZZA
DESTINATI ED IDONEI A PREVENIRE LA INSORGENZA NEI DIPENDENTI DELLO STABILIMENTO
PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA, NONCHE’
NEI DIPENDENTI DELLE VARIE COOPERATIVE D’APPALTO, DI TUMORI E MALATTIE (ANCHE
GRAVISSIME), a causa del contatto con il CVM-PVC (e relativi
componenti/additivi di polimerizzazione e lavorazione).
3. VENIVA OMESSO IL
SEGNALATO RICHIESTO “INTERVENTO GLOBALE DI RISANAMENTO DEGLI IMPIANTI DA UN
LATO E MISURE CHE GARANTISCANO PER IL FUTURO IL MONITORAGGIO CONTINUO
DELL’AMBIENTE E DEGLI OPERAI”(relazione FULC e Università di Padova del
12.3.1977)
4. ANCORA PIU’ IN
PARTICOLARE, LA COLPA (progressiva nel tempo) E’ CONSISTITA IN IMPRUDENZA,
NEGLIGENZA, IMPERIZIA ED ESPRESSA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 2087 C.C. – ARTT 236
CO.1 E 4, 244 LETT. A, 246, 354 CO. 1 E 2, 374, 375, 377, 383, 387, 389, 391
D.P.R. 27 APRILE 1955 N. 547 – ARTT. 3, 4, 17, 19, 20,21, 25, 58, 59 DEL D.P.R.
19 MARZO 1956 N. 303, PER NON AVER – PUR IN PRESENZA DELLE CONOSCENZE
MEDICHE E SCIENTIFICHE DI CUI SOPRA – ADOTTATO NELL’ESERCIZIO DELL’IMPRESA
TUTTE E IMMEDIATAMENTE LE MISURE NECESSARIE PER LA TUTELA DELLA SALUTE DEI
LAVORATORI.
5. PER AVER INSERITO
(o fatto inserire) NEI PROGRAMMI E NEI BUDGETS ANNUALI (o poliennali) DI
INVESTIMENTO E DI MANUTENZIONE CAPITOLI DI SPESA RELATIVI, IN MANIERA
SPECIFICA, AGLI IMPIANTI DEL CVM-PVC, DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLA
NECESSITA’ DI ELIMINARE TOTALMENTE ED IMMEDIATAMENTE LE FUGHE DI GAS CVM, DI
1,2 DICLOROETANO E LE LORO IMPUREZZE DI REAZIONE NELL’AMBIENTE DI LAVORO
(reparti) E NELL’AMBIENTE ESTERNO (a partire, in particolare, dal programma di
investimenti 1973-75, datato novembre 1973, acquisito c/o la Prefettura di
Venezia).
6. PER NON AVER
CURATO CHE I LAVORATORI USASSERO TUTTI I MEZZI NECESSARI DI PROTEZIONE
INDIVIDUALE (in particolare quelli addetti alla pulizia delle autoclavi, dei
serbatoi di CVM, slurry, cicloesanone, delle colonne di strippaggio, degli
essicatori e filtri, dei gasometri del CVM di recupero, nonché all’essiccamento
e all’insacco) E GLI APPARECCHI RESPIRATORI IDONEI AD EVITARE L’ASPIRAZIONE DEI
GAS.
7. PER NON AVER
PREDISPOSTO MISURE DI SICUREZZA PER TUTTE LE FASI DEL CICLO PRODUTTIVO
(comprese quelle di essicamento, stoccaggio, immagazzinamento, trasporto,
carico, insaccamento, ecc.) E PER TUTTI GLI AMBIENTI DI LAVORO, COMPRESO IL
LABORATORIO.
8. PER NON AVER
SEPARATO LE LAVORAZIONI INSALUBRI, PONENDO IN PARTICOLARE ALL’ESTERNO DEI
LOCALI LE PARTI DEGLI IMPIANTI POTENZIALMENTE SOGGETTE A PERDITE ANCHE
STRAORDINARIE DEI GAS.
9. PER NON AVER
DISPOSTO (o almeno richiesto) LO SPOSTAMENTO DAGLI AMBIENTI A RISCHIO CVM DEI
LAVORATORI DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE, il cui spostamento era stato
indicato come inevitabile nella relazione del marzo 1977 dell’Istituto di
Medicina del Lavoro dell’Università di Padova.
10. PER NON AVER
REAGITO IN ALCUNA MANIERA O COMUNQUE IN MANIERA INSUFFICIENTE, ALLE
SEGNALAZIONI CONTENUTE IN DETTA RELAZIONE DEL MARZO 1977, in cui si parlava di
“situazione sanitaria complessiva grave e tale da richiedere un intervento
globale di risanamento degli impianti da un lato e misure che garantiscano per
il futuro il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai”.
11. PER AVER CREATO,
ORGANIZZATO E MANTENUTO UN’INFERMERIA, UNA STRUTTURA SANITARIA E UN SERVIZIO
MEDICO-SANITARIO ALL’INTERNO DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON
E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLE
NECESSITA’ DI PREVENZIONE E DI CONTROLLO DELLA SITUAZIONE SANITARIA GENERALE E
PARTICOLARE DELLE MIGLIAIA DI DIPENDENTI DELL’INTERO STABILIMENTO PETROLCHIMICO
e, in particolare, delle varie centinaia di dipendenti addetti alla lavorazione
e trattazione in qualsiasi maniera del CVM-PVC, nonché dei dipendenti delle
società cooperative che lavoravano in appalto all’interno dello stabilimento,
entrando in contatto con il CVM-PVC.
12. PER NON AVER
FORNITO INFORMAZIONI DETTAGLIATE E TEMPESTIVE AI PROPRI DIPENDENTI DI PORTO
MARGHERA E AI DIPENDENTI DELLE DITTE CHE LAVORAVANO IN APPALTO IN ORDINE ALLA
NOCIVITA’ E PERICOLOSITA’ DEL CVM-PVC (fin dal 1970) E DEL DICLOROETANO (fin
dal 1977), ALLA REALTA’ IMPIANTISTICA E ALLE QUANTITA’DI EMISSIONE IN ARIA (sia
all’interno che all’esterno dei singoli reparti), SE NON A SEGUITO DI PRESSANTI
RICHIESTE SINDACALI (reiterate in particolare fino al 1977 e al 1980) generate
dalle conoscenze acquisite “aliunde” dai lavoratori e dai loro rappresentanti
di fabbrica e sindacali.
13. PER NON AVER
MUNITO DI CAPPE DI ASPIRAZIONE E DI SISTEMI DI CAPTAZIONE DEGLI INQUINANTI
IDONEI I LUOGHI IN CUI VENIVANO EFFETTUATE OPERAZIONI CHE PER MODALITA’ DI
ESECUZIONE ESPONEVANO GLI OPERAI ADDETTI AD INALAZIONE DEI VAPORI, DI GAS E
DELLE POLVERI SUINDICATI (tutte le fasi di lavorazione del PVC, tra cui le fasi
di prelievo del lattice, pesatura e successiva analisi fisica, pulizia dei
filtri, insaccamento del polivinilcloruro.
14. PER NON AVER
REALIZZATO SUFFICIENTI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE E MANUTENZIONE DEGLI
ELEMENTI DEGLI IMPIANTI PIU’ SOGGETTI A DETERIORAMENTO E DEI QUALI ANDAVA
GARANTITA LA PERFETTA TENUTA, ONDE EVITARE IL RISCHIO DI DISPERSIONE E FUGHE DI
GAS IN AREE DI LAVORO (quali valvole, flange, premistoppa e compressori CVM.
15. PER NON AVER
TEMPESTIVAMENTE INSTALLATO GASCROMATOGRAFI O ALTRI STRUMENTI DI RILEVAZIONE IN
CONTINUO, PREDISPOSTI ANCHE PER SEGNALARE IMMEDIATAMENTE IN TUTTI I REPARTI LE
FUGHE (ordinarie e straordinarie) DI GAS CVM (quantomeno dal 1972) E DI
DICLOROETANO ( quantomeno dal 1978) NELL’ARIA DEI LUOGHI E DEI SINGOLI POSTI DI
LAVORO.
16. PER AVER
COMUNQUE INSTALLATO NEL 1975 E SUCCESSIVAMENTE CONTINUATO AD UTILIZZARE
GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO DEL TUTTO INIDONEI A GARANTIRE LA
TEMPESTIVA RILEVAZIONE DELLE FUGHE, L’ESATTA INDIVIDUAZIONE DEL PUNTO DI FUGA,
NONCHE’ LA CONCENTRAZIONE DEL CVM NEI SINGOLI POSTI DI LAVORO, GASCROMATOGRAFI
E RETI DI RILEVAMENTO PER DI PIÙ MALFUNZIONANTI E COMUNQUE IN CONTRASTO PURE
CON LE PREVISIONI DELLA NORMATIVA C.E.E. – DIRETTIVA N. 78/610 – E CON IL
D.P.R. 10 SETTEMBRE 1982 N. 962, NONCHE’ INSUFFICIENTI NUMERICAMENTE, con particolare
riferimento al fatto che presso il reparto CV24, quantomeno fino al 1989, era
necessario, ad esempio, interrompere il monitoraggio del CVM sull’intera linea
in occasione delle ispezioni delle autoclavi (sprovviste di sistemi di
monitoraggio autonomo) ad opera del personale addetto al controllo ed alla
pulizia, ad ogni ciclo e quindi dopo ogni bonifica.
Ripropone poi il
P.M. l’elenco dei lavoratori del Petrolchimico più a rischio, e cioè quelli
addetti alle autoclavi, all’insacco e all’essiccamento del PVC, colpiti da
diversificate patologie. Elenchi che durante la requisitoria erano stati
proiettati sullo schermo e che,
secondo l’appellante, anche visivamente venivano a confermare questa sorta di
singolare epidemia che aveva colpito (e continua a colpire) gli operai in
questione.
Ci si lamenta al riguardo che il Tribunale non ha
considerato minimamente questi elenchi nel loro insieme, che specificavano –
tra l’altro – anche i casi dei lavoratori assunti dopo il 1970. Pur avendo dovuto
riconoscere l’esistenza di tali particolari mansioni a rischio, il Tribunale
non ne avrebbe tratto – illogicamente e immotivamente – le conseguenze, non
avendo valutando la massa imponente di dati storici ed oggettivi attestanti il
pericolo corso da questi e da altri operai, pericoloso concretizzatosi con
numerosi casi di malattia e di morte.
A sostegno di tale motivo l’appellante richiama
l’argomento relativo alle mansioni degli autoclavisti e alle asserite modifiche
portate alle autoclavi che sarebbe uno dei più emblematici e rappresentativi
dell’intera sentenza impugnata in tema di mistificazione della realtà
processuale. Sostiene infatti il P.M. che in questa parte della motivazione,
più che in ogni altra, si rinviene
una sbalorditiva concentrazione di errori, di contraddizioni in punto di fatto,
di omissioni evidenti, di vere e proprie distorsioni ed alterazioni della
realtà processuale emersa nel corso
del dibattimento di primo grado. Al riguardo si evidenzia che in questa, come
nelle altre parti della sentenza relative alle modifiche e agli interventi
eseguiti sugli impianti dello stabilimento Petrolchimico, la motivazione
accoglie in toto, considerandole come valido ed unico elemento di prova, le
risultanze documentali provenienti dall’azienda. In particolare le già note
“commesse”. Si ignorerebbero invece le prove documentali e testimoniali fornite
dall’accusa, distorcendone altre per renderle favorevoli alla tesi sostenuta.
Secondo il P.M., così facendo, la sentenza si
concentra sui dati forniti dalle “commesse” discusse dai CC.TT delle aziende,
elevandoli ad elementi certi di una asserita ma non dimostrata modifica delle
procedure e delle apparecchiature. E però, nel far questo, da un lato la
sentenza cade in continua contraddizione persino con se stessa , dall’altro
costruisce l’intero impianto logico su di un errore di fondo insuperabile:
errore di fondo che consiste nel ritenere eseguiti gli interventi su impianti e
procedure solo perché progettati dalle singole commesse.
Ma gli interventi o non sono mai stati realizzati o,
anche se avviati, sono stati successivamente interrotti e abbandonati per
l’inefficacia delle strumentazioni acquistate a seguito delle commesse.
Commesse, dunque, che, elevate ad unico elemento probatorio dal Giudice di
primo grado, dimostrano in pieno la totale fallacia e inaffidabilità.
Si citano dunque nell’atto di appello i passi della
sentenza che trattano l’argomento con evidenziazione degli asseriti errori e
contraddizioni e indicazione delle fonti probatorie che deporrebbero il
contrario, rimarcando come il Tribunale omette ogni citazione testimoniale
quando si tratta di deposizioni che rilevano l’inefficienza degli impianti;
quando sceglie un teste estrapola solo le dichiarazioni concordanti con la tesi
accolta dell’efficienza degli impianti.
Dunque secondo il P.M., i discordanti riferimenti
testimoniali citati, le omissioni evidenti e le contraddizioni contenute nella
stessa motivazione dimostrano ancora una volta l’erroneità della sentenza
impugnata, che deve essere quindi radicalmente riformata.
Per analoghi motivi ritiene il P.M. che la sentenza
di primo grado debba essere totalmente riformata anche in relazione alle
posizioni riguardanti tutti i lavoratori addetti all’insacco.
Al riguardo ripercorre le quattro principali contestazioni d’accusa mosse agli imputati che
fanno riferimento alla categoria degli operai addetti all’insacco.
1. Con particolare riferimento agli insaccatori soci delle
cooperative in appalto, osserva l’appellante come il Tribunale, dopo aver
escluso la sussistenza di una relazione causale (o concausale) tra le
patologie respiratorie che hanno colpito tale categoria di lavoratori e
l’ esposizione dei lavoratori alla
polvere di PVC, riconosce comunque che
vi è stato, da parte di Montedison, l’omissione del controllo dell’uso della maschera antipolvere nei confronti dei
soci - lavoratori delle cooperative. In tal modo il Tribunale, fra le condotte contestate nel capo di
imputazione, ritiene fondata tale specifica omissione che trova espresso riferimento normativo nell’obbligo del datore di lavoro “di disporre ed esigere che i lavoratori
usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione …”, obbligo previsto dall’ art. 4 lett. c del DPR 27 aprile 1955
n. 547 e art 4 DPR 303/56 che va messo in relazione, per quanto concerne il
lavoro di insacco che espone il lavoratore al contatto con le polveri, con
l’art. 387 del medesimo DPR 547 che fa obbligo “l’uso di maschere respiratorie
a lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas,
polveri o fumi nocivi”.
E così il Tribunale, mentre:
- da un lato riconosce
l’applicabilità degli obblighi di cui alla citata normativa
antinfortunistica in capo ai dirigenti di Montedison e a tutela dei soci lavoratori delle cooperative – in
evidente applicazione degli artt. 3, 2
comma letta a) del DPR 547 e art. 3 DPR 303/56, nonché del principio della cosiddetta “ingerenza” della ditta
committente, che determina la responsabilità della ditta committente – Montedison - per eventi di malattia o morte che
colpiscono i soci delle cooperative in appalto;- e, conseguentemente, riconosce che questa categoria di lavoratori (ma non diversamente si può desumere anche per gli insaccatori
dipendenti di Montedison) era soggetta a “specifici rischi di inalazioni
pericolose” e che la polvere di PVC era a tutti gli effetti
“nociva;
si pone poi in evidente contrasto – con conseguente vizio
della sentenza sotto tale profilo – con
quanto dallo stesso assunto in altre parti della decisione laddove ritiene la “non pericolosità” della polvere di PVC e l’ insussistenza di
situazione di alta polverosità degli ambienti di insacco (che, se
insussistente, avrebbe esentato i
lavoratori dall’obbligo dell’uso delle maschere) ed anzi assume che
Montedison ed Enichem avrebbero predisposto tutti gli accorgimenti e gli interventi idonei ad evitarla.
Tanto, nonché l’omessa valutazione delle ulteriori
specifiche contestazioni rende
viziata, secondo l’appellante, la decisione. Ritenuta, infatti, la nocività del
PVC – sia in quanto “polvere” in sé
(cfr art. 21, 1 comma, DPR303/56) sia in quanto polvere “pericolosa” (cfr il
riferimento, seppur implicito, all’art. 387 ) - non si poteva non rilevare la palese violazione degli
altri obblighi contestati nel
capo di imputazione.
2. Palese poi, secondo l’appellante, la
violazione dell’obbligo di “rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici
cui erano esposti…” (cfr art. 4 lett b DPR 547/55e art. 4 e 5 DPR 303/56), violazione contestata
all’ultima riga di pag. 6 del capo di imputazione (“per non aver fornito informazioni dettagliate … ai dipendenti delle
ditte..”).
Al riguardo sostiene l’appellante che intanto sicuramente
esistente, in forza delle evidenze processuali fondate sulle relazioni dei
consulenti tecnici che si richiamano in ordine al punto specifico, era il
rischio, quantomeno della nocività del PVC per l’apparato respiratorio dei
lavoratori addetti all’insacco, e sicura la sua conoscenza in capo ai dirigenti
Montedison che emergerebbe dai seguenti elementi probatori:
- dalla doverosa
conoscenza della normativa vigente (il DPR 303/56, art 21 , impone, ad
esempio, al datore di lavoro di evitare
il contatto e/o di ridurre la
dispersione delle “poveri in genere” mentre
l’articolo 33 e la tabella richiamata prevede l’obbligo di effettuare
visite trimestrali nei confronti di lavoratori addetti all’impiego del cloro e
dei suoi composti);
- dalla conoscenza certa sin dagli anni cinquanta e sessanta
che all’interno del polimero, in particolare nel PVC in sospensione, erano inglobate molecole di CVM, come è
confermato anche indirettamente dal fatto che l’impresa avrebbe negli anni ‘76
e ‘77, a suo dire, introdotto il sistema di strippaggio proprio per prelevare
queste molecole di CVM;
- dai rilievi svolti dai singoli operatori che accertavano,
contrariamente alle rilevazioni
dell’impresa, che la presenza di CVM nei locali addetti all’insacco era particolarmente consistente;
- dalla scheda della Montedipe numero 336 del 05/07/85 in
cui il PVC viene definito “tossico acuto per inalazione” e che - si dice-
“induce alterazione al sistema respiratorio”;
- dalla consegna ai lavoratori (solo quelli dipendenti) del
dentifricio NOVO SATURNO da usare prima dei pasti, per evitare l’ingestione
delle polveri e dei vapori depositati nel cavo orale da parte dei lavoratori
del CVM-PVC;
dal fatto che nel 1967 vennero pubblicati, come detto, sulla
Tribuna del CEBEDEAU (Liegi) i risultati delle indagini sui granuli del PVC
svolte da Montedison.
Di converso la contestata violazione dell’obbligo di
informazione sarebbe invece dimostrata, dai seguenti elementi:
- dai contratti di appalto
con le varie Cooperative, dove non vi è cenno alcuno al rischio
specifico per i lavoratori derivante dalla polvere di PVC e dal CVM nella
stessa contenuto come monomero residuo;
- dalla lettera del
maggio del 1984 con la quale il dott. Clini
chiedeva a Montedison, Montepolimeri, a Riveda e alla Cooperativa
Facchini Tessera, i motivi per i quali non sono stati comunicati al suo
servizio i nominativi dei lavoratori delle cooperative per la tutela sanitaria;
- dalle
testimonianza dei testi Barina,
insaccatore dal ‘76 all’80, che ricorda
che ai corsi per la prevenzione non vi erano i lavoratori delle
cooperative; Battaggia che esclude nel modo assoluto di essere stato informato
della pericolosità del PVC e del CVM in
esso contenuto come monomero residuo; Pezzato, che ha lavorato dall’80 all’86, ma
non ricorda che gli sia stata mai comunicata tale pericolosità; De Catto che
non è mai stato avvertito da nessuno, ma lo è venuto a sapere indirettamente dai dipendenti; Giacomello,
che dichiara pure lui saperlo soltanto dagli anni 80; ed anche il teste della
difesa Gasparini, che è il principale teste, dice che i capi delle cooperative
erano messi a conoscenza della pericolosità del CVM, ma non del PVC.
Connesso al predetto obbligo sarebbe poi quello del
committente di accertarsi che l’appaltatore a cui affida l’opera sia soggetto non
soltanto munito di titoli di idoneità previsti dalla legge, ma anche della
capacità tecnica e professionale in relazione al tipo di lavoro che gli è stato
affidato. E anche in riferimento a questo obbligo vi è, secondo l’appellante, il fondato dubbio che, nel caso in
esame, vi sia stata una violazione di legge.
3. Risulta,
ancora, provata la violazione
dell’obbligo del datore di lavoro
e committente dei lavori in appalto di
“adottare intereventi volti ad impedire o a ridurre lo sviluppo o la diffusione
della polvere” (art. 21 comma 1 DPR
303/56 ) e di “ove non sia possibile
sostituire il materiale di lavorazione polveroso, di adottare procedimenti
lavorativi in apparecchi chiusi muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta
delle polveri…” “…vicino al luogo di
lavoro …”, ..”comunque impedendo alle polveri di rientrare nell’ambiente di
lavoro “ (art 21 comma 3,4,5 e 7 DPR), norme richiamate nel capo d’imputazione
con specifica contestazione.
Al riguardo, ricordate le tecniche di produzione del PVC (con polimerizzazione del CVM in
“emulsione”, adottata presso l’impianto CV6, e con polimerizzazione in
“sospensione” adottata presso gli impianti CV14, CV16, CV24/CV25), contesta il
P.M. l’assunto del Tribunale secondo il quale la polverosità dell’ambiente
conseguente alla polimerizzazione in sospensione sarebbe migliorata dopo i
primi anni settanta, affermandosi invece che tale miglioramento e adeguamento
impiantistico sarebbe sconfessato da ben 7 testi, e perché gli interventi
tecnici realizzati sarebbero comunque o tardivi o inutili, onde la valutazione
del Tribunale sarebbe oltre che erronea frutto di travisamento dei fatti
emergenti dalle dichiarazioni testimoniali, e ricorda l’appellante le
testimonianze non considerate dal Tribunale e quelle asseritamente travisate.
E così fondata sarebbe
l’accusa di “aver omesso le misure quali …. il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai…” e “di non aver tempestivamente installati
gascromatografi o altri strumenti di rilevazione in continuo” negli ambienti di
insacco.
Sarebbe infatti dato indiscutibile che gli ambienti dove
veniva svolto l’insacco non sono mai
stati ricompresi tra le “zone
sorvegliate”, fatto confermato da tutti i testi escussi, mentre sul punto nulla
dice il tribunale che anzi lo ritiene irrilevante perché la presenza di CVM residuo nel PVC in
emulsione sarebbe stato inferiore od eguale ad 1 PPM. Ma le cose, secondo il
P.M., non starebbero così in quanto nell’apice
del reparto CV6 , dopo il degasaggio , rimane ancora presente una notevole quantità di CVM residuo,
CVM che si libera in ambiente dagli
sfiati dei serbatoi di stoccaggio dell’apice e dalle successive
apparecchiature. E sottolinea l’appellante come il Tribunale dimentichi che i
bollettini di analisi – a campione - che avvalorano tale dato sono del
periodo 1987 - 1989 e quindi assai
recenti ( nulla ci dicono della
presenza del CVM in epoca anteriore) e
che il
teste Perazzolo ha riferito che il quantitativo di CVM che si
riscontrava con gli apparecchi di rilevazione presso il magazzino PVC o CV7 era “di
base” pari a non meno di 10 PPM. Ragione questa che doveva imporre il
monitoraggio continuo in tali ambienti.
4) E’ Fondata,
ancora, per il P.M., la
contestazione “di aver creato organizzato e mantenuto all’interno dello
stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, un servizio sanitario del tutto
insufficiente rispetto alle necessità di prevenzione e di controllo della
situazione generale e in particolare dei dipendenti delle cooperative che
entravano in contatto con CVM e PVC”.
Lamenta l’appellante che sul punto il Tribunale nulla assume, nonostante fosse pacifico che
i soci delle cooperative, dalle misure sanitarie praticate agli altri
lavoratori, periodicità dei controlli normativamente previsti per gli addetti a
produzioni nocive e ai lavoratori del ciclo del cloro (cfr art. 33 DPR 303/56),
sono sempre stati i grandi esclusi, fatto comprovato in atti testimonialmente.
Analoghe censure muove poi l’appellante in merito ai
lavoratori addetti alla manutenzione, in ordine ai quali nulla avrebbe riferito
il Giudicante di primo grado.
Secondo il P.M. i dati certi che si traggono dalle
dichiarazioni rese in sede dibattimentale e disattesi dal Giudicante di primo
grado, sono due.
Innanzitutto, i
testi sono concordi nell’affermare che mentre la manutenzione straordinaria,
eseguita episodicamente a cura delle officine centrali, veniva normalmente
svolta previa fermata degli impianti, la manutenzione ordinaria, eseguita anche
quotidianamente e posta in essere dalle officine di zona e dalle squadre di
reparto, veniva comunque fatta con gli impianti in esercizio e ciò con
conseguente esposizione dei lavoratori addetti alle sostanze ivi lavorate.
In secondo luogo, i
lavoratori sono concordi nel riferire che gli addetti alla manutenzione
intervenivano sempre qualora si verificassero fughe di gas nei reparti senza,
tuttavia, previa bonifica degli stessi e conseguente diretta esposizione ai gas
tossici fuoriusciti.
Sul punto poi si
ricorda ancora la mancata predisposizione ed il mancato controllo sull’utilizzo
anche da parte dei manutentori dei mezzi di prevenzione personale, richiamando
testimonianze al riguardo.
Ne deriverebbe come
inevitabile conclusione l’esposizione a CVM ed a PVC dei lavoratori addetti
alla manutenzione. Secondo il P.M. infatti, trattandosi di personale adibito
agli interventi manutentivi all'interno di tutti i reparti, ivi compresi anche
quelli ritenuti ad alto rischio espositivo dallo stesso Giudicante di primo
grado, senza adeguati mezzi di prevenzione, senza previa sospensione degli
impianti e senza infine previa bonifica in caso di intervento a seguito di
fughe, è incontestabile l'esposizione di detti lavoratori a tutte le sostanze
nocive prodotte nei singoli reparti.
Conclusioni che
sarebbero conformi a quanto
risultante dalle matrici mansione-esposizione pubblicate dai dott. Comba e Pirastu e altri (“La mortalità dei
produttori di cloruro di vinile in Italia in Med. Lav. 1991) sulla base di dati
forniti dall’azienda. E conformi altresì alle risultanze d’origine aziendale
della “Legenda dei reparti con esposizione diretta e/o indiretta degli addetti
ai cancerogeni CVM, DCE, PVC, nonché ad altri agenti tossico nocivi presso il
Petrolchimico di Porto Marghera”, egualmente agli atti del procedimento,
legenda secondo la quale i lavoratori addetti a interventi manutentivi su
impianti e macchinari nonchè negli ambienti di lavoro relativi a tutte le
lavorazioni del CVM e PVC sono soggetti all’esposizione di tutti gli agenti tossico nocivi presenti nei
reparti frequentati. Ed altresì
conformi alle indicazioni fornite dall’azienda che, conglobando i detti
lavoratori nel cd. “Gruppo H” comprendente i laboratori di controllo, il parco
serbatoi, le manutenzioni ed il controllo cromatografi (come risultante della
lettera datata 12.6.1979 a firma dott. Giudice ed inviata al dott. Bartalini,
discussa all’udienza 5.4.2000), risulta classificare i lavoratori addetti tra
gli esposti. Lamenta poi l’appellante un’altra grave omissione addebitabile al
Tribunale, al quale era stato rappresentato, chiaramente e documentalmente, che
dal 1970 in poi erano stati assunti ed erano stati assegnati ai reparti CVM
–PVC decine di nuovi operai. Per costoro, quindi, l’esposizione al CVM-PVC
iniziava dopo il 1969 e per tredici di loro persino dopo il 1973.
Rilievo, questo, che si assume importante in
quanto:
- secondo
l’accusa, la cancerogenicità del CVM venne segnalata ufficialmente al
mondo intero in occasione del Congresso internazionale di Medicina del Lavoro
di Tokyo del settembre 1969, a
seguito delle vicende del Prof. Viola;
- secondo il
Tribunale, l’epoca scriminante relativamente alla conoscenza della
cancerogenicità del CVM è la fine dell’anno 1973, che coincide con la vicenda “Goodrich”.
Ciò significa che, dal punto di
vista della conoscenza sulla
cancerogenicità, prendendo per buono l’assunto del Tribunale sull’inizio
dei consequenziali obblighi per l’imprenditore, andavano in ogni caso,
esaminate ed approfondite accuratamente le posizioni dei lavoratori:
- con inizio
esposizione successiva al 1969 (accettando l’impostazione del P.M.);
- con inizio
esposizione successiva al 1973 (accettando l’impostazione del Tribunale).
Ma i
Giudici di primo grado non hanno fatto né una cosa né l’altra.
Per
contro, nel riproporre i relativi elenchi, sostiene il P.M. che meritavano una
analisi particolareggiata quei lavoratori colpiti da patologie per le quali lo
stesso Tribunale aveva riconosciuto un nesso causale (malattia di Raynaud ed
epatopatie).
E
meritava un’analisi, anche semplice, quel gruppo di lavoratori (21) che avevano
iniziato ad essere esposti dopo il 1973, in un periodo in cui – secondo il
Tribunale – ormai tutti i precedenti gravi problemi di esposizione al CVM-PVC
sarebbero stati risolti.
In
particolare, si cita il caso di Carlo Bolzonella, deceduto per epatocarcinoma,
assunto nel 1981 ed andato in cassa integrazione nel 1989 (come già ricordato):
morto dopo aver lavorato per MONTEDISON, per ENICHEM e per ENIMONT.
Ma
nemmeno lui, rimarca l’appellante, ha meritato un commento per il Tribunale,
nemmeno una riga sulla sua particolare situazione.
Anche
per questi motivi, ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere
radicalmente riformata.
Rimarca
poi ancora l’appellante la doglianza secondo la quale il Tribunale avrebbe
operato, con USO DISTORTO DELLE
DICHIARAZIONI TESTIMONIALI, una
errata ricostruzione dei fatti storici oggetto della presente vicenda
processuale estrapolando, dalle deposizioni dei numerosissimi testi assunti nel
corso del dibattimento, solamente alcune affermazioni ed alcune circostanze,
mirate alla decisione di cui al dispositivo, senza mai dare alcun conto dei
criteri di selezione, scelta e valutazione adottati.
E
cita al riguardo, a titolo esemplificativo, le testimonianze di GASPARINI
Danilo, GIUDICE Salvatore, ALONGI Vittorio, BACCHETTA Enzo che porterebbero a
diversa valutazione rispetto a quella avvalorata dal Tribunale.
Circa
i reati di cui agli ARTT. 589 - 590 C.P. ed alla problematica della CASUALITA’,
il P.M. appellante, premesse alcune considerazioni che troverebbero
giustificazione a seguito della sentenza
n. 30328 del 10.7/11.9..2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione sostiene che anche su questa parte, che può considerarsi il
pilastro dell’intera vicenda processuale che ci riguarda la sentenza impugnata
commette gravissimi errori di interpretazione del nesso causale: errori che
riguardano sia l’interpretazione data dai Giudici di primo grado
dell’istruttoria dibattimentale del presente processo penale, sia la stessa
interpretazione giuridica del nesso causale in relazione alle condotte ascritte
agli imputati e agli eventi di reato che ne sono conseguiti.
Osserva in
particolare: che la sentenza delle SS.UU. della Suprema Corte, dirimente un
contrasto interpretativo sorto in seno alla sezione IV dello stesso giudice di
legittimità, pur riguardando un caso di responsabilità per attività
medico-chirurgica, è riferibile – come la stessa pronuncia afferma
espressamente – anche ai settori delle malattie professionali, delle
alterazioni ambientali e del danno da prodotto.
Nello specifico
settore delle malattie professionali si ritiene che essa si attagli
precipuamente al caso oggetto della presente vicenda processuale.
L’imprescindibile
riferimento ad essa consente, inoltre, di affermare la valenza della tesi
sostenuta dall’accusa, in particolare di quanto questo Ufficio ebbe ad esporre
in sede di replica della propria requisitoria all’udienza del 10 ottobre 2001
sulla questione giuridica del nesso causale.
Nel contempo, la
pronuncia citata permette di evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza
impugnata.
Premette al
riguardo che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – per usare le stesse
parole della Corte - sono state chiamate a dirimere un conflitto interpretativo
che non riguarda lo statuto condizionalistico e nomologico del rapporto di
causalità, riguardando invece il contrasto giurisprudenziale a causa del quale
è stato chiesto l’intervento delle Sezioni Unite la concreta verificabilità
processuale di quello statuto, ovvero la individuazione dei criteri di
determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione
causale.
E rivendica il P.M.
che già in sede di replica nel giudizio di primo grado, seguendo un
ragionamento logico analogo a quello che oggi si ritrova nella sentenza delle
SS.UU., dopo aver fatto riferimento alle varie e diversificate pronunce della
giurisprudenza di legittimità in tema di causa penalmente rilevante, si era
soffermato sulla necessità di definire e precisare meglio il concetto di
grado di probabilità. Aveva fatto riferimento a questo proposito alla
sentenza 12.7.1991 della sez. IV, che riteneva sufficiente un grado di
probabilità pari al 30% per ritenere sussistente il nesso causale tra la
condotta omissiva del medico e l’evento lesivo. Ma solo come riferimento di
minima, come si potrebbe chiamarlo, e solo per considerare che lo stesso
concetto veniva ripreso da una sentenza di 10 anni dopo, il 17.9.2001, a
ridosso della conclusione del primo grado di questo processo, sentenza che era
in contrasto con le tre sentenze della stessa quarta sezione (estensore
Battisti), che accoglievano un criterio più rigido di probabilità.
Errerebbe quindi
la sentenza impugnata laddove, inspiegabilmente, addossa al Pubblico Ministero
affermazioni di stretto diritto che non ha mai espresso, attribuendogli del
tutto arbitrariamente “orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo
del nesso causale istanze di prevenzione generale”. Ma soprattutto erra nelle
conclusioni cui giunge in tema di spiegazione del nesso causale.
Al riguardo,
ricorda l’appellante che il Tribunale afferma che “il modello causale
compatibile con il nostro ordinamento è quello idoneo ad includere non solo le
spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza (la copertura data dalla
legge universale), ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un
modello statistico-induttivo che colloca l’approccio nomologico nello specifico
contesto che valorizza la ricerca e l’analisi di tutti i fattori presenti e
interagenti: in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero in grado di
spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di
inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione
logico-probabilistica” (pag. 145).
E questo modello –
continua – è quello assunto dagli orientamenti giurisprudenziali più recenti.
Questo è il
modello, secondo il Tribunale, che consente di spiegare l’indagine causale
nell’ambito delle scienze cui si è fatto ricorso nel processo che ci riguarda
(epidemiologia, biologia molecolare, tossicologia, medicina legale).Continua,
ancora, il Tribunale sostenendo che il ragionamento del medico-legale è
tipicamente induttivo: muove da un fatto concreto (l’evento) per risalire al
fenomeno che lo ha determinato (la causa) e questo ragionamento, anche se
fondato su osservazioni di valore statistico-probabilistico, può fornire
apprezzabili e rigorosi risultati (pag. 146).
E precisa ancora
che il rigore metodologico e epistemologico con cui le scienze conducono le
loro indagini, la potenza dei risultati raggiunti per l’ampiezza di uno studio,
il grado di consenso ricevuto nella comunità scientifica, la coerenza dei
risultati raggiunti nelle diverse scienze, sono tutti elementi necessari a
propendere verso la certezza dei nessi sia nella causalità generale che nella
causalità individuale (pagg. 146-147).
Può accadere
tuttavia, prosegue il Tribunale, che nonostante siano le scienze e il loro
metodo scientifico a consentire di spiegare le inferenze causali, nonostante ci
sia validazione degli stessi risultati scientifici sulla base dell’accettazione
generale da parte della comunità scientifica e delle verifica empirica mediante
il controllo dell’ipotesi attraverso la confutazione, nonostante vi sia coerenza complessiva del risultato raggiunto
attraverso il confronto con altre discipline e la verifica delle conclusioni
raggiunte nel loro progressivo evolversi, nonostante tutto ciò può accadere che
rimanga l’incertezza scientifica.
A questo punto,
di fronte all’incertezza scientifica non resta che ricorrere – conclude il
Tribunale – alla regola di giudizio che la responsabilità deve essere
provata oltre il ragionevole dubbio,
“regola di giudizio che ormai fa parte del nostro ordinamento” (pag. 148).
Conclusioni,
queste del Tribunale, ribadisce l’appellante, erronee che non possano essere
accettate. Ciò prima di tutto e proprio alla luce del criterio offerto dalle
SSUU della Corte di Cassazione, dal quale ogni giudice di merito da oggi in poi
non può prescindere.
Sostiene infatti
il P.M. che le Sezioni Unite non assumono affatto il modello causale invocato
dal Tribunale di Venezia. Al contrario, esse aprono la via per chiarire in
questa sede come nel processo che ci riguarda il Tribunale sia caduto in un
errore fondamentale e irrimediabile.
E così ritiene
di schematizzare il P.M. il ragionamento seguito dalla Suprema Corte:
il processo penale,
passaggio cruciale e obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato,
è sorretto da ragionamenti probatori di tipo inferenziale induttivo che partono
dal fatto storico, rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della
conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, essendo dipendenti da
ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse;
1)
lo stesso modello condizionalistico
orientato secondo leggi scientifiche non può, d’altra parte, spiegare in via
deduttiva la causalità, perché è impossibile per il giudice conoscere tutti gli
antecedenti causali e tutte le leggi pertinenti;
2)
il giudice ricorre, invece, nella
premessa minore del ragionamento ad una serie di “assunzioni tacite”,
presupponendo come presenti determinate “condizioni iniziali” e “di contorno”
non conosciute o solo congetturate sulla base delle quali mantiene validità
l’impiego della legge stessa;
3) non potendo conoscere
tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il suo effetto, né
potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi,
il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in
partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento
soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da
escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale;
4) ove si ripudiasse la
natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse
comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo,
secondo criteri di utopistica “certezza
assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del
diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni
primari;
5)tutto ciò significa
che il giudice è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni
canoni di “certezza processuale” conducenti ad un giudizio di responsabilità
enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica”
o “probabilità prossima alla – confinante con la – certezza”.
A questo punto
si può già rilevare, secondo il P.M., il netto distacco tra la tesi sostenuta
dal Tribunale (viziata da gravi errori di interpretazione) e i principi
espressi dalle Sezioni Unite del Giudice di legittimità.
“….Non è
sostenibile – afferma la C.S. – che si elevino a schemi di spiegazione del
condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle
statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè
alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e
omessa rispetto al singolo evento”.
E qui, si
sostiene, il punto cruciale: “E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di
probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica,
impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che
della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che
anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo
le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la
sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via
alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del
necessario nesso di condizionamento. (pag.15)
Viceversa,
livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da
leggi di carattere universale, pur configurando un rapporto di successione tra
eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi,
pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo,
insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse,
controllandone quindi l’”attendibilità” in riferimento al singolo evento e
all’evidenza disponibile.
Ecco
allora, secondo il P.M. appellante, il distacco del Tribunale di Venezia dal
principio enunciato dalle Sezioni Unite. Si osserva infatti che la sentenza
impugnata sostiene che l’incertezza scientifica va provata oltre il ragionevole
dubbio, ma così facendo si ferma ad un passaggio precedente, che priva il suo
ragionamento proprio di quella natura rigorosa che voleva attribuirgli, e non è
in grado di arrivare alla conclusione decisiva che le Sezioni Unite
raccomandano: quella per cui è l’incertezza del riscontro probatorio che va
provata oltre il ragionevole dubbio.
Il Tribunale si
è fermato al riscontro scientifico (peraltro, in maniera del tutto incompleta e
contraddittoria, come si è visto e come si vedrà) e non ha valutato il
riscontro probatorio dell’istruttoria dibattimentale, mancando comunque di
verificare i dati delle scienze con i riscontri probatori del processo.
Sostiene il P.M.
che mentre per il Tribunale il giudizio finale di probabilità causale in
presenza di una legge statistica con coefficiente medio-basso deve essere
risolto secondo la regola dell’oltre il ragionevole dubbio, per le Sezioni
Unite una legge statistica con coefficiente medio-basso può costituire legge di
copertura se corroborata dal positivo riscontro probatorio.
Sostiene
il P.M. che la tesi sarebbe erronea sotto
molteplici punti di vista.
Innanzitutto
è quantomeno illogica - oltre che
contraria al dettato normativo - l’affermazione apodittica secondo cui “ciò che
non è causa non può essere concausa”, dal momento che si risolve in una
confusione di concetti.
E’
evidente, infatti, che l’art. 41 del codice penale, nel disciplinare il cd.
concorso di cause, ha per oggetto (al primo comma) distinti fattori ciascuno
dei quali - per definizione - è, da solo, privo dell’efficacia causale che si
determina, invece, proprio per effetto del concorso di tutti.
Di
norma, infatti, secondo il P.M. che richiama sul punto dottrina e
giurispridenza, il fenomeno delle concause si verifica con riferimento a
fattori che sono, da soli, privi della capacità di determinare un evento il
quale, invece, si produce necessariamente grazie al contributo sinergico di due
o più fattori concausali (la sentenza citata, Cass., sez. IV, n. 7617 del
31/10/1973, parla di situazione di interdipendenza tra due fattori che, da
soli, sarebbero privi di efficacia causale “non potendo nessuna di esse,
disgiunta dall’altra, causare l’evento”).
