A cura di SLAI COBAS – sindacato di classe – provinciale VENEZIA, ed.12-12-2006
GLI ATTI PUBBLICI SONO DELLE MASSE NON PRIVATI !

Petrolchimico: la sentenza del 15.12.2004 della corte d’appello di Venezia

 

Gli imputati  (OMISSIS) Peraltro bel noti al proletariato

 

                  FATTO E DIRITTO

 

Con sentenza in data 2/11/2001 del Tribunale di Venezia, gli imputati venivano assolti, nei termini in epigrafe riportati, in ordine ai reati ascritti in rubrica.

 

Circa il primo capo d’imputazione, ricordava il predetto giudice in premessa della sentenza che, così come già esposto dal P.M. nella sua esposizione introduttiva illustrata all'udienza del 29 maggio 1998, le indagini avevano preso avvio a seguito di un esposto presentato da Gabriele Bortolozzo componente del comitato di redazione della rivista Medicina Democratica, che segnalava la produzione presso il petrolchimico di Porto Marghera di una sostanza chimica denominata CVM riconosciuta cancerogena dalla organizzazione mondiale della sanità (OMS) e dalla Comunità Economica Europea che aveva provocato la morte per tumore di 120 lavoratori, addetti alla lavorazione nella filiera del cloro, che indicava nominativamente. Un altro esposto era stato trasmesso all'autorità giudiziaria dallo stesso Bortolozzo  in data 6/5/1985 in cui già allora denunciava il pericolo  derivante dalla esposizione al  cloruro di polivinile, ma che non aveva dato seguito a nessuna indagine e di cui era stata disposta la archiviazione.

 

Dai primi elementi raccolti e da una consulenza orientativa affidata al professor Carnevale risultava che  37  dei 120 lavoratori segnalati dal Bortolozzo erano affetti da patologie correlate alla esposizione al CVM-PVC. Si sviluppava allora un’ampia attività di indagine con acquisizione della documentazione scientifica in materia ed espletamento di specifici accertamenti, pervenendo il P.M. alla conclusione che sulla base degli esaminati studi sperimentali ed accertamenti medici effettuati  nelle industrie di lavorazione  di tali sostanze, sarebbe risultato che i primi sospetti di tossicità risalivano agli anni '40 e '50 e che  la cancerogenità era stata segnalata  per la prima volta dal dottore Gian Luigi Viola, medico di fabbrica della industria Solvay di Rosignano, nel 1969.e confermata dagli studi  sperimentali che la Montedison  affidò al professor Cesare Maltoni, noto  oncologo, i cui primi risultati furono comunicati ai committenti nel 1972 e alla comunità scientifica nel l974, quando oramai era stata data notizia della morte di lavoratori addetti alla produzione di CVM  dipendenti della società statunitense Goodrich per angiosarcoma epatico, identico tumore individuato dal professor Maltoni nei suoi esperimenti sui  ratti. Sia in America che in Italia si rivalutarono alloro le patologie tumorali di taluni lavoratori nel frattempo deceduti che vennero riclassificati come angiosarcomi epatici, rara forma tumorale che venne associata alla esposizione al c v m.

 

Tale esposizione venne altresì correlata dalla agenzia per il cancro (IARC) nelle monografie pubblicate nel 1974, 1979, 1987, ai tumori al fegato, ai polmoni, all'encefalo, e al sistema emolinfopoietico, individuando evidenze anche per  i tumori della laringe in particolare per i lavoratori addetti all'insacco del PVC che erano, insieme agli autoclavisti, i più esposti al cvm. Pur a fronte di tali evidenze, secondo il P.M., e nonostante le pressioni sindacali, protrattesi fino  al 1977, che ebbero come risultato l'indagine dell‘Istituto di Medicina del Lavoro di Padova e che invocavano una drastica riduzione della concentrazione del c v m negli ambienti di lavoro, la Montedison non operò quegli interventi sugli impianti necessari a raggiungere tale obiettivo, anche approfittando della crisi economica che indusse il sindacato alla moderazione sui temi della nocività  e della salute a fronte del ricatto occupazionale .

 

 Né le successive vicende societarie, che porteranno nel 1987 Enichem a subentrare a Montedison nella gestione degli impianti di produzione del c v m, determinarono sostanziali mutamenti . Si sosteneva in particolare che i risultati degli accertamenti disposti sui sistemi di controllo per monitorare l'ambiente di lavoro, attuati dall’azienda mediante la installazione dei gascromatografi monoterminali, avevano evidenziato la loro inadeguatezza e inaffidabilità, poiché era risultato possibile alterare i dati con assoluta facilità, sicché l'abbattimento dei valori di concentrazione che appariva dai tabulati di tali apparecchiature era da considerarsi fittizio, non essendo neppure giustificato dagli interventi effettuati sugli impianti ritenuti del tutto insufficienti e inadeguati.