Tale
pronuncia evidenzierebbe secondo il P.M. proprio il fenomeno trascurato dal
giudice di primo grado: l’interdipendenza tra esposizione a CVM ed altri
fattori (per la verità spesso preesistenti e/o concomitanti), quali il consumo di
alcool e di sigarette da parte degli operai deceduti per tumore al fegato ed al
polmone.
Sostiene
il P.M. che nessuno potrebbe dire che, nel procedimento penale in questione,
sia stata davvero fornita la prova certa che i tumori al fegato erano stati cagionati
esclusivamente dal consumo di alcool, così come che quelli al polmone erano
stati cagionati esclusivamente dal fumo di sigaretta, o che i lavoratori
deceduti avessero contratto dette malattie a causa di un consumo di alcool e di
sigarette avvenuto successivamente alla loro esposizione al CVM. Dunque, in
nessuno dei casi esaminati dal Tribunale fumo ed alcool avrebbero potuto essere
considerati, ai fini della corretta applicazione della legge penale, concausa
sopravvenuta degli eventi. Eppure, nonostante
tale indiscutibile evidenza probatoria, il Tribunale si sarebbe ritenuto
dispensato dal dover svolgere
quell’accertamento sul tema della rilevanza concausale
dell’esposizione a CVM che l’accusa aveva prospettato, avendo postulato quell’apodittica ed erronea
affermazione di ordine generale secondo cui
la mancanza dell’idoneità causale rende, per ciò solo, il fattore
inidoneo ad essere concausa di un evento. Ed in tal modo sono state ignorate
circostanze provate dall’accusa che avrebbero potuto e dovuto essere valutate
con attenzione in siffatta ottica di approfondimento del tema.
In
particolare, erano stati dimostrati i ritardi e le omissioni in relazione agli
spostamenti dei lavoratori, fumatori o bevitori, che, in passato, erano stati
esposti ad alte concentrazioni di CVM.
In
casi del genere, l’esposizione a CVM oltre che ad essere determinante sotto il
profilo concausale avrebbe potuto e dovuto essere considerata dal Collegio
anche in relazione agli effetti di accelerazione dell’insorgenza della
malattia, così come i Consulenti tencici di parte dell’accusa (in
particolare i medici Bracci, Rodriguez,
Bartolucci e sopratutto Martinez) avevano puntualmente, ma inutilmente,
evidenziato.
Al
riguardo osserva il P.M. che il tema dell’accelerazione della malattia
derivante dal prolungamento dell’esposizione
è ben noto alla giurisprudenza, avendo di regola costituito tema di
approfondimento specifico nelle più importanti vicende di malattie
professionali. E sul punto rinvia alle considerazioni, ad esempio, svolte dal Tribunale di Casale Monferrato 30/10/1993, in cui si
legge (sia pure in tema di malattie professionali da amianto, ma -per il P.M.-
non vi è alcuna ragione – né logica, né scientifica, né normativa- per
sostenere – come fa il Tribunale – che i criteri di valutazione del nesso
causale per le patologie derivanti da esposizione da amianto dovrebbero essere
diversi da quelli da seguirsi nella presente vicenda processuale):“Con
riferimento ai tumori professionali si è rilevato in giurisprudenza che,
allorchè la prosecuzione dell’attività lavorativa dopo l’innesco biologico di
una malattia professionale costituisce causa certa di aggravamento, deve
affermarsi il rapporto di causalità fra tale prosecuzione e l’evento delle
lesioni o dell’omicidio colposo del lavoratore”.
Il
P.M. conclude dunque sul punto sostenendo che il grave errore giuridico
compiuto dal Giudice di primo grado a proposito della ricostruzione del nesso
causale ha, così, irrimediabilmente condizionato la sua valutazione, allorquando
si è trattato di considerare profili specifici e particolari della causalità
come, per l’appunto, il descritto tema del contributo concausale del CVM
(insieme ad altri fattori quale alcool e fumo) in relazione sia all’insorgenza
che allo sviluppo ed all’accelerazione delle patologie tumorali (tumori al
fegato ed al polmone), in ordine alle quali è stata pronunciata l’assoluzione
degli imputati per insussistenza del fatto. Inoltre, a questo grave errore
giuridico sia è aggiunta un'altra grave omissione, di fatto: quella di non aver
per nulla considerato nè trattato le relazioni tecniche depositate e le
dichiarazioni in aula dei CC.TT. del P.M. (Prof. Vineis - Comba - Pirastu),
proprio sulle interazioni CVM-alcol e CVM-fumo.
Infine,
sostiene il P.M., il Tribunale si è completamente dimenticato della distinzione
tra patologie monocausali e patologie policausali, distinzione ribadita
ampiamente dal P.M. in sede di replica, distinzione ben nota anche ai
consulenti tecnici di Montedison, prof. Fornari e prof. Colombo. Il primo,
infatti, aveva parlato espressamente in aula di tumori policausali e il secondo
aveva definito in aula la concausa come “la contemporanea presenza di due
fattori noti e documentati per dare malattia epatica” e “mutatis mutandis”
malattia dell’apparato respiratorio.
E non
vi può essere dubbio che affezioni epatiche e affezioni polmonari possano
essere causate sia dal CVM-PVC, sia da fumo/alcol.
Anche
in forza di tali argomenti e doglianze, dunque, l’appellata sentenza andrebbe
riformata.
L’appellante
peraltro, nel contesto dei motivi relativi alla problematica della causalità
lamenta altresì che il Tribunale abbia prospettato una tesi, ancora una volta
sbagliata, sia dal punto di vista fattuale che da quello giuridico, portando a
paragone i meccanismi di azione del cloruro di vinile e dell’amianto, che
ritiene non assimilabili, onde se per quanto riguarda l’amianto “…il
verificarsi del mesotelioma piuttosto che dell'asbestosi, può correttamente
ricomprendersi nell'evento pur dall'agente non rappresentatosi tipicamente ma
prevedibile come conseguenza dannosa dell'inosservanza di norme cautelari
comuni”, per quanto riguarda invece il cloruro di vinile, “…non è accettabile
un’applicazione di tale orientamento per estrapolazione dall'amianto al
CVM-PVC, non essendovi alcuna correlazione o progressione tra la patologia nota
(Raynaud) e la neoplasia (angiosarcoma) causata dal CVM”.
Le
argomentazioni e conclusioni del Tribunale sarebbero per il P.M. appellante
arbitrarie, sostenendosi invece, previo excursus sul meccanismo cancerogeno
dell’amianto con richiamo e citazione di letteratura, che il mesotelioma non va
ritenuto complicanza dell’asbestosi e che non è vero che i meccanismi d’azione
dell’amianto sarebbero noti, onde se non è posto in dubbio, neppure dal
Tribunale, che l’amianto provochi il mesotelioma pleurico, non si vedrebbe
perché questo discorso non debba valere anche per il CVM-PVC e perché non sia
possibile sostenere, come per l’amianto, che la mancata conoscenza certa di
tutti i meccanismi d’azione (che possono essere plurimi) del CVM-PVC nel
cagionare ad esempio il tumore del polmone non può e non deve incidere sulla
attribuibilità al CVM-PVC pure di
questa forma tumorale, risultando peraltro evidente il parallelismo con i
diversi, ed intercorrelati, meccanismi di cancerogenesi dell’amianto.
Ne
conseguerebbe, secondo il P.M., che, sia alle malattie professionali da amianto
che a quelle CVM-PVC, va applicata la medesima normativa (a partire dalle leggi
speciali a tutela dei lavoratori in vigore dagli anni cinquanta), così come per
entrambe le patologie vanno applicate le medesime categorie interpretative, a
partire da ogni discussione in materia di nesso causale.
Passa
quindi il P.M. ad analisi dettagliata dei presupposti che per l’appellante
fanno ritenere sussistente il nesso di causalità in questione, per la gran
parte negato dal Tribunale, e lo fa seguendo passo passo, pagina per pagina,
come dallo stesso preavvertito, la motivazione della sentenza di primo grado,
avvertendo altresì che, in ogni caso, la base giuridica di questo appello è
costituita dalla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte, di cui si è
discusso poco fa, mentre i presupposti di fatto, storici e scientifici per
giungere ad affermare la penale responsabilità degli imputati consistono nella
disamina delle seguenti parti:
-
epidemiologia e studi epidemiologici;
-
metodologia epidemiologica;
-
studi epidemiologici sul CVM;
-
gli studi epidemiologici a Porto Marghera;
-
la causalità;
- la causalità generale da esposizione a
cloruro di vinile;
-
l’effetto lavoratore sano rilevato nella coorte di Porto Marghera;
-
cancerogenesi;
-
l’influenza delle esposizioni a basse dosi;
-
cancerogenesi e organismi internazionali;
- le patologie riscontrate a Porto
Marghera: il fegato, il polmone, gli altri organi.
Circa
il primo punto, si pone il P.M. l’obiettivo di evidenziare il modo sbagliato
del Tribunale di trattare il nesso causale intercorrente fra esposizione a cloruro di vinile e insorgenza
in particolare dei tumori epatici (angiosarcoma e carcinoma epatocellulare),
della cirrosi epatica e dei tumori polmonari, attraverso la trattazione di tre
questioni di fondo delle quali lamenta un mancato apprezzamento da parte del Tribunale: a) la distinzione
che è necessario fare tra le valutazioni dell’insieme dell’evidenza di
cancerogenicità di una sostanza
fatta da organismi internazionali e i
risultati di singoli studi, come anche
il diverso significato da attribuire ai
due; b) i fattori che sono alla base e che garantiscono una elevata qualità degli studi
epidemiologici; c) tentativi di ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative
alla cancerogenicità del CVM.
Quanto
alla prima questione sostiene l’appellante che le valutazioni dell’evidenza
complessiva ad opera di organismi
nazionali e/o internazionali sono il
risultato di un processo di ricerca del consenso nell’ambito di un gruppo di
esperti che si raggiunge attraverso procedure standardizzate ed esplicitate,
che hanno come oggetto l’esame delle conoscenze scientifiche disponibili al
momento della formulazione della valutazione… ed i risultati di singoli studi
non mettono in discussione le suddette valutazioni; bensì essi contribuiscono
all’insieme delle conoscenze in modo commisurato alla loro qualità. Onde non
sarebbe corrispondente a realta’ (Pg. 27) l’affermazione generale che: “Le
conclusioni cui era pervenuta IARC nel 1987……… sono state poste in
discussione dagli studi epidemiologici
successivi . In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da
IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti
americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati
rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999)”.
Sarebbe
infatti assurdo e fuori dalla realtà sostenere, come ha fatto ripetutamente il
Tribunale (pag.148-158-159), che le valutazioni di un organismo scientifico
internazionale, che gode della massima stima e del massimo prestigio, come IARC
(o EPA), sarebbero superate. IARC infatti a partire dal 1975 non sarebbe mai
tornata sui suoi passi né avrebbe delegato l’uno o l’altro studioso a compiere
autonomi accertamenti, ed i nuovi studi, per quanto ampi, sarebbero una parte
del tutto che si inseriscono nell’alveo di quelli precedenti e di per sé non
portano a modifica della precedente valutazione, essendo necessario tutto un
meccanismo di approfondimento ai fini della classificazione (o
riclassificazione) di una sostanza.
Quanto
alla seconda questione, sostiene il P.M. che la sentenza sarebbe gravemente
viziata per non avere dato contezza delle manchevolezze dello studio Mundt 2000
fondato su carente database del “filone principale” U.S.A., nonostante che in
dibattimento i vari consulenti tecnici del P.M. (Berrino, Comba, Pirastu,
Mastrangelo) si siano ampiamente soffermati su tale problematica.
Quanto
alla terza questione sostiene il P.M. che i tentativi di ridimensionare le
evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM presenti nella
letteratura scientifica sarebbero conseguenza del ruolo svolto dall’industria
nella diffusione delle conoscenze sulla cancerogenicità del CVM, nello
specifico quella statunitense, ma anche Enichem, con il supporto di noti e ben
pagati epidemiologi stranieri, tra cui Richard Doll, al quale Enichem ha dato
mandato di sostenere che l’angiosarcoma epatico e’ l’unico tumore causalmente
associato con l’esposizione a CVM.
Passa
quindi il P.M., nell’affrontare le altre parti di cui sopra, all’esame degli specifici
punti della sentenza ritenuti errati in fatto o frutto di una contraddittoria
valutazione. E così, riguardo alla metodologia epidemiologica, sostiene
l’erroneo utilizzo da parte del Tribunale, in uno stesso studio di livelli di
confidenza diversi per diverse cause di morte, e non sarebbe accettabile in
assoluto nemmeno l’ulteriore affermazione e decisione del Tribunale, che esclude sempre e per partito
preso le situazioni con limitata significatività statistica: a questo proposito
richiama ancora l’appellante la recente sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione (nr.27 del 2002: pag.15), dove viene scritto che “coefficienti medio bassi di pericolosità ….
impongono verifiche attente e puntuali …. Ma nulla esclude che anch’essi, se
corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze
tipiche della più aggiornata criteriologia
medico-legale …. possano essere utilizzati per il riconoscimento
giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Riscontro probatorio secondo
il P.M. per il caso dei tumori professionali possono essere le evidenze
sperimentali sugli animali e su altri modelli di laboratorio.
Lamenta
poi il P.M. errori ed errate valutazioni da parte del Tribunale in merito alle
conclusioni assunte relativamente ai tumori diversi dall’angiosarcoma con
riferimento agli studi epidemiologici sul CVM, sia di corte europea coordinato
da IARC (Ward 2001), sia USA (Mundt 2000), ritenendosi invece che una esatta
proposizione dei dati stessi porterebbe a diversa conclusione, in particolare
relativamente al carcinoma epatocellulare, al tumore al polmone ed alla
cirrosi.
Richiamando poi il P.M. gli studi epidemiologici a Porto
Marghera, lamenta che il Tribunale, pur citando una serie di dati prodotti dai
Consulenti Tecnici del PM, che dimostrano come nella coorte di Porto Marghera,
oltre all’eccesso degli angiosarcomi epatici,
vi sia stato un significativo eccesso di altri tumori epatici, in
particolare per gli autoclavisti, nonché, come emergerebbe dall’aggiornamento 1999,
un significativo eccesso di tumori polmonari per i lavoratori che avevano
svolto mansioni di insaccatori, su tali risultati chiarissimi (che
emergerebbero da due tabelle riproposte), ha evitato di fare commenti e
valutazioni, pur dando atto della pericolosità particolare delle mansioni
rispettivamente di autoclavista e di insaccatore.
Anche
per tali omissioni, si chiede la riforma della sentenza.
Riaffrontando nello specifico la parte relativa alla
causalità, il P.M. innanzitutto lamenta
che il Tribunale non ha assolutamente seguito i criteri che egli stesso
aveva richiamato e indicato come i criteri-guida per ogni decisione. Ne
deriverebbe quindi contraddittorietà della motivazione.
Si citano quindi
i quattro criteri fatti propri dal Tribunale nei seguenti:
“1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che
attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una effettiva e
affidabile conoscenza scientifica;
2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di
ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è
determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o
preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle
sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione
così da raggiungere una "corroborazione provvisoria ";
3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro
progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per
accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto ;
3)
la incertezza
scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del
rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la
regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il
ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro
ordinamento”.
E
si sostiene da parte dall’appellante, in tema di causalità generale da
esposizione a cloruro di vinile, che, alla luce di quanto scritto, e sopra
accennato, in merito agli studi epidemiologici sul CVM, non è assolutamente
condivisibile l’affermazione del Tribunale relativa “all'assenza della prova allo stato delle conoscenze scientifiche
della idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone , il carcinoma epatocellulare e la cirrosi riconoscendo
solo la sua associazione causale con l'angiosarcoma , con tipiche epatopatie e
con la sindrome di Raynaud”. Lamenta il P.M., che per affermare ciò, il
Tribunale avrebbe dovuto prima di tutto affrontare e criticare quanto esposto
dall’accusa in senso contrario, esaminando le relazioni finali depositate dal
P.M., criticandone l’eventuale metodologia, la logica e le conclusioni. Il
Tribunale non avrebbe fatto nemmeno questo, essendosi affidato in maniera del
tutto acritica alle relazioni dei consulenti degli imputati, riportandone pari
pari le osservazioni e tralasciando le specifiche repliche dei CC.TT del P.M.
Analogamente,
sarebbe del tutto arbitraria l’affermazione del Tribunale secondo la quale
“tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e
aggiornati, valutati complessivamente,
non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra
CVM-PVC e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la
sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti
l'endotelio”.
Nello
specifico delle singole patologie, sostiene l’appellante, richiamando in particolare
gli studi dei propri consulenti, che, quanto al tumore al polmone, “nelle
coorti che hanno condotto un'analisi specifica per gli insaccattori, definiti
come "solo addetti all'insacco" e " addetti all'insacco "
si sono identificati incrementi di mortalità. Pertanto la persuasività
scientifica della relazione causale fra l'attività lavorativa che comporta
esposizione a polveri di PVC è elevata”.
Richiamando
poi ancora i dati in materia, rileva che:
a) Il trend positivo con l’esposizione a CVM nella coorte europea (Ward
2001);
b) L’incremento della mortalità nella coorte degli insaccatori
Montedison-Enichem, che contrasta con il deficit di mortalità per queste cause
osservato nella coorte complessiva;
c) L’assenza di elementi per suggerire un ruolo confondente del fumo di
sigaretta: è ovvio che i casi di cancro polmonare occorsi tra gli insaccatori
siano fumatori (come la quasi totalità dei casi di cancro polmonare in
qualunque categoria professionale); il fatto è che nella coorte degli insaccatori
nel suo complesso non ci sono evidenze di un abnorme consumo di tabacco. Al
Tribunale sfugge la distinzione fra “le cause dei casi” e “le cause
dell’incidenza”, così come sfugge la distinzione fra “individui malati” e
“popolazioni malate” … In assenza di questi essenziali riferimenti scientifici
e culturali, il paragrafo “L’epidemiologia: un primo approccio” (motivazioni,
pp. 29-37) appare del tutto inadeguato a sostenere le successive valutazioni
del Tribunale in campo epidemiologico.
Ed alla luce delle considerazioni di cui
ai tre precedenti rilievi, ritiene il P.M. che i quattro criteri di cui a pag.
142 delle motivazioni, sopra citati, siano adeguatamente verificati e, quindi,
va affermata l’esistenza del nesso causale anche in questo caso.
Quanto ai tumori del fegato –angiosarcoma
a bassa esposizione sostiene
l’appellante che neppure avrebbe ben compreso il Tribunale i dati emergenti
dallo studio europeo WARD 2001, che pur ritiene fondamentale, dati dai quali,
contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, emergerebbe un rischio di
angiosarcoma anche a bassa esposizione, non avendo d’altra parte il Tribunale
considerato che era stato discusso dal P.M. un caso di angiosarcoma per un
operaio assunto dopo il 1973 (Dalla Verità Domenico, assunto nell’aprile del
1974), ed avendo pure rigettato la richiesta del P.M. di acquisire della
documentazione attestante un’altra morte per angiosarcoma a causa del CVM,
verificatasi negli USA, per bassissime esposizioni: di tale ordinanza, del tutto immotivata, si chiede la nullità e
la conseguente rituale acquisizione della documentazione tramite rinnovazione
del dibattimento.
Quanto
al carcinoma epatocellulare si richiamano ancora gli studi e conclusioni dei
propri consulenti che suggeriscono che “l’esposizione a CVM può essere associata anche con questo
tumore”. Si ricorda inoltre che valutazioni dell’associazione causale
intercorrente fra esposizione a CVM e carcinoma epatocellulare sono state
formulate, oltre che da IARC, anche da EPA. Onde anche nel caso secondo il P.M.
i criteri di causalità esposti dal Tribunale a pag. 42 siano stati
adeguatamente verificati e, quindi, anche in questo caso va affermata la
sussistenza del nesso causale.
E
così per la cirrosi relativamente alla quale se è vero che nella coorte
generale di Porto Marghera la mortalità per tale patologia è inferiore
all’attesa, va peraltro rilevato che essa è superiore all’attesa fra gli
autoclavisti.
Osserva poi il P.M.
che nelle motivazioni della sentenza viene in più punti affermato che la coorte
dei lavoratori di Porto Marghera è costituita da soggetti in buono stato di
salute, come mostrato dalla diminuita mortalità per tutte le cause, quando la
coorte viene confrontata con la popolazione residente nel Veneto. Tale richiamo
del Tribunale non avrebbe però portato il Tribunale stesso a valutarne
adeguatamente il significato e le implicazioni. I soggetti assunti al lavoro non sono un campione casuale della
popolazione generale, ma costituiscono un campione di soggetti in buono stato
di salute che desiderano un lavoro. Il gruppo dei soggetti assunti è perciò un
campione selezionato, non rappresentativo della popolazione generale. Quando si
confronta l’esperienza di mortalità dei lavoratori con quella della popolazione
generale residente in Veneto da cui provengono, si riscontra perciò un rischio
di morte. Questa differenza è chiamata “effetto lavoratore sano” ed è una
distorsione di cui tener conto in fase di analisi, proprio perché potrebbe
mascherare (in generale) l’effetto di importanti agenti tossici e nocivi a cui
i lavoratori vengono esposti nella loro vita professionale. Tale distorsione ha
portato erroneamente ad attribuire l’osservata diminuita mortalità dopo il 1974
a diminuite esposizioni ad agenti tossici, mentre questa è una osservazione
spuria: una volta rimosso l’effetto distorcente della selezione all’assunzione,
la diminuzione, non più statisticamente significativa, è di entità assai
modesta.
Per il P.M.,
contrariamente a quanto immotivatamente ritenuto dal Tribunale, ciò renderebbe
possibile rilevare che:
a) non c’è
alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a partire dal 1974,
tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione;
b) gli assunti in
anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza” necessaria perché si
manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a quelle patologie per le
quali il periodo di latenza può essere molto lungo);
c) non vi è
alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato
un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni precedenti;
d) i soggetti
esposti nelle mansioni a rischio (autoclavisti e insaccatori) manifestano una
mortalità per tutte le cause aumentata e questo rischio appare crescente al
crescere della durata di impiego nella mansione a rischio;
vi è evidenza
notevole di due particolari rischi
specifici, il tumore polmonare per gli insaccatori e l’epatocarcinoma
per gli autoclavisti, oltre che una evidenza molto elevata anche per la cirrosi epatica.
Nell’esame delle
parti ritenute importanti nell’argomentazione dei motivi d’appello, affronta
poi il P.M. le questioni relative alla “CARCINOGENESI”, pure affrontate dal
Tribunale che però, subito osserva l’appellante, non ne avrebbe compreso il
significato.
Il Tribunale si
sarebbe sbarazzato in fretta della
questione, con due parole, non motivate (a
pag.101) dicendo che il problema è ancora “incerto e dibattuto”, così
abbandonando la stessa linea tracciata dal
prof. Harry BUSCH, presidente di un centro di ricerche sul cancro negli
USA indicato dalla difesa, il quale sull’origine del cancro aveva chiaramente
confermato l’impostazione dei consulenti del P.M., parlando di stabilità
genetica e precisando (controesame del 20.4.99 pag. 88) che “il genoma umano è estremamente stabile”:
a conferma della necessità di alcune alterazioni genetiche affinché una cellula
diventi maligna.
E oltre a “non
considerare” il prof. BUSCH il Tribunale avrebbe citato i consulenti del P.M.
soltanto per le parti che servono a sostenere la tesi assolutoria. Ma le questioni fondamentali trattate
dai CC.TT. del P.M. non sono state né affrontate né eliminate e, quindi, alle
relazioni dei professori Berrino e Colombati si deve fare integrale rinvio, con
particolare riferimento ai numerosi lavori scientifici presentati (e discussi
dal P.M. in requisitoria) a sostegno della origine professionale dei tumori da
CVM non solo del fegato, ma anche degli altri tre organi bersaglio (polmone “in
primis”).
Ripropone poi il
P.M. concetti di genetica molecolare per sostenere altresì che molte delle
disquisizioni della sentenza (da pag 106 a pag 126) sembrano poco rilevanti e
poco appropriata appare l'interpretazione di molti dei lavori scientifici
citati. Fatto essenziale, riconosciuto dalla stessa sentenza, è che il CVM è
cancerogeno. In questo, osserva ol P.M.,
non vi è contrasto di opinioni ed è stata precisamente identificata la
modifica chimica in un gene causata dal CVM, o meglio da un suo derivato.
E prosegue
l’appellante osservando che, chiarito questo, che è il punto centrale per
stabilire le responsabilità di chi ha esposto gli operai del Petrolchimico al
CVM, si può passare ad esaminare la questione della presenza o meno di una
" soglia di sicurezza" per il CVM
e anche per altre sostanze. Al
riguardo richiama quanto detto in aula, e riportato nell’atto d’appello, dal
prof. Maltoni, portato, osserva
l’appellante, sul palmo della mano dal
Tribunale su tutto, meno che per la sua affermazione relativa alla inesistenza
di una soglia biologicamente sicura per il CVM. E riporta, altresì, un concetto
di cinetica degli enzimi: la velocità di qualsiasi reazione enzimatica (e
quelle in cui il CVM partecipa come
substrato non fanno eccezione) dipende in modo asintotico dalla concentrazione
del substrato. A concentrazione molto bassa del substrato, inferiore al valore
della costante di Michaelis (Km), la velocità di reazione è pressochè lineare
in funzione della concentrazione del substrato ( nel nostro caso, il CVM).
Dunque per il
P.M. parlare di soglia è, teoricamente, un assurdo: si può dire, tutt'al più, che ci possono essere concentrazioni
del “veleno” tanto basse da rendere la reazione iniziale, e le successive,
molto lente, e lo sviluppo del tumore molto improbabile: ma mai impossibile. Il
fatto che sia difficile rilevare l'insorgenza di tumori per piccole dose di
mutageni dipende dal metodo di misura e dai limiti della sua sensibilità, come
è stato rilevato nel corso del processo.
Il problema, a questo punto è
giuridico (oltre che morale): è lecito esporre consapevolmente persone
ad una probabilità sia pur piccola di tumore? E quando, poi, questo tumore si
verifica, che succede?
Ma anche il tema
relativo alla influenza delle basse dosi sarebbe stato trattato in maniera
generica e superficiale dal Tribunale, il quale – anche in questo caso – si
è completamente dimenticato della
esistenza di una relazione tecnica del prof. Franco Berrino (direttore
dell’Unità Operativa di Epidemiologia dell’Istituto Tumori di Milano), pur
arrivando ad affermare in motivazione il presunto vuoto accusatorio sul punto.
Ed elenca l’appellante tutta una serie di elementi, in fatto e tecnici, che non
sarebbero stati considerati dal tribunale e che confermerebbero invece quanto
sostenuto dall’accusa, lamentandosi in conclusione un appiattimento totale del
Tribunale sulle posizioni della difesa, con oblio totale delle relazioni
tecniche e delle posizioni dell’accusa.
Richiama infine
sul punto il P.M. quanto segnalato e motivato dal professor Giovanni Zapponi, le
cui valutazioni il Tribunale ha frainteso o non compreso, in relazione alla
valutazione del rischio cancerogeno da CVM secondo organismi internazionali (e
non) come l’O.M.S., l’Unione Europea e l’EPA,
con particolare riferimento alle basse dosi di esposizione.
Quanto
alle patologie riscontrate a Porto Marghera, ricorda ancora il P.M.,
contrariamente alle diverse conclusioni del Tribunale, che secondo vari
organismi e organizzazioni internazionali, tra cui IARC ed EPA in primo luogo,
devono essere considerati come principali organi – bersaglio del CVM il fegato,
il polmone, il cervello, il sistema emolinfopoietico. Inoltre, sulla base di singoli studi, devono essere attribuite
all’azione del CVM alcune altre patologie, come il tumore del laringe, nonché –
come ampiamente illustrato anche nel capitolo 2.3 – il fenomeno di RAYNAUD e
l’acroosteolisi. Ancora lamenta il P.M. da parte del Tribunale, che ha ritenuto
di riconoscere come conseguenti all’esposizione a CVM solo l’angiosarcoma, il
fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi ed alcune epatopie, omissioni nell’esame
del materiale probatorio fornito dall’accusa e, in molti casi, anche
fraintendimenti del contenuto degli atti esaminati e soprattutto delle
esposizioni e dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M., con conseguente
grave vizio della motivazione della sentenza, la quale dovrebbe dunque essere
completamente riformata.
Nello specifico, con la consueta tecnica
argomentativa di richiamare determinati passi della sentenza che si ritengono
contenere osservazioni, valutazioni o conclusioni errate (per lo più, secondo
il P.M., preconcette, frutto di appiattimento sulle posizioni della difesa,
funzionali ad originario disegno assolutorio), si sottopongono già a critica
alcune affermazioni del Tribunale relative anche all’angiosarcomo, pur
riconosciuto come conseguente all’esposizione a CVM, ma che nella loro
erroneità producono influssi negativi su altri punti fondamentali della
decisione, quali ad esempio quelli relativi alla carcinogenesi, all’influenza
delle basse dosi (magari successive ad alte dosi) e al concorso di cause (fumo
ed alcool); e quali l’esclusione della presenza dell’angiosarcoma epatico per
Simonetto Ennio su asserito unanime giudizio di tutti i consulenti, quando
invece tra i consulenti vi era contrasto sul punto, potendosi citare a favore
della diagnosi di angiosarcoma ed epatocarcinoma, la diagnosi iniziale del
Prof. Maltoni che include il paziente fra i casi di angiosarcoma della coorte
dell’Istituto Superiore di Sanità e la conferma della diagnosi che il maggior
esperto in questo campo ne fa in aula nel corso del processo, la diagnosi del
Prof. Rugge che descrive la lesione con “fenotipo” compatibile con la diagnosi
di angiosarcoma, la registrazione di
Simonetto Ennio nel registro mondiale degli angiosarcomi.
Sostiene
poi il P.M., sempre a tale riguardo, che il Tribunale senza alcuna motivazione
reale avrebbe rifiutato non solo l’ipotesi di approfondire il tema delle morti
per angiosarcoma a bassa esposizione nella popolazione, ma ne avrebbe
aprioristicamente negato la rilevanza, scrivendo ad esempio che per i casi
proposti al suo esame “manca la certezza diagnostica” o che “i tempi di latenza
non sono osservati” (pag.212), mentre al contrario in atti esistono addirittura
atti d’autopsia e precise indicazioni sulle esposizioni.
Quanto
all’epatocarcinoma, l’appellante, dopo citazione di osservazioni sul punto dei
vari consulenti e critica ancora di specifiche affermazioni e conclusioni del
Tribunale che non trascura di apostrofare come arrampicate sugli specchi,
lamentando travisamenti ed erronei apprezzamenti dei contributi scientifici, e
dopo aver ancora ribadito la tesi, sostenuta dai propri consulenti, dell’azione
sinergica del CVM con gli abusi di alcol e le infezioni da virus B e C, sostiene che in forza degli
atti del processo il carcinoma epatocellulare può essere ascritto
all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:
i.
Dati epidemiologici ormai derivanti da coorti
assai numerose provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.
ii.
Una forte evidenza (p<0,002) in favore di una relazione dose-risposta
iii.
I casi occorsi in Germania in lavoratori nei quali erano stati esclusi tutti i fattori
extralavorativi
iv.
Cinque lavoratori di Porto Marghera,
Fusaro Vittorio, Cividale Luigi,
Favaretto Emilio, Mazzucco Giovanni, Monetti Cesare, che non presentavano fattori di rischio extralavorativi.
In due casi di epatocarcinoma
(Bonigolo e Mazzucco) i consulenti della difesa ammettono la
responsabilità dell’esposizione a CVM.
v.
Una evidente anomala distribuzione
dell’eziologia (50% alcolica e solo il
19 % virale) che è stata dimostrata nei lavoratori di Porto Marghera che non ha
riscontro in casistiche finora pubblicate, provenienti da aree come quella
della regione veneta con un’alta incidenza di infezioni da virus epatitici.
vi.
I casi di pazienti descritti in
letteratura nei quali nello stesso
fegato sono stati trovati noduli di angiosarcoma ed epatocarcinoma (Simonetto Ennio è uno di questi casi)
vii.
I riscontri sperimentali che dimostrano che
l’esposizione a CVM nei ratti può determinare l’insorgenza di diversi tipi di
tumori fra i quali l’angiosarcoma e l’epatocarcinoma.
viii.
L’analogia con l’esposizione al Thorotrast che è ormai accettato che possa
indurre nell’uomo non solo l’angiosarcoma ma anche l’epatocarcinoma.
Analogamente, anche relativamente alla cirrosi
epatica contesta il P.M. come già accennato, le conclusioni del Tribunale,
ritenendole non basate sulla realtà dei dati e sulle logiche considerazioni
che ne sarebbero dovute scaturire, il
tutto ampiamente presentato in dibattimento, anche in sede di requisitoria e di
replica finali. E previa elencazione dei principali aspetti della questione,
sulle quali il Tribunale sarebbe incorso in madornali sviste e/o errori di
valutazione, con il supporto di copiosa citazione di dati e passi dei
consulenti, e riproposizione di casi, sostiene che, se ci si attiene agli atti del processo, la cirrosi
epatica, può essere ascritta all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:
- Dati epidemiologici derivanti dall’aggiornamento della coorte europea
(Ward et al, Epidemiology, 2001) con un RR di 9,24 nella classe di soggetti
esposti fra 524 e 998 ppm.anni.
- Evidenza in favore di una relazione dose-risposta analoga a quella
riscontrata per l’angiosarcoma e per il carcinoma epatocellulare, con una
tendenza della curva di dose risposta intermedia tra i due.
- L’associazione tra cirrosi epatica e angiosarcoma,
che secondo il Tribunale potrebbe avvalorare la tesi dell’associazione tra
“tale malattia epatica (la cirrosi) ed esposizione a CVM è stata riscontrata in
tre (su sette) lavoratori di Porto Marghera con angiosarcoma (Simonetto Ennio,
Zecchinato Gianfranco, Pistolato Primo.
- In letteratura sono stati descritti altri casi di pazienti con cirrosi ed angiosarcoma.
- La
plausibilità biologica confermata dalla spiccata attività fibrogenetica del CVM
che in presenza di un abuso di alcol o di una infezione cronica virale causa
un’amplificazione notevole delle conseguenze in termini di tossicità e di
potenziale profibrogenico.
Sempre con
riferimento all’organo bersaglio fegato, sostiene infine il P.M. che trattando
delle epatopatie riscontrate nei lavoratori del PCV-CVM di Porto Marghera, il
Tribunale continua a far confusione tra tossicità e cancerogenicità del CVM.
Infatti, ancora a pag.246 della sentenza, citando fuori luogo l’audizione del
consulente del P.M. prof. Berrino, il Tribunale continua a mescolare senza
ragione IARC 1987, “oncogenità del CVM”, epatopatie e bronchiti. Sostiene
dunque l’appellante, dopo richiamo alla già ricordata differenza concettuale e
sostanziale tra tossicità e cancerogenicità, e dopo riproposizione dei casi dei
lavoratori le cui epatopie sono state escluse dal Tribunale come causate
dall’esposizione a CVM, che al riguardo la sentenza ha ripetutamente invocato
(fin da pag.9) l’elevato consumo di alcol come “giustificata soluzione
alternativa” all’eccesso di tumori del fegato, di cirrosi e di epatopatie.
Ma, sostiene
l’appellante, l’eccesso osservato negli operai di Porto Marghera è troppo
elevato per poter essere spiegato da un eccessivo consumo di alcol. Infatti,
gli operai di Porto Marghera avrebbero dovuto fare un consumo di alcolici
doppio rispetto alla popolazione generale maschile della stessa età, un
comportamento che sarebbe difficilmente compatibile con una regolare attività
lavorativa e di cui non vi è alcuna prova in atti. Anzi, vi sono diverse prove
in senso contrario, a partire dalla relazione FULC del 1975, alle indagini
effettuate dalla ULSS e dalla ASL di Mestre anche negli anni novanta: in
proposito si indicano le dichiarazioni rese in aula dai testi dr. Magarotto e
dr. Munarin.
Di tutto ciò
i giudici di primo grado si sarebbero completamente
dimenticati, ed anche sul punto il Tribunale avrebbe scritto circostanze e
fatti sbagliati in sentenza e avrebbe gravemente omesso di vagliare e di
valutare il materiale probatorio offerto dall’accusa, affidandosi alle
dichiarazioni in aula dei consulenti di Montedison Colombo e Lotti. Il primo,
però, all’udienza del 18 maggio 1999 ha ripetutamente detto: “chiedete a Lotti”
(pag. 70 e 71) e quest’ultimo sempre su questo tema ha detto: “io non sono
molto esperto di questi studi di cancerogenesi” (pag.71): e il Tribunale si è
ripetutamente affidato e fidato di entrambi! Al contrario, di passaggi
fondamentali per la ricostruzione dei fatti e per la valutazione degli eventi
non vi sarebbe traccia in motivazione.
Lamenta altresì il
P.M. che il Tribunale abbia assolto gli imputati amministratori Montedison del
periodo 1969 – 1973, non meglio individuati, perché il fatto non costituisce
reato, dai cinque casi di epatopatia (Poppi Antonio, Bartolomiello Ilario,
Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe e Sicchiero Roberto) riconosciuti come causati
dal CVM. Non convincenti secondo l’appellante le motivazioni per l’esclusione
dell’elemento soggettivo, atteso che il CVM era un noto epatotossico (lo si
sapeva dagli anni cinquanta-sessanta e lo si insegnava all’università). Ed a
questo proposito e in relazione all’art.437 c.p. (malattie derivate da
omissioni del “datore di lavoro”) nulla ha risposto il Tribunale.
Ciò
dovrebbe portare a una totale riforma della sentenza, con conseguente
declaratoria di penale responsabilità di tutti gli imputati per tutti gli
specifici reati loro rispettivamente contestati (artt. 437,589,590 c.p.).
Si lamentano, infatti, ripetute omissioni in fatto
rilevate in motivazione; incompletezza grave nell'esame di tutti gli elementi
probatori sottoposti dall'accusa all'esame del Tribunale; distorsione di quanto
scritto e segnalato dai consulenti tecnici dell'accusa; accettazione acritica e
totalmente immotivata delle tesi della difesa degli imputati.
Conclude, infine, sul punto il P.M. contestando
altresì l’esclusione delle patologie degli altri "altri organi"
bersaglio del CVM-PVC (laringe - sistema emolinfopoietico -encefalo). Anche al
riguardo, ci si lamenta che le motivazioni della sentenza sono del tutto
insufficienti e non affrontano nemmeno ("more solito") tutti i dati,
gli studi scientifici, le relazioni tecniche e le dichiarazioni dei consulenti
tecnici del P.M. e delle parti civili offerti all'esame e alla valutazione del
Tribunale.
E una situazione analoga si presenterebbe anche per i
melanomi, per i quali sono emersi "eccessi", nonché relativamente
alla sindrome di Raynaud per la quale il Tribunale oltre a fornire dati
numerici sbagliati rispetto ai casi introdotti dal P.M. nel processo, fa poi
confusione sul numero dei casi da lui stesso ammessi, si è completamente
dimenticato di Terrin, non ha considerato che il certificato di diagnosi di
RAYNAUD per Gabriele Bortolozzo è del 1995, ed inoltre, si è dimenticato
dell’accusa di cui all’art. 437c.p..
In questa situazione di carente motivazione, per di
più contraddittoria nei pochi punti trattati, sostiene il P.M. che la sentenza
dei giudici di primo grado debba essere riformata "in toto", facendo
esplicito richiamo alle fonti di prova d'accusa indicate nell’atto di appello e
che già erano state sintetizzate durante la requisitoria all’esito del giudizio
di primo grado.
Conclude quindi il P.M. i propri motivi di appello
relativamente alle statuizioni sul primo capo d’imputazione, sostenendo ancora
la sussistenza del disastro innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437
c.p., della cooperazione colposa ex art. 113 c.p. tra tutti gli imputati, e
della continuazione fra tutti i reati colposi contestati, nonché
l’insussistenza della prescrizione.
Quanto al disastro innominato colposo e i suoi
rapporti con l’art. 437 c.p., ricordato che il Tribunale ha pronunciato
assoluzione dal reato di disastro innominato colposo contestato al primo capo
di imputazione, in quanto il fatto non costituisce reato per condotte tenute
sino al 1973 e per insussistenza del fatto per condotte successive al 1973,
avendo appunto i giudici di primo grado individuato nel 1973 l'anno a partire dal quale sarebbe cessata
l'efficienza lesiva del C.V.M. a seguito degli interventi per la riduzione
delle esposizioni, il P.M., ferme restando le critiche in fatto su tale epoca
sopra ricordate, censura comunque la pronuncia assolutoria alla quale il
Tribunale sarebbe pervenuto sulla base di una interpretazione non corretta
della fattispecie contestata. Sostiene infatti l’appellante che il Tribunale,
secondo il quale il reato di disastro
andrebbe inteso "come evento di danno caratterizzato nel suo manifestarsi
dalla gravità, complessità, estensione e diffusività", ha operato una
indebita sovrapposizione tra l'evento di
pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli
eventi di danno a quel pericolo conseguiti. assumendoli quali elementi
costitutivi della fattispecie colposa; mentre avrebbe dovuto configurarli come
condizione di punibilità dell'ipotesi aggravata di disastro considerata al
comma secondo dell' art. 434 cp. Necessario e sufficiente, sostiene il P.M., la
mera insorgenza di uno stato di fatto che renda possibile il danno.
Dunque i giudici di primo grado avrebbero dovuto
chiedersi se, in un momento anteriore al
giudizio, il bene protetto -incolumità pubblica- fosse effettivamente "caduto in crisi", formulando un
giudizio prognostico sugli eventi futuri. Orbene, il Tribunale ha affermato che
il rischio costituito dall'esposizione a CVM ha avuto idoneità lesiva dell'integrità
fisica ed efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti, in quanto lo dimostrano i tumori e
le malattie che la sostanza ha causato.
Se ne doveva trarre la conseguenza che il bene protetto era stato messo in
pericolo, quel pericolo che la constatazione degli eventi lesivi implica e che perciò stesso era stato
cagionato un disastro causalmente riferibile ed imputabile alla condotta
colposa degli imputati che, rivestendo posizioni di garanzia, avevano la
gestione del rischio relativo all'esposizione ad una sostanza tossica ed
oncogena.
Quanto al rapporto esistente tra la fattispecie di
disastro innominato colposo e la fattispecie di cui all’art.437 c.p., ritiene
il P.M. di sistemarlo dogmaticamente (e cita Cass. pen. Sez. IV,
16.7/8.11.1993, Arienti ed altri – caso Mec Navi; prodotta) nel senso che il
capoverso dell’art.437 c.p. costituisce un reato complesso in cui l’evento
disastroso (l’altro disastro o infortunio) concreta appunto un disastro
innominato colposo, che viene dunque assorbito nel reato di “omessa
collocazione” seguita dal disastro. Ciò viene precisato in ossequio al
principio del “favor rei”, in relazione alla eventuale determinazione della
pena da infliggere all’imputato.
Quanto alla
cooperazione colposa, contestata nell'imputazione, la stessa secondo il P.M.
pare del tutto provata, oltre che giuridicamente configurabile. Sostiene
l’appellante che in contrario, non giova sostenere che mancherebbero i supposti
requisiti della "reciprocità" e "contestualità" della
rappresentazione dell'altrui condotta colposa, nei partecipi di questa
"anomala" forma di partecipazione al reato; e che proprio la
dimensione diacronica enorme, che connota questa vicenda, nonché la autonomia
dei due "centri decisionali organizzati" che hanno determinato le
decisioni di politica d'impresa sub iudice escludono già
"logicamente" la possibilità di concepire una cooperazione colposa.
Viceversa, né nella lettera né nella ratio di disciplina dell'istituto, si
rinviene una siffatta restrizione o possibilità di esclusione del suo ambito di
operatività, essendo anzi vero il contrario.
Nel citare dottrina
e giurisprudenza che avallerebbero una interpretazione che riconosce autonoma
capacità "incriminatrice" all'art. 113 c.p., che estende anche a casi
non altrimenti punibili la responsabilità penale, in quanto la pericolosità di
determinate condotte (di per sé atipiche) può diventare attuale solo
incontrando la condotta pericolosa altrui, sostiene il P.M. che il legame di
"cooperazione" su cui si fonda detta estensione di punibilità, non
implica affatto un atteggiamento psicologico reale e contestuale di
"consapevolezza reciproca" delle rispettive azioni, essendo
sufficiente, in conformità con i requisiti della colpa, la «prevedibilità
della condotta altrui, concorrente con la propria» (Severino di Benedetto, La cooperazione, cit., 103; Cognetta, La cooperazione, cit., 87);
e, si deve, aggiungere: realizzatrice (o "concretizzatrice") proprio
del tipo di rischio che la norma precauzionale violata mirava ad evitare (cfr. Grasso, Comm. sist. cod. pen., II,
Milano, 198), con l'avvertenza che detta norma cautelare —rilevante per la
imputazione a titolo di cooperazione colposa — potrebbe essere anche
semplicemente quella volta a prevenire non direttamente l'evento lesivo in sé,
bensì la condotta colposa altrui che poi lo ha effettivamente causato (Cognetta, La cooperazione, cit., 88).
Nel caso di specie,
l'aspetto più importante dei fatti contestati, in cui rileva tale forma di
responsabilità concorsuale colposa, sarebbe
manifestamente quello che riguarda il subentro di fatto e la successione
anche "informale" in posizioni di controllo e gestione dell'impresa o
di singoli reparti ed impianti. Sarebbe infatti evidente e documentale la piena
consapevolezza, più che mera "conoscibilità", da parte di ENI-ENICHEM
e dei suoi responsabili e dirigenti, ai vari livelli di competenza oggi
imputati, sia delle condizioni degli impianti, sia delle problematiche di
sicurezza e rischio della produzione e delle sostanze, sia dell'adibizione
degli operai alle varie mansioni ed attività, con ampia partecipazione alla
piena responsabilità nel «dimensionare il personale degli impianti e dei
servizi, di intesa con ENI, in relazione ai costi concordati prima del closing».
Ed è dunque fondata su prove sicure, oltre che logica, al di là dell'ampia
dimensione temporale della vicenda, l'estensione di responsabilità ai diversi
imputati ENI-ENICHEM accanto ed in cooperazione colposa con quelli Montedison,
nella causazione delle malattie professionali e dei disastri contestati.
Quanto alla
configurabilità della continuazione ex art. 81, comma 2, c.p., fra i delitti
colposi contestati, in specie: lesioni personali, disastri e strage colposi,
nonché reati ambientali vari, contesta il P.M. la tesi difensiva secondo la
quale tale istituto sarebbe incompatibile con i reati colposi relativamente ai
quali non ci potrebbe essere l'identità
del disegno criminoso. Sostiene contrariamente che non solo qualche isolata ed
"originale" voce dottrinale sostiene la piena compatibilità della
continuazione con i delitti e i reati colposi, ma neppure la giurisprudenza
sarebbe in posizione così monoliticamente negativa. Al di là della sentenza
(già citata Cass., sez. I, 24 maggio 1985, Sicchiero, in Cass. Pen., 1987, pag.
742 s., m. 536, con nota di richiami, che fa espresso riferimento alla
possibilità di continuazione nei reati colposi, allorché vi sia - come nel
caso di specie! – l'aggravante di aver agito nonostante la previsione
dell'evento: e non si riscontrano invece precedenti in senso contrario, specifici
su tale ipotesi), ve ne è quantomeno un'altra, assai significativa e
riportata nei repertori e codici commentati, che riconosce la possibilità di
ravvisare la continuazione anche quando si abbia la cosiddetta "colpa
impropria", che come noto implica un reale contenuto psicologico a base
della condotta dell'agente, pur se l'imputazione sia poi a titolo di colpa e
non di dolo (Cass., sez. I, 10 marzo 1983, Avena, in Cass. Pen., 1985, pag.
1112 s., m. 672, con nota di richiami e motivazione).
Dunque non vi
sarebbe certo impossibilità di diversa interpretazione ed applicazione
dell'art. 81, comma 2, c.p.. Anzi: proprio di fronte alla oggi acquisita
maggior rilevanza e frequenza di applicazione delle fattispecie colpose, in
ambiti soprattutto qual è quello in questione, di attività economiche di per sé
non illecite, se rispettose delle regole cautelari volute dall'ordinamento, si
è affermata la piena consapevolezza dogmatica che la colpa è senz'altro interna
e compatibile con la volontà e consapevolezza dell'agire economico, delle
scelte d'impresa. Sarebbe dunque senz'altro compatibile, con il rimprovero di
colpa, tanto più se "cosciente", la presenza di un unico
"disegno criminoso", realizzato dalle diverse condotte esecutive,
attive od omissive, in sé finalistiche, anche se non tecnicamente
"dolose" rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo intergrano, non
dovendo d’altra parte fare riferimento all’intera serie di elementi che costituiscono
i reati, ma solo alle mere “azioni od omissioni”. In ogni caso rileva il P.M.
che il Tribunale, nel contestare la sussistenza della cooperazione colposa e la
sussistenza della continuazione (ex art.81 c.p.), abbia completamente
dimenticato che in questi processo si parla anche di un grave reato di natura
dolosa (art.437).
Quanto infine alla
insussistenza della prescrizione, ricorda il P.M. coma abbia già contestato
supra la tesi che l’esposizione sia cessata nel 1974 e si è sostenuto che
l’esposizione è perdurata fino agli anni ’90: è allora sufficiente applicare i
principi affermati in sentenza in tema
di disastro innominato colposo per escludere che ricorra detta causa di
estinzione. Secondo la sentenza è infatti “irrilevante verificare se le
condotte quali fattori causali siano state concomitanti, prossime o addirittura
remote rispetto al venire in essere dell’evento” (pag. 268), cioè della
malattia o del decesso.
Fermo che si debba
dunque rispondere per un evento avvenuto anche trent’anni dopo la tenuta della
condotta colposa, non può evidentemente fare alcuna differenza che gli eventi
siano uno, due o molteplici; si tratta di reato che può venire qualificato come
eventualmente progressivo ed il “dies a
quo” decorre dalla consumazione, quindi dall’ultimo evento. E dalle schede
prodotte dall’avv. Zaffalon, difensore di parte civile (ud. 15.6.01) e
ricostruite sulla base dei dati forniti in aula dalla Guardia di Finanza, oltre
che dai CC.TT. degli imputati, schede in cui
è stato ricostruito il disastro innominato colposo specificamente
attribuibile a ciascun imputato (cioè con la specificazione delle lesioni e
degli omicidi colposi a ciascuno addebitabili), emerge che per ciascuno e per
tutti gli imputati l’ultimo evento è avvenuto nel 2000: è dunque da questa data
che decorre il termine prescrizionale, termine allo stato evidentemente non
ancora maturato.
Nello specifico,
quanto al rapporto fra disastro innominato colposo (artt. 449-434 c.p.) ed
omessa collocazione di impianti antinfortunistici, ribadito che il capoverso dell’art. 437 c.p. costituisce
un reato complesso in cui l’evento disastroso (l’altro disastro od infortunio)
concreta appunto un disastro innominato
colposo, che viene dunque assorbito nel reato di omessa collocazione seguita
dal disastro, osserva il P.M. che ai fini dei termini prescrizionali non cambia
nulla, in quanto il citato reato complesso si consuma al verificarsi degli
eventi e quindi la decorrenza si ha dall’ultimo evento. Ed anche i reati di
omicidio o lesioni colposi, la maggior parte apparentemente estinti essendo
molto datati, possono andare esenti da prescrizione in quanto vincolati da
continuazione con l’omessa collocazione di impianti antinfortunistici, reato
che, attesa la contestazione dell’aggravante di avere agito con la previsione
dell’evento, può costituire la base del reato continuato comprendente le
lesioni e gli omicidi colposi, onde ancora nel 2000 andrebbe individuato il
dies a quo.
Per tutti i predetti
motivi insiste dunque il P.M. per l’accoglimento delle avanzate richieste in
merito al primo capo d’imputazione, e cioè: rinnovazione del dibattimento, al fine di acquisire le prove, specificate
nell’atto d’appello che qui s’intendono trascritte, previo annullamento, ove necessario, delle ordinanze della 1a Sezione
Penale del Tribunale Ordinario di Venezia;e quindi dichiarazione di penale
responsabilità degli imputati: CEFIS
Eugenio, GRANDI Alberto, PORTA Giorgio; GATTI Pier Giorgio, BARTALINI Emilio, LUPO Mario, D’ARMINIO
MONFORTE Giovanni, CALVI Renato, TRAPASSO Italo, DIAZ Gianluigi, MORRIONE
Paolo, REICHENBACH Giancarlo,
SEBASTIANI Angelo, FEDATO Lucian, GAIBA Sauro, FABBRI Gaetano, SMAI Franco,
PISANI Lucio, ZERBO Federico, PRESOTTO Cirillo, BURRAI Alberto, BELLONI
Antonio, GRITTI BOTTACCO Carlo Massimiliano, MARZOLLO Dino, PALMIERI Domenico,
NECCI Lorenzo, PARILLO Giovanni, PATRON Luigi,, con la conseguente condanna
degli imputati alla pena già richiesta in sede di conclusione del giudizio di
primo grado (ed indicata in epigrafe)
o, comunque, alla pena che sarà ritenuta equa, con ulteriore condanna alle spese di giustizia e ai
risarcimenti dei danni che saranno richiesti dalle Parti Civili costituite.
Quanto
alle impugnazioni delle Parti Civili, le stesse ripercorrono e ripropongono, in
ordine alle statuizioni del Tribunale relative al primo capo di imputazione, le
doglianze stesse più ampiamente sviluppate dal P.M. e di cui sopra.
In particolare,
l’Avvocato dello Stato, in qualità di difensore ex lege del Presidente del
Consiglio dei Ministri e del Ministero
dell’Ambiente e della tutela del Territorio, proponeva impugnazione e chiedeva
la riforma della sentenza nella parte in cui, in relazione al primo capo, ha
assolto, tra gli altri, Porta Giorgio (relativamente alle condotte tenute quale
Presidente della società Enichem spa dal gennaio 1991 al giugno 1993), Trapasso
Italo (relativamente alle condotte tenute quale Direttore della programmazione
della società ENI dal 1/1/1980 al 31/12/1981nonchè di Vice Presidente ed Amministratore delegato della società ENOXY
dal 1/1/1982 al maggio 1983, di Presidente della stessa società dal maggio 1983
al settembre 1983, di Vice presidente vicario ed amministratore delegato della
società Enichimica da maggio 1983 al 31/12/1984) , Smai Franco, Pisani Lucio, Zerbo Federico, Presotto Cirillo,
Burrai Alberto, Necci Lorenzo dai reati di <lesioni personali
colpose> e di <omicidio colposo>
riferiti alle ulteriori persone offese nonché dai reati di <omissione
dolosa di cautele>, di <strage colposa> e di <disastro innominato
colposo> per condotte tenute in epoca successiva all’anno 1973 perché il
fatto non sussiste.
Al riguardo, premesso da parte dell’appellante che tutte le
osservazioni e le censure mosse ai provvedimenti impugnati vanno intese e sono riferite
alle sole posizioni degli imputati e dei responsabili civili nei cui confronti
continua ad essere coltivata l’azione civile con la proposizione dei motivi
d’appello, in quanto all’esito del dibattimento di primo grado lo Stato ha
definito transattivamente la lite proposta con la dichiarazione di costituzione
di parte civile nel presente procedimenti nei (soli) confronti del responsabile
civile Montedison spa e del responsabile civile Montedipe spa e degli imputati agli stessi collegati
limitatamente alle condotte di gestione degli impianti del petrolchimico di
Porto Marghera attuate dalle predette
società e di cui le stesse debbano, a qualsiasi titolo, rispondere, onde si
anticipa che nel corso del giudizio d’appello si procederà a revocare (così
come in effetti si revocherà) la dichiarazione delle costituzione di parte
civile nei confronti di singoli
imputati rispetto ai quali, per
effetto dell’intervenuta transazione, è divenuta improcedibile - in tutto o in
parte, nei limiti che saranno precisati per ciascun imputato - l’azione diretta ad ottenere il risarcimento
del danno, si indicano nei seguenti gli specifici motivi di doglianza relativi
al primo capo d’imputazione:
1) In relazione all’affermata esclusione del nesso causale
tra esposizione a CVM e tutte le restanti patologie diverse da angiosarcoma
epatico, epatopatie e morbo di Reinaud.
In generale si
sostiene che la sentenza perviene a
tali conclusioni sulla base di ripetuti gravi
errori giuridici, che riguardano tutta una serie di profili concernenti
tanto gli elementi oggettivi quanto quelli soggettivi dei reati contestati, di
contraddizioni logiche e di incomprensibili
travisamento dei fatti, sottovalutazione di precisi elementi probatori,
alcuni dei quali addirittura del tutto trascurati benchè fossero stati oggetto
di particolare attenzione dibattimentale. E nello specifico:
1a) In relazione alla pretesa esclusione
della colpa specifica da violazione delle norme in materia di igiene del lavoro
per la mancanza conoscenza scientifica
delle correlazione tra le singole patologie e l’esposizione a CVM (con
particolare riferimento all’affermata inapplicabilità - in mancanza di detta
conoscenza - di norme di igiene del
lavoro quali gli art.. 20-21 DPR 19/3/56 n. 303).
Sul punto si lamenta
che il Tribunale avrebbe compiuto almeno tre gravi errori, di diritto e
nell’apprezzamento del fatto.
Innanzitutto ha
inserito la categoria della prevedibilità dell’evento nella struttura della
colpa per violazione di legge, ignorando
del tutto l’antico e costante
insegnamento del Supremo Collegio (valido a maggior ragione in materia di sicurezza ed igiene del
lavoro, atteso il carattere assoluto ed oggettivo del dovere di sicurezza)
secondo cui:
“In
tema di colpa specifica per violazione di determinate disposizioni di
leggi, regolamenti, discipline etc decisivo, ai fini di una prognosi sulla
responsabilità penale, deve ritenersi, in positivo, l’accertamento in ordine
alla regola trasgredita, nessuna influenza
potendo esplicare il criterio della prevedibilità; di guisa che,
accertata la violazione, sorge la responsabilità, dovendosi considerare che
l’inosservanza delle norme predette sostanzia quella imprudenza e negligenza
che costituisce il dato saliente della responsabilità per colpa” (Cass. Sez. IV
sent. nr. 14202 del 25/10/1989 RV 182332).
Del resto dovrebbe
essere dato ormai acquisito dalla cultura giuridica italiana (trattandosi di principio affermato
significativamente ancora negli anni ’60,
con le prime applicazioni della normativa in riferimento) che “le norme per la
prevenzione degli infortuni sono state
dettate per evitare i pericoli, anche non facilmente prevedibili, che sono
connessi a particolari condizioni di lavoro” (Così Cass. Sez. V, sent. nr. 806
del 17/6/1969, RV 111908).
Dunque è sufficiente
che vi sia una norma di legge che detta misure di prevenzione a tutela della
salubrità dell’ambiente di lavoro affinchè il datore di lavoro venga gravato
dell’osservanza degli obblighi in essa descritti, a nulla potendo rilevare la
rappresentazione (e la prevedibilità) di eventi ritenuti conseguenza della sua
eventuale inosservanza.
In secondo luogo, e
conseguentemente, il Tribunale ha completamente ignorato che era comunque nota, a livello scientifico, la conoscenza
di rischi per la salute, ancora non
mortali (ma non per questo giuridicamente irrilevanti) derivanti
dall’esposizione del lavoratore a concentrazioni non elevate di CVM (dell’ordine di decine di p.p.m.), quali quelli ben illustrati sin dagli studi
di TORKELSON e SOCIN, e che tale conoscenza avrebbe dovuto indurre il datore di
lavoro Enichem spa (ed anche negli anni ‘90) , secondo la nitida previsione
dell’art. 20 cit., innanzitutto ad
impedire del tutto lo sviluppo e la
diffusione del gas tossico (quale il CVM era noto che fosse) nell’ambiente di
lavoro o, in caso di assoluta impossibilità tecnica, a ridurre sempre più,
progressivamente e tendenzialmente a zero, nei limiti consentiti dal progresso
tecnologico e con l’utilizzo delle migliori tecnologie di volta in volta
disponibili, la presenza del gas in detto ambiente. (Sul pregnante e complesso
contenuto del dovere di sicurezza risultante dall’art. 20 DPR 303/56, che non
si limita a prevedere impianti di aspirazione localizzati il più vicino alle
fonti di produzione egli agenti nocivi ma che impone anche misure organizzative
del lavoro allorquando tali misure di difesa risultino insufficienti cfr. Cass.
Sez. IV sent. nr. 10730 del 25/10/1991, RV 188570).
Che ciò non si sia
affatto verificato (e per quel che interessa la prospettiva di questa parte
civile neppure nelle epoche più recenti,
per tutta la fase di gestione ENICHEM
degli impianti) sarà oggetto di
altre considerazioni specificamente sviluppate in seguito in diverso motivo di
appello (infra sub 1b)
Infine ha omesso di
considerare che il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro in forza
del sistema giuridico costruito sui
principi dettati dall’art. 41 cpv. Cost. (e quindi art. 2087 cc. nonché normativa
speciale in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro e di igiene del
lavoro) ha contenuto oggettivo. L’ambiente di lavoro deve risultare
“oggettivamente” sicuro, a prescindere dall’affidamento che si può fare sulle
capacità dei soggetti che in esso vi operano di prevenire i rischi ed i
pericoli sulla base delle istruzioni eventualmente ricevute o in forza delle
loro articolari abilità. Da sempre il principio è stato affermato dal Supremo
Collegio: ad esempio Cass. Sez. IV sent. nr. 8082 del 6/10/79, imp. Vigano ha espressamente statuito che “in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, le persone preposte alla organizzazione
imprenditoriale hanno il dovere di garantire la sicurezza oggettiva degli impianti e non possono delegare ad
altri tali doveri”.
Più recentemente il
contenuto oggettivo del dovere di sicurezza (riferito alla oggettiva sicurezza
dell’ambiente di lavoro in quanto tale) è stato ribadito da Cass.
Sez.
IV sent. 8261 del 28/9/1982, imp. Tizza,
Cass. Sez. III sent. nr. 7936 del 3/10/84, imp. Barni;
Cass. Sez. III sent. nr. 7893 del 10/9/85, imp. Donvito; Cass. Sez. IV sent.
6686 del 7/7/93 imp. Moresco).
Dunque non sarebbe,
in alcun caso, giuridicamente proponibile la tesi seguita dal Collegio, dal
momento che la semplice esistenza (che il datore di lavoro ha l’obbligo
giuridico di conoscere e di valutare)
di una condizione di rischio, anche minimo, per la salute del
lavoratore comporta, ex se, in capo al
datore di lavoro l’obbligo giuridico di eliminazione del rischio in modo tale
che, oggettivamente, l’ambiente di lavoro risulti sicuro.
I gravi errori
descritti che, in serie, sono stati
commessi nella ricostruzione della colpa e, in particolare, nell’esclusione dei profili di colpa specifica derivanti dalla violazione della
normativa in materia di igiene e di prevenzione degli infortuni sul lavoro,
hanno poi condizionato il decisum del Tribunale anche per quanto concerne la
tematica della ricostruzione delle effettive concentrazioni di gas (CVM in
particolare) cui i lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera sono stati
esposti non solo immediatamente dopo il 1973 ma anche in epoche molto più
recenti, appunto durante la gestione ENICHEM (i dati probatori più
significativi si riferiscono al periodo
1990-1993).
La valutazione del
Tribunale, sul punto, ha, infatti, pesantemente risentito degli effetti
derivanti dall’esclusione della colpa per le ragioni suddette, dato che tale
argomentazione giuridica (usata dal giudice di I° grado soprattutto per
escludere la colpa in epoca antecedente alla conoscenza della cancerogenicità
della sostanza) è stata subito accompagnata da un giudizio di adeguatezza delle
misure adottate dopo tale conoscenza che non solo non può essere condiviso nel
merito (per le ragioni di cui si dirà a proposito dell’effettiva esposizione
dei lavoratori a CVM) ma anche perché non è minimamente rispettoso di quello che è il reale contenuto del
dovere di sicurezza del datore di lavoro quale, invece, risulta dalle indicazioni
fornite dal Supremo Collegio alle quali si è fatto più sopra riferimento.
1b1) Errori,
sottovalutazioni e travisamenti nella ricostruzione della reale ed effettiva
concentrazione del CVM cui sono stati e
sono tuttora esposti i lavoratori (con particolare riferimento alle esposizioni
registrate dal gascromatografo nel periodo 1990 - 1993).
Si sostiene sul
punto che le evidenze probatorie, e si citano testimonianze e documentazione
oltre che le valutazioni dei consulenti tecnici, farebbero cadere il pilastro
su cui la sentenza appellata ha fondato – in fatto – l’esclusione del nesso
causale per molte delle patologie prese in considerazione. Ciò in quanto le
esposizioni reali dei lavoratori impegnati nei reparti di produzione e/o di
utilizzazione del CVM erano e sono sempre state (anche nei tempi più recenti
tra quelli presi in considerazione dall’imputazione) enormemente più alte di
quelle (trascurabili) mediamente indicate dai monitoraggi aziendali, eseguiti
in modo non conforme a quanto richiesto dalla normativa vigente, privi
dell’indispensabile completezza delle misure, con strumenti inefficienti e,
comunque, utilizzati in più occasioni con vistose correzioni apportate dagli
operatori e finalizzate ad ottenere risultati ben più favorevoli al datore di
lavoro di quelli altrimenti fornite dal
funzionamento automatico del sistema. Ed i dati che certificavano tali più alte
concentrazioni di CVM in ambienti di lavoro (quali, ad esempio, le annotazioni
sul registro per il passaggio di
consegne, in cui erano talvolta annotate le concentrazioni reali misurate con le sonde in occasione di fughe) sono
stati ignorati dal Tribunale benchè attestassero (sia istantaneamente che
cumulativamente intesi) un superamento di
gran lunga della soglia di idoneità lesiva che lo stesso Tribunale ha ritenuto
debba consistere in 10 ppm cumulativi (pagg. 116 – 121) e persino delle soglie più basse di
esposizione cumulativa riscontrate, in letteratura, per alcuni tipi di tumore (288
ppm. per l’angiosarcoma).
E si sostiene
altresì che la predetta censura esplica efficacia anche sotto il profilo della
critica al disconoscimento del disastro
innominato in relazione alle condotte
successive tenute dal 1973, doglianza, pertanto, che espressamente si propone a
codesta On.le Corte d’Appello sulla scorta sia dei dati sin qui illustrati in
ordine alla reali concentrazioni del CVM negli ambienti di lavoro sia in
relazione al riconoscimento del nesso causale tra esposizione e le patologie
per le quali esso è stato, invece, erroneamente escluso, alla luce delle
considerazioni sviluppate nei seguenti motivi d’appello.
1b2) In relazione
alla generalizzata assoluzione di tutti gli imputati da tutte le
contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro (con riferimento a
quelle previste dal DPR 547/55, dal DPR 303/56 nonchè dal DPR 10/9/82 n. 962).
Si sostiene sul
punto che le assoluzioni dalle contravvenzioni, pur indistintamente e
generalmente pronunciate dal Collegio, non risultano motivate nè con
riferimento alle singole contravvenzioni contestate in imputazione nè con
riferimento alle prove fornite dal dibattimento, che, nell’evidenziare le
elevate esposizioni di cui sopra, dimostrerebbero non solo l’inefficienza e la
non adeguatezza del sistema di monitoraggio ad oggi utilizzato all’interno
dello stabilimento ma, soprattutto, la sua non conformità nè ai dettami
prescritti dagli artt. 21 e 21 del DPR 303/88 nè alle regole tecniche imposte
dal DPR 962/82 abrogato dall’art. 13 del D. Leg.vo 25/2/2000, n. 66 che ha
ricondotto tutta la materia in precedenza disciplinata dal citato DPR
nell’ambito della generale disciplina dettata dal D. leg.vo 626/94 e successive
modifiche, recuperando, in particolare, quanto alle tecniche di monitoraggio, i
sistemi di controllo ambientale previsti negli allegati al D. Leg.vo 277/91.
Proprio tale
modifica normativa dimostra che la materia è tuttora penalmente sanzionata
sulla base delle norme incriminatrici contenute sia nel D. leg.vo 277/91 che
nel D. Leg.vo 626/94: non vi è stata, pertanto, abolitio criminis ma soltanto
successione delle leggi penali nel tempo. Il Tribunale avrebbe conseguentemente
dovuto affrontare il problema della norma penale applicabile sulla base dei
noti criteri contenuti nell’art. 2 del cod. penale.
Non lo ha fatto
perchè ha ritenuto - trascurando del tutto di considerare gli elementi di fatto
illustrati dal Prof. Nardelli e le implicazioni giuridiche che questa difesa
aveva prospettato nel corso della discussione - che il sistema di monitoraggio
fosse rispettoso di tutti i dettati normativi e fosse davvero in grado di
misurare la reale concentrazione del gas negli ambienti di lavoro. La
valutazione, tuttavia, è errata sia in fatto che in diritto.
Il Tribunale,
infatti, non ha tenuto in alcun conto la denunciata insufficienza ed
inadeguatezza del numero e della collocazione dei punti di prelievo
(campanelle) nel reparto CV 24.
La sproporzione
evidente tra il volume d’aria destinata ad essere campionato dalle campanelle a
piano terra rispetto a quelle collocate sopra le autoclavi, ad esempio, (700 mc
per le prime contro 340 mc per le seconde) dimostra tale inadeguatezza e
consente di fondare la censura della violazione dell’art. 4, I. C. DPR 962/82
con riferimento al punto 1C2 dell’Allegato I.
Ma le censure più
gravi sono quelle relative all’imposizione di soglie massime di misurazione al
gascromatografo.
Esse ( si ricorda:
soltanto 25 ppm!) sono inferiori addirittura alla soglia di allarme prevista
dalla direttiva europea e dal DPR che ne ha dato attuazione: di qui la
violazione dell’art. 5 di detto DPR 962/82. Violazione che sussiste anche in
relazione all’installazione ed al funzionamento dell’interruttore ON/OFF, dal
momento che si è dimostrato come lo stesso abbia significativamente alterato
gli automatismi su cui il legislatore contava proprio per impedire ogni
possibilità di interventi correttivi nella rilevazione del gas.
Ma un tal genere di
genere di monitoraggio è anche contrario agli obblighi affermati, ad esempio,
dall’art. 20 del DPR 303/56.
Da tale norma,
infatti, scaturiscono sia il dovere di eliminazione e/o di progressivariduzione
all’infinito della possibilità di sviluppo e/o della diffusione del gas tossico
sia il dovere di eliminare immediatamente, in caso di fuga, il gas nello stesso
punto in cui lo stesso è stato prodotto.
Di qui,
conseguentemente, l’obbligo di aspirare il gas nei punti critici che dovranno,
pertanto, essere verificati e controllati da un sistema di misurazione
puntiforme capace di controllare, in ognuno di essi, il verificarsi di una fuga e di consentire i tempestivi
interventi di contenimento e di bonifica.
Tutto questo avrebbe
dovuto essere considerato dal Tribunale, specie alla luce dei dati e delle
informazioni di cui si è trattato nel precedente motivo.
L’assoluzione dalle
contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è
immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della
contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di
monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento
documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal prof. Nardelli.
1c) Errore e
travisamento dei fatti in generale nella ricostruzione del nesso causale tra le
malattie contestate e l’esposizione a CVM, in particolare per le seguenti
ragioni:
1c1) Difetto di
motivazione, errore e contraddittorietà nella considerazione di ciò che, per il
diritto penale, deve essere inteso come malattia.
Sul punto rileva
l’appellante come il Tribunale abbia del tutto ignorato la necessità di
considerare, come malattie in relazione alle quali porsi il problema della
riconducibilità causale all’esposizione al CVM ed alle altre sostanze tossiche
indicate in imputazione , qualsiasi modificazione della condizione di benessere
fisiopsichico dei lavoratori cui fosse associata una anche solo temporanea
modificazione delle funzioni organiche
(secondo il noto insegnamento del Supremo Collegio: per tutte Cass sentenza nr.
714 del 19/1/1999 che statuisce:” Il
concetto clinico di malattia richiede
il concorso del requisito
essenziale di una riduzione apprezzabile di
funzionalita', a cui puo' anche
non corrispondere una lesione anatomica, e
di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza,
verso un esito che potra' essere la guarigione perfetta, l'adattamento a
nuove condizioni di vita oppure la
morte. Ne deriva che non costituiscono malattia e quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le
alterazioni anatomiche, a cui non si
accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalita'”).
Il Tribunale ha
dunque omesso di fare chiarezza sulla stessa nozione di malattia penalmente
rilevante, così come definita dal Supremo Collegio e si è adagiato acriticamente sul concetto (clinico) di
malattia che era stato fornito da alcuni consulenti di parte della difesa.
Ciò nonostante
questa difesa avesse dimostrato – in sede di controesame di detti consulenti di
parte, e se ne riportano nell’atto di appello i passi – quale fosse il limite
vistoso derivante dall’assenza della nozione di malattia così come descritta
dalla Suprema Corte.
Ed il Tribunale non solo non si è accorto del grave
problema – che l’accusa aveva prontamente evidenziato – ma, in nome del primato
della scienza, ha ritenuto che la nozione clinica (e dunque riduttiva) della
malattia dovesse prevalere sul concetto che di essa è ricavabile dal sistema
penale.
Il problema non è
stato minimamente affrontato dal Collegio e la circostanza – invece – pacifica
avrebbe potuto svolgere – a tacer d’altro – un ruolo importante nella
configurazione di una dichiaranda responsabilità penale per i delitti di
disastro innominato di cui all’art. 434 cp. nonché per quello di cui all’art.
437 cp. in relazione ai quali il verificarsi della malattia-infortunio
costituisce circostanza aggravante.
1.c2) Errore nel ritenere che il nesso causale
sussista soltanto quando sia possibile dimostrare l’esistenza di una legge
scientifica di copertura capace di dare la spiegazione scientifica dell’evento,
limitando così la certezza
processuale ai soli casi in cui la
scienza sia giunta a dare, in termini certi, la spiegazione dei meccanismi che
ingenerano la patologia e del loro modo di agire.
Proprio su tale punto,
sostiene l’appellante, la sentenza avrebbe compiuto l’errore più grave,
allorquando ha escluso il nesso causale tra esposizione a CVM e la quasi
totalità delle patologie che erano
state oggetto di contestazione sulla base di una concezione giuridicamente
errata dei criteri di ricostruzione del nesso causale, criteri
significativamente disattesi persino dal recente pronunciamento sul punto delle
Sezioni Unite del supremo Collegio ( cfr. Cass. Sezioni Unite penali , sentenza nr. 30328 del 10/7 – 11/972002,
Pres. Marvulli, rel. Canzio,)
L’idea che fosse
necessaria la precisa dimostrazione scientifica del meccanismo causale di ogni
patologia in generale e per ciascun lavoratore (ovviamente impossibile da dare)
è stata ritenuta sufficiente dal Giudice di primo grado per escludere in assoluto la rilevanza
penale dei fatti sulla base di una asserita mancata dimostrazione del nesso
causale.
Sono stati, in tal
senso, enfatizzati dal Collegio i limiti degli studi epidemiologici, quasi che
solo una certezza delle ricerche in
quel settore della scienza (per la verità avente ben altri obiettivi rispetto a
quelli che caratterizzano la ricostruzione del nesso causale nel diritto
penale!) potesse fungere da parametro obiettivo per discriminare le patologie
riconducibili al cloruro di vinile.
In realtà non solo tale postulato si fonda
sull’erronea rappresentazione del valore da assegnare allo studio
epidemiologico all’interno del processo penale (in assenza del quale, pertanto,
dovrebbe – stando al criterio applicato dal Tribunale – negarsi ogni
possibilità di accertamento di responsabilità penali: una vera e propria delega
della giurisdizione all’epidemiologia, con buona pace dei sacri principi sul
ruolo della giurisdizione in uno stato democratico proclamati più volte dallo
stesso Tribunale!) ma anche risulta obiettivamente in contrasto con le finalità
dichiarate dagli epidemiologi stessi.
Più volte, nel corso
del dibattimento, si è avuto modo di far loro precisare che la mancanza di significatività della correlazione accertata tra l’esposizione ad
una sostanza ed una patologia non significa affatto che deve essere esclusa la
possibilità che la correlazione esista e che operi pienamente sul piano
causale. Significa, invece, limitarsi ad affermare che la scienza, in quel
caso, non è in grado di affermare che essa opera con regolarità nella totalità
dei casi, come invece si potrebbe affermare nel caso in cui lo studio
epidemiologico avesse raggiunto la dimostrazione di altri, e più elevati,
livelli di correlabilità .
In ogni caso – come
insegna il Supremo Collegio – la valutazione del Giudice in ordine al nesso
causale non può ridursi ad un mero calcolo di probabilità (anche perché nessuno
ci può dare il limite di probabilità oltre al quale l’evento viene considerato
effetto cagionato dal quel tipo di fattore causale) ma deve essere effettuata
sulla scorta di un prudente apprezzamento di tutti i fattori tecnici del
singolo caso, fattori la cui presenza viene abitualmente rilevata
dall’utilizzazione di quella “criteriologia medico-legale” sistemata dal
Cazzaniga ancora negli anni ’50 e, ancora una volta, del tutto ignorata dal
Collegio, che pure avrebbe ignorato il contributo specifico di due consulenti
medico-legali indotti dalla parte civile (il prof. Rodriguez ed il dr.
Bartolucci), i quali avevano analiticamente illustrato al Collegio i singoli
casi di operai affetti da patologie che
avrebbero dovuto essere ricondotte con certezza scientifica all’esposizione a
CVM, sulla scorta dei più
consolidati criteri di valutazione medico-legale.
Il tema sarebbe
stato ignorato, secondo l’appellante, proprio a causa della scelta “ideologica”
compiuta dal Collegio in materia, tutta condizionata dall’ovvia impossibilità
di fornire una legge scientifica di copertura per ogni singolo evento.
Si dovrebbe operare
invece, sostiene l’appellante, una valutazione sempre ed insuperabilmente
probabilistica, in cui la certezza processuale si raggiunge (come sempre in
materia di apprezzamento della prova, del resto) sulla base di un convincimento
logico del Giudice che pone alla base del suo giudizio una valutazione
altamente probabilistica e criticamente vagliata del meccanismo causale quale
ricostruito, nella sua complessità, alla luce di tutti i fattori conosciuti.
Alla luce di detti
principi, allora, ben altra valutazione avrebbe dovuto essere compiuta dal
Collegio in ordine alle singole patologie attribuibili all’esposizione a CVM
non solo, genericamente, nei periodi
successivi al 1973 ma anche, più specificamente, in relazione ai periodi di
gestione ENICHEM spa di cui, pertanto,
possono essere chiamati a rispondere gli imputati nei confronti dei quali questa parte civile
coltiva l’azione civile nel giudizio d’appello.
1.c3) Erronea applicazione
del regime delle concause di cui al’art. 41 cp ed omessa e/o erronea
valutazione del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di patologie, con
particolare riferimento al tumore al fegato ed al polmone.
Si sostiene che
Tribunale non affronta nè risolve in termini giuridicamente corretti il problema del ruolo concausale del CVM
nell’insorgenza di alcune patologie (in particolare il tumore al fegato ed il
tumore al polmone) che, invece, l’accusa aveva puntualmente posto nel corso del
dibattimento di primo grado
Si critica
l’affermazione del Tribunale secondo il quale
ciò che non è causa non è idoneo ad assumere il ruolo di concausa di un
evento, sostenendosi invece, con sostanziale riproposizione delle
argomentazioni pure svolte dal P.M. e sopra ricordate, e con richiamo delle
singole specifiche vicende dei lavoratori interessati, che in tutti i casi
descritti sarebbe stata possibile un’affermazione di responsabilità degli
imputati se solo il Tribunale avesse utilizzato i proposti diversi (e corretti)
criteri di valutazione e di giudizio.
2) In relazione
all’erronea esclusione della configurabilità giuridica, in astratto, di alcuni
dei delitti contestati agli imputati (449 con riferimento all’art. 422 cp) e
della sussistenza, in concreto degli estremi obiettivi di altri delitti (437
cp).
2.a) Sull’esclusione
della responsabilità in ordine al reato
di cui all’art. 437 cp. per condotte successive al 1973.
2 a1) Asserita
insussistenza del reato ex art. 437 c.p.- in generale.
2a2) In ordine
all’asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano oggettivo. La
ratio dell’art. 437 c.p.
2a3) Asserita
insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano soggettivo.
Sostiene
l’appellante che la sentenza appellata commette due gravi errori di diritto dal
momento che esclude la stessa configurabilità in astratto del delitto di
disastro colposo di cui agli artt. 422 – 449 cp. e, in concreto, esclude la
sussistenza del delitto di cui all’art. 437 cp. per condotte successive
all’anno 1973.
Quanto a quest’ultima
fattispecie, premesso che, come affermato dal P.M., viene considerata come la
fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole
imputazioni per i reati indicati dal decreto che dispone il giudizio, ci si
lamenta che il Giudice di I° grado - del tutto superficialmente, ma soprattutto
in netto contrasto con i molteplici e concordanti riscontri istruttori,
documentali e testimoniali, resi in dibattimento – liquida come insussistente
la relativa imputazione, dedicando peraltro a questa norma poche, carenti,
contraddittorie e generiche osservazioni sugli aspetti oggettivo e soggettivo
del reato in questione, argomentando in modo assolutamente insufficiente,
illogico e contraddittorio.
Sostiene al
contrario l’appellante, così come sostenuto anche nel proprio appello dal P.M.
ed in forza di sostanziali analoghe argomentazioni sia sulle preliminari
nozioni in ordine agli elementi costitutivi
oggettivi e soggettivi del reato di cui all’art. 437 c.p., sia
nell’analisi dettagliata delle singole condotte rilevanti ai sensi del delitto
in esame, che se si pone mente al fatto che nel presente procedimento tutte le
condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p.
sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e
specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica
e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di
chiusura, la responsabilità avrebbe dovuto essere dichiarata in relazione a tutte
le condotte omissive attribuite agli
imputati, atteso il riscontro
probatorio che le stesse hanno ottenuto nel corso del dibattimento di primo
grado.
2b) In ordine alla
ritenuta impossibilità giuridica di configurare il delitto di disastro colposo
di cui agli artt. 449 – 422 cp. Erronea applicazione della legge penale e
difetto di motivazione.
Si sofferma l’appellante su tale ulteriore profilo di
doglianza (non avanzato dal P.M.) sostenendo che la motivazione in proposito
fornita dal Tribunale appare troppo
sintetica. Si rinnova, quindi, la richiesta relativa all’applicazione della
fattispecie risultante dal combinato disposto di cui agli artt. 449 e 422 c.p.,
delitto colposo la cui esistenza all’interno dell’ordinamento vigente
dev’essere affermata in forza delle argomentazioni già svolte in primo grado e
che si riprendono nell’atto di appello.