E così, nel primo capo di imputazione vengono contestati i reati di lesioni e di omicidio colposo plurimi anche come conseguenza della omissione dolosa di cautele e di dispositivi diretti a prevenire il verificarsi  di eventi lesivi o di danno dei singoli lavoratori  esposti alla produzione del CVM - PVC (art. 437 co2 c p) nonché il reato di disastro innominato (art. 434 co2 e 449 c p) per la gravità, l'estensione e la diffusività del pericolo per la pubblica incolumità e, in particolare, per la vita e l'integrità fisica della collettività operaia del petrolchimico. Veniva altresì contestato il delitto di strage colposa che secondo l’accusa doveva ritenersi punito dall'articolo 449 in riferimento all'articolo 422 codice penale. Si attribuiva in particolare rilevanza unitaria a condotte protrattesi per circa trent'anni (dal 1969 al 2000), mediante la contestazione della cooperazione colposa tra gli imputati che avevano ricoperto posizioni di garanzia e altresì mediante la contestazione della continuazione.

 

L’ ipotesi accusatoria sceglieva quindi un modello unitario di qualificazione della fattispecie concorsuale nella forma colposa ex art.113 cp, ponendosi quindi l’obbiettivo di dimostrare non solo che tra gli imputati vi era piena e reciproca consapevolezza di condotte inosservanti i precetti volti a prevenire gli eventi tipici, ma altresì che gli effetti penalmente rilevanti delle proprie condotte si ricollegavano a quelli causati dalle condotte di chi precedentemente aveva rivestito un ruolo di garanzia, nel comune perseguimento di un medesimo disegno criminoso che portava alla con contestazione della continuazione (interna ed esterna) tra tutti i reati, assumendosi che “il disastro è unico e riguarda sia il primo che il secondo capo di accusa in quanto l’attività di industria ha esplicato i suoi effetti dannosi sia all’interno che all’esterno della fabbrica”, e con addebito agli imputati della previsione dell’evento ex art. 61 n°3 cp.

 

A fronte di tale generale quadro di accusa, le difese degli imputati, sempre come ricordato dal Tribunale, ponevano in rilievo che successivamente alla pubblicazione delle monografie di IARC del 1978 e del 1987 era stata pubblicata nel 1991 da Simonato e altri , sempre nell’ambito di detta Agenzia, uno studio multicentrico europeo i cui risultati epidemiologici differivano dalle precedenti indicazioni cui aveva fatto riferimento il PM e concludevano affermando che l'ipotesi relativa agli effetti cancerogeni sul polmone, sul cervello e sul sistema emolinfopoietico non risultava confermata. Precisavano ulteriormente le difese che sia l'organizzazione mondiale della sanità che la commissione europea avevano concluso che l'unico organo bersaglio del c v m è il fegato e l'unico tumore associabile all'esposizione a tale sostanza è l' angiosarcoma epatico.

 

Anche per i tumori al polmone associati ad esposizione al PVC, cui in particolare erano interessati gli insaccatori, i risultati degli studi e cui si era riferito il pubblico ministero non sarebbero stati confermati da studi successivi. Si contestava comunque che gli studi epidemiologici cui aveva fatto riferimento prevalentemente il pubblico ministero fossero sufficienti all'accertamento del nesso di causalità che necessitava di una legge di copertura scientifica universale o di elevata significatività statistica.

 

Si sosteneva infine che, allorquando ebbe a manifestarsi la cancerogenità e tossicità del CVM,  tra la fine del 1973 e gli inizi del 1974, gli impianti ebbero a subire urgenti e rilevanti  modifiche. Si concludeva affermando che proprio i risultati di tali interventi determinarono sin dal 1974 una drastica riduzione delle concentrazioni: dai 500 ppm degli anni 50- 60 sino raggiungere nel 1975 concentrazioni al di sotto del valore soglia : dapprima fissato in 50 ppm e successivamente stabilito in 3 ppm  con DPR n° 962 del 1982 .

 

Concentrazioni che risultavano documentate dai bollettini di analisi e dai tabulati dei gascromatografi installati in quell'anno (1975) la cui affidabilità era confermata anche dai  dati rilevati nei mesi precedenti mediante i misuratori personali che indicavano un trend in progressiva diminuzione. La configurazione della imputazione ha poi indotto le difese a individuarne le caratteristiche in una sorta di “massificazione delle condotte”, espresse in termini impersonali e cronologicamente indifferenziati, che “si compattano attraverso meccanismi di accumulo, concentrazione e sovrapposizione in guisa tale da far emergere non singoli, specifici comportamenti ascrivibili a questo o a quel soggetto, ma a una sorta di politica di impresa riferibile all’ente societario in quanto tale”.

 

Questi, puntualizzava il Tribunale, i temi dibattuti nel corso della lunga istruttoria dibattimentale, durante la quale, relativamente al 1° capo di imputazione, sono stati sentiti numerosi consulenti introdotti dalle parti processuali, esperti non solo in epidemiologia e in medicina legale, ma altresì in biologia, in genetica molecolare, in tossicologia, in chimica industriale, in ingegneria impiantistica; inoltre sono stati escussi numerosi testi in particolare sulle condizioni ambientali dei luoghi di lavoro, sulle modificazioni  impiantistiche  intervenute e sui risultati ottenuti.

 

Il Tribunale, nell’affrontare le problematiche poste dal primo capo di imputazione, ha ritenuto di trattare separatamente, pur a fronte di condotte casualmente orientate, il problema del nesso di condizionamento tra le condotte e gli eventi contestati e gli addebiti di colpa rimproverati, occupandosi preliminarmente dell'accertamento del nesso causale tra esposizione a CVM-PVC e l'insorgenza delle malattie e dei tumori agli organi o apparati che sono stati individuati come  " il bersaglio " di tali sostanze.

 

Si è soffermato quindi sulle caratteristiche chimiche e tossiche e cancerogene del CVM-PVC, ritenendo che, sulla scorta dell’evidenza probatoria e valutati gli studi e conoscenze scientifiche che negli anni si erano sviluppate, all'inizio della produzione industriale del PVC, mediante  la polimerizzazione del monomero, la principale preoccupazione  che si nutriva era legata alla idoneità della sostanza gassosa di causare miscele esplosive con l'aria a concentrazioni di circa 30.000 ppm; per contro era  considerato scarsamente tossico tanto che fu impiegato  come gas anestetico ed utilizzato come propellente per spray fino ai primi anni '70, e che in tale contesto di conoscenze furono condotti i primi studi sulla tossicità del cvm che ebbero attenzione agli effetti conseguenti ad esposizioni a dosi molto elevate. Analiticamente quindi si soffermava su quelle che erano le conoscenze scientifiche degli anni ‘60 – ’70, richiamando già i primi studi negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi gli studi in Europa  -Mastromatteo e altri 1960, Torkelson 1961, Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi sugli gli studi di VIOLA e MALTONI.

 

Pier Luigi Viola era un medico di fabbrica della Solvay di Rosignano, che presentò nel 1969 a Tokyo, nell'ambito di un congresso di medici del lavoro, i dati relativi ad una sperimentazione sugli animali in cui aveva individuato lesioni polmonari, emorragia addominale, lesioni al cervello, fegato ingrossato, lesioni osteolitiche e alterazioni degenerative del tessuto connettivo; lesioni di uguale  genere vennero osservate in ratti esposti a 30.000 ppm per 12 mesi in un successivo studio realizzato con il prof. Caputo dell'Istituto Regina Elena di Roma. Tali studi di Viola sugli animali erano stati provocati dalla osservazione sui lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi di casi di osteolisi e di alterazioni vascolari alle estremità, tipiche del fenomeno di Raynaud, dato emergente dal rapporto  Suciu e altri pubblicato nel 1967 dopo che già a metà degli anni sessanta erano state accertate e pubblicizzate insorgenze nelle fabbriche americane di Sindromi di Raynaud e acrosteolisi causate dal contatto con la sostanza.

 

A parte tali patologie, riteneva però il Trtibunale che detti studi ancora non acclarassero scientificamente la cancerogenità per l’uomo del cvm-PVC, cui si pervenne solo a seguito degli studi del prof. Maltoni incaricato proprio da Montedison dopo l’allarme lanciato da Viola, ed a seguito dell’accertamento, nel gennaio 1974, presso la Goodrich Company di tre casi di angiosarcomi in operai addetti alla produzione del cvm, e, nei mesi successivi, di altri casi presso altre industrie americane.

 

La valutazione degli studi e diffusione delle conoscenze scientifiche in quegli anni (1970-1974), e delle testimonianze sul punto, porta il Tribunale a ritenere:

1) che determinanti per la conoscenza della cancerogenità furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola reputati inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e nei polmoni e non già angiosarcomi);

2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60 avevano provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi di acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola era stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che sollecitò l'approfondimento affidato a Maltoni;

3) che i dati degli esperimenti di Maltoni circolarono tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu  altresì autorizzato a visitare il laboratorio di Maltoni e a controllare i protocolli sperimentali;

4) che i risultati, ancorché parziali, furono comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza  e si ridussero alla fine in una moratoria di 15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei risultati alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich evidenziasse i primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti deceduti;

5) che già si poneva al centro dell'attenzione la individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le imprese dovevano adeguarsi (Maltoni in udienza ha precisato questo aspetto, affermando che in un processo stocastico quale è la cancerogenesi teoricamente una soglia biologicamente accettabile non esiste anche se può essere ricercata una soglia socialmente accettabile).

 

Tali elementi, secondo il Tribunale, smentivano altresì la tesi del P.M. del patto di segretezza tra le industrie del settore in ordine alla diffusione della notizia della cancerogenità del cvm, patto che non avrebbe in realtà avuto la finalità di occultare i dati della ricerca, ma era piuttosto finalizzato ad un reciproco controllo tra le imprese interessate in ordine alla pubblicizzazione dei dati per evitare il rischio di essere posti fuori mercato o comunque di ritrovarsi in gravi difficoltà operative a seguito di iniziative unilaterali e non concordate.

E comunque la clausola di riservatezza  sarebbe rimasta di fatto inosservata come risulterebbe inequivocabilmente dagli avvenimenti, oltre che dalle documentate e riscontrate dichiarazioni di Maltoni, posto che lo stesso diffuse pubblicamente i risultati delle sue ricerche nel convegno di Bologna tenutosi nell'aprile del 1973 di cui furono partecipi la comunità scientifica e le pubbliche istituzioni.

 

Osserva dunque il Tribunale come dal 1974 ha inizio un’ampia revisione delle diagnosi  per decessi di lavoratori dell’industria di polimerizzazione con tumore al fegato e vengono accertati casi di angiosarcoma che per la sua rarità era anche di difficile identificazione. A tal punto resterebbe acclarato che: il cvm è oncogeno per l’uomo, onde gli interventi delle Agenzie (EPA, WHO, ACGH, IARC che classificano appunto il CVM come sostanza cancerogena per l'uomo e la inseriscono in categoria 1) e la fissazione di limiti di esposizione lavorativa richiamati in sentenza.