Si sostiene al riguardo che la configurabilità di tale
fattispecie emergerebbe sia da una interpretazione letterale, atteso il
riferimento testuale contenuto nell’art. 449 c.p. ai “disastri” di cui al capo
primo, onde resterebbe infirmata l’interpretazione del Tribunale che ricollega
il riferimento al solo incendio e disastri previsti successivamente all’art.
423 c.p., sia dalla volontà del legislatore che, quasi interpretazione
autentica, laddove successivamente ha voluto escludere una particolare
previsione lo ha fatto in modo esplicito come per la ipotesi di cui al secondo
comma dell’art. 423bis c.p., sia da una interpretazione sistematica che farebbe
venir meno anche le argomentazioni del Tribunale in ordine ad assunta
inconciliabilità tra tale riferibilità del rinvio di cui all’art. 449 cp anche
all’art. 422 cp, e l’elemento soggettivo (dolo specifico) del reato di strage.
In proposito si richiama dottrina che sostiene che il rinvio operato dall’art.
449 cp deve intendersi esclusivamente per gli elementi materiali delle varie
fattispecie, con totale estromissione di ogni riferimento all’elemento
soggettivo, dovendo fare riferimento all’art. 42, comma 2, c.p. che consente in
via generale la punibilità a titolo di colpa di condotte già punite a titolo di
dolo senza alcuna limitazione rispetto al dolo generico piuttosto che a quello
specifico, e rinvenendosi nell’ordinamento altre ipotesi di reati colposi che già
sono previsti anche nella forma dolosa con dolo specifico, quali la
contravvenzione di cui all’art. 712 cp rispetto al delitto di cui all’art. 648
cp.
Ed anche successivamente all’art. 423 (Incendio) si
riscontrano “disastri” puniti
ordinariamente a titolo di dolo specifico, i quali, e ciò seguendo
proprio la tesi restrittiva del rinvio selettivo, dovrebbero comunque rientrare
nel sopradescritto meccanismo generatore (cfr., ad esempio, artt. 424, 427,
429, 431 c.p.).
Secondo l’appellante allora è coerente concludere per la
ragionevolezza e la coerenza di un’interpretazione che, in aderenza alla
legalità stretta del dato testuale, ipotizzi la chiara configurabilità di un
“disastro” ex artt. 422 e 449 c.p., disastro che certo strage non è, proprio
perché la definizione legislativa di strage è riservata al delitto doloso e,
per così dire “puro”, di cui all’art. 422 c.p.. Si tratterebbe di diversa
ipotesi che “strage” in senso tecnico non è, e che viene punita a titolo di
colpa per espresso rinvio legislativo.
Analogamente troverebbe smentita sul piano sistematico anche
l’obiezione relativa alle distorsioni che si verificherebbero sul piano
sanzionatorio laddove si ammettesse la configurabilità di un delitto colposo ex
artt. 449 e 422 c.p. Sostiene infatti l’appellante che le asserite incongruità
nel regime sanzionatorio sono frutto non già dell’originale disegno
codicistico, quanto, piuttosto, delle modifiche settoriali di volta in volta
apportate.
Al riguardo si consideri, ad esempio, il sopravvenuto (e non ancora ricomposto)
discrimine tra le fattispecie “interne” alla disposizione dell’art. 422, commi
1 e 2, dopo la soppressione della pena di morte (ex d.l. lgt. del 10 agosto
1944) e la sostituzione alla stessa dell’ergastolo.
A seguito di tale modifica si è operata una parificazione
del trattamento sanzionatorio di fatti diversi: invero, se dal reato derivi la
morte di una o, invece, di più persone diverse risulta essere circostanza del
tutto indifferente ai fini della pena, essendo in ogni caso applicabile
soltanto la pena di un unico ergastolo.
L’incongruenza diventa poi ancora più evidente ove si
considerino gli effetti della predetta modifica in relazione al trattamento
sanzionatorio dell’omicidio volontario plurimo aggravato.
Mentre la sanzione prevista nel caso in cui molteplici
eventi di morte conseguano alla situazione di pericolo di cui all’art. 422 c.p.
è l’ergastolo, il trattamento punitivo previsto, invece, per l’omicidio
aggravato plurimo (art. 577, comma 1, n.2) risulta consistere in una serie di
ergastoli, con conseguenze giuridiche
tutt’altro che indifferenti per il reo.
Pertanto, se incongruenze sanzionatorie sono allora
ipotizzabili anche con riferimento all’ipotesi dolosa della strage (frutto di
una riforma non sufficientemente attenta a tutte le sue implicazioni), non si
potrà certo far leva su tale circostanza per contestare la configurabilità
della fattispecie colposa di cui al delitto ex artt. 422 e 449 c.p.,
trattandosi – in ipotesi - di incongruenza che non consegue all’originaria
concezione del Codice Penale, ma soltanto ad alcune sue modifiche.
Ma al riguardo richiama l’appellante anche un’ulteriore
sviluppo interpretativo, che sarebbe idoneo in quanto tale a risolvere ogni
argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio.
In particolare ci si riferisce alla tesi, in dottrina, in
ordine alla possibile qualificazione degli eventi mortali di cui al delitto ex
artt. 449 – 422 c.p. come “condizioni di maggiore punibilità”, che porterebbe a
concludere per un concorso tra l’omicidio colposo plurimo e la realizzazione
colposa di una “strage” sviluppatasi in più eventi.
Lamenta ancora sul punto l’appellante che nella sentenza
impugnata non trovano espressa menzione
due ulteriori considerazioni generali, avanzate da questa difesa per
illustrare e “contestualizzare” la discussione circa l’esistenza del delitto ex
artt. 449 – 422 c.p.
La prima attiene all’attuale configurazione del bene
“incolumità pubblica” di cui all’art. 422 c.p, evidenziandosi da parte
dell’appellante che il caso di cui si discute in questa sede ben si concilia
con lo sviluppo non solo interpretativo
ma anche normativo che il bene incolumità pubblica ha conosciuto nel corso del
tempo, potendosi oggi ritenere che tale nozione sia idonea ad abbracciare
interessi rilevanti e strettamente connessi quali la salubrità ambientale e la
salute pubblica, soprattutto laddove, come nel caso di specie, “atti tali da
porre in pericolo” (ex art. 422) gli interessi suddetti si accumulino nel corso
del tempo in un progressivo acutizzarsi dei profili offensivi ed in un
conclusivo materializzarsi, accanto ad un evento di pericolo ed al
corrispondente disvalore, di un evento di danno (morte di una o più persone,
più eventi di morte).
Dunque, secondo l’appellante, nella fattispecie ex artt. 422
e 449 c.p. trovano adeguata collocazione molteplici elementi emersi
nell’analisi fattuale: la tutela dell’ambiente, le ripercussioni delle
alterazioni dello stesso e dei pericoli indotti sull’incolumità di una cerchia
potenzialmente indeterminata di persone, le morti di più persone, la violazione
colposa di discipline poste a tutela dei medesimi interessi, la pervasività e
la diffusività del pericolo e/o del danno.
La seconda importante considerazione “sistematica” favorevole
alla configurabilità del delitto ex artt. 449 – 422 c.p., troverebbe poi
fondamento nella consolidata definizione giurisprudenziale del “disastro”, la
cui ampiezza si rivela del tutto conciliabile con le caratteristiche della
nuova fattispecie colposa generata dalla combinazione delle suddette norme
(cfr. la sentenza del 16/07/1965, n.949, della Sezione IV della Corte di
Cassazione, a giudizio della quale la nozione di disastro, in relazione ai
delitti contro l’incolumità pubblica, implica un evento grave e complesso, che
colpisca le persone e le cose, e sia altresì suscettibile non solo di mettere
in pericolo e realizzare il danno di un certo numero di persone e di una certa
quantità di cose, ma anche di diffondere un esteso senso di commozione e di
allarme; ma cfr. anche: Cass. pen., sez. I, sentenza del 10/12/1964, n.1291;
Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 28/02/1970, n.2630; Cass. pen., Sez. IV,
sentenza del 17 marzo 1981; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 23/07/81, n.7387;
Cass. pen., Sez. V, sentenza del 17/08/1990, n.11486; Cass. pen., Sez. IV,
sentenza del 19/05/2000, n.5820).
Concludendo sul punto
sostiene l’appellante che l’esclusione della configurazione del delitto colposo
di cui al combinato disposto degli artt. 449 – 422 cp è, pertanto, erronea,
insufficientemente motivata in relazione alle argomentazioni già prospettate
dall’accusa nel corso del dibattimento di primo grado oltre che nel corso della
stessa udienza preliminare.
3) Impugnazione
dell’ordinanza dibattimentale del 7/4/1998.
Osserva infine
l’appellante come la stessa valutazione
negativa del Tribunale in ordine alla struttura del reato che si è esaminato
avesse caratterizzato anche l’ordinanza del 7/4/1998 con la quale in Collegio,
pronunciando sulle eccezioni difensive, aveva tracciato il solco dei c.d.
“periodi di pertinenza”.
Tale indicazione,
secondo l’appellante, è da criticare nella parte in cui dimostra di non aver
inteso il valore dell’imputazione del delitto di cui agli artt. 449 – 422 cp.
così come ricostruito nel presente motivo d’appello. Si lamenta infatti che
l’ordinanza impugnata, al pari della sentenza, considera atomisticamente le
morti dei singoli lavoratori , quasi
che le stesse fossero slegate da quel contesto generale di disastro
all’interno del quale, invece, le aveva correttamente poste l’imputazione
formulata dal P.M.
Contesto generale ed
unitario, fortemente strutturato intorno a tutti i reati contro l’incolumità
pubblica contestati (e, dunque, oltre
al delitto di cui agli artt. 449-422 cp anche il delitto di disastro
innominato, quello di cui all’art. 437
cp nonché quelli di avvelenamento e di adulterazione di cui si dirà in
seguito) ma che vedeva proprio nel delitto di cui agli artt. 449-422 cp il
contenitore naturale di condotte tutte singolarmente pericolose per la pubblica
incolumità, stratificate nel tempo, dalle quali (o dal concorso delle quali) si
erano poi verificati quegli eventi-morte che, nella struttura del reato,
costituiscono condizioni di punibilità (o, al massimo, circostanze aggravanti).
Dunque anche sul
punto si chiede la riforma dell’impugnata sentenza, tanto nella decisione
assolutoria tanto nell’ordinanza che ne costituiva il fondamento logico
giuridico.
Conclusivamente
lamenta la suddetta parte civile il carattere parziale e limitato della
decisione di primo grado, quale risulta da una motivazione solo apparentemente
ricca e completa ma rivelatasi, in realtà, incredibilmente carente sotto
numerosi punti di vista. Prove decisive ignorate, assoluzioni con la formula più radicale (“perchè il fatto non
sussiste”) del tutto rimaste prive della benchè minima spiegazione, diritti
dell’accusa privata in più occasioni violati, norme penali erroneamente
applicate, travisamento del significato di numerose consulenze tecniche. Una
sentenza ingiusta, dunque, prima ancora che sbagliata, frutto di un grave
“pre-giudizio” nei confronti dell’accusa, e tutta l’impostazione che è stata
data al percorso argomentativo seguito dalla motivazione manifesta una scelta
aperta del Collegio a favore di valori
di garanzia incondizionata verso i diritti dell’imputato. Scelta
sacrosanta e condivisibile pienamente, ma, osserva l’appellante, tale rispetto avrebbe dovuto, tuttavia, essere
dimostrato anche nei confronti delle parti offese più deboli.
Quanto alle
restanti parti civili appellanti, per lo più ripropongono, alla lettera, i
motivi di doglianza, tesi ed argomentazioni del P.M., ripresi, come visto anche
dall’Avvocato dello Stato, sui temi in oggetto (sussistenza dei reati, in
special modo di quello ex art. 437 cp, causalità, natura cancerogena del cvm e
conoscenze in merito alla stessa, colpa, ecc.), con limitate specificazioni in
ordine alle vicende personali di alcune delle parti offese appellanti,
concludendo quindi tutti per la riforma della sentenza con affermazione, ai
fini civilistici, della responsabilità degli imputati in ordine agli addebiti
di cui al primo capo d’imputazione.
Circa il secondo capo d’imputazione, le
argomentazioni del Tribunale a sostegno del deciso, si sviluppano
sostanzialmente in tre parti,
cui si contrappongono le specifiche censure degli appellanti.
IL Tribunale dopo avere premesso che, anche per
questo secondo capo di imputazione, il
PM ha ritenuto necessario, in relazione alla molteplicità e complessità dei fatti ed alla estensione dei danni, utilizzare per
correttamente inquadrare le fattispecie concrete , lo schema dei delitti
contro l’incolumità pubblica ,in
particolare quello del disastro
innominato -per i danni all’ambiente e
all’ecosistema nel suo complesso- e
quello dell’avvelenamento e della adulterazione delle acque o di sostanze
alimentari – per quanto riguarda il biota vivente sul sedimento contaminato dei
canali dell’area industriale e le falde acquifere sottostanti le aree di
discarica interne ed esterne al
Petrolchimico- e ricordato che in data 13 –12 2000 è stata variata l’imputazione,
rileva che la accusa ha proposto una lettura dei fatti basata su
soluzioni in diritto controverse,e che all’esito del processo non sono state
ritenute fondate in fatto le tesi della accusa, ,né condivisibili in diritto le
ipotesi interpretative sottostanti.
Viene quindi
puntualizzata l’ipotesi
accusatoria con cui viene
contestato ad un primo gruppo di imputati
di avere realizzato e gestito discariche abusive di rifiuti tossico nocivi– gli allegati B e
C ne contengono l’elenco di 26 siti di smaltimento-
all’interno e all’esterno del Petrolchimico dal 1970 al 1988.
Ad una seconda serie di imputati, parzialmente
coincidente con la prima – ritenuti consapevoli degli illeciti dei propri antecessori e dello stato di degrado ambientale preesistente -viene invece
contestato: di avere abbandonato rifiuti tossico nocivi in violazione dell’art
9 D.P.R n 915/82;di avere stoccato senza autorizzazione rifiuti tossico nocivi nelle discariche di cui sopra senza la
autorizzazione richiesta ai
sensi dell’art 16 D.P.R. 915/82; di avere effettuato scarichi nelle acque di
fanghi di derivazione da catalizzatori esausti ,cosi come di altri
sottoprodotti di risulta dei processi
effettuati presso gli impianti produttivi – relativi alla produzione del cloro
e dei suoi derivati – in particolare gli scarichi SM2 e SM15 con il superamento
dei limiti , per quel che riguarda clorurati e nitrati, di cui alle tabelle
allegate al D.P.R n .962 /73 –di avere consentito la dispersione nel sottosuolo e nelle acque sottostanti il suolo di residui tossico nocivi
e di acque di rifiuto non trattate – si tratterrebbe delle sostanze
indicate negli elenchi I e II allegati
al D .Lvo n132/1992 riguardante la
protezione delle acque sotterranee ,il cui inquinamento deriverebbe dalla
trasmigrazione passiva della pregressa
contaminazione; di avere omesso
l’adozione delle misure necessarie
al fine evitare il
deterioramento della situazione
sanitaria igienico ambientale ,dei siti contaminati, delle falde acquifere sottostanti e delle acque
finitime; di avere omesso di informare l’autorità pubblica, preposta al controllo, delle attività di discarica e smaltimento
di rifiuti tossico nocivi; di avere omesso le necessarie opere di
bonifica dei siti contaminati, iniziando un parziale interevento limitato a due
zone, solo con la richiesta di autorizzazione presentata alla Provincia di
Venezia nell’agosto del 1995.
A tutti gli
imputati viene quindi contestato di
avere, attraverso le condotte di cui ai capi a )e b) sopradescritte, causato eventi di danno qualificati come
disastro c. d. innominato – previsto
punito dall’art 434 c.p - richiamato nella imputazione- e dall’art 449
c.p- non espressamente richiamato ma da
intendersi sottinteso . data la contestazione
a titolo di colpa.
L’evento di danno consisterebbe nella contaminazione
dei diversi comparti ambientali e nella alterazione dell’ecosistema.
Vengono in
considerazione innanzitutto a tal fine
la contaminazione delle acque di falda
sottostanti la zona di Porto Marghera
, dei sedimenti dei canali e
delle acque prospicienti Porto
Marghera dovuta alla elevata concentrazione
di diossine e di altre famiglie di composti tossici, secondo quanto accertato
dalla consulenza espletata dal C. T del
P.M. depositata il 3-9-1996.
Viene poi in considerazione la compromissione del
suolo e del sottosuolo come conseguenza
della illegittima gestione delle discariche . e come conseguenza di tutte
le condotte di cui sopra viene quindi
addebitato a tutti gli imputati l’avvelenamento delle acque di falda ,
utilizzate anche per uso domestico e agricolo tramite i pozzi , l’avvelenamento
(452 e 439 c p) e l’adulterazione (452
e 440 c.p) delle risorse alimentari costituite dalla ittiofauna e dai molluschi
, contaminazione avvenuta a
seguito dell’inquinamento del biota
, a sua volta inquinato dai sedimenti contaminati dagli scarichi. e
dalle percolazioni delle discariche.
Il pericolo
derivante dalla condotte contestate sarebbe attuale e vi sarebbe di conseguenza la permanenza
in atto, benché invero il capo di
imputazione ,cosi come modificato all’udienza del 13 –12 2000 limiti i fatti all’autunno del 1995.
Il Tribunale richiama quindi le ordinanze con
cui sono state rigettate alcune
eccezioni della difesa relative alla incoerenza
o /e vaghezza della imputazione
che si sono basate sui principi
generali, relativi alla rilevanza
causale di qualsiasi condotta , che costituisca un antecedente necessario,
anche nella sola forma dell’aggravamento, dell’evento, senza che rilevi la
sua maggiore o minore importanza, la distanza temporale rispetto al momento in cui si verificato
l’evento, evidenziando però che con quelle ordinanze è anche stato ribadito che
in relazione alla funzione del diritto
penale, che è quella di accertare responsabilità individuali, la rilevanza
causale dell’apporto del singolo imputato deve essere rigorosamente provata.
Altro problema che viene esaminato è quello
costituito dal richiamo allo schema concettuale della cooperazione nel delitto colposo.
L’ipotesi
dell’accusa non si presenta come un concorso di cause tra loro
indipendenti ma richiama condotte
caratterizzate dalla prevedibilità del comportamento altrui e dalla consapevolezza di ciascuno di aderire con la propria condotta alla condotta altrui, per cui sarebbe una
reciproca consapevolezza di condotte inosservanti da cui deriva un unico evento disastroso.
In ogni caso lo schema sostenuto dalla accusa ,della
cooperazione colposa, piuttosto che quello del concorso di cause , schema ritenuto astrattamente possibile dal Tribunale, non consente
comunque di eludere il problema causale in quanto ,anche nello schema della cooperazione colposa,
condotta penalmente rilevante è quella
che , insieme alle altre ,costituisce conditio sine qua non dell’evento o,
quantomeno, può dirsi efficiente in relazione alla condotta altrui, causalmente
rilevante nella produzione dell’evento ,anche nella forma di aggravamento dell’evento preesistente.
Non potrebbe configurarsi poi la cooperazione per il solo fatto di essere consapevoli dello
stato di inquinamento pregresso se
manca un apporto quantomeno
nella forma dell’aggravamento.
Non è pertanto condivisibile la tesi dell’accusa ,
secondo cui tutte le condotte sarebbero unificate in un addebito di cooperazione colposa, in cui ,ciascun
cooperante assume corresponsabilità per l’insieme delle conseguenza prodotte
dal catabolismo del plesso industriale.
La cooperazione si ritiene configurabile solo tra
coloro che agiscono in epoca coeva ,non tra persone che agiscono in epoche
diverse, in contesti organizzativi mutati e indistinti contesti societari.
Diverso è poi il problema di una
successione nella posizione di garanzia, ma comunque sia, non potrà mai, secondo i principi generali, essere
eluso il problema delle rilevanza causale della condotta del singolo imputato,
tramite lo schema della fattispecie concorsuale nella forma colposa. Ciascun
imputato potrà essere chiamato a rispondere solo di fatti-anteriori,
concomitanti o successivi causati da
altri,solo se vi un rapporto con la sua sfera di attività , se vi è una
relazione con la garanzia dovuta, se
sussiste la prova di un nesso di causa tra la sua propria condotta -non quella
dell’azienda- e l’evento.
La imputazione in tema di disastro innominato,
ancor prima di essere infondata in fatto lo è in diritto perchè comporta
accuse indifferenziate non compatibili con il principio della personalità della
responsabilità penale.
Centrale nell’ipotesi accusatoria è la figura del
reato di disastro innominato - disastro ecologico permanente - che si
concretizza nella mancata bonifica di siti contaminati da altri in antica data.
Secondo il Tribunale invece si può parlare di reato permanente solo quando l’offesa al bene
giuridico si protrae fino all’attualità per effetto della persitente
condotta del soggetto.
Secondo l’accusa è causale anche la condotta inattiva
di chi subentra nella titolarità dei siti
inquinati, condotta che si concretizza in una serie di omissioni,intese
come violazioni dell’obbligo di attivarsi per la bonifica di quanto contaminato
da terzi antecessori in antica data.
Ed in questa prospettiva l’accusa trascura di
verificare l’epoca della contaminazione
e l’apporto che ciascuno degli imputati
vi avrebbe avuto in termini quanto meno
di aggravamento.
Il Tribunale ritiene invece che perché una condotta
omissiva sia penalmente rilevante debba
individuarsi in capo al soggetto quell’ obbligo ,il cui adempimento è stato omesso , obbligo che non sussiste, nella fattispecie , nei confronti di chi
succede nella disponibilità di un sito
contaminato da terzi.
Non esisteva infatti nel nostro ordinamento , prima
del D Lvo n22 /1997, un obbligo generale di bonifica di siti contaminati da terzi
in antica data a carico del successore nel potere di impresa o nella
titolarità del diritto o nel potere di fatto su un sito già
precedentemente inquinato.
Rileva anche il Tribunale come nel testo della
imputazione vi siano una pluralità di
riferimenti normativi relativi a violazioni costituenti titolo
contravvenzionale , che assumono rilevanza con
riferimento alle principali imputazioni , come titolo di colpa specifica .
Ed ancora
viene rilevato come, secondo la interpretazione autentica da parte dello
stesso organo dell’accusa, il reato di disastro innominato sia unico ,
riguardando sia il primo come il secondo capo di accusa, in quanto l’attività
di industria ha esplicato i suoi effetti negativi,sia all’interno come all’esterno della fabbrica, con la
conseguente continuazione tra tutti delitti contestati nel primo
e nel secondo capo d’accusa e la
continuazio0ne interna tra i reati ipotizzati in ciascun capo di accusa.
Ma il
Tribunale non ritiene essere compatibile la continuazione con l’elemento
soggettivo della colpa.
Della ritenuta
compatibilità della fattispecie di disastro innominato colposo con il principio
costituzionale di stretta legalità.
Viene quindi osservato come le fattispecie richiamate dagli art 449 e 450 c.p contengano
entrambe il riferimento al termine disastro -termine generico- soprattutto
nella ipotesi di cui all’art 449 e 434
c.p., in cui viene usato il predetto termine ,senza alcuna ulteriore
specificazione sul fatto costituente la
fonte del pericolo.
E sulla indeterminatezza della fattispecie la difesa ha fondato la eccezione di
costituzionalità che è stata ritenuta
manifestamente infondata dal Tribunale
con le argomentazioni che sinteticamente si ricordano.
Evidenzia il
giudice di primo grado che nell’ipotesi di cui all’art 449 c.p. il disastro,
anche quello innominato, come evento di danno grave complesso ed esteso ai
singoli comparti ambientali e all’ecosistema nel suo insieme ,deve sussistere e
come in entrambe le fattispecie per definizione deve sussistere una situazione di messa in pericolo della pubblica incolumità; che nei reati di
danno è però necessario anche che sia accertata una serie cospicua di eventi
di danno alle cose, mentre invece nei reati di pericolo basta la probabilità del verificarsi
dell’evento di danno alle cose; che la sussistenza del reato
comunque non può prescindere dall’accertamento della intrinseca idoneità
del danno ,cagionato alle cose, a porre
in pericolo, in modo serio ,reale la incolumità delle persone.
Capitolo terzo
Dalla
destinazione a discarica delle ventisei aree nominate in imputazione , alla
contaminazione da sostanze tossiche del suolo e sottosuolo rilevante in termini di disastro colposo
Dalla
contaminazione del suolo e sottosuolo a quella delle falde acquifere
e delle acque dei pozzi che ad esse
attingono rilevante in termini di loro avvelenamento o adulterazione
3.1 premesse
Preliminarmente nella sentenza vengono richiamati gli
addebiti rivolti specificatamente al primo gruppo di imputati e quindi viene premesso che ,nel trattare gli effetti del catabolismo degli
impianti sul suolo, sottosuolo e quindi sulla falde acquifere, l’accusa ha
considerato in modo distinto le
discariche interne da quelle esterne all’area di insediamento del
Petrolchimico e che secondo lo stessa
schema accusatorio verranno dal Tribunale valutate le risultanze probatorie
Dagli esiti delle prove assunte risulta quanto alle discariche interne : che le
acque di falda- oggetto dell’indagine processuale sono le acque della prima
e della seconda falda- attinte dal percolato di discarica verticale sono in
suscettibili di qualsiasi utilizzo per la loro modestissima portata. che
l’inquinamento delle acque di falda, sottostanti il plesso industriale , non ha
potuto attingere, seguendo processi di
trasferimento orizzontale , acque e
sedimenti dei canali lagunari confinanti con l’area industriale, perché il
flusso del primo acquifero verso la laguna è privo di significato- tali falde
sono pressoché stagnanti- né i pozzi verso l’entroterra, perché il terreno
scende in direzione opposta verso la
laguna .
In sintesi la alta concentrazione di inquinanti che
caratterizzano le discariche interne sono contenute nelle zone sottostanti e non si sono verificati significativi spostamenti
Per le falde acquifere sottostanti le discariche esterne l’inquinamento orizzontale è
escluso per mancanza di dati .
Solo in tre casi –tre discariche-la prima falda
acquifera risulta contaminata , non vi
è però prova del trasferimento orizzontale
della contaminazione dall’ambito
sottostante le aree di discarica a
quello da cui attingono i pozzi.
Ne conseguente la
infondatezza delle accuse che derivano dall’ipotesi di avvelenamento
delle falde acquifere del suolo e sottosuolo
Dopo avere evidenziato con le predette argomentazioni che non vi è prova di una
situazione di pericolo per la incolumità pubblica, relativamente alla
situazione delle discariche viene osservato che non vi è alcuna prova in ordine
alla realizzazione –gestione-utilizzo delle discariche senza titolo o in
violazione delle norme di protezione
ambientale vigenti all’epoca del loro
esercizio .
Viene poi evidenziato che , per il periodo antecedente
l’82, l’accusa non indica quale norma
generica o meglio regola o cautela avrebbe dovuto essere adottata e non risulta
esserlo stata, né fornisce alcuna prova
di un aggravamento dello stato di contaminazione preesistente.
Capitolo 3.2
Dalla contaminazione
da sostanze tossiche del suolo e sottosuolo nell’ambito dell’area di
insediamento del plesso industriale,
in relazione allo stato delle c. d discariche interne (rilevante in termini di
disastro innominato colposo) alla contaminazione delle falde acquifere e delle acque dei pozzi che ad esse
attingono (rilevante in termini di avvelenamento o adulterazione).
Della efficienza di
un processo di trasferimento orizzontale
della contaminazione dalla falde sottostanti l’area di insediamento del
plesso industriale verso i pozzi siti a monte e verso i canali
lagunari finitimi
Viene fatta innanzitutto una descrizione della zona in cui insiste il
plesso industriale in questione ed
evidenziato come sia incontroverso che ,all’interno dell’area di insediamento
del plesso industriale, esistano antiche discariche di rifiuti
Richiamate le
risultanze precedenti per quanto
riguarda il rispetto delle normative in vigore viene quindi ulteriormente evidenziato come la gestione della massima
parte dei siti di discarica nominati
in imputazione sia andata
materialmente esaurendosi prima della
entrata in vigore della disciplina transitoria
di cui al DPR n.915/82.
Su tale circostanza sono state raccolte le
deposizioni testimoniali di Spoladori –Pavanato Gavagnin e Chiozzotto.
E prima dell’entrata in vigore del DPR 915/82 la attività di gestione dei rifiuti trovava la sua disciplina nell’art 216 T. U
.L. S e nelle vigenti previsioni di
piano Norme Tecniche di
attuazione del Piano Regolatore Generale di Venezia del 1956 che fornivano all’art 15 la seguente indicazione “ nella zona industriale troveranno posto
prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo , polvere
o esalazioni dannose alla vita umana ,che scaricano sostanze velenose
,che producono vibrazioni e rumori .
Varianti al piano regolatore sono state adottate dal Comune di Venezia solo nel marzo del
1990.
Riprendendo la descrizione del luogo in cui è
stato realizzato il Petrolchimico viene
ricordato che l’area di sedime, in cui è insediato il complesso industriale , è
stata in gran parte realizzata mediante ’imbonimento delle zone di barena,
attuato mediante la utilizzazione di materiale dragato e rifiuti e residui di
lavorazioni industriali fino agli anni 70 e fino al raggiungimento di spessori
medi di riporto di 2,5-3 metri sopra il
livello del mare
E tale origine
del Petrolchimico risulta ampiamente documentata in particolare dalla cosiddetta convenzione Levi intervenuta con la Regia
amministrazione che prevedeva . appunto l’utilizzo dei rifiuti
industriale per imbonire le zone
arenose .
Più della meta della superficie oggetto della
convenzione risulta essere oggi occupata dall’area di insediamento del Petrolchimico.
ED in tale ambito –molti anni dopo - sono stati
scavati il canale industriale sud , il canale industriale ovest ed il canale
Malamocco-Marghera e dove le sponde non
sono protette o dove la protezione è
permeabile o danneggiata i materiali
vengono sistematicamente erosi
,entrando in soluzione nelle acque lagunari o disperdendosi sul fondo dei
canali stessi.
Dopo aver ricordato lo schema giuridico utilizzato
dall’accusa incentrato sulla figura del
disastro ecologico – art 434 c.p - e
della cooperazione colposa, tramite
omissione, assumendo la rilevanza di
una permanenza in atto delle condotte di reato (come omessa bonifica della
contaminazione preesistente) e la permanenza dei suoi effetti , osserva il
collegio come l’ipotesi sopradelineata
finisca per trascurare la prospettiva della rilevanza causale delle
condotte dei singoli imputati, cui viene riferito l’evento contaminazione – e
quindi si allontani da una schema
concettuale accettabile , quale un evento di danno alla cose causato per accumulo di differenti apporti nel tempo,
Non potendosi accettare la configurazione di cui
sopra sarebbe stato necessario
accertare se i singoli imputati avessero potuto recare tramite
la loro condotta – di gestione della discarica attiva od omissiva – un
ulteriore apporto rilevante in termini
di aggravamento.
Non rileva
invece secondo l’ipotesi accusatoria accertare se ci sia stato o meno un
apporto causale della condotta di ciascuno ,trovando fondamento la
responsabilità di tutti gli imputati nella consapevolezza della esistenza
dell’inquinamento e nella violazione
dell’obbligo di bonifica.
Rimane cosi estraneo al programma della pubblica
accusa la verifica dell’apporto di ciascuno, durante la gestione della discarica , all’aggravamento dello stato di
contaminazione preesistente.
Le tesi dell’ accusa sono comunque non solo non
condivisibili in diritto ma anche infondate in fatto
Vengono quindi ripetute le ragioni per cui risulta
irrilevante l’inquinamento delle falde - sottostanti il sedime delle discariche sia interne come
esterne e cioè sostanzialmente la loro inutilizzabilità per qualsiasi uso antropico e riportate le considerazioni tecniche su cui si basano le conclusioni di cui sopra ,mediante una descrizione dettagliata delle
condizioni del suolo e del sottosuolo e della struttura stratigrafica- dati tecnici questi su cui concordano tutti gli esperti delle parti.Da
atto poi il tribunale di come si sia
accertato che la contaminazione , partendo dal piano di posa dei
rifiuti, attinge le falde acquifere
sottostanti lo strato di caranto ,
fino a raggiungere il secondo
acquifero,ad una profondità superiore ai venti metri .
Ed, essendo accertato
il passaggio dell’inquinamento del sedime al primo e secondo acquifero, tanto basterebbe secondo la accusa a provare l’avvelenamento delle acque – come
risorsa alimentare - essendo irrilevante ai fini del reato di cui all’art 439 c.p la non attualità della loro
destinazione alla alimentazione , bastando quella potenziale , che potrebbe
rendersi necessaria ad esempio in
particolari condizioni di siccità–
Tale tesi ,condivisibile secondo il Tribunale in
linea di principio , non lo è in concreto perché le acque della
prima e della seconda falda sono
assolutamente inutilizzabili per qualunque
uso industriale o antropico, attesa la loro bassa portata- praticamente
stagnanti e le loro originarie
caratteristiche.
Anche pensando insussistente lo stato di inquinamento
, le falde sottostanti l’area del
Petrolchimico sarebbero
inutilizzabili per qualsivoglia uso.
Le prove raccolte consentono conclusivamente di
ritenere con certezza che, nell’area di Porto Marghera, l’utilizzo
delle falde entro i primi 30 metri di profondità non è in alcun modo
ipotizzabile
Quanto alla tesi accusatoria del trasferimento
orizzontale - sia verso i pozzi a monte e verso i canali lagunari finitimi -
del percolato di discarica attraverso
l’acqua di falda inquinata, osserva il
Tribunale come l’inquinamento derivante
dal sottosuolo attraverso le falde non attinga le acque e i sedimenti dei canali lagunari in termini realmente
efficienti la loro contaminazione
,perché il flusso del primo acquifero( il solo che comunichi con i canali non essendoci possibilità di comunicazione
per il secondo acquifero perché piu profondo del fondo della laguna ) verso la laguna è insignificante ( si tratta di quattro litri/secondo lungo tutto
il perimetro dell’area di
insediamento del plesso
industriale 7-8 Km).
Al lento movimento delle falde- cui è attribuibile
una velocità di deflusso dell’ordine di grandezza del metro /anno - va poi
aggiunto per gli inquinanti il cosiddetto”coefficiente di ritardo”, dovuto
al rallentamento che la presenza di sostanza organica attua nei confronti dei contaminanti , che
tendono a fermarsi aderendo ai granuli di terreno, per cui la velocità di movimento dell’inquinante
è sempre inferiore a quella della falda anche di qualche decina
di volte.
Su tali dati concordano i tecnici di entrambe le
parti che indicano un valore approssimativo della portata della prima
falda lungo tutto l’area del
Petrolchimico dell’ordine di 4 litri/ secondo ed un tale
modesto apporto risulta
ininfluente in termini di rilevanza causale.
Alle conclusioni di irrilevanza della contaminazione
derivante dal percolato di discarica attraverso le falde acquifere, con riferimento alla inquinamento
dei sedimenti e delle acque, dei canali lagunari finitimi al plesso industriale , fa seguire il Tribunale una sintesi dei
risultati degli esami analitici eseguiti , che hanno dimostrato la presenza di un inquinamento in misura che va diminuendo, man mano che si passa
dalle acque di impregnazione negli
strati superficiali alle acque della
prima e della seconda falda ed inoltre
viene aggiunto che l’eventuale moto di trasferimento orizzontale della
contaminazione risulta ostacolato dall’ingressione dell ‘acqua marina , che determina una consistente diluizione
degli inquinanti
Altro dato certo risulta poi essere quello della insussistenza di un
trasferimento orizzontale della contaminazione dal sottosuolo, cioè dagli
acquiferi situati sotto l’area di insediamento
del plesso industriale , verso monte
essendo dato un gradiente che declina nettamente a scendere verso la
laguna e peraltro non sono stati trovati inquinanti di origine
industriale nei pozzi oggetto di campionamento.
Viene esaminata
anche la deposizione sul punto del teste Chiozzotto valorizzata dalla difesa
e contrastante con le diverse ma tra
loro concordi valutazioni dei tecnici di entrambe le parti , che viene
ritenuta dal Tribunale non rilevante perché non aggiunge né toglie nulla al quadro probatorio gia esaminato e
risulta inoltre contraddetta dalle
valutazione dei tecnici di entrambe le parti .
3.3 Dalla
contaminazione da sostanze tossiche del suolo e del sottosuolo in aree diverse
da quella di insediamento del plesso industriale in relazione alle cosiddette discariche esterne ( rilevante in
termini di disastro innominato colposo)
alla contaminazione delle falde acquifere e della acque dei pozzi che ad esse attingono,rilevante in termini
di avvelenamento ( o adulterazione )
Anche per le discariche esterne, la cui esistenza è
incontroversa, valgono innanzitutto le
considerazione gia fatte per quelle interne ,
sia per quanto riguarda tempi e
modi della loro gestione, sia per
quanto riguarda le loro caratteristiche
tecniche nonché l’inquinamento delle
falde sottostanti.
Osserva anche il
tribunale ,quanto ai dati probatori acquisiti che per 13 discariche
esterne mancano completamente i dati , e
che mancano per tutte, al di fuori di tre, i dati relativi allo stato delle falde, risultando inquinate
solo le acque di impregnazione , cioè quelle immediatamente sottostanti lo
strato di rifiuti e sovrastanti la
linea del caranto.
Nei tre casi in cui risulta inquinata l’acqua della
prima falda non vi è però alcuna prova di trasferimento orizzontale, così come
non risultano mai prove di contaminazione da processi di lavorazione
industriale nelle acque dei pozzi oggetto di campionamento né vi è prova che
l’inquinamento del suolo e sottosuolo sia riferibile a fatti di gestione di rifiuti in discarica , attuati
dagli imputati che avrebbero gestito le discariche in conformità delle regole
vigenti .
3.4
Della
mancanza di fondamento giuridico della accusa di concorso nel reato di disastro
avvelenamento o adulterazione mediante omessa bonifica o messa in sicurezza di
siti contaminati da terzi antecessori
in epoche pregresse
Della
carenza probatoria in punto di fatto degli addebiti di ritardo nella bonifica
mossi agli imputati di appartenenza Enichem
Della
carenza probatoria pertinente agli addebiti di colpa riferiti agli imputati di appartenenza
Montedison.
Conclusioni
pertinenti alle accuse fin qui considerate
Premesso che non risultano provate ,all’esito dell’istruttoria dibattimentale ,
condotte connotate da antigiuridicità
nella gestione dei rifiuti in discarica da parte degli imputati di appartenenza Enichem esercenti potere
d’impresa dopo il 1983, rileva il Collegio come nei reati casualmente orientati , quali il disastro innominato sia l’evento a svolgere la necessaria funzione tipizzatrice nel senso
che devono essere provate non solo le
condotte contrarie alle regole
generiche o specifiche , finalizzate ad impedire il verificarsi dell’evento
dannoso, ma anche il verificarsi
dell’evento , in quanto il
carattere colposo della condotta non
può prescindere dalla esistenza di un nesso di causalità definito.
L’accusa
invece assume unicamente come dato rilevante
la esistenza delle antiche discariche attive non oltre la fine degli anni 70 ,quando l’azione di
smaltimento dei rifiuti nelle forme
praticate dagli imputati era quella adeguata alle valutazioni
normative ,tecniche e di disciplina vigenti
La costruzione accusatoria , da cui deriva la
responsabilità e prima la riferibilità giuridica a ciascun
imputato della contaminazione , si basa
sulla esistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento, come conseguenza
della posizione di garanzia rivestita dagli imputati , per il non
verificarsi dell’evento disastro o avvelenamento o adulterazione , e con una sostanziale equivalenza della
azione all’omissione sotto il profilo
causale.
È infatti in questo quadro che si svolgono le
contestazioni relative a tutte le
condotte omissive contestate , per cui
viene ritenuto sufficiente accertare
che non sia stato impedito l’inquinamento, omettendo nelle
fattispecie la bonifica degli antichi
siti di discarica, a cui per la posizione di garanzia gli imputati erano
tenuti.
Centrale nella tesi accusatoria è infatti la esistenza e quindi la esigibilità
dell’obbligo di bonifica delle discariche realizzate e gestite in passato da
altri secondo l’art 25 D.P.R.915/82 .
Ma invero tale tesi
dell’accusa è in contraddizione
con l’indirizzo giurisprudenziale
,confermato dalla sentenza delle
Sezioni .unite C. C 5-10-1994, che ha affermato come diversa sia la realizzazione e la gestione della
discarica ,condotte che possono
assumere entrambe la forma del reato permanente , dal mero mantenere nell’area
i rifiuti scaricati quando la discarica
sia stata chiusa , condotta questa non riconducibile alla gestione delle
discarica in senso proprio .
L’accusa a sostegno della propria tesi richiama altre sentenze della C .C del 4-11- 1994 e 29-4-1997 che però riguardano fattispecie diverse , in
cui si discute di condotte contestuali alla
gestione delle discariche.
Conforme a quanto affermato dalle Sezioni unite è
invece anche la successiva sentenza
della C.C 2-7-1997 che afferma analogo principio , anche dopo l’entrata in vigore del D l vo 22/1997 ,che ha
abrogato l’art 25 del D. P R. 915/82
sostituendolo con l’art 51 comma
3
E sulla base della giurisprudenza citata il reato è
permanente , solo però per il tempo in cui l’organizzazione è presente e attiva
La norma incriminatrice ha riguardo solo alla
fattispecie commissiva , e l’equivalenza del non impedire al causare presuppone la esistenza
della giuridicità dell’obbligo di impedire, obbligo che non può derivare
dalla pura semplice disponibilità della discarica .
Ribadita la necessità di una norma agendi specifica ,
quale fonte dell’obbligo di impedire l’evento
osserva il Collegio che le norme –altre dall’art 25 D .P R N n.915 /82-
richiamate dall’accusa come fonte dell’obbligo giuridico di
attivarsi per la bonifica dei siti contaminati da altri antecessori in nessun
modo possono essere ritenute tali.
Alcune hanno contenuto analogo a quella del D.P.R., quale l’art 10 L. 5-3- 1963 n. 366, l’art 9 L 16-4 -1973 n.
171 l’art 3 D.P.R. 20-9-1973 n 962 gli
art 1 e 3 L .R. 23 –4 -1990 n.28
Richiamate tali norme ritiene l’accusa che pure il
semplice mantenere discariche
contribuisca alla dispersione di sostanze inquinanti mediante
trasmigrazione passiva.
Il mantener discariche – osserva invece il Collegio-
concreta quella condotta omissiva che la C .C esclude possa integrare il reato
di discarica abusiva , per la ribadita
inesistenza di un obbligo di
attivarsi per la bonifica di siti contaminati da terzi antecessori e per
la necessità di individuare una
norma su cui fondare o da cui derivare
l’esistenza di un obbligo di fare , con la conseguenza che il non fare viene ad
integrare una fattispecie criminosa.
Non
contengono obblighi di disinquinare neppure le altre norme generiche
citate dal P. M .quali l’art 1 L.16-4-1973 n171 , l’art 28 L 5-3 1963 n366 ,art
217 T. U. L .S del 1934.
Trattasi in tutti i casi di norme che non prevedono
un obbligo generale di attivarsi per la bonifica , bensì conferiscono poteri di
intervento alla P.A., che può imporre
determinati obblighi di ripristino in
presenza di particolari situazioni.
Tra le norme richiamate vi sarebbe anche l’art 14 2°
comma D .L. vo .n132/92
-disciplina transitoria della legge concernente la protezione delle
acque sotterranee- che riguarda i termini entro cui presentare la domanda
per una nuova autorizzazione ad effettuare operazioni di eliminazione o
di deposito di rifiuti, che comportino scarichi indiretti ,gia autorizzati
dal d p r n915/82.
Tale norma secondo l’accusa consentirebbe di ritenere
che, anche il solo deposito di rifiuti in discariche chiuse ,avrebbe bisogno di
autorizzazione ai sensi del d.p.r
915/82 ciò che non è riguardando la
disciplina del citato D.P.R solo le attività di gestione dei rifiuti e non
situazioni di discariche gia esaurite
Altra fonte dell’obbligo di bonifica sarebbe stata
individuata nella Delibera del comitato interministeriale del 27-7-1984 al punto 7, che invece risulta chiaramente avere contenuto
diverso riferendosi ad impianti preesistenti, trasferiti o modificati, ma
ancora attivi e gestiti al momento delle entrata in vigore della nuova
normativa e non discariche o impianti
cessati prima della sua entrata in vigore .
Viene quindi ribadito che l’omissione è in realtà
inconcepibile senza pensare alla norma impositiva dell’agire , non tutte le omissioni rilevano ma solo
quelle violative di un dovere giuridico di fare .
Conferma
ulteriore delle inesistenza di un obbligo di bonifica viene dall’art 17 D L. vo n22 /97 – decreto
Ronchi- che per la prima volta prevede l’obbligo di bonificare e ripristinare
le aree inquinate nel caso di superamento di determinati limiti di
accettabilità della contaminazione.
Il silenzio della disciplina previgente porta
invece ad escludere che sussistesse un
obbligo generale di bonifica.
Anche alla stregua della disciplina vigente sembra
comunque escluso un obbligo generale di bonifica del sito contaminato al di fuori della ipotesi di cooperazione
colposa
L’ipotesi
accusatoria rimane comunque anche in
fatto priva di fondamento risultando, dalle prove acquisite e dalla valutazione in concreto dei tempi e dei modi
di adempimento agli obblighi di disinquinamento, la legittimità della condotta degli imputati ,che avrebbero
rispettato le norme tenendo conto del momento
della loro entrata in vigore
,della estensione del sito inquinato della complessità degli interventi – vedi
confronto con altre analoghe esperienze e relazione Francani e Alberti in
data 20-4-2001.
In particolare non risulta giustificata la
contestazione specifica circa la intempestività degli interventi relativi alle discariche di cui
alle zone 31 e 32 in quanto nessuna prova adeguata è stata fornita da
chi ne aveva l’onere circa ritardi od
omissioni nella esecuzione di interventi di disinquinamento.
Prima della entrata in vigore della normativa di cui
al D. L vo n 22/1997 ,a livello locale,
era stato raggiunto un accordo di programma, per la chimica di Porto Marghera e successivamente un accordo integrativo ,per meglio definire le procedure di
approvazione dei progetti e degli interventi, che risulta essere stato osservato da Enichem.Il Tribunale ribadisce
quindi e sintetizza i principi
generali, già prima esposti. ribadendo
la necessità che venga individuata la norma giuridica, di cui si addebita la
omissione, ed inoltre , trattandosi di reati di evento, che tra la ipotizzate
omissione e l’evento dannoso,risulti
accertata la esistenza del nesso di
causalità materiale .
Ciò che non è stato fatto né per gli imputati della
Montedison che gestirono rifiuti in
discarica quando tale pratica era abituale e non regolata , né per gli imputati
Enichem che ,dopo l’entrata in vigore della disciplina autorizzatoria, non risulta abbiano commesso alcuna violazione delle normative in vigore
Dopo avere quindi riaffermato che, prima dell’82, non
esisteva una disciplina normativa relativamente allo smaltimento dei rifiuti,
evidenzia il Tribunale che una “norma agendi”, intesa come comportamento,
che avrebbe dovuto essere tenuto e che
non lo è stato ,non risulta neppure enunciata o addebitata nell’ipotesi
accusatoria, e che il Tribunale ha comunque verificato che, le modalità di
gestione dello smaltimento dei rifiuti da parte degli imputati ,sono state
conformi a quelle seguite da chi svolgeva analoghe attività , e che
nessuna cautela o modalità
diversa risulta adottata da un agente modello, a cui confrontare la
condotta dell’agente reale .
Sul punto la enunciazione della accusa non si
concretizza mai ,rimanendo ferma ad un livello di indeterminatezza ,che
interessa tanto l’epoca precedente quanto l’epoca successiva all’entrata in vigore
del D.P.R 1982/915,mentre una “ norma agendi” a cui confrontare la condotta
degli imputati, un parametro di diligenza esigibile dagli imputati usciti di
scena prima del D.P.R.915/82 avrebbe
dovuto essere comunque determinata.
Prima dell’entrata in vigore della suddetta normativa ,nessuna delle norme indicate
dall’accusa e relative alla salvaguardia di Venezia conteneva una
disciplina relativa al catabolismo nel suolo , in particolare anche la norma di
cui all’art 9 d.p.r n 962/73 aveva un contenuto del tutto generico, che non consentiva nè al privato nè alla P. A di
individuare le regole o le prescrizioni da adottarsi.
È solo nel
periodo compreso tra il 1970 ed il 1982 che prendono forma le prime iniziative
di gestione dei rifiuti secondo le tecniche allora conosciute e la Montedison, vigendo valutazioni tecniche
e di disciplina che rendevano problematica la scelta, si affidò all’unica
impresa che produceva impianti di incenerimento in Europa, commissionandole il
primo impianto di incenerimento di sottoprodotti clorurati organici nel 1972.
Il funzionamento dell’inceneritore è stato poi
oggetto di valutazione tecnica,nel contraddittorio delle parti,a causa del rilevato pericolo di provocare lo
sviluppo di diossine .
Ma sul punto rileva il Tribunale come l’accusa non sia riuscita a dimostrare
che gli imputati potevano, in base alle conoscenze tecniche dell’epoca ,
riconoscere le condizioni iniziali rilevanti, proprie della formazione di
diossine.
In ogni caso sul punto risulta dalla deposizione dei
testi che le temperature erano elevate e quindi il rischio di formazione delle
diossine ridotto e che le analisi fatte dall’università non avevano rilevato tracce di diossine.
Come poi si vedrà , la questione relativa allo
smaltimento delle peci clorurate ha assunto nel processo un particolare valore
, atteso che, secondo l’ipotesi accusatoria formulata, in base alla consulenza
Ferrari , tali rifiuti sarebbero stati
smaltiti tramite autobotti e bettoline fuori dal plesso del Petrolchimico, nel
canale Nord e nel canale Bretella
L’ipotesi è rimasta però priva di riscontri ed al
contrario proprio l’esistenza
dell’inceneritore proverebbe il contrario, considerato anche che, prima
di usare l’inceneritore, Montedison usava stoccare i rifiuti in fusti,nelle
immediate vicinanze dei reparti
interessati, per poi interrarli in discarica.
Le deposizioni testimoniali consentono di
ritenere provato che tutti i rifiuti erano stati depositati nelle discariche prima del 1982 e che successivamente lo smaltimento dei rifiuti era avvenuto solo
nei luoghi autorizzati e con modalità conformi a quelle previste dalla
prescrizioni accessorie alle autorizzazioni e comunque, quando le deposizioni
testimoniali non sono sufficienti, non risulta
provato il contrario.
In
particolare risulta dai documenti
prodotti dallo stesso P. M che la discarica Dogaletto,era stata chiusa
nell’estate 1971 , mentre la discarica interna, sita in area 31-32 c .d
Katanga , considerata particolarmente rilevante per la sua estensione e per il suo prolungato uso, risulta da
precise deposizioni testimoniali , che era stata esaurita e chiusa prima del
1983 – vedi la deposizione del teste
Spoladori e dei testi Gavagnin e Mason - dalle quali risulta che la discarica
predetta era stata aperta nel 1976 ed
esaurita nel 1982.-
Non
consta quindi che siano state gestite dopo il 1983 discariche senza titolo o
violando le prescrizioni accessorie ;
una tale ipotesi non viene peraltro neppure esaminata
dalla accusa che basa le sue richieste
sulla equivalenza ,della mancata
bonifica delle discariche
definitivamente cessate in epoca pregressa all’assunzione del potere di
impresa da parte del singolo imputato,
alla gestione senza titolo.
Di fatto
risulta comunque che nel 1988 venne iniziata la bonifica della discarica Dogaletto e che successivamente venne dato allo stesso ingegner Gavagnin
l’incarico di mettere in sicurezza la discarica in sito Malaga e di studiare la
cauterizzazione necessaria per la bonifica della area 31-32 e dei sedimenti
de canale Lusore- Bretelle , antico corpo recettore degli scarichi di
provenienza del Petrolchimico.
Sintetizzando nell’ultima parte del capitolo le motivazioni prima
esposte osserva conclusivamente il
Tribunale come sia infondata l’ipotesi accusatoria per quanto riguarda la contaminazione del
suolo e del sottosuolo, rilevante in termini di disastro colposo e per quanto riguarda altresì l’accusa di
avvelenamento o adulterazione delle acque delle falde sottostanti ai siti di
discarica
( Le pagine della sentenza da numero 575 a 578 contengono una sintesi della motivazione
sopra esposta e contenuta nelle pagine
da 477 a 574 ).
Parte terza
Capo di imputazione n 2 Parte
ambientale
Capitolo 3.1
La deformazione della accusa operata dal Tribunale
Il disastro innominato e l’art 437 c.p.
3.1 Il P. M evidenzia nelle premesse dell’appello la deformazione
dell’accusa operata dal Tribunale. Secondo il P.M, il Tribunale, pur dando atto
in questa seconda parte della
motivazione della sentenza, della
modifica dell’imputazione intervenuta all’udienza del 13-12 2000, ha come nella
prima parte della decisione
deformato le accuse del PM ed
erroneamente ritenuto che l’accusa avesse formulato delle contestazioni generiche e generalizzate.
A) Esempi della deformazione.
Mentre risulta dal
capo di imputazione, che i fatti sono stati contestati in modo specifico,
indicando i luoghi in cui l’inquinamento delle acque e dei sedimenti viene ricondotto
alla attività del Petrolchimico e addebitandone la causa a ciascuno degli imputati, che avrebbe contribuito a darvi origine o ad incrementarlo, in modo
altrettanto preciso e, con riferimento
ai periodi in cui ciascuno aveva svolto il proprio incarico all’interno
della azienda,il Tribunale ha invece parlato
di zona industriale nel suo complesso ,di decenni di catabolismo industriale ,di decenni di gestione del plesso
produttivo , usando termini che l’accusa mai aveva impiegato.
Al contrario di quanto affermato sono invece ben individuati nella imputazione i
luoghi inquinati : i siti delle discariche, le acque di falda,
i sedimenti e le acque dei canali e
specchi lagunari prospicienti Porto
Marghera, dal cui inquinamento sarebbe
derivato l’avvelenamento o
l’adulterazione della ittiofauna
e dei molluschi a causa della gestione degli impianti appartenenti al ciclo del cloro.
B) Non è
poi vero che sia stato contestato il
disastro innominato permanente. ma solo
la permanenza in atti degli effetti,mentre le condotte risultano nel capo
d’accusa chiaramente e temporalmente ben delimitate, e di tanto invero ne aveva
dato atto lo stesso Tribunale con l’ordinanza del 2-2-2001 di rigetto delle eccezioni di indeterminatezza delle imputazioni sollevate dalla difesa.
C) Prima di
passare ad una rassegna critica dei vari punti della sentenza premette quindi il P.M come siano
condivisibili i principi generali
enunciati dal Tribunale e sviluppati nella pagine 482 e 483- in materia di rapporto di
causalità,– art 40c.p. - secondo cui il rapporto di causa si identifica con
quello di un fattore e necessario,rispetto al verificarsi dell’evento per cui
, una volta accertatane l’esistenza ,rimane privo di rilievo, ai fini del giudizio penale, valutarne
l’intensità dell’apporto e – in materia
di concorso di cause – art 41 c. p-
secondo cui in presenza di piu
fattori causali ,addebitabili a più
persone, succedutesi nel tempo, è
irrilevante stabilire quale sia
più prossimo e quale piu remoto.
È infatti in base a questi principi che sono
state respinte tutte le eccezioni di
nullità sollevate dalle difese con riferimento a profili di in coerenza interna
o di vaghezza della imputazione.
Non sono invece
affatto condivisibili le successive
deformazioni delle tesi dell’accusa ,
operate dal Tribunale e che derivano dalla premessa ,secondo cui , avrebbero dovuto assumere rilevanza nelle indagini le condotte che avevano determinato condizioni di aggravamento dell’evento gia verificatosi;
aveva infatti sempre l’accusa parlato nel capo di imputazione di
contributi dei singoli imputati alla causazione e /o all’incremento dei
diversificati inquinamenti ,individuandone altresì la fonte negli impianti del ciclo del cloro
dettagliatamente indicati nel capo di imputazione.
E questi danni
sono diversi da quelli generici e
generali cui fa riferimento la difesa ed il Tribunale.
D) Non contesta
poi il P.M , ed ancora una volta
l’accusa viene deformata, che ciascuno debba rispondere per come ha adempito
alla garanzia da lui dovuta e nei
limiti dell’apporto recato, non potendo mai l’imputato rispondere di fatti che
non siano casualmente riconducibili
alla sua condotta, ma risultino causati da altri.
Mai il P.M. ha
preteso di addebitare a ciascun
imputato, condotte diverse da quelle sue proprie ,nè conseguenze che alle
predette condotte non siano riconducibili in base al nesso di causalità
Non risulta
inoltre che il tribunale abbia preso in considerazione il disastro
contestato ai sensi dell’art 437 c.p.
Viene quindi
avanzata la prima richiesta di riforma
totale della sentenza di primo grado.
Capitolo 3.2
Le norme esistenti prima del 1970
Il divieto di scarico dei rifiuti industriali
Presentazione della tesi fatta propria dal Tribunale
Osserva poi il PM come i primi giudici, abbiano escluso l’esistenza , in materia di
gestione dei rifiuti industriali, di norme agendi prima del D.P.R.915/82;
abbiano ritenuto la
conformità delle modalità di gestione
dei predetti rifiuti da parte degli
imputati a quelle utilizzate da chi svolgeva attività simili;
abbiano affermato
che la gestione dei rifiuti prima dell’82
trovava la sua disciplina
nell’art 216 TULS. e nell’art 15 del P. R .G del 1956 che destinavano la zona industriale agli impianti
inquinanti .
Contrariamente a quanto sopra affermato e che viene punto per punto contestato vi
erano invece delle norme di riferimento
in materia di rifiuti ed a queste
norme gli imputati avrebbero dovuto
attenersi .
Innanzitutto
va rilevato che agli imputati non viene
contestata solo la illegittima gestione
delle discariche ma anche la loro illegittima creazione e che comunque, anche prima dell’82, il deposito e
la realizzazione delle discariche era oggetto di limiti e divieti .
In primo luogo
vi era la legge regionale del Veneto
6-6-1980 n.85 che cosi statuiva “
divieto di abbandonare e depositare rifiuti di qualsiasi genere su aree
pubbliche e private nonché scaricare o gettare
rifiuti nei corsi d’acqua,canali, laghi, lagune o in mare .
Su tale divieto
nessuna motivazione si rinviene nella sentenza del Tribunale
Altra norma
indicata nel capo di imputazione ,che vietava condotte idonee a produrre
inquinamento era l’art 10 legge 5-3-1963 n.366 che non consentiva lo
scarico di rifiuti o sostanze che potessero inquinare le acque della laguna
, nonché l’esercizio di industrie che
refluissero in laguna rifiuti atti
ad inquinare o intossicare le acque .
Vi era poi la L
n.366/ 41, che è stata abolita solo dal
Dl vo 5-2-1997 n.22 e che si occupava
invero dei rifiuti solidi urbani , in particolare rilevava l’art 17- che vietando in modo assoluto il gettito di rifiuti ed il loro
temporaneo deposito nelle pubbliche vie ,piazze ,terreni pubblici e privati- e
utilizzando il termine rifiuti in modo
del tutto generico , dimostrava cosi
che la volontà del legislatore
era quella di porre dei divieti per qualsiasi rifiuto ,senza distinzione in
ordine alla sua natura o provenienza .
Ed una diversa
interpretazione invero porterebbe
all’assurdo risultato di ritenere esistente dei divieti per i rifiuti ,
provenienti dalla abitazioni,e non invece
per i rifiuti provenienti dalle
industrie.
Limiti e regole relativamente al deposito
dei rifiuti sono poi contenute anche nel regolamento comunale di igiene del Comune di Mira pubblicato nel 1954–nel cui ambito risultano esserci cinque
discariche tra quelle di cui
all’imputazione – che vietava ,all’art 36, di accumulare sul suolo
qualunque materiale di rifiuto lurido o
nocivo ,all’art 50 ,di depositare prodotti chimici al di fuori dei luoghi indicati dall’autorità comunale ,all’art 199 imponeva di costruire i luoghi destinati a
discariche con materiale impermeabile
per evitare qualsiasi inquinamento del
sottosuolo, e nel regolamento comunale
di igiene del Comune di Venezia
– art 6 -art 74- art 78.
Tutte le
violazioni delle norme in esame comportavano la applicazione delle sanzioni e
delle pene previste dal T.U. leggi sanitarie
,dal regolamento stesso,nonché
di quelle previste dal CP.
Esisteva quindi una regolamentazione locale
che vietava l’esercizio di determinate attività ritenute pericolose od insalubri e comunque subordinava ad un
provvedimento della P.A. l’esecuzione dello smaltimento dei rifiuti industriali
Esistevano poi altre due norme –art 9 e art
36 R D n 1064 del 8-10-1931- che vietavano lo scarico di rifiuti industriali
nella acque pubbliche : norme specifiche
a tutela delle acque da pesca rispetto ai rifiuti industriali.
Esistevano conclusivamente delle norme che dovevano
essere rispettate e che non lo sono
invece state , e non essendo state in alcun modo le discariche autorizzate . ne
consegue che quelle realizzate
,violando le predette normative, devono ritenersi contra legem.
Quanto all’art
15 del N. T. A del P. R. G
del 56 richiamata dal Tribunale
rileva il P.M. che è norma di natura
esclusivamente urbanistica,che non riguarda la possibilità di creare delle zone
di rilascio, scarico ,gestione incontrollata dei rifiuti ed che è comunque superata dall’art 10 L1963/366,
norma di rango superiore alla previsione regolamentare e di chiaro contenuto
precettivo .
Inoltre, in atti normativi successivi al
1956, che prevedevano l’ampliamento della zona industriale di Porto Marghera,
si prevedeva che il completamento dei cicli produttivi dovesse essere attuato,
seguendo il criterio connesso alle esigenze
di sicurezza , igiene pubblica
ed incolumità degli abitanti (art 8 lett d) L397-02-03 63
Errata
risulta quindi la conclusione dei giudici laddove ritengono che prima
del 1982 non ci fosse alcuna normativa relativa alla gestione dei rifiuti delle
produzioni industriali .
Rifiuti tossico nocivi e scarichi idrici
3.3.1 Illecito scarico di rifiuti anche dopo
l’entrata in vigore del D.P.R 915/82
Ricorda
innanzitutto il P.M. come, secondo il tribunale, le discariche sarebbero state
realizzate per la maggior parte prima
dell’82 e, per quelle successive, le norme in vigore sarebbero state sempre
rispettate o comunque non risulta che siano state realizzate senza titolo
autorizzativo o con modalità incompatibili con le prescrizioni accessorie pertinenti alle autorizzazioni rese”
Ne conseguirebbe
che gli imputati sotto questo profilo non avrebbero commesso alcuna violazione
delle disposizioni in materia di gestione dei rifiuti .
Ritiene invece
l’accusa che non sia vero che le
discariche siano state realizzate per
la massima parte prima dell’entrata in vigore del D.P.R.915/82 ed evidenzia
come valgano a smentire la affermazione del Tribunale sul punto la deposizione
dell’ispettore Spoladori del 20-9-2000
e dello stesso Gavagnin all’udienza del
16-3 2001 ,nonché la elaborazione scritta dello Spoladori del 13-12 2000.
Né possono
essere ritenute decisive sul
punto le deposizioni del teste Gavagnin che ha solo riferito di una
razionalizzazione del sistema dei rifiuti dopo il 1983 , aggiungendo che ,di conseguenza ,solo la
serie di fenomeni macroscopici in precedenza verificatisi,non sarebbero piu
avvenuti; il teste predetto ha anche precisato che le sue convinzioni erano
basate non su una conoscenza diretta
dei fatti bensì sul fatto che da quell’anno
responsabile del servizio Pas era divenuto il perito Ceolin.
Né dirimente
poteva ritenersi la deposizione del
teste Pavanato, che aveva precisato di non essere in grado di
escludere che il fenomeno delle discariche abusive fosse cessato dopo il 1982.
Il Tribunale ha poi affermato ,senza indicare
le fonti di prova di queste affermazioni ,che dopo il 1982 le discariche erano autorizzate e gestite secondo le
prescrizioni contenute nelle relative autorizzazioni ma l’affermazione del Tribunale con cui si ritiene che la normativa di riferimento per i
conferimenti a discarica successivi al
1982 risulti osservata è del tutto generica.
Capitolo 3.4
L’obbligo di attivarsi in relazione ai siti inquinati
da terzi antecessori
1) la posizione del Tribunale sul punto
Esamina quindi il P .M la decisone del Tribunale, secondo cui non
rientrerebbe nel concetto di gestione della discarica penalmente rilevante il
solo mantenere nell’area rifiuti scaricati da altri quando ormai la discarica
era chiusa , decisione fondata sulla sentenza della C.C Sezioni Unite
del 5-10-1994
La questione riguarda la imputabilità dei
dirigenti ed amministratori indicati nel capo di imputazione per la gestione di discarica abusiva di
rifiuti e smaltimento non autorizzato,
in violazione rispettivamente degli art
25 e 26 cpv DPR n915/82 , poi sostituiti dall’art 51 D.Lgs n22/1997
,nell’ambito della contestazione del
reato di disastro innominato colposo.
Osserva quindi
il P .M come la questione sia stata effettivamente affrontata e decisa con la nota sentenza della Cassazione Sezioni Unite
, a cui ha aderito il Tribunale,
ma come successivamente sia intervenuta
giurisprudenza di merito e di legittimità difforme.
2) La
sentenza della Cass. SS. UU.
5-10-1994
Secondo la citata sentenza non si
configurerebbe alcun reato di
gestione di discarica abusiva o smaltimento non autorizzato di
rifiuti tossico nocivi nella condotta di chi
solo mantiene in un ‘area rifiuti
scaricati da altri , in assenza di qualsiasi attiva partecipazione, e
nonostante abbia consapevolezza della
loro esistenza.
Alla affermazione di tale principio la
Cassazione era pervenuta in base alle seguenti considerazioni:
in primo luogo un dato testuale , rappresentato dal fatto che il concetto di gestione di
discarica e smaltimento dei rifiuti non
consente di ricomprendervi anche
quello di solo mantenimento degli
stessi ; in secondo luogo la inesistenza nell’ordinamento di un preciso obbligo
positivo di porre fine alla
situazione antigiuridica in corso , non
essendo rinvenibile una norma che imponga al nuovo detentore la rimozione dei
rifiuti del terreno entrato nella sua disponibilità .
3) la nozione di gestione di discarica non
autorizzata alla luce del dato
testuale del DPR n915/82 e del D.LG.vo
n.22/1997: la gestione successiva alla chiusura.
Ritiene invece
il PM che la decisione della Cassazione del 1994 non sia condivisibile alla luce di un attento esame delle
normativa di settore sia statale come
comunitaria .
Innanzitutto va esaminato il DPR 915/82 ed in
particolare gli art 10 e16 che contengono anche delle prescrizioni che riguardano la fase di chiusura,
successiva all’esaurimento dell’impianto e relativa alla sua messa in
sicurezza.
E da tali disposizioni risulta in modo
inequivoco che, anche dopo la chiusura, è ravvisabile un esercizio ossia una
gestione della discarica di rifiuti tossico nocivi e che ,anche tale fase è ritenuta
importante ,in quanto il legislatore impone alla autorità di controllo di dare precise prescrizioni da osservare proprio in tale fase,mentre
alcune prescrizioni sono gia contenute
nel testo dell’art 16 quali : la
ricopertura della discarica ,il riutilizzo dell’area.
Ed il successivo
Dlgs n 22/1997 conferma tali
prescrizioni là dove ,nel fornire una definizione di “gestione dei rifiuti”, vi include espressamente il controllo delle
discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura , attribuendo
al gestore del sito precisi obblighi e responsabilità .
E non può
certo dubitarsi del fatto che tali obblighi ,nel caso di cessione della
proprietà e della gestione della discarica,si trasferiscano in capo al nuovo proprietario del sito .
La diversa interpretazione fornita dalla
Cassazione porterebbe alla assurda conseguenza che chi riceve una discarica autorizzata ,sarebbe
tenuto ad osservare determinate
prescrizioni ,che non sarebbe invece tenuto ad osservare chi subentra in una discarica abusivamente realizzata .
4)
La delibera interministeriale 27-7 1984 e l’obbligo giuridico di attivarsi per
evitare l’inquinamento da percolato :
il reato di gestione di discarica abusiva in forma omissiva.
In relazione
agli obblighi di gestione della discarica ,anche quando la discarica è stata
chiusa , osserva la accusa come rilevi anche quanto stabilito dalla Delibera
interministeriale del 27-7-1984- contenente disposizioni per la prima
applicazione del DPR n915/82- che al punto 4.2 cosi testualmente stabilisce, con riferimento allo stoccaggio
definitivo di discariche di prima e
seconda categoria “ i sistemi di
drenaggio e captazione del percolato, nonché
l’eventuale impianto di trattamento del medesimo dovranno essere mantenuti in esercizio anche
dopo la chiusura della discarica stessa
e a carico del gestore di quest’ultima ,per il periodo di tempo che sarà
stabilito dall’autorità competente “
Prescrivendo la
delibera degli obblighi a carico del gestore della discarica , per impedire lo
sversamento del percolato anche dopo la chiusura, si configurano i reati, a carico di colui che non li adempie, di cui agli art 25 e 26 D P. R
n.915/82 come fattispecie omissive improprie in forza della clausola di
equivalenza dell’art 40 capoverso c.p .
Risulta quindi chiaro il vizio logico contenuto nella sentenza della Corte di
Cassazione, in quanto quand’anche non
fosse possibile configurare un
obbligo di rimozione dei rifiuti a carico
del detentore di un discarica chiusa, ciò non significherebbe certo la
inesistenza a suo carico di un obbligo
di porre fine alla situazione giuridica in corso, impedendo il protrarsi o l’aumentare del degrado ambientale .
Esisteva pertanto, anche in
base alla disciplina normativa all’epoca vigente, un obbligo giuridico
di attivarsi affinché i rifiuti fossero posti e mantenuti nelle condizioni di
massima sicurezza, in particolare sotto il profili dell’inquinamento da
percolato, finchè non
perdevano la loro capacità lesiva dell’ambiente.
Secondo il
Tribunale invece un obbligo di bonifica, a carico di chi subentra nella
detenzione di una discarica chiusa, sarebbe stato introdotto solo dalla legge
Ronchi , mentre invero, a parte la
introduzione di un obbligo specifico di bonifica a carico di chi subentra
nell’area in cui altri hanno abusivamente smaltito rifiuti,attuata dalla
successiva normativa, già il DPR.915/82 e la citata Delibera Interministeriale
del 27-7-1984 stabilivano un obbligo di vigilanza e mantenimento in
sicurezza della discarica ,obbligo che
viene solo ribadito dall’art 28 D Lgs n 22/97 , che espressamente richiede che,
l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento, prescriva le modalità di messa in sicurezza
, chiusura e ripristino degli impianti esauriti.
4)
La
interpretazione della normativa statale alla luce della disciplina comunitaria
La suddetta interpretazione della normativa statale risulta in linea con la disciplina
comunitaria- Infatti una disposizione
base della normativa comunitaria in materia di rifiuti l’art 4 della Direttiva 75/442/CE stabilisce che gli stati membri devono adottare tutte le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano
recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare
procedimenti che potrebbero creare rischi
per l’acqua ,l’aria ,il suolo ed in base a tale normativa la Corte di giustizia ha ritenuto sussistere
a carico del detentore di un’area utilizzata in passato come discarica abusiva
, l’obbligo di adottare le misure necessarie per impedire la protrazione del
degrado ambientale
6) La giurisprudenza di legittimità e merito
successiva
Per tali motivi
la sentenza della CC.SU. del
5-10-94 non può essere ritenuta soddisfacente
ed in senso contrario si sono infatti
gia pronunciate altre sezioni della Corte - Sez III 11-4-1997 imputato
Vasco- C.C. Sez III 4-11- 1994 imputato Zagni
-C .C 17-12- 1996 n 8468 – C.C Sez III 11-4-1997 - nonché giudici di merito .
L’accertamento della responsabilità andrà
quindi verificato in concreto attraverso l’accertamento della consapevolezza
della esistenza della situazione antigiuridica ,della conoscenza del protrarsi
nel tempo dell’offesa al bene giuridico protetto e della sua esposizione a
pericolo di ulteriore degrado , nonché della volontarietà della persistente
condotta del soggetto.
E nel caso di
specie non può dubitarsi del fatto che
i dirigenti e gli amministratori,succedutesi dopo la cessazione dei
conferimenti, pur sapendo che esistevano numerose discariche abusive di rifiuti
tossici, ed avendo di conseguenza consapevolezza del rischio di contaminazione
del suolo,sottosuolo e delle falde
idriche e della laguna non abbiano posto termine né limite alcuno
alla situazione giuridica in corso ed ai suoi
effetti .
Le prove in atti
relativamente alle predette circostanze sono numerose e sono state presentate
al tribunale dall’Ispettore del corpo forestale Spoladori ,dal maresciallo
della Guardia di Finanza Porcu e da altri testimoni, nonche dai consulenti
tecnici dell’accusa .
Significativa, anche
se non come prova , della conoscenza da parte degli imputati del grave degrado ambientale di Porto Marghera è
anche la intera vicenda definita American Appraisal nell’ambito
della quale è emerso che tutti erano a
conoscenza del grave degrado ambientale .
1) sulla utilizzazione delle falde
Dopo avere ricordato
quanto affermato dal Tribunale sul punto e cioè la inutilizzabilità delle acque
di falda-attinte per moto verticale dal percolato di discarica - per qualsiasi uso alimentare o antropico ,osserva
la pubblica accusa come risulti invece provato da numerosi documenti-
vedi indagine idrogeologica del
territorio provinciale del 1998- che in
tutta l’area lagunare esistono pozzi che attingono alle prime falde del sistema
idrogeologico veneziano, più profonde
di 10 metri, per un utilizzo dell’acqua a diversi fini.
Ne consegue che
pur considerando la modesta quota di risorse attribuibili ai pozzi
superficiali, contrariamente a
quanto affermato dal Tribunale,anche
attualmente, il complesso delle falde minori, oltre i 10 metri di profondità ,
era utilizzato proprio per usi alimentari
e continua ad essere utilizzato per usi antropici.
2) circa il trasferimento degli inquinanti e le caratteristiche idrogeologiche del
sottosuolo del petrolchimico
Dopo avere ricordato che,secondo il Tribunale
,le acque di falda risulterebbero pressoché
stagnanti e la permeabilità complessiva del sottosuolo bassissima ,
dell’ordine di 10-4 cm/S ,fino ad una profondità variabile tra i 2 ed i 6 metri
, per la presenza di materiale di riporto e di
rifiuti fangosi , ed a causa del banco di sabbia prevalentemente fine e limoso , tra gli 8 e i 15 metri , rileva
il P .M come il tribunale abbia utilizzato un valore errato perché ha confuso l’unità di misura , utilizzando l’unita
cm/s anziché m /s .
In ogni caso i
valori di questo ordine di grandezza rientrano tra quelli di grado medio con
drenaggio buono.
Osserva ancora il P:M come da questa erronea
valutazione del tribunale ne conseguono
altre e come in ogni caso la
complessità delle indagini,in relazione alla variabilità del terreno, renda
comunque difficile un accertamento preciso dei valori di permeabilità .
Le affermazioni del Tribunale comunque si
pongono in contrasto con quanto dallo stesso successivamente ritenuto –vedi
pagina 522 –525- laddove si da atto del fatto che la contaminazione riesce ad
attingere le falde acquifere immediatamente sottostanti lo strato di caranto, sino
a raggiungere il secondo acquifero ad
una profondità superiore ai 20 metri.
Contraddittoria
è anche la affermazione del Tribunale
laddove, prima riconosce in astratto la idoneità delle acque di falda ad essere
oggetto di tutela penale ai sensi degli art 439-440 c. p. in quanto la
destinazione alla alimentazione non implica certo la potabilità delle acque di
falda e poi lo esclude in concreto, affermando che la ragione della
esclusione consiste nella circostanza che si tratta di acque di falda inutilizzate
per il consumo umano . Non è poi vero
che la portata delle acque di falda sia insignificante in quanto se si parla
dell’acquifero superficiale solo dal Petrolchimico escono 4 l/s (per quanto
inquinati)che vuol dire 345600 litri / giorno , e 126 milioni di litri/anno.
E ci sono poi le centinaia di pozzi ,fino a
10 metri ,citati dalla provincia, certamente
di interesse pratico anche se modesto .
Ed ancora male interpreta il Tribunale le
conclusioni cui perviene il consulente tecnico
della difesa, relativamente alla bassa portata ed alla cattiva qualità
originaria delle acque ,che le
renderebbe inutilizzabili a prescindere
dall’inquinamento, e cioè anche se l’inquinamento non sussistesse, in quanto
estende la predetta valutazione del consulente Dal Prà, riferita solo alla falda superficiale, al complesso di
falda superficiale, prima falda e seconda falda .
Ed infatti, a conferma dell’errore in cui è
incorso il tribunale, si evidenzia
come la salinità della seconda
falda non risulta sussistere .
In ogni
caso deve osservarsi come le acque
salmastre possano essere utilizzate per uso agricolo sopportando alcune
coltivazioni elevate quantità di sali ,
per cui anche le acque salmastre –senza contare la dissalazione –costituiscono
una risorsa per l’uomo a meno che non
siano inquinate .
Anche la affermazione ,secondo cui la portata
massima estraibile è di un decimo di litro al secondo e quella secondo cui
l’utilizzo delle acque sotterranee finirebbe per richiamare acque salate , si
riferisce solo alla prima falda ed è informazione di carattere marginale ,
ristretta all’area indagata, che
difficilmente può essere estrapolata all’intero stabilimento considerata la notevole complessità e
diversità dei depositi presenti
-vedi sul punto la relazione Aquater-Basi-96 pagina 25 -
Ed egualmente la affermazione, secondo cui
l’utilizzo per i primi 30 metri delle falde, non sarebbe ipotizzabile, perché
in tempi brevissimi si prosciugherebbero a causa del loro ridotto spessore , è
affermazione apodittica e indimostrata.
Si deve quindi
concludere che le dimensioni adottate dalla difesa per proporre i propri
modelli sono minimali e che il Collegio
è stato indotto in errore .
Erronea e travisante è stata poi anche la
valutazione del Collegio circa
l’andamento dei flussi sotterranei.
Il Tribunale ha
infatti ritenuto che l’impatto degli inquinanti, veicolati dalle acque di
falda sottostanti le aree di discarica
interna , sulle acque e sui sedimenti dei canali finitimi all’area di insediamento
del plesso industriale ,secondo un processo di trasferimento orizzontale ,
avrebbe un andamento degradante verso sud est, salvo il rilievo che le acque di
impregnazione , e cioè la falda
superficiale , potrebbe degradare anche
verso Nord.
Ed invece risulta incontestato, dalla ricerca
Aquater Basi 96 e 2000, che le falde hanno un andamento centrifugo, in
particolare nella zona di ponente dell’area di insediamento del
Petrolchimico,corrispondente alle aree
in cui si trovano le discariche isola 31 e 32 .
Anche la affermazione secondo cui, il flusso
del primo acquifero verso la laguna è insignificante perché nella peggiore delle ipotesi si tratta di 4 L/S lungo
tutto il perimetro dell’area di insediamento del plesso industriale ,non è condivisibile in quanto in ogni caso 4l/s fanno 120.000
metri cubi /anno.
E comunque la
ridotta mobilità delle acque al contatto
tra falde e acqua di mare, che è del tutto ovvia per ragioni fisiche ed
idrodinamiche , specie con i gradienti in gioco, è comunque dell’ordine di qualche metro / kilometro.
Il
trasferimento orizzontale seppure lento comunque avviene e come dimostrato dai
flussi registrati da Aquater Base 96 e 2000.
Occorre poi
ribadire che i 4 L/S non escono dalla
prima falda ma da quella superficiale e
che i anche in questo caso il Tribunale è incorso in equivoci ,utilizzando
spesso il termine generico di falda del Petrolchimico e non è
comprensibile la ragione per cui il
Tribunale abbia considerato ancora più basso il flusso delle acque sotterranee ed affermato che le stime degli esperti
indicano un valore approssimativo della portata della prima falda , lungo tutta
l’area del Petrolchimico dell’ordine di 4/litri al secondo .
I dati elaborati dalla struttura pubblica
,sulla base di elementi conosciuti in letteratura e contenuti nel Piano
direttore 2000 , avrebbero comunque dovuto essere confrontati e verificati con
i dati strumentalmente attestati dai puntuali rilievi Aquater Basi che sono
certamente più completi e aggiornati .
Deve comunque essere ribadito secondo
l’accusa che i 4l/s non escono
dalla prima falda bensì
da quella superficiale e che il consulente della accusa Nosengo ha
utilizzato gli stessi dati del
consulente Francani ,giudicandoli come valori minimi di un range in realtà più ampio .
Indimostrata è infine la affermazione secondo
cui , oltre alla bassa permeabilità del sottosuolo,alla stagnazione delle falde
sottostanti le discariche interne, alla
portata insignificante della falda stessa
concorrerebbe ad escludere l‘apporto inquinante della acque di falda
(per quanto riguarda sedimenti e acque dei canali lagunari a tale area finitimi) la enorme diluizione che comunque le stesse subiscono ad opera
di altri apporti .
La affermazione relativa alla diluizione si
basa sua un errata interpretazione del
lavoro del prof Perin che indica un valore di apporto dalla gronda lagunare di 600 m c/s come corrispondente
all’apporto massimo ,mentre nella relazione Francani cui si riferisce il
Tribunale questo valore viene considerato un valore medio, con la conseguenza
che il ragionamento relativo alla enorme diluizione risulta errato.
Il Tribunale ha
infine omesso di considerare che in ogni caso la pretesa -ma inesistente
diluizione- potrebbe riguardare solo le
acque superficiali e non certo quelle
della falda piu profonda .
Conclusivamente risulta accertato che le falde hanno
capacità di movimento ;
che la falda superficiale raggiunge i canali
perimetrali con la velocità almeno di 4l/s e
che dove manca il caranto inquina ,con trasferimento verticale , la prima ed in misura piu
ridotta anche la seconda falda ;
che la prima
falda a sua volta , dotata di gradiente generato dagli afflussi
provenienti dalla sue zone di alimentazione
poste a monte, si muove dove può e cioè verso i canali perimetrali abbastanza profondi da raggiungerla e, se vi sono ostacoli e
permane un gradiente in direzione diversa da quella generale NW-SE ,la prima
falda si muove in altra direzione( la
citata direzione Nord ) secondo il ben noto,
in idraulica, fenomeno del rigurgito , che è il moto retrogrado di un
flusso ostacolato.