 

In particolare, ricorda il Tribunale come in Italia, dove i contratti collettivi di lavoro erano soliti recepire i valori indicati dalla A.C.G.I.H. (America Conference Governemental Industrial Hygienists) - che sino a tutto il 1974 mantiene un valore di 200 ppm come media giornaliera - nel contratto collettivo di data 12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in quello successivo del 31 ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi il valore di 200 ppm come valore limite di soglia riferito alla media delle concentrazioni per una giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40 ore e tale valore viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17 aprile 1976 anche se la definizione di un valore adeguato alla accertata cancerogenità per l'uomo è in corso di individuazione .

 

Solo con il contratto collettivo del 23 luglio 1979  il limite di soglia TLV-TWA viene fissato in 5 ppm . Tale valore è definito come la “concentrazione media ponderale in una normale giornata lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40 ore, a cui praticamente tutti i lavoratori possono essere ripetutamente esposti, giorno dopo giorno, senza effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro del Lavoro nell'aprile del 1974- su proposta e sollecitazione del prof Maltoni- aveva emanato una raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL come valore di riferimento tendenziale. E solo con la direttiva CEE n° 610/78  recepita con DPR n°962/82 i valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.

 

Passa quindi in rassegna il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali in materia e la loro valutazione scientifica in primo della IARC cui hanno fatto principalmente riferimento i consulenti del P.M., ma poi attestandosi sui successivi studi epidemiologici che mettevano in discussione le comclusioni di IARC 1987.Si ricorda come IARC avesse effettuato tre diverse valutazioni della cancerogenità del CVM , nel 1974, nel 1979 e nel 1987 e tale sostanza è stata oggetto anche di rapporti interni  nel 1975 e nel 1989 e le conclusioni di ques’ultimo anticipano i risultati dello studio epidemiologico multicentrico europeo del 1991 coordinato dal dott. Simionato al quale, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, è sopravvenuto l'aggiornamento curato da Ward nel 2000 e di cui ha riferito in aula il dott . Boffetta che ne è coautore.

 

La monografia del 1974 prende in esame, ai fini della valutazione del rischio  cancerogeno nell'uomo, i risultati delle sperimentazioni di Maltoni  e di Viola cui si è già fatto riferimento. Riferisce che la prima associazione tra esposizione al c v m  e lo sviluppo del cancro  è stata avanzata da Creech e Jonnshon nel 1974 che avevano osservato tre casi di angiosarcoma del fegato in operai che lavoravano a contatto con questa sostanza (si tratta dei  lavoratori dellaGoodrich).

 Riferisce  inoltre che dall'esame dei registri medici e da una analisi del materiale patologico erano stati scoperti altri dieci  angiosarcomi in lavoratori addetti alla lavorazione del c v m e il tempo intercorso tra la prima esposizione e la diagnosi del tumore andava dai 12 ai 29 anni e la durata complessiva dell'attività aveva comportato una esposizione di 18 anni (Heath e altri 1974). Precisa inoltre che nello stesso stabilimento erano stati accertati 48 casi di malattie del fegato non maligni  in esposti mediamente da oltre vent'anni e che dalla biopsia era stata riscontrata una fibrosi portale e noduli della fibrosi subcapsulare.

Altri studi  avevano accertato, tra la metà e la fine degli anni ‘60 l'insorgere di  acrosteolisi generalmente localizzata nelle falangi distali delle mani negli addetti alla pulizia delle autoclavi. Nei lavoratori addetti a tali mansioni, i più esposti alle alte concentrazioni, in uno stabilimento per la produzione di PVC in Germania, sottoposti a test di funzionalità epatica e a esame istologico dei frammenti di biopsia epatica, è stata rilevata splenomegalia , epatomegalia  e fibrosi portale ovvero fibrosi della capsula del fegato . Sulla base di tali dati - che erano quelli conosciuti alla data del 26 giugno1974 - la valutazione dell'agenzia era la seguente: “considerata l'estrema rarità dell’angiosarcoma del fegato nella popolazione comune, il riscontro di 16 casi in lavoratori esposti al c v m prova che c'è una relazione causale".

 

In conclusione la prima valutazione sulla base dei pochi dati sperimentali e della scarsa casistica di osservazione sull'uomo indicava una relazione causale tra l'esposizione al c v m e l’angiosarcoma epatico e la presenza di  fibrosi portale e subcapsulare ; infine individuava  l‘insorgere di acrosteolisi nei lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi. 

 

La successiva monografia pubblicata nel febbraio del 1979, sulla base di ulteriori ricerche sperimentali e, in particolare, di studi epidemiologici, così concludeva per quanto riguarda i risultati sperimentali in topi, ratti e criceti: " il cloruro di vinile si rivelava cancerogeno in tutte e tre le specie e produceva tumori in vari siti compreso l’angiosarcoma del fegato...... È stata dimostrata la relazione dose –risposta”. Per quanto concerne l'uomo si affermava che " i vari studi tra loro indipendenti, ma i cui  risultati  si confermavano a vicenda, hanno dimostrato che l'esposizione al cloruro di vinile comporta un aumento del rischio cancerogeno negli umani riguardante il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico". 