La sentenza
conterrebbe dunque errori e contraddizioni e trascurerebbe le valutazioni
di American Appraisal , dei dati Aquater base 95-96-2000 ,né tiene in alcun
conto le valutazioni e note critiche del prof
Nosengo, che ha ritenuto le
indagini svolte insufficienti a valutare correttamente sia la permeabilità del terreno come la validità dei modelli di
simulazione.
3.9.1 Trasferimento orizzontale di inquinamento verso
la laguna e contaminazione della falda
sottostante il Petrolchimico e dei suoli.
Osserva il P.M come, secondo il Tribunale,
risulti incontroverso che da tutta l’area del Petrolchimico derivi un apporto
per moto di trasferimento orizzontale dalla prima falda verso i canali della
zona industriale di quattro litri al
secondo .
Quantitativo solo apparentemente piccolo
perché corrisponde a 345600 litri al
giorno ed in termini di apporto annuale
a 126 milioni di litri all’anno .
Le misure di concentrazione delle diossine nelle
acque sottostanti il petrolchimico , effettuate a cura dell’Enichem in relazione al disposto del DM 471/99 sulle
bonifiche.
Le analisi sulle
acque sottostanti il Petrolchimico sono state fatte solo per 6 campioni
anche sulle diossine e ,su 3 campioni, sono state rilevate
concentrazioni superiori ai limiti di
cui alla tabella del DM 471/99, di cui
per un campione in modo molto elevato .
In un campione è stata rilevata anche la
presenza della diossina 2,3,7,8 –TCDD ad elevato livello.
E se da un controllo su solo 6 campioni è
risultato un superamento elevato in due casi, non può considerarsi che il
superamento sia un fatto solo sporadico e raro,secondo calcoli statistici il
superamento dei livelli potrebbe essersi verificato in un percentuale compresa
tra il 20% e l’80 % e quella del
livelli piu elevati potrebbe essere stimata come compresa tra circa il 9 %e il
67 %.
L’intervallo dei valori misurati è tra 2.31 p
g /L(I-TE) e 634 p g/L(I-TE) e la media è circa 112 p g/ L(I-TE) ( anche non
considerando il dato piu elevato la media risulta di circa 8 PG/I (I/TE) con un
valore sempre molto elevato.
L’appello contiene quindi una descrizione
per ciascun campione di acqua dei singoli valori delle diossine misurate .
L’impatto del trasporto verso la laguna di 4 litri al
secondo delle acque sottostanti il petrolchimico
Anche il valore
minimo misurato nelle acque di falda pari a 2,31 p g (I-TE/litro)è
superiore al valore limite proposto dalla Commissione consultiva tossicologica nazionale
(CCTN) per gli scarichi di PCCD e PDDF nei corpi idrici pari a 0,5 p
g(I-TE/litro).
Con riferimento
alla contaminazione media dell’acqua di falda ,di circa 112 p g/I (I-TE) ed un
rilascio di 4 litri /secondo verso i canali ovvero 126 milioni di litri/anno,
il quantitativo di diossine trasportato verso i canali risulterebbe dell’ordine
di circa 14 miliardi di p g (I-TE/anno) pari
a circa 14 mg I-TE /anno).
Questo apporto inquinante diventa
significativo con riferimento alla gia esistente contaminazione dei sedimenti
della laguna di Venezia.
Anche un solo
milligrammo ( corrispondente a un miliardo di picogrammi) può contaminare ogni
anno, ad un livello pari a10 volte quello di fondo, un quantitativo di
sedimenti pari a100 tonnellate .
Ed un
milligrammo rappresenta un valore che è 14 volte inferiore a quello che sarebbe immesso in laguna nell’arco di un
anno con il trasporto di 4 litri / secondo di acque contaminate al valore medio
misurato a cura dell’ENICHEM .
A pagina 526 delle sentenza si dice che le
falde di cui si discute non possono fornire portate compatibili con qualsiasi
l’uso e ciò è certamente vero,soprattutto per l’inquinamento delle acque
inaccettabile secondo il DM 471/99.
La portata è invece un fattore molto meno rilevante in quanto possono esistere
usi che richiedono un quantitativo limitato
di acqua al giorno.
Premesso che i dati
di contaminazione del suolo da diossine sono presentati in termini di ITE,
senza differenziare i vari congeneri ,risulta che i livelli di diossine e
composti simili rilevati sui diversi
strati di suolo nell’indagine promossa
da Enichem, in relazione a quanto previsto dal DM 471/99 su un totale di
30 siti campionati superino in otto siti il livelli previsti dal D. M.
citato (limite per le aree industriali
pari a 100 n g I-TE/kg) ;
che in 6 campioni la contaminazione supera 1000 n g I-TE/kg con valori massimi
di circa 3300,3748 e 3507 n g I-TE/kg ,piu di 30 volte superiori ai limiti .
Trattasi di
percentuali di superamento dei limiti non irrilevanti che dimostrano come esistano strati non superficiali dell’area
del Petrolchimico contaminati a livello superiore della cosiddetta Zona B di
Seveso .
Trattasi di valori
di inquinamento del suolo che trovano corrispondenza in quelli dell’acqua, in
quanto, tenuto conto della scarsa idrosolubilità delle diossine e della loro
elevata affinità con il carbonio organico contenuto nel suolo , i livelli nell’acqua risultano inferiori piu di 10.000 volte rispetto a quelli del
suolo .
Ed i livelli
accertati nell’ acqua e nel suolo sono coerenti con questa ipotesi.
Segue nell’appello l’elenco degli 8 campioni
in cui sono stati rilevati i valori superiori ai limiti di cui al D. M 471/99.
In conclusione :
per quanto riguarda le acque sottostanti il Petrolchimico i dati indicano per i
6 campioni livelli da 2.31 p g I- TE litro a 634 p .g I- TE litro con un
valore medio di circa 112 p g I-TE /litro , 3 campioni su 6 superano il limite del DM 471 /99 e tutti i campioni hanno concentrazioni
non compatibili con il criterio
proposto dalla Commissione Consultiva
Tossicologica nazionale per gli scarichi idrici .
Calcoli
elementari indicano che 4 litri al secondo corrispondono a 345.600 litri al giorno e circa 126
milioni di litri /anno.
Un tale
trasferimento d’acqua inquinata comporta la contaminazione di 100 tonnellate di
sedimento ad un livello pari a10 volte quello di fondo.
Le concentrazioni rilevate nelle acque sono
quelle che erano prevedibili in base al rapporto con il grado di contaminazione
del suolo e sottosuolo.
I suoli
inquinati rilasciano inquinanti nelle acque ed anche se il rilascio d’acqua è
quantitativamente limitato risulta di
notevole impatto ambientale in relazione alla tossicità delle sostanze in
esame.
La affermazione
del tribunale sul punto non può di conseguenza essere condivisa, perché se è
vero che il flusso è limitato è anche vero che il carico inquinante è
rilevante e che comunque il flusso d’acqua in un anno è considerevole..
II parte -sentenza
Capitolo quarto
La compromissione del sedimento dei canali dell’area
industriale ( rilevante in termini di disastro colposo e come antecedente
dell’avvelenamento del biota su di esso
vivente
4.1 Premesse
Secondo il P.M
l’evento disastro consisterebbe nella
alterazione dell’ecosistema
dell’area industriale e nella
contaminazione dei comparti ambientali che lo costituiscono attinti dal
catabolismo del Petrolchimico
Secondo
l’ipotesi accusatoria il sedimento dei canali dell’area industriale sarebbe stato attinto dal catabolismo del
Petrolchimico- con effetti rilevanti in
termini di disastro colposo - e dal sedimento la contaminazione si sarebbe
estesa al biota ( su di esso vivente)
con effetti rilevanti in termini di avvelenamento
L’inquinamento sarebbe causato da
microcontaminanti – organici ed inorganici- in particolare diossine che ,
per la costante presenza di
“octaclorodibenzofurani,”troverebbero la loro matrice nelle filiera del cloro
ed i conseguenza nella produzione del Petrolchimico
La cosiddetta impronta delle diossine denota
la matrice della contaminazione, ed è
improbabile che la matrice possa essere individuata in altro tipo di
produzione, in quanto le diossine derivanti da altri processi produttivi, diversi dal Petrolchimico,
sarebbero diversamente connotate.
La circostanza è confermata dalla
corrispondenza delle impronte caratteristiche del sedimento dei canali
inquinati con quelle dei pozzetti interni al plesso Petrolchimico .
L’accertamento avente per oggetto la presenza
nel sedimento dei canali delle diossine , dei policlorobifenili ( PCB), degli
idrocarburi policiclici aromatici (IPA) degli idrocarburi clorurati,ammine
aromatiche, nitrofenoli e metalli pesanti,dimostrerebbe la sussistenza
dell’evento di danno ambientale disastroso
Per dimostrare il
grado “disastroso” dell’inquinamento vengono fatti confronti tra il
sedimento dei canali dell’area
industriale ed il sedimento dei canali dell’isola di S.Erasmo
Per molti
campioni risultano superati, ora per un parametro ora per più parametri , i
limiti della classe B) e talvolta quelli della classe C) del Protocollo
d’Intesa 1993 del Ministero
dell’Ambiente
In particolare risulterebbero
molto inquinati i sedimenti del canale Lusore Brentelle- antico corpo ricettore
degli scarichi di provenienza del Petrolchimico- il bacino di evoluzione del
Canale Industriale Sud , per la concentrazione di IPA, la darsena
della Rana per la concentrazione di IPA di esaclorobenzene e di PCB.
Cause di
contaminazione del sedimento sarebbero in sintesi :
1) gli
scarichi incontrollati nel canale
Lusore Brentelle , antico corpo ricettore di quelli attivi fino alla metà degli
anni settanta., salvo per quel che riguarda
taluni scarichi superstiti;
2) lo
smaltimento delle peci clorurate
trasportate con autobotti e bettoline
in tutte le acque dei canali
industriali della prima e della seconda
zona industriale;
3) gli apporti
inquinanti recati fino all’attualità dall”SM15 ( scarico principale di provenienza del Petrolchimico) ritenuto
responsabile della contaminazione dei cd “Bassi Fondali” antistanti l’area di
insediamento del plesso industriale
-dove comunque anche secondo l’
accusa i valori di PCDD/F si riducono di tre ordini di grandezza rispetto a quelli della prima zona industriale.
Le prime due
cause sarebbero pertinenti a fatti meno recenti, la terza a fatti più recenti
anzi al presente , in particolare
l’accusa osserva come nelle acque in uscita dallo scarico SM15 si rinvengano
quelle sostanze che ,in concentrazioni significative, si trovano nei sedimenti
,all’esterno del Petrolchimico , in primo luogo le diossine.
In tesi di
accusa sarebbero attuali apporti rilevanti di inquinanti
In particolare la immissione di diossine nelle acque dei canali finitimi al plesso
industriale si sarebbe protratta almeno fino al1998.
Lo proverebbe il
fatto che un campione prelevato dal Magistrato delle acque nel 1998 avrebbe
rilevato un valore di concentrazione – 150 picogrammi /litro- 300 volte
superiore al valore limite per gli scarichi industriali, proposto dalla
Commissione consultiva tossicologica nazionale (per diossine e furani) pari a
0,5 picogrammi /litro.
Gli scarichi del
Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del noto divieto di diluizione - art 9 quarto e settimo comma L n.319/76,
come modificato dalla L n .650/79- stante la confluenza di acque di
processo e di altre correnti nel
principale scarico del plesso industriale prima
del recapito nel corpo ricettore.
Osserva
ancora l’accusa come decine di migliaia di bollettini di
analisi interne – dimostrerebbero il superamento dei limiti di legge anche in epoca recente .
L’imputazione addebita agli imputati lo scarico di fanghi,
di catalizzatori esausti e di altri sottoprodotti di risulta attraverso gli
scarichi SM2e SM15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai
limiti di accettabilità previsti dal D.P.R n. 962/1973, normativa speciale per
la con terminazione lagunare e tale
condotta si porrebbe così in nesso causale con il disastro e l’avvelenamento del biota
Un ulteriore
addebito di colpa , pertinente la disciplina dei rifiuti ma rilevante
anche per quanto riguarda la gestione
degli scarichi nelle acque , è
quello conseguente alla presenza
di C .V. M nelle acque di processo e nei reflui di provenienza dal Petrolchimico ,che . comporta la qualifica di
tutti i rifiuti recapitati nel corpo ricettore
nel corso del tempo, anche quelli convogliati attraverso gli scarichi SM15 e SM2, come rifiuti tossico nocivi
Tanto consegue al
fatto che gli imputati non avrebbero dimostrato che ,nelle acque di processo
provenienti dagli impianti CV22/23 e CV 23/24 le concentrazione del CVM fosse
compatibile con le concentrazioni limite relative alla diossina sostanza
nominate nella tabella 1.1 allegata alla delibera del Comitato
Interministeriale 27-7-1984.
Tutti i reflui
avrebbero dovuto essere smaltiti come rifiuti tossico nocivi ,in forme adeguate
a quelle indicate dal d.p.r 915/1982(
termodistruzione) e non nelle forme adeguate alla disciplina relativa agli
scarichi nelle acque
Le condotte
sopradette integrerebbero i reati di disastro innominato per i danni
interessanti l’ecosistema nel suo complesso,nonché quelli di adulterazione e avvelenamento, estendendosi la
contaminazione attraverso l’inquinamento del biota alle risorse alimentari
costituite da pesci e molluschi, suscettibili
di essere immessi nel mercato attraverso la pesca abusiva praticata nei luoghi . Il pericolo per l’incolumità pubblica sarebbe attuale e il reato di disastro
innominato sarebbe permanente in atto
4.2 Illustrazione delle tesi di accusa sulla compromissione del sedimento dei
canali dell’area industriale veneziana
a causa dei microcontaminanti
inorganici ed organici rilevante in termini di disastro innominato colposo
Illustrazione delle tesi di accusa attinenti alla
sussistenza di una relazione tra tale
evento di danno e gestione del catabolismo nelle acque del <petrolchimico
(riferibili agli imputati)
Sinossi:
a) i dati della
contaminazione
b) profilo storico
degli scarichi attraverso il riferimento alla autorizzazioni rese dal magistrato alle acque
c) dell’attuale rilevanza dell’apporto
costituito dal flusso dell’SM 15”
principale scarico di provenienza del petrolchimico intermini di contaminazione
da diossine
d) tipicità dell’impronta delle diossine di risulta
dalla produzione del cloro
e) studio dei profili di congenere delle diossine presenti nei campioni di sedimento prelevati dai
canali dell’area industriale
f) confronto tra tali impronte e quelle relative
all’esito di analisi di campioni di fanghi prelevati da pozzetti del sistema
fognario del Petrolchimico
Alcuni dati sono
incontroversi
La
contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale esiste ed è quella descritta nel “Piano Direttore 1989 della Regione Veneto” che descrive la
situazione qual’era negli anni della
transizione del petrolchimico da
Montedison a Enichem evidenziando anche
che la grave situazione che aveva portato
l’ecosistema lagunare vicino al collasso agli inizi degli anni 70,appariva in miglioramento ,grazie agli interventi di depurazione già avviati e al miglioramento e riconversione delle tecnologie
industriali , ma non facilmente
superabile per quanto riguardava la
componente inglobata nei sedimenti.
Lo stato di
compromissione del sedimento dei canali dell ’area industriale è attribuibile
al catabolismo industriale risalente nel tempo ( vedi consulenti tecnici
della accusa Bonamin e Rabitti e deposizione teste Pavanato e Ferrari ) tutte
convergenti nel riconoscere che la maggior parte delle sostanze inquinanti è stata immessa in laguna nel ventennio 50-70
Gli esperti
dell’accusa – Baldassari - Bonamin e Fanelli hanno accertato la presenza degli
inquinanti di derivazione da processi di lavorazione industriale oggetto di
interesse processuale ( PCDD, PCDF, IPA, esclorobenzene , metalli pesanti) e
hanno individuato, nel contesto dell’intera conterminazione lagunare,
sei distinte aree di rischio , seguendo l’andamento della concentrazione
degli inquinanti e rilevando ,come da tutti atteso ,per tutti gli inquinanti
concentrazioni più elevate nella zona industriale.
Nel canale
Lusore Brentelle hanno rilevato alte
concentrazioni di mercurio ed hanno
altresì rilevato, nei campioni di sedimento dei canali dell’area industriale,
diossine che recano l’impronta del cloro
Tanto premesso –
trattasi di circostanze sostanzialmente incontestate - osserva il Tribunale come sia essenziale nel processo accertare se tale situazione sia
riferibile a fatto degli imputati-se non altro in termini di aggravamento della
contaminazione preesistente , e come
altrettanto essenziale nel processo sia il verificare se tale situazione
possa dirsi obiettivamente riferibile al Petrolchimico degli anni interessanti
l’imputazione .
Procede quindi
il tribunale alla analisi del
consulente dell’accusa Racanelli
Premesso che
l’analisi è stata orientata su
policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani PCDD/PCDF, policlorobifenili,
PCB, idrocarburi policiclici aromatici IPA, idrocarburi clorurati, ammine
aromatiche nitrofenoli pesanti e metalli pesanti; che degli esiti è stata
fatta una valutazione secondo i parametri
del Protocollo d’Intesa del 1993; che
nessuna distinzione è stata fatta tra la Prima e la Seconda Zona industriale ;
che sono stati assunti i dati di
sedimenti superficiali campionati dal 1992 a tutto il 1999 con
conseguenti differenze
influenzate dalle variabili spaziali , temporali , analitiche –
dipendenti queste ultime dai risultati ottenuti da diversi laboratori , per cui sono state considerate
significative solo le differenze tra
dati che variano per più di un ordine di grandezza; che quale parametro di
confronto sono stati presi i campioni prelevati in prossimità dell’isola di S.
Erasmo; che nella zona industriale sono stati fatti campionamenti in sette
punti denominati rispettivamente da S1, a S 7 e tutti raffrontati ai parametri
di cui alla colonna A),B)e C) del Protocollo d’Intesa 1993 del Mistero dell’Ambiente; sulla base
delle indagini tecniche eseguite
seguendo i criteri
sopraindicati si sono avuti i
seguenti risultati: la presenza di Mercurio in misura superiore ai parametri sopraindicati
nel punto S 7- sedimento del Canale Lusore – Bretelle- antico corpo recettore
degli scarichi di provenienza del vecchio petrolchimico- la presenza di
esaclorobenzene HCB – sotto prodotto delle produzioni di interesse processuale
, composti clorurati – e presente in dosi massicce nelle peci clorurate.
In base a tali dati
ritiene l’accusa che la contaminazione del sedimento dei canali della zona
industriale sia causato da pratiche di
smaltimento dei rifiuti mediante getto diretto nei canali mezzo di autobotti e bettoline di provenienza del Petrolchimico
Quanto sostenuto dall’accusa non risulta in alcun
modo provato per quanto riguarda il periodo di gestione del Petrolchimico da
parte degli imputati: –1970 –2000.
Le analisi
evidenziano poi in particolare percentuali
che superano le soglie del citato protocollo d’intesa nei policlorobifenili –P C B- , nei
Policlorodibenzodiossine
policlorodibenzofurani PCDD/PCDF,
negli Idrocarburi policiclici aromatici tossici IPA , negli IPA tossici
nel piombo, nel rame , nell’arsenico - l’arsenico supera in quattro
punti il livello dei protocollo – ed
il c .t evidenzia che l’arsenico è contenuto nelle
ceneri di pirite- fanghi rossi- usati in antica data per l’imbonimento
dell’area di sedime della zona industriale.
Conclusivamente
ora per un parametro ore per l’ altro ,talvolta per più parametri i campioni di sedimento , prelevati dai canali
della zona industriale , superano i limiti di cui alla classe B del Protocollo
d’intesa.
Per i campioni
di sedimento superficiale prelevati dai punti sotto indicati risultano superati
i limiti di cui alla classe C dello stesso protocollo
Il sedimento del
canale Lusore Brentelle presenta un
grado di inquinamento più elevato che non è classificabile in base al
protocollo e dovrebbe essere gestito come “rifiuto tossico nocivo “
Segue quindi
l’esame della analisi del consulente
dell’accusa Ferrari
Il c t.
accerta innanzitutto che gli scarichi erano autorizzati dal
Magistrato alle Acque ;
che la produzione dei clorurati avviene nel
vecchio Petrolchimico .e che gli scarichi versavano direttamente nel canale
Lusore Brentelle senza alcun tipo di
trattamento;
che verso la
metà degli anni 70 la produzione dei
clorurati si spostava nell’area del nuovo Petrolchimico e che a questa stessa epoca risalgono i primi impianti di trattamento e
termocombustione dei reflui clorurati
denominati CS30 e CS28.
Il consulente ha poi indicato, elencandoli,
gli impianti che scaricavano
direttamente nel canale Lusore
–Bretelle :
A impianto
cloro- soda avviato nel 1951 e chiuso nel 1972
B impianto di
produzione del CVM e cioè il CV1- chiuso intorno al 1970- il CV10 chiuso nell’81
C altri impianti,
fino alla realizzazione dell’impianto chimico fisico biologico SG31 avvenuta
nel 1978;
D le produzioni di tetracloroetano e trielina
,cloruro di benzile e benzale
scaricavano le acque reflue con
recapito nel canale Lusore B fino all’avvio dell’impianto di strippaggio dei
clorurati CS30
E in realtà
incontroverso che il canale Lusore Brentelle
sia stato gravemente compromesso dal catabolismo del Petrolchimico e ciò nel tempo, per cui si sarebbe dovuto
verificare se si trattava di tempi
storici che trascendevano o meno l’imputazione
L’accusa non si
è invece posto il problema di
accertare se si tratta di tempi storici
che superino quelli dell’imputazione ,né di verificare , se vi sia una
relazione tra la condotte degli imputati ed
una qualche forma di aggravamento della contaminazione preesistente.
Sul
piano normativo viene evidenziato che
la legislazione speciale per la salvaguardia di Venezia – l.366/73 l .171/1973
DPR 962/73 – entra in vigore tardivamente essendo stati i termini per la installazione di impianti di
depurazione dei reflui in laguna prorogati
fino a tutto l’1-3-1980 e che
prima di questa data non possono considerarsi operativi i parametri di accettabilità degli scarichi di cui alle
tabelle allegate al D. P R. 962
/73 e che neppure altrove opera la
legge Merli
Consta che al 1-3-1980 gli scarichi di
provenienza del Petrolchimico . erano muniti di impianti di trattamento delle
acque di scarico
Secondo l’ipotesi accusatoria .l’inquinamento
dei canali e della laguna nella parte antistante la zona industriale – causato
dalla presenza di diossine e
idrocarburi clorurati di risulta della produzioni del P. sarebbero stati
causati per il passato da:
a )
scarichi nelle acque di reflui senza
trattamento
b) evacuazione
diretta in laguna di rifiuti clorurati a mezzo di bettoline e autobotti
Per l’epoca più
recente invece dallo scarico S.M.15
Con riferimento
a tale scarico e premesso che i sistemi
di trattamento sono rimasti sostanzialmente gli stessi ,salvo alcune migliorie
nel 1995/ 98 a seguito di interventi della magistratura , viene evidenziato
che nello scarico S12 che poi
confluisce in quello predetta erano stati fatti dei campionamenti ed era stato
trovato un valore di concentrazione
pari a 150 picogrammi litro superiore
di 300 volta al limite degli scarichi industriali proposto dalla Commissione Consultiva
Tossicologica Nazionale per diossine e furani che lo pone eguale a 05
picogrammi per litro che la diossina, rinvenuta nei bassi fondali, ha la stessa
impronta di quella dei reflui di produzione dei DCE e CVM e degli altri
idrocarburi clorurati provenienti dallo scarico SM15
Gli esperti dell’accusa pervengono a ritenere
che la fonte di contaminazione dei canali dell’area industriale debba essere
individuata nella produzione del Petrolchimico e nei relativi scarichi perché
le diossine rinvenute nei sedimenti dei
canali avrebbero la stessa impronta di quelle presenti nei reflui di derivazione delle produzioni di DCE e PVC .
Viene quindi
spiegato il procedimento attraverso il quale diventa possibile individuare la
cosiddetta impronta delle diossine collegarle ad un determinato processo
chimico.
Sinteticamente
viene spiegato come la famiglia delle
diossine e dei furani è composta da 210 congeneri e che usualmente vengono esaminati solo 17
congeneri , quelli con tossicità più
elevata che viene correlata mediante il fattore di conversione (TEQ
tossicità equivalente ) a quella più
pericolosa 2,3,7,8-TCDD
/tetraclorodibenzodiosssina- classificata come cancerogena .
I 17 congeneri vengono poi ridotti a 10
omologhi attraverso il grado di
clorurazione tetra –penta esa epta e octa diossine e furani ed in relazione al diverso processo
produttivo che genera le PCDD/F varia anche la proporzione tra i predetti
gruppi di congeneri ,ciò che consente
di identificare u profilo o impronta del PCDD/F ed associarlo da un determinato processo chimico
Il collegamento
e l’impronta avvertono però i periti
non è comunque paragonabile alla impronta digitale essendo certo meno precisa,
peraltro le variazioni che caratterizzano i processi produttivi dello stesso
tipo di quello considerato inducono
importanti variazioni nel disegno di
congenere e portano alla configurazione di profili relativamente diversi, che
comunque mantengono la loro peculiarità o tratto caratteristico.
Sinteticamente i
confronti effettuati dagli esperti consentono di accertare che nella impronta dei fanghi
prelevati nei pozzetti interni
del Petrolchimico vi è prevalenza di OCDF- octaclorofurano e la stessa
prevalenza viene notata nei sedimenti
superficiali di tutta la zona
industriale
Questo , unitamente ai dati di letteratura in
materia di prevalenza di OCDF nei reflui di provenienza dalla filiera del cloro
,consente all’accusa di ritenere che il
Petrolchimico sia la causa
dell’inquinamento di tutta l’area
industriale , non essendo peraltro possibile individuare nell’area interessata altri processi
produttivi,responsabili della presenza del tipo di diossine PCDD/F rinvenute
nei sedimenti dei canali ,atteso che le
diossine di risulta degli altri processi produttivi non sono in nessun modo
connotate dalla presenza del OCDF .
Ricorda a questo
punto il Tribunale come uno studio del C .N. R perviene a diverse conclusioni, escludendo che le impronte dei sedimenti prelevati nei
punti di campionamento siano sovrapponibili a quelle tipiche della produzione
del CVM.
Ritiene comunque l’accusa che i profili e le impronte delle diossine di
risulta delle lavorazioni del Petrolchimico
possono essere associate ad una impronta media comunque peculiare , che
esclude la possibilità di individuare un’altra matrice della
contaminazione ,caratterizzata dalla prevalenza di octoclorofurano seguito da eptaclorofurano o anche da octaclorodiossina
I profili
e le impronte delle diossine di risulta delle lavorazioni del
Petrolchimico non possono essere associate ad una impronta tipica però possono
essere associate ad una impronta media
comunque caratteristica peculiare
,tutti i sedimenti dei canali industriali denunciano la stessa matrice della contaminazione in quanto tutti i campioni dei sedimenti
sono riferibile allo stesso insieme.
Non si fa carico invece l’accusa di datare l’epoca della contaminazione
pur essendo tecnicamente possibile
Osserva a questo punto il tribunale
come l’accusa trascuri due importanti
evidenze che provengono dalla stessa analisi dei suoi consulenti :
1)l’andamento delle concentrazioni delle
sostanze inquinanti evidenzia una forte diminuzione procedendo
da nord verso sud , man mano che ci si
allontana dalla prima zona per
avvicinarsi alla seconda zona industriale;
2) nello spazio
antistante lo scarico SM15 –lo scarico principale di provenienza del plesso
industriale ,dalla meta degli anni 70 ad oggi- i valori di concentrazione degli
inquinanti risultano più bassi di
quelli rilevati nel sedimento di altri canali industriali .
Prima di affrontare problematiche più complesse il
Tribunale ritiene di esaminare quella
secondo cui la contaminazione è proseguita almeno fino al 1998, con l’immissione di diossine attraverso lo scarico
SM15 del Petrolchimico, ipotesi che ritiene non plausibile.
4.3 Definitiva confutazione della tesi di accusa sulla
rilevanza attuale dell’apporto costituito dal flusso del SM15 (scarico nelle
acque di provenienza dal Petrolchimico dell’oggi)
Alla base
dell’ipotesi accusatoria sopra esposta
ci sarebbero i risultati di un analisi di un prelievo fatto allo scarico S12-
affluente nello scarico SM15- in cui è
stato rilevato un valore di concentrazione
pari a150 picogrammi /l, risultato 300 volte superiore al limite
proposto per gli scarichi industriali
dalla CCTN( Commissione consultiva Tossicologica Nazionale per le diossine e
furani eguale a 0,5 picogrammi /l)
Tali esiti
non sarebbero rilevanti secondo le condivisibili critiche del c. t della
difesa Foraboschi che ha evidenziato: gli errori delle valutazioni fatte dalla
accusa .
Innanzitutto si
evidenzia che si tratta di un unico prelievo e non di campionamenti, fatto in
un momento in cui la corrente andava alimentando l’impianto biologico e non
all’atto di essere scaricata direttamente nel corpo idrico ricettore ; che il valore indicato è erroneo perché quando
venne indicato il predetto valore limite 0,5 picogrammi/ litro nell’87, la
misura di tossicità equivalente (TEQ) era calcolata secondo i criteri EPA /87, adottando i quali la concentrazione
dello scarico S12 risulta di 14 p picogrammi /l, e non di 151 p. g /l come indicato dalla accusa adottando i criteri successivi EPA/89; che
mancano altri rilevamenti tali da rendere il dato significativo, mentre la stessa Commissione ritiene
necessario disporre di un numero di rilevamenti statisticamente significativo;che
non esistevano all’epoca, secondo la normativa italiana limiti per le concentrazioni di PCDD/F nelle
acque di scarico e tanto meno nelle
correnti interne inviate a trattamento cosi come lo era la corrente S12 al
momento del campionamento; che il limite di cui sopra era stato indicato dalla
Commissione , con riferimento ad un caso particolare molto diverso: ricaduta di
polveri esistenti nei prodotti di
combustione derivanti da un impianto dall’ inceneritore della città di
Firenze ( per cui la situazione
esaminata dalla commissione non era confrontabile con quella in esame; che
comunque l’apporto inquinante era limitato –l’ accusa non si era fatta carico
di indicare le conseguenza derivanti dalla
immissione delle diossine nella misura rilevata attraverso lo scarico Sm15 – il consulente
della difesa aveva invece dimostrato che il flusso di massa dello scarico S12
dati per buoni i risultati delle analisi risultava pari a 6 microgrammi all’ora espressi in
TEQ 1987.
In via esemplificativa
venivano riportati alcuni esempi per dimostrare che l’apporto dello scarico
SM15 non aveva potuto essere rilevante in termini di disastro
Rilevava ancora il Tribunale che la
portata delle acque , proveniente dagli impianti di produzione del
Petrolchimico, trattate dai suoi
sistemi di depurazione e confluenti nello scarico finale SM15 è pari a circa
0,3 metri cubi /s e che non è fondata la affermazione del c t. Ferrari secondo cui invece lo scarico SM15 sversa circa 12 metri cubi al secondo di acque
Risulta invero
anche dalla relazione del Magistrato
alle acque che il flusso dello scarico SM15
era di 11 milioni di metri cubi ogni anno volume che corrisponde ad una portata media di 0,3 metri cubi /s.
Risulta ancora che lo scarico era stato
regolarmente autorizzato e che erano stati imposti con le prescrizioni
accessorie controlli analitici e
che quello evidenziato risulta essere
l’unico controllo positivo noto in materia di formazione di diossine.
Ad integrare
la infondatezza dell’accusa sul punto vengono richiamate considerazioni
che saranno sviluppate poi e che riguardano la tesi dell’accusa- ritenute tutte infondate- secondo cui gli scarichi erano stati
effettuati in violazione del divieto di diluizione ;
il superamento
dei parametri di accettabilità di cui al DPR n.962/1973 aveva determinato
condizioni peggiorative dello scarico delle acque ;
la presenza di
CVM nella acque di processo dei reparti CV22/23 e CV24/25 conferiva all’intero
flusso in uscita dagli scarichi SM2 e SM15 il carattere di rifiuti tossico
nocivi con la conseguenza che tutti i reflui di provenienza del
Petrolchimico dovevano essere
gestiti come rifiuti tossico nocivi
e non alla stregua delle valutazioni
tecniche e di disciplina pertinenti agli scarichi nelle acque.
Nessun addebito
può essere fatto con riferimento ad
epoca più recente- dal 1990 al 2000- risultando provato che lo scarico inquinante del Petrolchimico risulta attestato su valori medi inferiori
al carico ammesso dai parametri tabellari
di riferimento
Viene quindi ribadito prima di procedere
analiticamente alla valutazione di tutti i passaggi che secondo l’ipotesi accusatoria i sedimenti
dei canali di tutta l’area industriale sono contaminati da
microinquinanti inorganici ed organici,in particolare da diossine,che per la
costante presenza della specie di octaclorobenzofurani denunciano la loro provenienza dalla filiera
del cloro e perciò del Petrolchimico :
e che quindi nella tesi accusatoria assume rilevanza centrale il tema relativo alla impronta delle
diossine .
Innanzitutto
rileva la difesa come i prelievi di campioni siano stati fatti da pozzetti pertinenti a rami di impianti chiusi da
tempo e nei quali venivano convogliate
acque meteoriche ed acque di lavaggio
,non acque di processo.
Dall’80 le acque
meteoriche vengono raccolte in vasche
ed inviate all’impianto di strippaggio CS30 dei clorurati i cui fanghi vengono smaltiti nei forni
dell’impianto CS28.
Ciò pone innanzitutto un problema di
rappresentatività dei campioni di fango
prelevati nei pozzetti.
Comunque dalle
analisi dei prelievi di fango effettuati dai consulenti della difesa negli
stessi pozzetti in cui erano stati fatti i prelievi da parte dei tecnici del P.
M ., orientate alla ricerca dei composti organo alogenati e dei PCDD/F risulta
– secondo i grafici riportati alle pagine da 626-a 629 che
,contrariamente a quanto ritenuto dalla accusa, le impronte delle diossine
rilevate nei pozzetti non hanno caratteristiche proprie , essendo costituite da mescolanze
eterogenee , comunque non rappresentative che vi sono differenze al confronto
delle impronte caratteristiche del Canale Lusore- Brentelle - antico corpo
recettore degli scarichi del Petrolchimico
e quelle del canale industriale Nord.
Non solo le impronte delle diossine rilevate nei pozzetti non
hanno caratteristiche proprie ma anche non vi è corrispondenza con la distribuzione
delle PCDD/F presenti nelle acque reflue dei processi produttivi .
Risulta
invece e ne danno atto gli stessi
esperti delle difese che le impronte delle diossine di cui ad un campione il
n. 4 – di cui peraltro l’accusa
non aveva fornito i risultati- corrispondono esattamente a quelle dei sedimenti
del canale Lusore- Brentelle
I composti che
sono stati trovati nel canale Lusore - Brentelle sono stati trovati in tutti i pozzetti esaminati
Le impronte del
canale Lusore –Brentelle sono diverse
da quelle degli altri canali - canale
Industriale Nord, canale Brentella, canale Salso , canale San Giuliano
L’impronta del pozzetto n 4 –fango di
fognatura del CV10-11- è del tutto identica all’impronta del canale Lusore
–Bretelle.
Le impronte dei
campioni prelevati dagli altri pozzetti
del sistema fognario TS1 e CS3 non sono sovrapponibili a nessuna altra
impronta
Tali rilievi
tecnici pongono il serio problema di verificare la corrispondenza delle impronte
rilevate dove transitavano acque reflue convogliate nei pozzetti del vecchio
Petrolchimico. con le impronte dei canali diversi dal Lusore Brentelle
4.5
Ancora sulla questione delle impronte delle diossine confutazione della
ipotesi che individua nel Petrolchimico
la matrice della contaminazione
del sedimento dei canali della area industriale, indistintamente
considerata
Osserva il Tribunale come la difesa
abbia sostenuto che la identità delle impronte rilevate nel sedimento del canale Lusore Brentelle
con quelle tipica della produzione del CVM e quelle rilevate nelle
analisi dei campioni di fanghi prelevati dagli scarichi SM15 , SM 12 ,S M 22-
vecchi e nuovi scarichi del Petrolchimico - consente di ritenere che le caratteristiche delle emissioni inquinati
del Petrolchimico rimangano almeno
tendenzialmente uniformi nel tempo in
contrasto con l’ipotesi formulata
dall’accusa secondo cui invece le
differenze riscontrate tra tali impronte – in particolare tra quelle dei canali
della prima e della seconda zona industriale- derivano da variazioni indotte
nel tempo delle caratteristiche dei processi produttivi del medesimo
tipo di quello considerato (petrolchimico filiera del cloro).
Procede quindi il
Tribunale ad elencare le ragioni della tesi difensiva elaborata sulla base
della consulenza del c. t . Vighi, che
giustifica le conclusioni di cui sopra
Il consulente delle
difese attraverso il confronto tra le impronte
dei sedimenti inquinanti nelle diverse aree della con terminazione lagunare
ed in particolare nel campo della prima e seconda zona industriale – evidenzia la differente matrice della
contaminazione ;
muovendo dall’ambito della prima zona verso
la seconda zona industriale evidenzia altresì che , per tutti gli inquinanti di interesse processuale, i livelli di
concentrazione tendono nettamente a diminuire .
Sulla base delle accertate differenze è possibile affermare che le due aree
,quella della prima zona industriale e quelle relative alla seconda zona industriale sono soggette a fonti
diverse di contaminazione da PCDD/F
La prima zona industriale ha risentito di
emissioni che presentano caratteristiche diverse da quelle degli scarichi del Petrolchimico , le quali
sicuramente caratterizzano l’impronta dei sedimenti del canale Lusore
Brentelle
Ciò confuta la tesi accusatoria della
identità della causa della
contaminazione di tutti i sedimenti dei
canali della area industriale
indistintamente considerata , da identificarsi nel catabolismo delle
acque di provenienza del Petrolchimico .
La evidenza di tali differenza viene giustificata dalla accusa con variazioni indotte nel tempo nel ciclo
produttivo
E vero che le impronte variano e non sono riconducibili ad una unica
impronta bensì ad una impronta media ma ciò perché varia nel tempo il processo produttivo
Nella sua analisi il consulente della difesa
utilizza un data-base di 1300 campioni
di sedimenti e come il consulente
dell’accusa segue il metodo di analisi
delle componenti principali, applicandolo ai dati dell’intero data base
Descrive le analisi dei componenti principali
, con un metodo di analisi
statistica che consente di trasferire
in un sistema a due o tre dimensioni quindi graficamente rappresentabile
la maggiore o minore analogia
Inoltre elimina
alcuni dati che avrebbero potuto falsare
gli esiti, escludendo tutti quei campioni che sono caratterizzati da
valori inferiori al limite della
rilevabilità analitica per almeno 6 congeneri
Da tali analisi risulta che i campioni
del Canale Nord e del canale Brentella
– canali della prima zona industriale-sono riconducibili al medesimo insieme ,
mentre quelli del canale Lusore Brentelle non sono riportabili al medesimo insieme.
Questa differenza
consente di affermare che le due aree sono soggette a fonti di inquinamento da PCDD/F diverse
Il contesto della prima zona industriale ha
risentito nel tempo di emissioni che hanno caratteristiche diverse
da quelle degli scarichi del
Petrolchimico ,che caratterizzano invece l’impronta dei sedimenti del canale Lusore Brentelle
Di conseguenza
risulta infondata la tesi accusatoria secondo cui invece il Petrolchimico sarebbe responsabile dell’inquinamento di
tutta la zona industriale indistintamente.
L’ipotesi della accusa secondo cui le
differenze delle impronte di congenere dipenderebbero da varianti nel ciclo
produttivo è rimasta a livello di sola ipotesi
E stata
invece dalla difesa dimostrata
la sua inconsistenza in quanto lo studio di campioni superficiali e profondi evidenziano una sostanziale
uniformità della impronta PCDD/F
da cui è lecito dedurre che le
variazioni indotte nel ciclo produttivo non hanno modificato le caratteristiche
delle emissioni
In
conclusione dall’esame delle impronte risulta che : le impronte rinvenute nel
canale Lusore Brentelle corrispondono
alle impronte riportate in letteratura
come caratteristiche della produzione del C V. M .; che
sono diverse da quelle rinvenute nei canali della prima zona industriale
–canale Brentelle, canale industriale nord; che l’impronta del canale Lusore
Brentelle è rimasta costante nel tempo pertanto mutazioni del
ciclo produttivo non hanno influito sulla impronta ;
che
la spiegazione dei c t dell’accusa , secondo cui la differenza
dipenderebbe da variazioni nella produzione non si giustifica ; che le impronte
dei sedimenti del Lusore Brentelle corrispondono a quelle caratteristiche della
produzione del CVM nonché a quelle
riscontrate nei fanghi prelevati dagli
scarichi SM15,SI2 ed SM22; che queste
impronte sono diverse da quelle
caratteristiche della prima zona industriale
che a loro volta dimostrano invece analogie con quelle tipiche di altre
produzioni industriali
4.6 Segue confutazione della ipotesi
che individua nel Petrolchimico la matrice della contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale indistintamente
considerata
Vanno
innanzitutto evidenziate alcune circostanze che sono incontestate o comunque
adeguatamente provate.