 

Si concludeva pertanto per la cancerogenità del c v m per l'uomo indicando quali organi preferiti il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico. Per quanto riguarda l'effetto dose-risposta si affermava che "nonostante  dai gruppi di lavoratori esposti ad alte dosi di c v m si sia avuta la prova della cancerogenità del c v m per l'uomo, tuttavia non si ha la prova del fatto che esiste un livello di esposizione al di sotto del quale non si verifichi un incremento del rischio di cancro nell'uomo". Si affermava infine che gli studi esistenti sul p v c non erano sufficienti a stabilire la cancerogenità di tale composto.

 

Con la valutazione del 1987 si afferma che in un gran numero di studi gli epidemiologici hanno comprovato il rapporto causale esistente tra il cloruro di vinile e l'angiosarcoma del fegato . Numerosi studi inoltre confermano che l'esposizione al cloruro di vinile causa altre forme di cancro e cioè il carcinoma epatocellulare, tumori al cervello, tumori al polmone e tumori del sistema linfatico- ematopoietico. Si afferma inoltre che in uno studio (Waxvejler) l'esposizione alla polvere di PVC è stata associata  all'aumento della incidenza del tumore al polmone e gli autori hanno pensato  che il responsabile fosse il c v m intrappolato. 

Peraltro l'agenzia continua a classificare il PVC nel gruppo 3 per la inadeguata evidenza di cancerogenità sia per l'uomo che per gli animali da esperimento.

 

Osserva peraltro il Tribunale come tali conclusioni di IARC 1987, alle quali i consulenti medico-legali della accusa si sarebbero principalmente riferiti ai fini di ritenere le patologie discusse correlabili o meno con l'esposizione a  c v m o PVC, siano state poste in discussione  dagli studi epidemiologici successivi. In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999).

 

Nell’analizzare tali studi il tribunale ricorda come nel primo si fosse concluso che non sussiste alcuna associazione tra esposizione a cvm e i tre organi bersaglio diversi dal fegato (polmone, cervello, sistema linfatico), mentre per il cancro del fegato l’analisi basata sulle variabili temporali ha rivelato eccessi statisticamente rilevanti nel periodo di assunzione 1945 - 1954 e 1955- 1964 mentre è stata osservata una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni ‘60 e nei primi anni '70 anche se viene precisato che il tempo di osservazione è troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente.

 

La mortalità da cancro del fegato, secondo il tipo di lavoro, distingue i lavoratori addetti all'autoclave fra i " sempre " e gli " altri " e dimostra che l'aumento del rischio è concentrato fra coloro che hanno lavorato all'autoclave in ogni momento  (" sempre"). Ma si evidenziava altresì che per i lavoratori con 15 o più anni dalla prima esposizione (15 anni di latenza) un aumento del rischio statisticamente significativo compare anche per quelli classificati come " altri ". Onde l’'analisi dei decessi da cancro del fegato basata sulla esposizione cumulativa rivela un rischio crescente con l'aumento dell'esposizione e con una consistente relazione esposizione – risposta, e per tutti i decessi da cancro al fegato la latenza varia da 16 a 33 anni con una media di 24 anni mentre la durata media dell'esposizione è di 18 anni (da 16 a 33 anni).

 

In proposito riteneva il Tribunale importante rilevare che l'anno di assunzione e' soprattutto ricompreso nell'ambito degli anni anni 50 (solo 6 negli anni 60 e 2 negli anni 40); e che veniva rilevata una tendenza verso una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni ’60 e nei primi anni ’70, sebbene si precisi che il tempo di assunzione era ancora troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente. Inoltre sono molto chiare le relazioni esposizione - risposta fra l'esposizione cumulativa al c v m e rischio di cancro del fegato e  angiosarcomi. Distinguendo, invece, l' angiosarcoma dalle altre neoplasie del fegato il rapporto di queste ultime era pressoché sovrapponibile all'atteso.

 

Questa osservazione assume, secondo il Tribunale, particolare rilievo nella controversa discussione in ordine alla associazione cvm-epatocarcinoma, e si ricorda che nelle considerazioni conclusive si afferma che i risultati dello studio confermano l'associazione fra cancro del fegato e l'esposizione al c v m: l'eccesso di mortalità-quasi il triplo con 24 osservati e 8.4 attesi (RSM 2,86)- è associato con la durata dell'impiego e con il livello delle esposizioni e i risultati sono rafforzati dalle analisi di regressione che indicano che il rischio di cancro del fegato dipende significativamente dall'esposizione cumulativa e dagli anni trascorsi dalla prima esposizione.

 

Si osserva poi come l'aggiornamento dello studio multicentrico europeo (di Ward - Boffetta e altri 2000).ha esteso per gli anni 90 l'accertamento dello stato in vita dei lavoratori di 17 delle 19 aziende incluse nello studio: l'aggiornamento della mortalità e dell'incidenza varia dall'anno 1993 all'anno 1997. ed è stata pressochè identica a quella attesa (RSM 0,99), leggermente inferiore a quella dello studio precedente.  Nessun angiosarcoma si è verificato tra gli operai assunti dopo il 1973 e non si era verificato alcun decesso per cancro del fegato prima che fossero trascorsi 15 anni dalla prima esposizione.

 

Inoltre, neppure nel predetto aggiornamento della corte europea si  è rilevata alcuna associazione tra esposizione al c v m e mortalità per cancro del polmone, sottolineandosi tuttavia che quando le analisi vengono ristrette a quei soggetti che avevano soltanto ricoperto mansioni relative all'insacco si nota un trend significativo per il cancro del polmone con l 'aumentare dell'esposizione cumulativa al cvm. Si aggiunge che lo studio non ha rilevato prove di un aumento di mortalità dovuta a tutte le malattie del sistema respiratorio (pneumoconiosi, bronchite, enfisema, asma) e  neppure alcuna indicazione di un aumento di mortalità per malattie respiratorie più specificamente tra i lavoratori addetti all' insacco o al miscelamento ancorché si precisi che tali risultati non contraddicono studi incrociati (Mastrangelo e altri) poiché è possibile che gli effetti respiratori dell'esposizione e al c v m o alla polvere di PVC non conducano alla morte.

 

Così, ancora nell’aggiornamento Ward, neppure si presenta un eccesso statisticamente significativo di cancro al cervello, ed altrettanto si conclude per i tumori del sistema emolinfopoietico.

 

Si analizzano poi gli studi della coorte USA, in particolare Wong -1991; Mundt -2000). L'aggiornamento di Mundt, più informativo, individua l'esistenza di una associazione tra esposizione a cvm e aumentata insorgenza di tumori del fegato; indica la insussistenza di una associazione tra esposizione a c v m e insorgenza di tumori del polmone.

 

Nel commentare i risultati dello studio, gli autori affermano che le cause di morte per tumore già segnalate non sono risultate in eccesso e tra di esse il tumore del polmone e i tumori emolinfopoietici e altresì le malattie respiratorie quale enfisema e pneumoconiosi. Viene inoltre precisato che l'associazione tra esposizione a cloruro di vinile e tumore del polmone  non ha trovato alcuna evidenza e pertanto non è suggerito neppure un piccolo rischio. Per il tumore al cervello si afferma che la associazione è incerta perché le elevate età al primo impiego nell'industria del c v m suggeriscono che i lavoratori potrebbero avere avuto rilevanti esposizioni ad altri cancerogeni prima dell'esposizione al cvm.

Si afferma in conclusione che lo studio ha confermato una forte associazione tra durata dell'esposizione lavorativa prima del 1974 e tumori del fegato per la gran parte dovuta  ad un grande eccesso di angiosarcomi.

 

Richiama poi il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali che hanno affrontato il problema della eventuale associazione tra esposizione a PVC e insorgenza di tumori, in particolare all'apparato respiratorio e al polmone, nei lavoratori che abbiano svolto sempre o prevalentemente la mansione di insaccattori, studi che in conclusione ritiene indichino che il  p v c ha una scarsa o assente attività biologica e la sua presenza fisica nei polmoni produce pneumoconiosi benigne.

 

Partendo dall'ipotesi che l'esposizione a polvere di PVC possa dar luogo a una aumentata insorgenza di tumori del polmone, avanzata da Waxweiler (1981) che suggeriva l'idea che l'eccesso osservato fosse da attribuire non tanto alla polvere di PVC bensì al c v m intrappolato nella polvere, il tribunale richiama i successivi non confermativi studi di Storevedt-Heldaas che riscontra un eccesso solo apparente, di Jones ( 1987) che indica un chiaro difetto per la mansione di insaccattore, di Wu (1989), che esamina la stessa corte di Waxweiler (quattro impianti di polimerizzazione in attività da almeno 15 anni in uno stabilimento di sintesi di sostanze chimiche con un totale di 3635 rispetto ai 1294 lavoratori precedentemente considerati con almeno cinque anni di esposizione e dieci anni di latenza in aree e mansioni con esposizione a c v m nel periodo 1942-1973, e che non accerta nessun eccesso escludendo ogni relazione tra esposizione a polveri di PVC e tumore del polmone; di Comba- Pirastu e Chellini in cui viene invece evidenziato un eccesso per la mansione di insaccattori, peraltro con un andamento per latenza decrescente contrario, secondo il Tribunale, ad una spiegazione di natura eziologica d’altra parte non avvalorata neppure dalle sperimentazioni.

 

Si ricorda poi che in particolare sugli insaccattori di Porto Marghera sono stati condotti  tre studi: una analisi di mortalità degli insaccattori dipendenti di Montedison Enichem, una analisi di mortalità degli insaccattori appartenenti a cooperative esterne che hanno lavorato in appalto e infine su questi lavoratori è stato condotto uno studio di prevalenza sulla morbilità  (Chellini), peraltro subito ponendosi in rilievo alcuni aspetti che hanno incontrato le maggiori critiche: da un lato la scarsa informatività di detti studi per la esiguità delle sottocoorti (208 insaccattori dipendenti e 272 appartenenti alle cooperative) e dall'altro l'inaccettabilità di una analisi congiunta delle due categorie di insaccattori stante l'assenza di omogeneità dei selezionati e per di più l'età media elevata di ingresso al lavoro degli appartenenti alle cooperative e lo svolgimento di attività plurime con possibili differenti esposizioni.