E incontestato che il gradiente di
contaminazione diminuisce passando dalla prima alla seconda zona industriale
e cioè da nord a sud ,
avvicinandosi ai canali prospicienti l’area di insediamento del Petrolchimico;
che a sud nella zona dei cosiddetti bassi fondali, area che intesi di accusa
continuerebbe ad essere inquinata dagli apporti dello scarico SM15 il livelli di concentrazione di PCDD/F sono
notevolmente ridotti; che ‘unica eccezione è rappresentata dal canale Lusore .Brentelle , che risulta molto inquinato verosimilmente perché antico corpo recettore degli scarichi
del Petrolchimico in epoca in cui non vi era alcuna regolamentazione .
Ed il gradiente
di inquinamento dalla prima alla seconda zona industria contraddice l’ipotesi
accusatoria secondo cui la contaminazione avrebbe la sua origine nel Petrolchimico
Secondo gli esperti delle difese invece la contaminazione da diossine e furani
avrebbe inizio nella prima metà del secolo e si sarebbe intensificata fino a
raggiungere i valori massimi per le
diossine e i furani negli anni 50 e
negli anni 60, e per gli IPA negli anni
60
Gli esperti
–Bellucci e Colombo- hanno poi individuato le cause della contaminazione della
prima zona industriale ,identificando
la sorgente dell’impronta di PCDD/F presente nella prima zona
industriale , ed accertandone la diversità da
quella presente nell’antico corpo recettore del Petrolchimico;hanno poi giustificato la contaminazione del
canale sud-seconda zona industriale- e
spiegato la influenza negativa
dell’antico sito di discarica
dell’isola delle Tresse vicino allo scarico SM15.
Prima di
esaminare il lavoro degli esperti il Tribunale riprende però alcune delle
valutazione gia fatte in ordine alla normative vigenti in epoca precedente
l’entrata in vigore di norme di protezione ambientale , relativa alla
insalubrità delle lavorazioni, norme che hanno disciplinato per decenni l’esistenza e l’andamento delle produzioni inquinanti
Innanzitutto viene ricordato l’art 216 TULS
che ,prevedendo l’isolamento delle fabbriche e manifatture che
producevano gas vapori o altre
esalazioni insalubri, indicava chiaramente che la norma veniva intesa con finalità di tutela solo
sanitaria e non di tutela ambientale
È tale disposizione per quanto riguarda il
contesto territoriale di causa venne attualizzata dall’art 15 e 16 delle Norme
tecniche di attuazione del PRG di Venezia del 1956.
In particolare la PA aveva previsto per
attività che oggi definiremmo di impatto ambientale la destinazione delle aree
prospicienti la zona industriale di
Porto Marghera , che attualmente occupa un fronte di 6 km per una profondità di
circa 4 Km.
Da un punto di vista storico doveva poi essere tenuto presente –ciò che l’accusa
aveva invece ignorato -che la prima zona industriale era stata realizzata mediante l’imbonimento di vaste aree di
barena ,con materiale di risulta degli
scavi dei canali portuali ,e la seconda zona industriale invece mediante
l’imbonimento, avvenuto quasi esclusivamente con rifiuti di provenienza dalle
lavorazioni della prima zona industriale – rifiuti che alla stregua delle
valutazioni normative vigenti dal 1984 sono definiti tossico-nocivi.
Di questi rifiuti usati per l’imbonimento una grande quantità di colore rosso ,i cosiddetti fanghi rossi derivano da processi di “decuprazione
delle ceneri di pirite” e da processi di lavorazione della bauxite ,entrambi
estranei al catabolismo del Petrolchimico
Naturalmente insieme vi erano rifiuti di
molte altre produzioni- produzioni del ciclo dell’acido solforico, materiali di
risulta della produzione metallurgica, scarti di fonderia , ceneri di
carbone di centrali termoelettriche ,
fosfogessi di scarto di produzione dell’acido
solforico.
Al catabolismo delle predette produzioni si
aggiunse poi quello derivante dalle produzioni del cloro da parte del Petrolchimico ,. i cui insediamenti
produttivi vennero collocati nella seconda zona industriale e per cui gli
scarichi a avvenivano nel canale Lusore - Brentelle
Il
sottosuolo della seconda zona industriale per alcune centinaia di ettari( ad
est dell’ alveo del canale Bondante ) è costituito da rifiuti di antica
derivazione dalla produzioni della prima zona industriale.
Nello zoccolo
di questa enorme massa di rifiuti sono stai
scavati interamente il canale Industriale sud, ,il canale Industriale ovest e
in parte il canale Malamocco Marghera.
Nella seconda
zona industriale ,in area adiacente ai bassi fondali vicino allo scarico SM15-
scarico principale del Petrolchimico , dopo la cessazione, a metà degli settanta, di quelli che
recapitavano nel canale Lusore Brentelle
trova collocazione l’isola delle
Tresse,sito storico di discarica di rifiuti della prima zona
industriale.
Tutte le
predette acquisizioni solo assolutamente certe e documentate e non possono
essere messe in discussione sul piano probatorio.
E attraverso
lo studio e la analisi dei sedimenti
dei canali Industriale nord e Brentella
è possibili associare al catabolismo proprio delle tipologie
produttive della prima zona industriale
l’inquinamento dei sedimenti in
tale ambito.
Lo studio verifica inoltre le conseguenze
della trasmigrazione della
contaminazione dalla prima alla seconda zona industriale.
È stato accertato dai consulenti della difesa attraverso l’esame di dati di
letteratura innanzitutto che dal 1932
era presente nella prima zona industriale la lavorazione del magnesio- e a tale
tipologia produttiva , secondo quanto riportato in US .EPA.2000, la tabella allegata alla predetta relazione associa
come contaminante proprio le diossine ;
che la decuprazione delle ceneri di pirite
,attuata dal 1932 a tutti gli anni 60, è in grado di produrre rilevanti quantità di diossine,
caratterizzate da un impronta simile a
quella diffusa nell’ambito della prima zona industriale.; che le ceneri di pirite rientrano nel catalogo dei
materiali di risulta,provenienti dalla prima zona industriale, e utilizzati per
imbonire la seconda zona industriale
Il tracciante principale di tale rifiuto
,utilizzato in grandi quantità per
imbonire la seconda zona industriale , è costituito dai cosiddetti fanghi
rossi.
Data la rilevanza di questa tipologia di
rifiuti sono state fatte specifiche
analisi, previa loro raccolta e classificazione, prelevando sei campioni
di fanghi rossi, i primi cinque ( da ES1 a ES5) sulla sponda del canale sud e
l’ultimo ES6 sulla sponda del canale industriale ovest
Tutti i campioni sono stati prelevati nella
seconda zona industriale e dove i
fanghi rossi si trovano in zona a diretto contatto con le acque dei
canali ,le cui sponde subiscono continua erosione .
Le analisi effettuato hanno consentito di
accertare la presenza in uno solo dei campioni, di ceneri di pirite e in
tutti gli altri la presenza di fanghi
rossi bauxitici,entrambi rifiuti estranei al catabolismo del Petrolchimico
;inoltre in tutti questi campioni
l’impronta di congenere .che distingue un tipo di diossina dall’altra
è la stessa del canale Nord e
del canale Bretella.
Le analisi dirette alla ricerca delle
diossine hanno portato ad accertare anche
concentrazioni di arsenico –che caratterizza la pirite –ed alluminio
–che caratterizza la bauxite-
E ciò consente di associare i campioni alle
tipologie produttive che li hanno originati.
Inoltre per
tutti i campioni prelevati al di fuori
di uno l’impronta della diossina è eguale a quella del Canale Industriale nord
ed al canale Brentella e si tratta di impronta eguale a tutte quelle rinvenute negli altri canali
al di fuori del canale Lusore .
Brentelle
E l’impronta che consente di associare la
presenza di PCDD/F rinvenuto nei canali
ai fanghi rossi provenienti dalla lavorazione della pirite e della
bauxite ,entrambi presenti nell’ambito della seconda zona industriale e
soggetti a fenomeni di intensa trasmigrazione passiva
Da documentazione non contestabile risulta
inoltre che i fanghi rossi bauxitici erano prodotti in misura molto
rilevante e che venivano usati non solo
per imbonire ma che venivano anche spappolati
direttamente nei sedimenti dei canali
e che tra le aree imbonite e contaminate risulta essere indicato il
canale Industriale sud (della seconda zona industriale)
Gli esperti delle difesa hanno anche
evidenziato sulla base delle
informazioni assunte che la bauxite veniva
lavorata dalla Save utilizzando il processo Bayer, cominciare dagli anni 30,
che non produce diossine e dalla società Italiana Alluminia con il processo Haglund che come verificato
sperimentalmente produce invece diossine
Osserva a questo punto il tribunale che le
sponde dei canali della seconda zona industriale e l’area di insediamento del Petrolchimico in tutta la sua lunghezza sono
caratterizzati dalla presenza di una notevole quantità di fanghi rossi –che
nulla hanno a che vedere con la produzione del Petrolchimico -tanto risulta
obiettivamente rilevabile anche percorrendo il canale Sud fino a giungere alle sponde del canale
Industriale ovest.
E risulta anche
la attuale trasmigrazione passiva di tali inquinanti dalle sponde dei
canali industriali alle acque e ai
sedimenti, cosi come analoga trasmigrazione avviene dalla isola delle Tresse
dove sono stati smaltiti oltre un milione di metri cubi di fanghi rossi verso i cd bassi fondali prospicienti lo
scarico SM15.
Risulta anche dalla deposizione del teste
Chiozzotto- teste dell’accusa -che nell’isola delle Tresse sono stati
convogliati enormi quantitativi di rifiuti
ed il fenomeno di erosione della isola delle Tresse risulta avere causato un arretramento delle sue sponde di oltre 50 metri, proprio
davanti al punto di recapito dello scarico
SM15, e che il progetto di messa in sicurezza del sito prevede il contenimento della percolazione delle
sostanze inquinanti .
Viene
poi rilevato che nel canale
Malamocco –Marghera frontistante lo scarico SM15, per tutti quasi i parametri
analizzati i sedimenti presentano
livelli di concentrazione piu bassi di quelli osservati in altre zone
dell’area industriale e che i livelli di concentrazione delle sostanze inquinanti si riducono
notevolmente nel passaggio dalla prima
alla seconda zona industriale e in prossimità dello scarico SM 15 raggiungono valori non eccedenti quelli
attesi ,comunque non sproporzionati ,rispetto
a quelli che caratterizzano situazioni paragonabile , connotate da un
impatto ambientale moderato certo non disastroso.
Dei valori di contaminazione raggiunti in prossimità dello scarico S. M15 ne da
atto invero lo stesso consulente
dell’accusa.
L’accusa di fronte a questi accertamenti
assume che la presenza di diossina nei fanghi rossi lungo le sponde dei canali della seconda zona industriale dipende
da pratiche di commistione di
tale residuo con peci clorurate
provenienti dal Petrolchimico ,che rimarrebbe cosi l’unica matrice di contaminazione dei
sedimenti della zona industriale per
quanto riguarda le diossine
Ma si tratta di una asserzione non
provata né sorretta da indizi.
A sostegno della sua tesi l’accusa replica
che nel tempo in ambiti distanti dal Petrolchimico. sono state attuate pratiche
di evacuazione diretta in laguna di
residui clorurati di provenienza da tale plesso a mezzo di bettoline e
autobotti.
Anche questa affermazione rimane non provata.
Contrariamente a tale ipotesi accusatoria
risulta invece che dagli inizi degli anni 70 le cosiddette peci clorurate furono inviate per
trattamenti presso l’impianto di incenerimento
CS28, costruito nel 72 e che
in epoche precedenti erano smaltiti in discarica .
La tesi accusatoria è smentita anche dal
fatto che nei canali della prima zona industriale non si riscontra associazione di diossina con
clorurati, come avrebbe dovuto riscontrarsi se fosse vero quanto affermato
dalla accusa , mentre è stretta la relazione tra diossine e metalli pesanti –arsenico ed alluminio tipici delle
lavorazioni della prima zona industriale.
Nel canale Lusore .Brentelle . è invece
presente in elevata concentrazione la contaminazione di solventi clorurati
E viene anche
ribadito che non è vero che la
lavorazione della bauxite non produca diossine, valendo questa
affermazione , solo per il processo
Bayer, ma non per il processo Haglund ,come dimostrato dalla difese e
non contestato dalla accusa.
Le conclusioni che il tribunale ritiene di
dovere trarre in base all’evidenza
probatoria sopra esaminata sono quindi le seguenti:l’inquinamento ha diverse
matrici:
a) scarichi nella
acque aventi recapito ei canali della prima zona industriale provenienti dagli insediamenti produttivi
cola insediati dagli anni 20 e in grado di rilasciare gli stessi inquinanti che
secondo l’accusa proverrebbero unicamente dal Petrolchimico e ciò contro l’evidenza del forte gradiente
di contaminazione nella prima zona industriale
e contro l’evidenza delle differenti
impronte delle diossine nell’uno e nell’altro ambito
b) rifiuti tossici-
nocivi di risulta delle medesime produzioni-fanghi rossi bauxitici e ceneri di pirite che sono stati certamente
utilizzati per l’imbonimento delle aree della seconda zona industriale e nel corpo dei quali sono stati
scavati i canali della seconda zona industriale e che sono stati altresì
oggetto di erosione da parte delle acque a seguito degli scavi dei canali e a
seguito delle maree , del moto ondoso e
del transito delle navi
c) il catabolismo
nelle acque del Petrolchimico come fattore inquinante delle sue immediate
adiacenze ;
il canale Lusore
Brentelle antico corpo ricettore
degli scarichi del vecchio
Petrolchimico e di alcuni scarichi
superstiti, muniti tutti all’entrata in vigore della prima
normativa in materia d p r 962/1973 –l’ 1-3-1980 di impianti di abbattimento del loro carico inquinante è stato certamente inquinato dal
Petrolchimico.
Segue la verifica della compatibilità delle
acquisizioni probatorie sopraindicate con l’andamento dell’inquinamento
nell’ambito della zona industriale e
della esistenza di eventi
disastrosi in senso proprio.
4 .7 Sulla base di quali premesse ed entro quali limiti è possibile constatare la
presenza di eventi di danno per l’ecosistema
L’accusa ha
assunto, per sostenere l’evento di danno rilevante in termini disastrosi per
l’ecosistema, le tabelle allegate al
protocollo d’intesa per la laguna di Venezia
del 1993.
Queste tabelle però non definiscono
parametri di qualità ambientale ma sono finalizzate solo a stabilire criteri di mobilizzazione dei
sedimenti , individuando i parametri secondo cui valutare le caratteristiche
che devono avere i materiali
sedimentari per essere immessi o
reimmessi in laguna , trattasi sostanzialmente di criteri di mobilizzazione dei sedimenti .
I valori
indicati rispettivamente nelle tabelle
A,B,C del predetto Protocollo d’Intesa
non significano pertanto pericolo reale
perchè non esprimono condizioni di
rottura di sicurezza per l’ecosistema e
non definiscono parametri di qualità ambientale
Né si ritiene congruo assumere, come dato
probante la rottura delle condizioni di sicurezza dell’ecosistema ,il confronto
tra le concentrazioni di inquinanti rilevate nei sedimenti dell’area
industriale e quelle rilevate nel
sedimento dell’isola di S Erasmo , considerato anche che spesso l’accusa assume ,a termine di confronto, il
valore massimo di inquinamento rilevato
nei canali della zona industriale . cioè il campione rilavatosi in assoluto “il
più inquinato”
Sono pertanto condivisibili le critiche
della difesa relative alla impostazione
seguita dagli esperti della accusa .
Condivisibile è invece il diverso criterio
di verifica dalle stesse proposto che
si basa sul confronto tra le concentrazioni
rilevata nell’area industriale e
criteri di qualità ambientale.
Il
consulente delle difesa premette innanzitutto che secondo il Comitato
scientifico tossicologico ed ecotosssicologico della commissione europea 1994
un obiettivo di qualità ambientale, per una determinata sostanza dovrebbe
esprimere un livello od una concentrazione
tale da non determinare alcun effetto indesiderato nell’ambiente e tale
da garantire la protezione delle comunità biologiche e degli ecosistemi
naturali
Esempio di un
obiettivo di qualità per un ambiente
acquatico: dovrebbe permettere che
tutti gli stadi del ciclo vitale di
tutti gli organismi acquatici possano compiersi con successo e senza
alterazioni; non dovrebbe produrre condizioni tali da determinare
l’allontanamento degli organismi
dall’habitat o da parte di esso
in cui sarebbero presenti in condizione naturali – assenza di impatto
antropico- non dovrebbe produrre
bioaccumulo di sostanze a .livelli
pericolosi per il biota ( incluso l’uomo) attraverso la catena alimentare o per altre vie ,non dovrebbe produrre condizioni capaci di alterare la
struttura e la funzione dell’ecosistema
acquatico.
Per quantificare questo obiettivo il massimo
risultato conseguibile sperimentalmente
è il cosiddetto livello di non
effetto osservato ( NOAEL) , cioè un livello che, nelle condizioni sperimentali note, non ha permesso di
osservare alcuno degli effetti avversi.
Il metodo più usato è quello che
si basa sulla estrapolazione dei dati
sperimentali, mediante la applicazione di fattori di sicurezza , che
saranno tanto più elevati quanto più carente è l’informazione o quanto maggiore
è il livello di incertezza dei dati sperimentali.
Nel caso dei
criteri di qualità per i sedimenti
l’informazione è molto scarsa e sono pertanto necessarie ulteriori estrapolazioni.
A questo scopo normalmente viene utilizzato
il metodo degli equilibri partitivi che
si basa sul principio del calcolo
della ripartizione delle
sostanze tossiche tra acqua e sedimento
Si immagina che l’effetto tossico sugli
organismi del sedimento sia provocato dalla parte di sostanza in soluzione
nell’acqua interstiziale e si fa
riferimento ai valori di tossicità noti per gli organismi acquatici.
Data la incertezza che il metodo degli
equilibri partitivi comporta vengono
applicati ulteriori fattori di sicurezza
Il criterio di qualità ambientale ha finalità
essenzialmente preventive ed è espressione del principio di precauzione.
I criteri di
qualità devono considerarsi quindi come uno strumento preventivo ,ampiamente
protettivo, per cui il superamento di
questi criteri non deve però essere visto come raggiungimento di livelli
ambientali tali da determinare un rischio reale ,ma soltanto come l’erosione di margini di garanzia , che in
generale possono avere l’ampiezza di
alcuni ordini di grandezza rispetto al livello degli effetti osservati.
Ed è evidente che nell’ambito di tale scelta
vi possano essere differenze come conseguenza
della esistenza di margini di discrezionalità
Quello che varia nei diversi criteri o livelli protettivi è il maggiore o minore grado di sicurezza, il
loro superamento non comporta il superamento di una soglia di pericolo reale
Il c t degli
imputati Vighi utilizza un data base
per valutare lo stato di contaminazione dei sedimenti da metalli e microinquinanti organici che ha riguardo a 1300 campioni di sedimenti, che sono stati prelevati in diversi
settori dei canali industriali e della laguna, e confrontati con i valori
limiti indicati secondo i diversi
criteri di qualità ambientale .
I campioni sono stati prelevati a profondità di oltre due metri che si riferiscono a contaminazione
pregressa di molti decenni or sono ed a
profondità più ridotte di 10-15 cm che possono essere considerati
rappresentativi di una contaminazione
più recente, relativa agli ultimi 20 anni
In molti casi la
profondità del prelievo non è indicata
e comunque la datazione delle contaminazioni non è rilevante nelle
prospettive accusatoria che riferisce
al fatto dell’imputato –quello successo per ultimo nella posizione di garanzia - l’intero ordine delle conseguenze
la cui causa ritiene di individuare nel
catabolismo del Petrolchimico
Nessun rilievo
viene dato nella prospettiva
dell’accusa al problema causale delle condotte dei singoli imputati
Vengono quindi nella
sentenza a questo punto esposti in modo analitico gli esiti del primo confronto, innanzitutto per quanto
riguarda i metalli ,
attraverso dati e grafici dalla cui lettura derivano in sintesi le seguenti conclusioni : i livelli
complessivi di contaminazione dei sedimenti mostrano un netta differenza tra i
canali della prima zona industriale, nei quali i valori medi superano spesso i
criteri di qualità ,e i canali della
seconda zona, nei quali i valori medi risultano essere compatibili con i limiti
di accettabilità considerati; il superamento dei limiti nell’ambito della seconda zona industriale è
relativo solo ad alcuni sporadici valori massimi; i valori relativi ai campioni
superficiali sia nella seconda zona come nella prima sono compatibili con i criteri di qualità di cui si detto ,e, le situazioni di maggiore contaminazione
sono imputabili ad emissioni pregresse presumibilmente anteriori all’ultimo
ventennio.
per il PCDD/F:
valgono le precedenti osservazioni con la
precisazione che, nei campioni superficiali
della prima zona, diminuiscono i valori massimi ma aumentano quelli medi;
tuttavia, nella
seconda zona industriale e nel resto
della laguna, i valori sia medi sia
massimi sono costantemente al disotto del limite indicato dal NOAA.
per
gli IPA:
il gradiente di
diminuzione è meno evidente ed è significativo il valore relativamente alto,
anche nei sedimenti superficiali relativi alla zona urbana ,dati che dimostrano
come questo tipo di inquinamento può derivare anche da fattori diversi da
quelli industriali
in ogni caso i
valori specialmente nei sedimenti superficiali sono sempre entro i limiti di accettabilità.
per gli
HCB:
in questo caso i valori misurati, sebbene sia
ancora evidente il gradiente , superano anche nella seconda zona industriale i
livelli di riferimento.
Deve però
a questo punto accertarsi se il
superamento dei limiti di cui sopra significhi
pericolo reale per l’ecosistema lagunare
A tale scopo è stata calcolata la
concentrazione prevista di non effetto (PNEC) utilizzando la metodologia
ufficiale proposta dalla Commissione europea basata sul principio degli equilibri partitivi e su dati tossicologici sperimentali.
Viene cosi
stabilito il limite, al disotto del quale non si verificano effetti tossici
,con una riduzione però sostanziale dei
margini di sicurezza.
Con riferimento al valore PNEC risulta che
sia i valori medi come quelli massimi dei canali della seconda zona
industriale sono inferiori al valore
soglia , e pertanto non esiste pericolo reale di effetti tossici per gli
organismi,nonostante la riduzione dei margini di sicurezza
Il confronto tra il valore PNEC ed il
criterio di qualità dimostra l’ampiezza dei margini di sicurezza che sono stati applicati anche nei confronti
effettuati per le altre sostanze.
Al metodo sopraesposto seguito dai tecnici della
difesa sono state fatte dalla accusa le
seguenti critiche : il confronto con i criteri di qualità sarebbe di affidabilità incerta; l’uso
frequente di medie e mediane ridurrebbe i significati della contaminazione; viene trascurato il fatto che, nei
sedimenti dei canali, vive una comunità di organismi detritivori, per cui dovrebbe tenersi conto anche delle
condizioni favorenti la
biodisponibilità dell ‘inquinante incorporato nel materiale sedimentario.
Alle critiche
predette va risposto –secondo il Tribunale- che, per quanto riguarda i sedimenti,
non si dispone di altri dati basati su criteri sperimentali , e tanto vale sia
per i metalli come per i micro
contaminanti organici; che i pochi paesi ed organismi che hanno esaminato il
problema hanno declinato il principio
di precauzione , introducendo normative
finalizzate alla tutela
dell’ecosistema acquatico, che non vi
è motivo per ritenere inaffidabile;
che i protocolli usati dal consulente tecnico
delle difese sono quelli elaborati dagli organismi internazionali; che
si sono occupati della materia;
che, come
tutti i criteri di qualità,
rappresentano delle estrapolazioni e sono stime teoriche che vengono corrette da adeguati fattori di sicurezza ,che sono tanto più
ampi quanto minore e l’effettiva base sperimentale.
E gli esiti complessivi
della valutazioni fatte dal Vighi, condivisibili per le argomentazioni
sopraesposte dimostrano che le concentrazioni di inquinanti rilevate nei sedimenti sono compatibili nei
valori medi ( spesso anche in quelli di picco) con i parametri assunti.
Casi di superamento si riferiscono solo ad
aree distanti dal Petrolchimico, nell’ambito della prima zona industriale .
Per quanto riguarda poi la critica relativa alla non adeguata valutazione della
biodisponibilità degli inquinanti si rileva come non sia facile la
valutazione e come in ogni caso con riferimento ai metalli , secondo il principio di precauzione , i
metalli si assumono totalmente
biodisponibili.
Per quanto
riguarda i microinquinanti organici viene fatto presente che le
sostanze in esame PCDD/F, PCB; IPA;HCB sono composti ad elevata persistenza ,
per cui l’intervento di organismi detritivori non può rendere più o meno
disponibile la sostanza.
Per quanto
riguarda la critica fatta all’uso delle medie e mediane viene fatto presente che
contrariamente ad un valore massimo e proprio quelli medio o mediano che rappresenta adeguatamente la reale situazione e che in particolare risulta più corretta la rappresentazione quando si fa riferimento alla media
geometrica anziché a quella matematica.
Media
geometrica e mediana fanno parte dei
parametri che gli statistici chiamano robusti cioè sufficientemente solidi da
non essere alterati troppo da valori non rappresentativi della serie di dati
considerata.
Rileva infine il
Tribunale come le conclusioni del
consulente tecnico dr Vighi ,
che sono per le argomentazioni sopraesposte
condivisibili, vengano a coincidere con quelle del Piano Direttore del
1989 , che ha accertato una situazione
al limiti del collasso fini agli anni 70, ed il miglioramento , certo
l’assenza di un aggravamento, dopo
l’inizio degli interventi di depurazione
e di riconversione delle tecnologie industriale , ma non facilmente
superabile per quanto riguarda la componente inglobata nei sedimenti.
Ma le
concentrazioni di inquinanti nei
sedimenti dell’area industriale non
significano comunque rottura delle condizioni di sicurezza per l’incolumità
pubblica.
Da ultimo viene ancora osservato come , con
riferimento al valore del fall-out atmosferico ,per quanto riguarda la
contaminazione dei sedimenti dei canali
,le emissioni di PCDD /f di attuale derivazione dagli impianti di incenerimento
del petrolchimico siano compatibili con i limiti di legge.
Non può
sostenersi un progressivo inquinamento nel tempo delle concentrazioni di
PCDD/F nei sedimenti perché i dati confrontati si
riferiscono stazioni di prelievo
totalmente diverse.
Rimane infine non confutata la affermazione e secondo cui ,per valutare la
progressione nel tempo della contaminazione , l’unico metodo sperimentato consiste nell’esame delle carote di sedimento per cui sia
possibile una sia pure approssimativa datazione .
Rimane altresì
non confutata la valutazione , secondo cui le informazioni derivate da questo
tipo di analisi , significano una progressiva diminuzione delle
concentrazioni dei principali
inquinanti, almeno negli ultimi
decenni.
Premesse: infondatezza
della tesi di accusa secondo cui gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati
effettuati in violazione del divieto di
diluizione.
Primo addebito: gli scarichi del
Petrolchimico. sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di diluizione.
Premesso che
l’ipotesi accusatoria collega l’evento disastro- consistito nella contaminazione del sedimento dei canali- e
l’avvelenamento e adulterazione del biota – vivente nel sedimento dei canali al
supposto malgoverno degli scarichi di provenienza del plesso industriale nelle
acque - concretizzatosi nello smaltimento di reflui convogliabili in condotta ,
catalizzatori esausti e altri
sottoprodotti di risulta attraverso gli scarichi SM2 e SM15 ( con concentrazione
di nitrati e clorurati superiori ai limiti di accettabilità previsti dalle tabelle allegate al D.P.R n
962 /1973)- osserva il Tribunale come, in ipotesi accusatoria, tre siano
gli specifici addebiti di colpa:
1) :gli scarichi
del Petrolchimico sarebbero stati
effettuati in violazione del divieto di diluizione;
2) sarebbero stati violati i parametri di
accettabilità stabiliti dal DPR 962/1973
3) i reflui di provenienza del
Petrolchimico avrebbero dovuto essere
smaltiti come rifiuto tossico nocivo ,in
forme adeguate a quelle nominate dal d. p .r n.915/1982 , e non nelle forme adeguate alla disciplina pertinente gli scarichi della acque
Tutti gli
addebiti sono infondati.
Nel corso degli
ultimi venti anni interessanti il periodo di imputazione, si trovano ad essere
in vigore le tabelle allegate al d .p .r n.962/73 ;
il termine previsto per la costruzione degli
impianti di depurazione risulta essere stato prorogato fino a tutto l’1-3- 1980
la prima disciplina normativa degli scarichi
nella acque opera quindi dal marzo 1980;
molto prima di tale data i gestori del
Petrolchimico sono intervenuti sul
catabolismo delle acque :
Nello
specifico è innanzitutto infondato che gli scarichi del petrolchimico siano
stati effettuati in violazione del noto divieto di diluizione
E per spigare i motivi di tale valutazione
viene premesso l’elenco degli scarichi e delle correnti del Petrolchimico ,
aventi recapito in laguna- con la indicazione dei vari canali interessati- e
che sono tenuti al rispetto dei parametri di cui alle indicate tabelle:
SM15
SM 2
SM 7
SM 8
SM 9
SM 22 corrente e non
scarico diretto per cui valgono
comunque gli stessi limiti di accettabilità
S 11 e S 12 correnti
che convogliano reflui clorurati e
reflui mercuriosi , a cui si applica la disciplina prevista dal DLVo n133/1992
Viene quindi osservato che tutti gli scarichi veri
e propri- per i quali e richiesto il rispetto
dei parametri di accettabilità – risultano regolarmente autorizzati e
che tutte le confluenze di correnti interne sono note al magistrato alle acque
Premesso che è incontestato che nei predetti
scarichi confluissero la acque di processo trattate del Petrolchimico . ,oltre
ad acque meteoriche , di
raffreddamento, civili chiarificate,
rileva il Collegio come
l’accertamento dei requisiti di legge debba essere fatto in
corrispondenza del punto di immissione
delle acque nel ricettore – salvo deroghe - mentre quanto attiene alle correnti
interne è irrilevante , e ,salvo deroghe, le correnti interne non richiedono
autorizzazione .
Ne consegue che la tesi accusatoria ,secondo cui il
principale scarico del Petrolchimico ,. SM15- in cui confluivano e confluiscono
, oltre le acque di processo , le acque di altre correnti- avrebbe funzionato
quale grande diluitore , in violazione
del divieto di cui all’art 9 comma
quarto e settimo L319/1976 come modificato con legge 650/1979- è infondata
perché in nessun modo la diluizione era
vietata.
A chiarimenti di
quanto affermato ricorda il tribunale come, in un insediamento produttivo,
possono esserci più scarichi parziali- provenienti diverse lavorazioni o da un
determinato ciclo tecnologico - oltre
allo scarico totale -che è quello rappresentato dalla miscela dei diversi
effluenti parziali- e come sia la legge Merli a precisare in quali
termini possa essere lecita la
diluizione
Due sono le enorme che si occupano della
questione :l’art 9 4° comma che precisa “ i limiti di accettabilità non
potranno in alcun modo essere
conseguiti mediante diluizione
con acque prelevate esclusivamente allo scopo”
L’art 9 7° comma
che precisa “ non è comunque consentito
diluire con acque di raffreddamento, di
lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali contenenti le sostanze
di cui al n10 delle tabelle A) e C) prima del trattamento degli scarichi
parziali stessi per adeguarli ai limiti
previsti dalla presente legge “
Dalla lettura di queste norme risulta chiaro
che è vietata sempre la diluizione con acque prelevate esclusivamente allo scopo
, ,mentre la diluizione con acque di lavaggio o di raffreddamento è vietata solo quando ha per oggetto taluni
scarichi parziali ,. contenenti sostanze ritenute particolarmente inquinanti e
cioè quelle indicate alle tabelle A e C della legge Merli
La normativa citata ,cosi come quella attualmente in vigore- D.lvo n152/1999 - prevedeva anche la possibilità
che gli scarichi particolarmente inquinanti
venissero sottoposti a specifiche prescrizioni, che ,nella fattispecie,
non risultano essere state imposte ,nè pertanto violate
Tanto premesse va ritenuto che in assenza di
specifiche prescrizioni , sia possibile
la confluenza di acque di raffreddamento , di lavaggio nello scarico terminale,
tenuto quest’ultimo al rispetto dei
limiti di accettabilità.
E la P.A. risulta avere dato prescrizioni –
nel senso dell’obbligo di rispetto dei limiti di cui alle tabelle del d .p .r
n.962 prima della miscelazione- solo per la corrente SM22 , mentre per tutte le
altre non risulta presa alcuna disposizione
.
La separazione delle
acque di raffreddamento da quelle di processo è stata disposta per gli scarichi in laguna solo con D. M 30-7-1999 che innova il quadro
di riferimento normativo pertinente agli scarichi di cui si discute
Conclusivamente secondo le valutazioni
normative ,tecniche e di disciplina
correnti all’epoca dei fatti dal 1980 al 1999 , l’addebito di colpa risulta pienamente
infondato, perché la miscelazione delle correnti era consentita, le pubbliche
amministrazioni ne erano informate, tanto che hanno, in alcuni casi ,dato
specifiche prescrizioni che risultano essere
state rispettate.
4.9 Della infondatezza degli addebiti di colpa
Infondatezza delle tesi d’accusa secondo cui il superamento dei parametri di
accettabilità di cui al D.P.R n962/1973 determinò condizioni peggiorative dello scarico delle acque
Anche questa tesi non è fondata
Hanno accertato
i consulenti della accusa e il dato è incontestato, basandosi sull’esame dei
bollettini di analisi interna che ci sono stati più superamenti istantanei e puntuali dei limiti stabiliti dalle tabelle allegate al D.P.R.
n962 /73
Il consulente delle difese ha però ritenuto utile anche riferire i superamenti , oltre che ai
bollettini, e alle date di
verificazione ,alla entità delle misure effettuate .
Ed è stato innanzitutto evidenziato che per tutti gli scarichi vi è stato un
progressivo miglioramento della situazione, nel senso che la percentuale dei
superamenti è andata drasticamente
diminuendo dal 4,4% del 1990 all’1% del
1994.
La difesa ha poi orientato l’analisi nel
senso della verifica dell’effettivo carico inquinante ed ha quindi proposto di
verificare se il superamento puntuale dei limiti di accettabilità
determina –nell’unità di tempo considerata – l’immissione nel corpo ricettore
di un carico inquinante superiore o inferiore rispetto a quello ammesso dalla
norma.
Determinata quindi per ciascuno dei
parametri- in relazione ai quali sono stati accertati superamenti puntuali istantanei - la concentrazione
media annua , la difesa verifica per gli anni 1994-1997-1998-1999 e 2000 che
mai risulta superato il valore medio di concentrazione nell’anno.
Gli scarichi di provenienza Petrolchimico ,
nel loro reale andamento, si attestano su valori medi evidentemente inferiori
rispetto ai parametri di riferimento, producendo un impatto ambientale
corrispondente a quello di una scarico regolare .
La
validità ed il significato dell’accertamento fatto dalla difesa deriva dalla
imputazione che non è quella contravvenzionale bensì quella del delitto di disastro e avvelenamento –
comunque eventi di danno
Sul punto la accusa sostiene che parlare di
medie non avrebbe nessun significato nè
sul piano scientifico né sul piano normativo.
La norma si
preoccupa infatti solo di stabilire la
concentrazione limite senza considerare il diverso problema della quantità globale di inquinante ,
immesso in un certo intervallo di tempo nel corpo ricettore, non prendendo in
considerazione il criterio di concentrazione
massima ammissibile di inquinanti
che il corpo ricettore può tollerare .
Nell’economia dell’accertamento che ne occupa non avrebbero pertanto cittadinanza i
concetti di quantità giuridicamente
consentita o di portata autorizzata
Ritiene invece il Tribunale ,con riferimento
alla necessità di accertare l’evento di danno rilevante in termini di disastro
o avvelenamento , giuridicamente necessario accertare la entità del carico
reale effettivo in termini di
impatto ambientale , verificando
se degli apporti inquinanti dello
scarico, nella unità di tempo, superino
la disciplina normativa concernente il catabolismo nella acque
E la difesa
dimostra che uno scarico che si attesti su valori medi inferiori a quelli
limite nel suo andamento nel tempo,determina
un impatto ambientale corrispondente a quello di uno scarico regolare
Diverso è
l’accertamento avente per oggetto i singoli superamenti ,da quello relativo
all’impatto ambientale e la sommatoria dei singoli superamenti non costituisce
una lettura di sintesi del catabolismo
nelle acque .
Evidenzia
ancora , il Tribunale, a sostegno della fondatezza della tesi difensiva,
che la tecnica usata dal nostro legislatore ha una funzione semplificativa degli accertamenti, e che in
altri paesi vengono adottate tecniche diverse, che tengono invece conto delle caratteristiche del corpo idrico
ricettore e si basano sul metodo che verifica la concentrazione massima ammissibile di inquinanti che il ricettore può tollerare
.
Il metodo
seguito dalla legge Merli di stabilire tabellarmente concentrazioni limite di inquinante , senza considerare la
quantità globale di inquinante –prodotto della concentrazione per la portata dello scarico immesso in un
determinato arco di tempo nel corpo ricettore
- costituisce un limite e non un valore della legge.
Normative più recenti e conformi alle
direttive comunitarie assumono come
parametri di riferimento non solo le concentrazioni ma anche le quantità di
inquinante effuse
Ed anche
la normativa applicabile-legge Merli- non ignora invero
le categorie di portata autorizzata e/o quantità giuridicamente consentita , tanto che l’art 21 prevede un reato contravvenzionale , quando la domanda di autorizzazione non
risulta corredata dalla puntuale precisazione
delle caratteristiche quantitative e qualitative del carico inquinante .
4.10 Segue infondatezza degli addebiti di colpa
Infondatezza della tesi di accusa
secondo cui la presenza di C. V .M
nelle acque di processo dei reparti CV 22/23 e CV 24/25 conferirebbe all’intero
flusso in uscita dagli scarichi SM.2 e SM.15 il carattere di rifiuto
tossico nocivo
Secondo il c t
dell’avvocatura – Cocheo - gli scarichi nelle acque di provenienza del Petrolchimico sarebbero soggetti alla disciplina normativa pertinente ai rifiuti
tossico- nocivi e non a quella concernente
la tutela delle acque applicandosi nella fattispecie il regime di
eccezione previsto dal comma 6 dell’art 2 D:P:R 915/82.
Intesi di accusa
l’unico trattamento consentito
dell’intera masse di reflui consisterebbe nella termo distruzione o
nel conferimento in discarica ,adeguatamente alle valutazioni normative
,tecniche e di disciplina di cui al D.P.R n 915/82
Secondo
l’interpretazione dell’accusa ,la legge n.319 /76, alla stessa stregua del d. p
.r n.962/73 avrebbe carattere di sussidiarietà
rispetto al D.P.R n 915/82, e rilevante in tal senso sarebbe il disposto del penultimo comma dell’art 2 D. P .R
n 915/82 che cosi recita” resta salva
la normativa dettata dalla legge 10-5-1976 n319 e successive modificazioni e
relative prescrizioni tecniche per quanto riguarda la disciplina dello
smaltimento nelle acque,nel suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi di
cui all’art 2 lettera e punti 2 e 3 della citata legge, purchè non tossici e nocivi ai sensi del presente decreto
Rileva il Tribunale come la norma parli
invero di liquami e fanghi e non di
scarichi.
La differenza
sostiene l’accusa è però solo
apparente perchè il disposto del primo
punto dell’allegato 5 della delibera 4-2-1977 del Comitato dei ministri per la tutela delle acque
dall’inquinamento stabilisce una
equivalenza normativa tra il termine liquame
ed il termine scarico.
Sarebbe di conseguenza secondo la accusa la
reale tipologia del refluo a definire se ad uno scarico sia applicabile la disciplina di cui alla legge
319/1976 o quella di cui al D.P.R 915/1982
In tesi di accusa la normativa tecnica di attuazione del D.P.R n.915/82 e pertanto
la deliberazione 27-7-84 del Comitato interministeriale- norma madre
l’art 4 D.P.R n.915/82- definirebbe in modo preciso quali scarichi possono
essere regolati dalla legge n319/76 e quali invece siano sottoposti al più
rigoroso regime di cui al D.P.R.n.915/82.
Sono regolati dal D. P . R n 319/76 tutti gli
scarichi che non derivano dalle attività produttive che figurano nell’elenco 1.3 della deliberazione sopra
citata, purchè il soggetto obbligato dimostri che i rifiuti non sono
classificabile come tossico nocivi,
Conclusivamente spetterebbe al produttore provare che nei reflui della lavorazione non siano contenute una o più sostanze indicate nella tabella
1.1 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite, e/o una o
più della altre sostanze, appartenenti
ai 28 gruppi di cui all’allegato al D.P.R. n915/82- 20 nel gruppo sono indicate le sostanze chimiche di laboratorio non
identificabili e/o sostanze nuove i cui effetti sull’ambiente non sono conosciuti- ,in
concentrazione superiore ai valori di C. L ,ricavati dalla applicazione dei
criteri generali desunti dalla tabella 1.2
L’onere di dimostrare quanto sopra incomberebbe al produttore e quindi agli imputati prima
della attivazione dello scarico
Tra le sostanze
per le quali non sarebbe possibili escludere a priori la presenza di
concentrazioni superiori al limite del consentito dalla tabella 1.2 citata verrebbe in rilievo il C. V .M
Non avendo gli imputati dimostrato che la
concentrazione delle sostanze predette
era entro il limite delle concentrazioni limite ,tutti i reflui convogliati in
condotta provenienti dal
Petrolchimico avrebbero dovuto essere smaltiti in forme
adeguate tramite la termodistruzione
E se i
reflui 22 milioni di metri cubi/ annui
provenienti dagli impianti CV22
e CV23 sono definiti come rifiuti liquidi tossico nocivi , con la conseguenza
che avrebbero dovuto essere inceneriti ,
tale carattere tossico -nocivo
sarebbe stato conferito
all’intero flusso dello scarico SM15- 370 milioni di metri cubi/anno
Ed un così
rilevante scarico di rifiuti tossico nocivi qualificherebbe la colpa dei
delitti di pericolo contestati : disastro e avvelenamento del biota.