E comunque i rapporti di mortalità, presenterebbero un andamento di relazione inversa tra la durata della latenza e l'insorgenza del tumore che, come detto nei precedenti studi già commentati, depone per l'insussistenza di una associazione. Lo studio di prevalenza della dottoressa Chellini ha incontrato critiche ancor più radicali inquantoche' non era stata effettuata alcuna validazione sulla qualità dei dati anamnestici  raccolti, posto che  le patologie riportate nelle schede fanno riferimento a malattie diagnosticate nell'arco della vita, e pertanto non sono correlate alla attività svolta in qualità di insaccatori, venendo così a mancare la garanzia dell'antecedenza tra esposizione e malattia.

 

In questi studi comunque, si afferma che: per quanto riguarda il tumore epatico (sia esso angiosarcoma o epatcarcinoma) la mortalità ha superato significativamente quella attesa particolarmente fra gli addetti alle autoclavi e da questa osservazione si trae la conseguenza che sia di natura causale anche la relazione fra esposizione a cvm e epatocarcinoma: tale relazione sarebbe anche plausibile sul piano biologico e sostenuta da una considerazione di tipo analogico inquantoche' i due altri agenti conosciuti che inducono  angiosarcomi epatici (arsenico e thorotrast) causano anche essi carcinomi epatici (Popper 1978 ).

 

Per quanto riguarda la mortalità per tumore polmonare si è osservato un incremento significativo fra gli insaccattori in considerazione dell'intensità dell'esposizione a c v m , in particolare fra il 1950 e  il 1970 (non meno di 50 ppm) e tenuto conto che nell'attività dell'insacco del PVC si era in presenza di elevati livelli di polverosità (in proposito si citano gli autori di studi che hanno descritto casi di pneumoconiosi insorti in soggetti esposti a polveri di PVC e tra questi lo studio di Mastrangelo).

 

Per quanto riguarda gli altri tumori  che secondo IARC 1987 sarebbero ricollegabili all'esposizione a c v m si osserva che nella corte Montedison Enichem di Porto Marghera sono stati individuati due casi di tumore dell'encefalo (SMR 77) e 9 tumori del sistema emolinfopoietico (SMR 134): si riconosce peraltro la ignota eziologia dei tumori cerebrali che anche gli studi epidemiologici più ampi non sono stati in grado di ricollegare a specifiche esposizioni; si riconosce altresì che la categoria dei tumori del sistema emolinfopoietico comprende entità che hanno caratteristiche nosologiche assai diverse per le quali sono diversi anche i fattori di rischio ipotizzati.

Si afferma conclusivamente che i risultati relativi a questi due tipi di tumore devono essere considerati tenendo conto dell'esiguità numerica delle osservazioni e delle conoscenze disponibili sulla eziologia.

 

I suddetti dati sarebbero poi sostanzialmente confermati dalla memoria depositata dai consulenti epidemiologici del pubblico ministero contenente un aggiornamento della mortalità al 31 luglio 1999, peraltro non sottoposto al contraddittorio dibattimentale e comunque esaminata e utilizzata dal Tribunale come un approfondimento, proveniente dalla pubblica accusa, degli studi precedenti. In particolare, sulla base dell' incremento nel numero di decessi per tumore epatico primitivo accertato nella coorte di Porto Marghera alla data del luglio 1999 si ribadisce con questo ulteriore elemento la sussistenza di un eccesso di tumori epatici diversi dall' angiosarcoma, sia con riguardo ai lavoratori della coorte nel suo complesso che in maniera ancora più evidente tra coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti che notoriamente sono stati esposti alle concentrazioni più elevate. E così sarebbe stato rilevato un eccesso di tumori polmonari nell'ambito della coorte, con specifico riferimento alla mansione di insaccattore esposto alle polveri di PVC.

 

Circa i fattori di confondimento, sia rispetto ai tumori epatici che a quelli polmonari, i consulenti del pubblico ministero, facendo ricorso ad un raffronto tra i lavoratori della coorte e i lavoratori di altri settori (municipalizzata di igiene urbana e amministrazione provinciale di Venezia) per quanto riguarda la propensione a bere alcolici e individuando nei primi stime più basse dei consumi alcolici,  affermano che l'assunzione di alcol  non  poteva spiegare l'incremento di mortalità rilevato per tumori epatici diversi dall’angiosarcoma sia nella coorte complessiva e sia, a maggior ragione, nella categoria degli autoclavisti.

 

Per quanto riguarda il fumo si è fatto invece riferimento alla percentuale di fumatori nella popolazione italiana (tra il 53 e 75%)  che si stimava mediamente uguale a quella presente tra gli insaccattori e si concludeva che gli incrementi di mortalità in tali categorie per tumore del polmone non era spiegabile con l'abitudine al fumo.

 

Sempre con specifico riferimento ai lavoratori della corte di Porto Marghera, il professor Diego Martines, consulente del pubblico ministero, ha presentato uno studio caso- controllo sui lavoratori affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica, e epatopatia cronica.

 

Sulla scorta dei dati rilevati e riportati in tabella si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.