Sempre in tesi
di accusa, da premesse legalmente presunte come vere, deriverebbero delle
conclusioni che neppure sarebbe necessario sperimentare in fatto e ciò
perché gli imputati avrebbero dovuto
rendere la prova del contrario
Ritenendo invece il tribunale ,non
condividendo l’ipotesi accusatoria , che fosse necessario accertare in concreto la natura tossico nociva delle
sostanze inquinanti alla stregua delle
norme di legge in vigore rivolgeva al
consulente della accusa la domanda se
,al di la di ogni presunzione legale, egli fosse al corrente di un qualche
indice della presenza delle sostanze nominate nella D. I.1984 in particolare del C. V. M nelle acque di processo dei reparti CV e/o nei reflui convogliati
dagli scarichi S.M.2e S.M15. ed in caso affermativo della concentrazione
rilevata , e riceveva una risposta negativa.
Alla domanda ulteriore,avente per oggetto
quale prova avrebbe dovuto essere data
dal titolare dello scarico per
essere legittimato ad applicare la normativa sugli scarichi anziché quella sui rifiuti, riceveva
la risposta che per escludere che un refluo sia tossico
nocivo occorrerebbe fare una analisi completa dello stesso ,determinando
le diverse sostanze presenti sino a
chiudere l’analisi alla milionesima parte in massa (1mg/kg)
Ciò comporterebbe delle analisi praticamente impossibili che non sono mai state richieste dalla autorità amministrativa
competente al rilascio della autorizzazioni .
Ritiene comunque il Tribunale che, la pretesa
della accusa di ritenere il produttore
onerato dalla prova della presenza delle sostanze di cui alla tabella indicata
in concentrazioni inferiori a quelle
limite , sia errata con riferimento ai principi generali che riguardano l’onere
della prova nel processo penale , in cui il principio della presunzione di
non colpevolezza fino a prova
contraria comporta che la prova deve essere data da colui
che la nega elevando l’accusa
L’onere della
prova spetta pertanto alla accusa in
quanto anche dalla delibera del C. I del 1984. non emergono regole di
significato tanto pregnante da smentire questo principio
In materia e cioè sul tema della definizione
dei campi di intervento delle due fondamentali discipline normative di
protezione ambientale- quella relativa ai rifiuti quella relativa tutela delle acque - le Sezioni Unite hanno
stabilito alcuni fondamentali principi.
A ) Il D.P.R 915/82 regola l’intera materia
dei rifiuti , in essa si inserisce come
cerchio concentrico la normativa relativa
agli scarichi , disciplinati dalla L n 319/76 e per Venezia dalla legge
speciale 962/73
B) Se la
sostanze è solida rileva la disciplina
di smaltimento di cui al D.P.R 915/82
C) Per le
sostanze liquide o a prevalente
contenuto acquoso o convogliabili o convogliate in condotta rileva la L 319/76
D)Il quarto criterio deriva dalla
disposizione del sesto comma dell’art 2 D.P.R n 915 /82 che riserva alla
disciplina degli scarichi nelle acque anche
liquami e fanghi ,ivi compresi quelli derivati da cicli di
lavorazione e da processi di
depurazione
E..)Ulteriore
criterio è definito dalla inclusione
nel D. P. R n 915/82 di liquami e fanghi appartenenti alla classe
tossico –nociva
F)Ultimo
criterio discretivo deriva dal fatto
che il D.P.R. n.915/82 disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento (
conferimento ,raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio etc) dei rifiuti
prodotti da terzi,siano essi solidi liquidi ,fangosi o informa di liquame con esclusione di quelle fasi,concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili)
attinenti allo scarico e riconducibili
alla disciplina stabilita dalla legge n 319/76 o 962/73 con l’unica eccezione
dei fanghi o dei liquami di verificata appartenenza alla classe dei tossico
nocivi che sono regolati dal D. P .R n. 915/82.
Tanto premesso
ritiene il T tribunale di poter escludere la applicazione della normativa di
cui al D.P.R piu volte citato ai reflui di reparti CV per i seguenti motivi:
non si tratta di
sostanze solide rientranti per natura
nella disciplina di cui al D.P.R;
si tratta di
acque di processo ,sostanze liquide
convogliabili e convogliate in condotta ,direttamente immesse nel corpo
ricettore senza alcuna soluzione di continuità, previo trattamento e
abbattimento del carico inquinante; non si tratta di fanghi , che se tossico
nocivi sarebbero disciplinati dal D.P.R 915/82; non si tratta di acque di processo o di rifiuti liquidi
veicolati e/o scaricati in forma non
canalizzata, nel qual caso sarebbe certa la definizione di rifiuto del refluo.
Nel caso in
esame non consta che il collegamento tra fonte di riversamento e corpo
ricettore sia in alcun momento della sequenza interrotto .
Al di la delle
congettura sull’onere della prova si tratta di scarichi che non rientrano
nell’unica eccezione prevista dall’art 2 comma 6 del D.P:R 915/82.
Sollecitata poi alla verifica in fatto della presenza di C. V .M nelle acque di processo dei reparti di C. V in misura
superiore ai limiti fissati dalla
delibera del comitato interministeriale del 1984 , la accusa
non è riuscita nel suo intento .
L’accusa ha poi insistito sul monitoraggio in
continuo del C. V.M. nell’aria ,
presso le vasche di neutralizzazione
delle acque reflue (cd SG31), tale è in estrema sintesi il ragionamento dell’accusa : non è mai stata ricercata
la presenza di C. V M nell’acqua delle
vasche del reparto SG31 ma solo nell’aria sovrastante ,mediante la istallazione
di gascromatografo; se si intende monitorare la presenza del CVM nell’aria non vi è ragione per non monitorare la presenza del CVM anche
nell’acqua se il C VM è presente nell’aria deve essere presente anche
nell’acqua delle vasche.
Ed in tal senso il c. t dell’accusa ha
orientato le sue ricerche nell’illustrare
gli esiti delle quali lo stesso ha
fatto presente che non esiste un parametro di accettabilità nella legge, per
quanto riguarda il CVM , perché i
clorurati sono sussunti sotto una unica voce e che in particolare il CVM in acqua ha una vita effimera
brevissima, di nessuna durata ed è difficile reperirlo per mancanza di tempo.
Deve quindi essere ricercato nella
vasche durante il trattamento prima
delle operazioni di abbattimento del carico inquinante dei reflui e delle
operazioni che permettono al titolare dello scarico di perseguire l’obiettivo
della loro compatibilità con i
parametri tabellari di accettabilità
Applicando una legge termodinamica , legge
di Henry, il c t dell’accusa spiega
come sia possibile determinare la concentrazione media del C .V .M nelle acque di processo , partendo dalla
concentrazione presente nell’aria , in 149 milligrammi /litro, e quella
massima di picco in1328 milligrammi per
litro
Solo in 10
occasioni nell’arco di un decennio –dal 1984 al 1994- si rileva il
superamento del limite di 500
milligrammi /litro ( la CL di cui alle tabelle allegate alla delibera del C. I
di cui si è detto)
In tesi di accusa quindi questi 10 superi
basterebbero conferire all’acqua delle vasche di neutralizzazione e cosi
all’intero flusso dello scarico S.M15 e SM2 il carattere di rifiuto tossico
nocivo
Ne consegue che l’intero flusso del SM15
dovrebbe rientrare nella eccezione prevista dal comma 6 art 2 D.P.R 915/82
Non ritiene
invece il Tribunale che il superamento dei limiti di concentrazione in solo 10 casi giustifichi le conseguenze
che ne ha tratto l’accusa
Comunque la stima del C.T risulta errata in
eccesso in quanto, secondo una corretta applicazione della legge di
Henry – segue una dettagliata esposizione delle ragioni per cui ilo calcolo effettuato dal
consulente dell’accusa non sarebbe corretto bensì affetto da errori esiziali - la concentrazione del C. V. M in acqua risulta ,a parità di concentrazione nell’aria, 40.000 volte
inferiore rispetto a quella che risulta
in base alla relazione erroneamente utilizzata nella consulenza
tecnica della accusa .
Comunque, rileva il consulente .tecnico della difesa ,che, anche accettando
l’erronea concentrazione calcolata dal consulente tecnico della
accusa, mai si arriverebbe a
concentrazioni di C .V M tali da
superare la concentrazione limite di 500 mg/kg fissata dal DCI 27-7-1984 in
quanto il valore calcolato dall’accusa è circa 20 volte inferiore alla C .L
A questo punto il consulente tecnico dell’accusa introduce un fattore
correttivo, giudicato dalla controparte del tutto arbitrario , e che comunque, quand’anche lo si volesse
applicare, non comporterebbe il
superamento di limiti di concentrazione massima stabiliti dal DCI dell’84in
materia di rifiuti: si otterrebbe
infatti circa 0,03 mg/kg contro i 500 mg/kg della CL
Le valutazioni del consulente Cocheo non
sono pertanto attendibili
Il consulente
delle difesa ha invece verificato che
nel periodo dal 1990 al 1994 risultano:
102 casi di
presenza di C. V.M. nell’aria sovrastante le vasche in1360 giorni
una durata
totale di 338 ore di presenza di C. V .M nell’aria su un periodo di 32640 or pari quindi all’1 % del tempo
La presenza del
CVM nelle vasche risulta comunque essere fatto del tutto eccezionale e ciò
invero trova una ragionevole spiegazione oltre che nelle esame delle
tabelle fatta dal consulente .tecnico . della difesa anche in altre circostanze
In particolare
risulta che non vi era alcun collegamento permanente tra la fognatura dei
reparti di produzione CVM/PVC e le
vasche di neutralizzazione
Ed invero i dati
analitici confermano la assenza di CVM nell’ acqua delle vasche , e dimostrano la inutilità di un controllo di
questo parametro nelle acque di scarico ,considerata la bassa solubilità del
CVM ed infatti le vigenti normative non
pongono limiti di concentrazione in acqua perché la concreta assenza del CVM in
acqua e intrinsecamente assicurata
dalle sue proprietà fisiche , in particolare dalla sua bassissima solubilità.
Conclusivamente risulta che normalmente il
CVM nelle acque di processo , provenienti degli impianti di produzione del CVM, era assente ,quando era presente lo era in una
percentuale ampiamente al di sotto delle C L ,di cui alla delibera
attuativa della disciplina normativa
dei rifiuti
Circa la ragione della presenza del
gascromatografo in prossimità delle vasche va invece rilevato come esso
servisse alla misurazione di altri gas oltre il CVM.
Nelle vasche di neutralizzazione infatti
doveva essere abbattuto il carico inquinante dei reflui e ciò avveniva
mediante degli agitatori che favorivano
la evaporazione dei gas non solubili ,
come il CVM ; rilevava a questo punto evidenziare
che le vasche sono chiuse e munite di
una cappa di aspirazione che porta ad
un camino di altezza di 46 metri che è
stato autorizzato e della cui funzione
legata anche alla possibile
presenza del CVM è stato dato atto
Il consulente . tecnico della difesa ha anche evidenziato come le
correnti del reparto CV 24 andassero all’impianto biologico solo dopo lo
strippaggio , mentre le correnti dei reparti CV22 e CV 23 recapitavano nelle
vasche solo e solo in occasione di eventi eccezionali ,che portavano a
straordinari superamenti di livelli o disfunzioni altrettanto rare.
Comunque la tesi di accusa risulta essere
irrilevante ,posto che l’assenza certa ed
incontroversa tra le parti del CVM. nel biota nei sedimenti e/o nelle
acque del corpo ricettore- laguna – rende irrilevante l’ipotesi della presenza di CVM negli scarichi idrici a monte
Oggetto della
imputazione non è infatti ,né lo potrebbe essere, perché a contatto con l’acqua
evapora immediatamente , la presenza
o meno del CV M nell’acqua della laguna.
Le tesi di
accusa sulla supposta e in dimostrata presenza del cloruro di vinile nei reflui
di provenienza dagli impianti CV, presenza che comporterebbe la necessità di un
loro trattamento secondo la normativa relativa ai rifiuti,anziché secondo la
normativa relativa agli scarichi delle
acque, oltre che essere infondata e priva di rilevanza, atteso che nessun
evento di danno risulta essere
correlato nella ipotesi accusatoria a tale presunta violazione , perchè in nessun modo viene sostenuto che
l’inquinamento della laguna possa essere ricondotto al CVM. sversato
Conclusivamente
la tesi accusatoria è infondata ed irrilevante.
4.11 Il caso
particolare della contaminazione del sedimento del canale Lusore –Brentelle, antico corpo recettore
degli scarichi nelle acque di provenienza
dal Petrolchimico e delle sue
immediate adiacenza
I rilievi fatti con
riferimento alla ipotesi accusatoria, secondo cui gli imputati sarebbero responsabili dell’inquinamento causato da
altri per omessa bonifica dei luoghi contaminati vale, sia per le discariche
come per il catabolismo delle acque e dei sedimenti del corpo ricettore e si ribadisce che la scelta di un modello unitario di qualificazione della
fattispecie concorsuale richiede comunque
che tra la condotta del concorrente e l’evento sussista un nesso di
condizionamento , mentre non si può rispondere di disastro innominato colposo
per il solo fatto di essere consapevoli dell’inquinamento pregresso .
Il ricorso alla schema concorsuale –113 c.p-.
non esime dalla accertamento del nesso causale , mentre l’accusa ,rifiutando
questa impostazione, e rimanendo ancorata allo schema della cooperazione per
omesso disinquinamento della contaminazione preesistente , rifiuta
qualsiasi indagine diretta ad accertare
il riferimento ad una base –line della
contaminazione, a partire dalla quale
ricostruire e valutare l’apporto dei singoli imputati
E fonda la prova del disastro esclusivamente
sul gradiente di concentrazione tra il
sedimento dei canali dell’area industriale
e delle aree non interessate ad impatto ambientale nonché
sulla in verificata tipicità
della impronta di congenere delle diossine
, come indice della loro derivazione dalla filiera del cloro e
perciò dal Petrolchimico
Esclude dalla ricerca l’andamento della
contaminazione nel tempo, le conseguenze del catabolismo industriale nel tempo,
la datazione in ogni caso della contaminazione
e ciò anche con riferimento a
quei siti ,come il Canale Lusore –Brentelle
e le sue immediate adiacenze che risultano essere stati sicuramente inquinati dal catabolismo
del Petrolchimico
Si imponeva invece la necessità di accertare
se ci fosse stato un aggravamento della contaminazione preesistente per effetto delle condotta degli imputati,
essendo certamente la contaminazione
preesistente ai tempi storici
interessati dalla imputazione .
La nozione di
causa penalmente rilevante ,intesa come condizione necessaria in un contesto complesso ,comporta che ,se
un evento si produce solo quando un determinato insieme di condizioni si verifica, rimane poi privo di
significato accertare se uno dei fattori causali appartenenti a quel complesso
,sia prossimo o remoto rispetto al verificarsi dell’evento
L’apporto
causale ben potrebbe configurarsi anche solo come aggravamento di un evento
dannoso già prodottosi.
L’apporto
causale di ogni singolo imputato comunque ,entro la cornice concorsuale di
riferimento, e fermo restando il
principio di equivalenza delle condizioni, deve essere sempre provato
Nelle precedenti
pagine della motivazione sono state indicate le ragioni per cui non può
addebitarsi al Petrolchimico la
matrice della contaminazione della prima zona industriale
Sono state anche
esposte le ragioni per cui non sia facile
stabilire in che limiti il catabolismo del Petrolchimico . possa avere
causato l’inquinamento del sedimento dei canali della seconda zona industriale
, considerato l’apporto dei
preesistenti scarichi nelle acque e
gli apporti recati da altre matrici di contaminazione : imbonimento dell’area
della seconda zona industriale con
enormi masse di rifiuti provenienti dalla
prima zona industriale , erosione
delle sponde dell’antico sito di discarica
dell’isola Tresse
Rimane comunque
indiscusso che dal Petrolchimico siano
derivati nel tempo apporti significativi in termini di evento di danno
ambientale
Certo il catabolismo del Petrolchimico ha
avuto un apporto significativo in termini di contaminazione delle sue immediate
adiacenze , perché è incontroverso che
il sedimento del canale Lusore – Bretelle – corpo ricettore degli scarichi del
vecchio Petrolchimico, dall’atto della sua fondazione fino a tutto il ciclo di
ristrutturazione della prima meta degli anni 70, sia stato gravemente
compromesso dal catabolismo di quegli impianti
Si tratta però
di tempi storici, che trascendono
quelli dell’imputazione
L’inquinamento
del canale Lusore –Brentelle , è certamente riconducibile al catabolismo del Petrolchimico.dagli anni
della sua fondazione fino alla ristrutturazione risalente alla prima metà degli
anni 70.
Dal catabolismo delle acque in epoca più
recente deve invece escludersi che sia
potuto derivare alcun apporto,in termini di aumento dello stato di inquinamento preesistente , in quanto ,quando le
allegazioni della accusa hanno consentito di operare verifiche è venuto in
rilievo il contrario
Nel canale Lusore –Brentelle anche
attualmente recapita l’SM2 ,scarico che risulta essere di sicura
ininfluenza in termini di impatto ambientale ,attestandosi il suo scarico inquinante su
valori di gran lunga inferiori ai limiti del consentito ex lege o in base alle prescrizioni
accessorie al titolo autorizzativo pertinente ( sporadici accertati superamenti
puntuali devono ritenersi irrilevanti in termini di impatto ambientale).
Dalla ricostruzione del consulente tecnico
dell’accusa relativa gli apporti ritenuti influenti , in relazione al
verificarsi della situazione ,risulta oltre alla conferma del fatto che nel
canale Lusore Brentelle scaricavano
senza alcun trattamento le acque di
processo del vecchio petrolchimico
quali erano degli impianti del
vecchio petrolchimico che sono andati scaricando nel canale Lusore
– Brentelle: gli impianti cloro-soda avviati nel 1951 fermati nel 1972,che
utilizzavano catodi di mercurio e anodi di grafite- ( con conseguente inquinamento da mercurio e da PCDD/F)
gli impianti di produzione del C. V .M . a partire dall’acetilene e cioè il CV1 chiuso intorno al 1970
gli impianti di produzione CV 10 chiusi nel
1981 –che utilizzavano un catalizzatore
a base di cloruro di mercurio, altri impianti attivi fino alla
realizzazione dell’impianto chimico -fisico – biologico SG.31- avvenuta nel
1978- ad esempio l’impianto di produzione di acetilene da metano (ACI) con
conseguente sversamento nel canale di
acque con presenza di inquinanti ,tra
cui IPA, altri impianti fonti di
inquinamento da PCDD/F,che scaricavano nel canale fino alla avviamento
dell’impianto di strippaggio dei clorurati, il
CS 30, e cioè fino al 1980.
Viene
a questo punto ricordato dal
Collegio che solo a cominciare dal 1-3- 1980 diventano operativi i parametri di accettabilità degli scarichi,
essendo stata la normativa –legislazione speciale per la salvaguardia di
Venezia - prorogata fino a quella
data e che gli scarichi di provenienza
del P erano da quella data muniti di impianti di trattamento operativi
Gli
interventi per il miglioramento delle
condizioni ambientali e di sicurezza di
Porto Marghera furono effettuati dopo
il 72 tra il 73 ed il 75 e sono documentati
da commesse di lavoro e da verbali di collaudo.
In particolare ,dalla testimonianza Mason, risulta che la vasca
baricentrica pertinente all’impianto di
trattamento biologico delle acque reflue fu realizzata nel 1976- e non come
sostenuto dall’accusa a meta degli anni 80.
Dal 73 all’80 si realizza l’adeguamento di
Montedison alla costruzione degli impianti di depurazione richiesti dalla legge di Venezia.
Quanto ai
risultati ottenuti mediante l’impianto
di trattamento biologico in un periodo antecedente l’entrata in vigore delle tabelle del d. p .r 962/73 , non
risulta,nè l’accusa lo prova che se
ne potessero ottenere di migliori
Con atto
2-5-1983 il Magistrato alle Acque attesta che le acque di scarico provenienti dal gruppo Montedison risultano
essere a norma delle prescrizioni del D.P.R n 962/73
Sostiene l’accusa che il depuratore biologico
poteva gia essere fatto negli anni cinquanta
Consta che Montedison .verificò la tecnologia
esistente in Italia e che non trovando
impianti biologici industriali per
grosse dimensioni e si rivolse
all’estero ,in Germania
Nella motivazione delle sentenza segue a
questo punto un elenco dettagliato degli interventi eseguiti, commessa per
commessa, con indicazione per ciascuno della data di realizzazione o di
collaudo o di messa in esercizio
Il
caso particolare della gestione del catabolismo del mercurio
È certamente presente tale tipo di
inquinamento nel canale Lusore
–Brentelle, non c’è però, come per gli altri
inquinanti, informazione adeguata sull’andamento delle contaminazione nel
tempo.
Risulta invece che la Montedison realizzava tra il 1973 ed il 1981 in adempimento
agli obblighi della legge speciale l’impianto di demercurizzazione entrato in
esercizio nell’anno 1976 e collaudato nel 1982. La contestazione riguarda la
scelta della Montedison . di realizzare negli anni dal 1971 in poi un impianto
di cloro soda a celle di mercurio
Consta pero che all’epoca dei fatti le solo
tipologie di celle applicate industrialmente nella produzione del cloro e della
soda erano a diaframma e a catodo di mercurio , mentre impianti con celle a membrana- meno inquinanti non erano ancora stati realizzati ed erano invece
a livello progettuale , fino al 1978 in corso di perfezionamento ,
mentre nel 1981 ci sono impianti
sperimentali.
Risulta conclusivamente provato che la nuova
tecnologia delle celle a membrana si dovette perfezionare nel corso dei primi
anni ottanta .
Negli Usa il
primo impianto per la produzione del cloro con celle a membrana è del 1983.
Gli impianti di
cui si controverte entrarono in funzione nel 1971.
Anche negli anni
80 la maggior parte degli impianti utilizzava celle a mercurio o diaframma a
base di amianto.
La realizzazione dell’impianto di demercurizzazione ha consentito di ridurre le immissione di
mercurio in laguna ad un microgrammo litro 0,001mg/l nei limiti
della legge speciale.
La data di costruzione dell’impianto predetto
collaudato solo nell’82 , risulta con certezza essere quella di molto
antecedente,e cioè del 1974, e la sua entrata in funzione risale al 1976
Ne consegue la infondatezza di tutti i relativi addebiti di colpa pertinenti all’uso del mercurio e
alla realizzazione tardiva dell’impianto.
Rileva il collegio come non venga individuata
dall’accusa ,quando vengono sollevate critiche alla condotta di gestione del
catabolismo nella acque ,la norma agendi che
sarebbe stata violata .
Quando gli addebiti di colpa si specificano
prendendo forma in proposizioni
verificabili viene in considerazione la loro infondatezza.
Il generico riferimento alla migliore
tecnologia possibile da parte
dell’accusa , non specifica mai che cosa concretamente gli imputati avrebbero
dovuto fare , nelle condizioni rilevanti all’epoca di assunzione del potere di
gestione da parte loro, per prevenire
il supposto evento di danno e quando l’addebito si specifica risulta infondato.
Dirimente al di
al della chiara infondatezza degli addebiti è comunque la inverificabilità di
una relazione tra la condotta degli imputati ed un eventuale aggravamento dello
stato di contaminazione preesistente
alla loro entrata in scena.
Va ancora rilevato come secondo la tesi della
accusa il disastro innominato che
presuppone un pericolo per la incolumità pubblica deriverebbe dall’inquinamento del biota in quanto l’inquinamento
dei sedimenti dei canali non sarebbe pericoloso se non lo fossero gli asseriti
effetti –in termini di avvelenamento e adulterazione dell’ittiofauna su di essi
vivente.
Ed accertata la infondatezza delle accuse di
avvelenamento e adulterazione di acque
e sostanze destinate alla alimentazione
viene di conseguenza esclusa anche la fondatezza della imputazione di
disastro , che si caratterizza come matrice degli insussistenti pericoli alimentari
La prova negativa della pericolosità della
ittiofauna e cioè della fonte immediata del supposto pericolo per la salute
pubblica ,costituisce prova che nessun pericolo per la incolumità pubblica può
essere ricollegato alle cause
mediate ( stato dei sedimenti e della acque) .
II parte -appello del P.M.
Capitolo 3.8
Critica alla selezione dei dati di fatto da parte del
Tribunale
( Capitoli n 3 e 4 della sentenza )
Le consulenze tecniche del P.M.
L’accertamento del laboratorio M. P. U. di Berlino
3.8.1 Rapporto tra la prima e la seconda zona industriale
La tesi difensiva fatta propria dal Tribunale
secondo cui l’inquinamento dei canali industriali sarebbe la conseguenza dell’utilizzo dei rifiuti provenenti dalla prima zona industriale per
l’imbonimento della seconda zona ,in
cui vennero poi realizzati gli impianti del PETROLCHIMICO,risulta fondata sulla
diversità delle impronte della diossina
cosiddette “vecchie”( relative
alla prima zona industriale , con OCDF in quantità maggiore dei OCDD , ma con percentuali rispettive di
50 /60 % per OCDF e 10-20% per OCDD ) rispetto a quelle “recenti” del Petrolchimico ( prevalenza
assoluta di OCDF = 80-90%).
Si è contestata
in aula da parte della accusa la
ricostruzione cronologica delle carote , rilevando che entrambe le impronte
venivano prodotte nei diversi impianti
relativi al ciclo del cloro ,e
rilevando altresì che anche i rifiuti,
prodotti nella seconda zona industriale, sono rimasti in questa zona
sotto forma di discarica, circostanza questa che dimostrava la inconsistenza
della tesi difensiva , basata sulla analisi dei campioni ( da E1 a E6)
,raccolti ai bordi della seconda zona
industriale, che avrebbero dimostrato trattarsi di fanghi rossi vecchi
inquinati da diossina , mentre invece si trattava di campioni misti e molto spesso di rifiuti
anche della seconda zona industriale
L’accusa evidenzia anche che gli stessi
rifiuti erano stati spostati, dalla seconda alla prima zona, quando erano stati
scavati i canali Brentelle , Industriale nord e Industriale ovest con
camion ,dato che solo una parte poteva
essere bruciata nel termocombustore, e che
inoltre i rifiuti erano stati continuamente rimaneggiati dalle maree.
A supporto dell’’accusa
vi sono i seguenti documenti:
1)mappe che
dimostrano come negli anni 40 e 50 gran parte della seconda zona industriale
fosse stata gia bonificata con ampi spazi agricoli
2) foto di
discariche all’interno della seconda zona industriale formatasi prima del 1970
fino alla fine degli anni 80
3) dragaggio del
canale Brentella e del canale industriale nord
attorno al 1960 ciò che comporta la deposizione dei fanghi inquinati in
un periodo successivo
4) le barene
campionate a S Erasmo e a Fusina hanno
la concentrazione massima della asserita impronta della prima zona industriale
in strati, che la stessa difesa dice corrispondere agli anni 60-80 e questo
vuol dire che erano emissioni della seconda zona industriale, che possono essere arrivate là solo
attraverso l’atmosfera; non è infatti possibile che rifiuti solidi come quelli
che sarebbero stati prodotti con quella impronta prima del 1940,si siano potuti
ridistribuire sulle barene a quella distanze.
5) anche
attualmente il ciclo di lavorazione DCE – PVC - CVM produce non uno solo ma almeno due se non più,diversi tipi di impronta
e ciò a confutazione della teoria delle due impronte diverse, prodotte
in tempi diversi come emerge dalle seguenti risultanze :
esiste un data base di analisi interne di acqua ,camini e fanghi con impronte diverse
tra loro ,tra cui quella cosiddetta vecchia ; la bibliografia di Carroll presenta entrambe le impronte da dati di
produzione del CVM/CDE; i dati delle esposizioni atmosferiche ,che hanno
entrambe le impronte in campioni raccolti in tempi recenti ,in particolare nella stazione di Dogaletto a 4 km SW del Petrolchimico ; sia i suoli che le barene hanno tutti e due
i tipi di impronta ;
3.8.2 peci clorurate
(prodotte dai vari impianti ) fanghi rossi e pirite -supposte fonti della contaminazione da
diossine
Il collegio
sposa la tesi secondo cui dal 1972 le peci clorurate furono tutte inviate a
trattamento nell’impianto CS 28 ed invece il CS 28 bruciava solo peci liquide e peraltro era insufficiente .
Le peci solide
hanno invece continuato ad essere smaltite fuori dello stabilimento nelle tuttora esistenti discariche Dogaletto
,Moranzani e Macchinon
Il documento del magistrato alle acque
conferma la possibilità di scarico con camion e bettoline delle peci clorurate,
nonché la possibilità che –riscaldate- le peci
perdano i clorurati e quindi sia possibile trovare diossine senza i
clorurati.
Le difese degli imputati sostengono invece
che contenevano diossine anche le produzioni della prima zona industriale quali: quelle del magnesio ,della
decuprazione di ceneri di pirite e dei fanghi rossi.
Ma la affermazione si basa su dati
contraddittori :alcuni dei campioni sono stati raccolti dai consulenti tecnici
della difesa dove gia nel 1944
esistevano campi coltivati;la correlazione diossina /AS (ceneri di pirite) e
diossina /AI (fanghi rossi)viene smentita dai dati e dalle osservazioni che
seguono; l’ Haglund, richiamato a sostegno dai consulenti tecnici degli
imputati ,non produce invece diossina
3.8.3 superamento dei livelli C e compromissione
ambientale della laguna
Dal documento
Mav -Aut- Portuale (1999) risulta che complessivamente il 35% dei campioni è
superiore al livello C e il 43% si situa tra il livello B e il livello C.
Per le diossine ,da tale documento risulta
che oltre il 65% dei campioni è eguale o superiore al limite C.
Il confronto dei
valori con linee guida internazionali
dimostra la possibilità di effetti avversi su organismi marini
3.8.4
Dati e audizioni del dr VIGHI CT ENICHEM
La critica
principale riguarda il fatto che il consulente
delle difesa non spiega come ha
eseguito la PCA(analisi componenti principali)
e seleziona dei dati ,senza spiegare i criteri di selezione , e seleziona anche figure , facendone veder
alcune e non altre che dimostrerebbero il contrario
Passando ad una analisi piu specifica osserva
il P.M, con riferimento a quanto indicato nella sentenza a pagina 516 e 517 -
dove si dice che i canali Industriale
sud e canale Malamocco Marghera sono stati scavati nella massa di materiali
di riporto e cioè dei rifiuti provenienti dalla prima zona- che dalle foto aeree si vede che in tuta la parte Ovest di quella che sarà la
seconda zona industriale c’erano gia
nel 1944 campi coltivati e che anche la parte sud era gia colmata , quindi
nessuna di queste aree poteva
essere colmata con rifiuti
industriali, nè vi poteva essere scavato il Canale
industriale Sud ,che è invece stato per la maggior parte scavato in terreno gi
agricolo.
Le uniche zone
di conseguenza che possono essere state bonificate anche con rifiuti
industriali della prima zona sono quelle
ancora arenicole nel 1955 e cioè
la parte più orientale dell’area attualmente
compresa tra il Canale
industriale ovest e il Canale Industriale Sud.
Con riferimento a quanto indicato o a pagina
556 dove si sostiene che le pratiche di smaltimento dei rifiuti sono state
poste in essere nel rispetto della normativa vigente D.P.R. 915/1982 ed a
quanto indicato a pagina 547, dove si
sostiene che l’accusa non ha considerato l’apporto inquinante dei rifiuti della
prima zona industriale usati per l’imbonimento della seconda zona , ribadisce
il P.M che ,a parte ogni riserva circa la pretesa assenza di normative in materia di gestione dei rifiuti prima del
1982 , come risulta dalla cartografia,
gia nel 1944 buona parte di quella che diventerà poi la seconda zona
industriale era coltivata , e
questo vuol dire che quelle aree non sono state bonificate con i rifiuti
della prima zona industriale essendo
state bonificate molti anni prima .
Sono quindi i residui della seconda zona
industriale ad avere formato le discariche
dentro alla stessa e sono i
residui della seconda zona industriale ,che sono stati campionati nelle varie
consulenza tecniche del PM
Ne consegue il rovesciamento di tutte le
conseguenze ambientali e della cronologia dell’inquinamento della laguna.
Con riferimento
a quanto indicato a pagina 581 e 594 – laddove si critica la scelta da parte
del consulente tecnico della difesa di S Erasmo come luogo di confronto - si
ritiene invece che sia corretta la
scelta del consulente del PM. di
utilizzare S Erasmo ,come luogo di confronto, trattandosi di un punto non privo di
antropizzazione, bensì di luogo con
impatto antropico continuo ma a bassissimo impatto industriale .
Ne consegue che tutti i confronti fatti tra sedimento e pescato della zona
industriale con S.Erasmo sono corretti.
Con riferimento a quanto indicato a
pagina 602 –laddove si addebita alla accusa di non avere fatto alcuna indagine
per verificare i tempi a cui far
risalire l’inquinamento per accertarne eventuale peggioramenti nei periodi di gestione degli imputati – si
rileva come al contrario sia sempre l’accusa, che cerca di ristabilire
una cronologia reale ,contestando ad esempio al consulente della difesa proprio
il fatto che nella carota C11, unica carota per cui esisterebbe una buona
cronologia, gli ultimi tre campioni (quelli
piu vicini alla superficie ,corrispondenti all’incirca al periodo 1995-1998) mostrano un aumento di OCDF
caratterizzati dalla impronta che anche
la difesa ascrive alle produzioni di
CVM.
Circostanza
questa che dimostra in modo inequivoco l’aggravamento dello stato di
contaminazione preesistente .
Con riferimento
a quanto indicato a pagina 607 e 608-
laddove si commentano i dati della relazione del dott. Raccanelli rileva l’accusa come si tralasci volutamente da parte dei consulenti della difesa la PCA( analisi statistica delle componenti
principali) e ci si limiti a commentare
il confronto dei profili tramite gli istogrammi .
Dopo avere fatto
il confronto visivo il consulente
dell’accusa invece presenta e una analisi statistica delle componenti principali - detta PCA-
relative ai sedimenti superficiali dei canali industriali, lagunari della
città di Venezia , dei fanghi, dei
pozzetti Enichem , degli scarichi dei
depuratori civili.
La PCA viene presentata con i dati acquisiti
dal 92 al 99 e viene evidenziato che i primi 3 fattori spiegano il 76% della
variabilità , e dimostrano che i
campioni dei canali industriali,dei pozzetti e di letteratura relativi alla
produzione del cloro sono accomunati dalla medesima impronta .
Al contrario i campioni dei sedimenti dei
canali di Venezia , della laguna distanti dalla zona industriale sono differenziati
e vicini alla impronta degli scarichi civili
Anche con i dati
forniti dalla difesa i primi 3 fattori spiegano il 77% della variabilità
Anche in questo caso risulta evidente
l’impronta del cloro che accomuna i dati dei pozzetti Enichem e dei sedimenti
lagunari nelle vicinanze del PETROLCHIMICO, mentre gli altri campioni di
sedimenti lontani dalla zona industriale sono differenziati e vicini alla
impronta degli scarichi civili
In conclusione l’analisi statistica dimostra
la correlazione tra l’impronta reale
esistente all’interno del
Petrolchimico e le impronte rilevate
nei canali industriali attorno al Petrolchimico e nei sedimenti superficiali lagunari nelle vicinanze dello
stesso
L’impronta è reale ed è dovuta alle diverse produzioni del ciclo del cloro
Con riferimento a quando indicato a pag.609
–laddove si attribuisce alla accusa di avere affermato che la matrice della
contaminazione di tutta l’area industriale deve essere individuata nel
catabolismo del Petrolchimico – si osserva
come l’accusa non ha mai sostenuto una
tale tesi.
L’accusa non
sostiene che la matrice delle contaminazione sia solo il catabolismo del
petrolchimico, ma che la fonte prevalente della contaminazione, per quanto
riguarda le diossine, è sicuramente il Petrolchimico e in particolare gli
impianti contestati nei capi di accusa con rifiuti (gas aria acqua) che sono
caratterizzati da impronte molto simili ,anche se non del tutto eguali con il
passare del tempo.
Queste impronte definite impronte del cloro presentano
evidentissime differenze rispetto alle impronte di altra origine (depuratori ,deieizioni umane eccettera ) e
per questo, quelle rilevate a seguito di analisi chimiche effettuate dai consulenti si fanno risalire alla lavorazione del cloro.
Segue quindi
nell’atto d’appello la riproduzione grafica delle tabelle relative alle analisi
delle componenti principali (pagine 1301 e 1302).
Con riferimento
a quanto indicato a-pagina 625- laddove si ritiene che i prelievi effettuati
nei pozzetti dal consulente della accusa non siano rappresentativi, non essendo
transitate nei pozzetti acque reflue di processo diverse da quelle di
lavaggio, anche quando gli impianti erano in funzione, si osserva come il
tribunale, condivida una tesi difensiva, che non può essere vera ,
perchè , se cosi fosse, non si giustificherebbe la alta concentrazione di
PCDD/F trovata nei fanghi depositati all’interno dei pozzetti.
Evidentemente nelle acque fognarie e non solo
nel canale Lusore Brentelle scaricavano direttamente le acque di processo,
senza trattamento, attraverso i vari scarichi
a cui erano collegate.
Con riferimento a quanto indicato a pagina-
629 - laddove si sostiene che le impronte di diossine rilevate nei pozzetti non avrebbero una caratteristica loro propria ,essendo
costituite da mescolanze eterogenee -si osserva come è la stessa accusa a sostenere
la parziale diversità delle
impronte, dovute alle diverse
produzioni di clorurati e ai diversi cicli utilizzati pur nella costanza del rapporto tra PCDD/F.
Sbaglia la difesa anche quando sostiene la
diversità delle impronte della prima zona industriale rispetto a quella della
seconda zona , mentre invece la eterogeneità
dipende dall’insieme di diverse produzioni ,che hanno portato alla
formazione della impronta che si rileva nei canali industriali attorno al
petrolchimico e nei sedimenti lagunari
limitrofi.
Mediando le impronte dei fanghi dei pozzetti
prelevati da Arpav(PP) Enichem( PE) Chelab(PC)
si ottiene l’impronta che è perfettamente sovrapponibile a quella dei fanghi rossi .
Con riferimento a quando indicato a
pag-631- laddove si sostiene che i
composti organo alogenati che si trovano
nel canale Lusore –Brentelle sono stati trovati in tutti i pozzetti
esaminati , mentre diversamente nel
Canale Bretella (prima zona industriale)
non risulta che tali sostanze
siano state rilevate in quantità
significative . risulta utile, con riferimento
a questi rilievi, piu di ogni altro commento, seguire la descrizione del
processo relativo alle peci.
Tra il materiale
agli atti raccolto dal Consorzio Venezia Nuova, relativamente alle produzioni di solidi e semisolidi , la
scheda n 40( pagina 95 del documento)
riporta dati relativi al reparti
di produzione del dicloroetano ( impianto DL2 )
In particolare risulta che le peci venivano
stoccate in serbatoi Kettle e
trasferite in fusti e quindi al forno speciale
o che altrimenti solidificavano nei fusti .
Ed è proprio a
causa del riscaldamento nei Kettle che
i composti clorurati volatili –(cioè con temperatura di ebollizione
relativamente bassa) sono evaporati
dalle peci e si sono dispersi nella atmosfera.
Ed è questa la
ragione per cui nel canale Brentella si trovano solo le diossine e non gli altri composti clorurati.
I livelli di
concentrazione delle diossine nel
canale Brentella corrispondono a
quelli attualmente giacenti all’interno
dei serbatoi del Petrolchimico ,
trattasi di quei materiali che oggi vengono inceneriti nei forni e che ,nel
passato, sono stati disseminati in laguna compreso il canale Bretella
caratterizzando con tale impronta della diossina i sedimenti dell’area
industriale.
Con riferimento al grafico riportato a pagina
638 della sentenza ed alla motivazione
relativa ai criteri seguiti dalla
difesa sul punto ,osserva il P .M come non sia possibile controllare la
elaborazione del dr Vighi , perché non è spiegato quali siano in congeneri
utilizzati, né il perché della esclusione di alcuni campioni e come in ogni
caso la spiegazione fornita non sia adeguata potendosi utilizzare anche i
campioni esclusi.
Nella
sentenza si afferma ancora
a pagina 639-640 che i campioni raccolti nei canali della prima zona industriale sono diversi da quelli
raccolti nella seconda zona , ma su tale circostanza l’accusa non ha alcuna obiezione da fare perché la circostanza è evidente, si
contesta però che tale differenza
voglia significare diversa origine temporale e industriale della
diossina .
Con una figura
riportata a pagina 640 della sentenza e
a pagina 1310 dell’atto d’appello il dr Vighi mette in evidenza le differenze
,interpretando però i dati inspiegabilmente , secondo un piano obliquo, e non secondo, come si dovrebbe fare, quello
degli assi della ascisse e delle ordinate
Il P M riporta
quindi nella pagina successiva una figura appartenente all’elaborato dello
stesso consulente, ma che il medesimo non ha mostrato ,perché altrimenti
diverse ed in senso contrario avrebbero
dovuto essere le sue conclusioni .