 

Per quanto riguarda gli epatocarcinomi nella tabella numero 4 il consulente rileva 13 casi nella categoria ad alta esposizione 1 caso nella categoria a media esposizione e 2 per casi nella categoria a bassa esposizione. Peraltro per tutti i 3 casi delle categorie bassa e media esposizione la riferibilità all'esposizione professionale dell'epatocarcinoma e' messa in dubbio dallo stesso consulente. I 13 casi di epatocarcinomi ad alta esposizione presentano un tempo di latenza medio dalla prima esposizione pari a 31 anni (range 22 - 42) e la prima esposizione in tutti questi pazienti si è verificata in un arco ristretto di tempo compreso tra i 1952 e il 1961. 

Due pertanto le conclusioni da trarre: tutti i casi  di angiosarcoma e di epatocarcinoma della coorte di Porto Marghera riguardano soggetti esposti ad alte esposizioni e il tempo di calendario è tra gli anni '50 e '60.

 

Nelle successive precisazioni a seguito dell’osservazione  dei consulenti della difesa secondo i quali dalle stesse suddette conclusioni emergeva la presenza di una soglia di fatto del rischio, sosteneva il consulente che l'insorgenza di angiosarcoma  anche dopo esposizioni limitate a c v m veniva ad escludere in linea generale la presenza di una soglia nell'azione del cloruro di vinile sia per la diversa suscettibilità individuale (genetico e biochimica) al c v m sia per l'azione tossica sinergica dell'alcol e del cloruro di vinile, in quanto la responsabilità del consumo di alcol e dei virus B e C  nel determinare la cirrosi epatica e l’epatocarcinoma andava valutata in uno con l’eventuale effetto aggiuntivo o primario dell'esposizione al c v m.

 

Si insisteva dunque nell’affermare che l'esposizione al c v m è in grado di stimolare la fibrogenesi conseguente al danno epatocellulare provocato dai fattori eziologici extralavorativi, quali alcool o i virus B e C , e di innescare e accelerare tutti quegli eventi che portano alla cirrosi, agendo in tal caso come fattore concausale.

 

Ricorda poi il Tribunale gli studi caso-controllo dei consulenti dell’accusa privata, professor Gennaro e professor Mastrangelo, volti all’approfondimento della relazione tra mortalità per tumore polmonare ed esposizione alle polveri di PVC.

In particolare Mastrangelo, sulla scorta dei dati analizzati e delle valutazioni peraltro analiticamente criticate dai consulenti della difesa, afferma che il fumo non rappresenta un fattore di confondimento nella associazione tra esposizioni a polveri di PVC e rischio di cancro polmonare inquantoché, pur essendo il fumo di tabacco una causa di cancro polmonare, esso non è risultato correlato con le esposizioni a polveri di PVC nella popolazione in studio, e si ribadisce il concetto della concausalità sostenendosi che,  anche se tutti i casi esaminati (eccetto uno) erano fumatori e anche se qualcuno di loro era stato esposto ad altri cancerogeni polmonari prima di lavorare come insaccatore di PVC a Porto Marghera, la responsabilità della esposizione a polvere di PVC rimane comunque per il fatto che la sostanza attiva il penultimo stadio della cancerogenesi, sicché sarebbe pur sempre un agente concausale.

Ricorda al riguardo il Tribunale come il professor Mastrangelo, nelle precisazioni che ha ritenuto di fare per iscritto rispetto alle contestazioni cui è stato sottoposto in sede di controesame dai difensori degli imputati, evidenzia il suo assunto nel modo seguente: entrambe le sostanze (c v m ePVC) sono cancerogene e la seconda può veicolare la prima; entrambe provocano la fibrosi polmonare che può indurre a un eccesso di cancro polmonare.

Si ricordano altresì le obiezioni dei consulenti della difesa: non solo il prof. Mastrangelo ha proposto proprie ipotesi non convalidate scientificamente e ha mosso critiche infondate agli studi epidemiologici che non evidenziano eccessi significativi di tumore polmonare associato a cvm/PVC, ma la sua ipotesi principale si basa su premesse destituite di ogni fondamento, in quanto si osserva che il PVC non è di per sé considerato una sostanza cancerogena , posto che lo IARC lo classifica nel gruppo 3 proprio per la inadeguata evidenza di cancerogenità per l'uomo e per l'animale da esperimento, e ancora meno è dimostrato che esso possa indurre fibrosi polmonare, sicché non può condividersi che la causa di eccessi di tumore al polmone possa essere il PVC.

 

Passando alla problematica del rischio da esposizione, il Tribunale ha ricordato come accusa pubblica e privata hanno sottoposto all’attenzione del collegio valutazioni di rischio sulla base di modelli matematici. Al riguardo si evidenzia che: l' E P A ha divulgato due diverse stime di rischio per l'esposizione a c v m: la prima nel 1994 e la seconda nel 2000 in cui il rischio è stato stimato di dieci volte più basso rispetto alla stima precedente.

Si osserva però che le valutazioni dell‘EPA non intendono stabilire il rischio effettivo o le conseguenze sulla salute per le persone, ma piuttosto sui rischi potenziali utilizzando i dati sperimentali sugli animali, ma anche opzioni di default mediante metodologie matematiche di estrapolazione lineare alle basse dosi per i cancerogeni oppure estrapolazioni non lineari (e cioè modelli matematici che ammettono una soglia) per le sostanze non genotossiche, per cui, essendo il cvm considerato genotossico  la risposta e il rischio sono nulli solo per una dose nulla; egualmente l’Unione Europea e l’Organizzazione mondiale della sanità assumono esplicitamente il principio di assenza di soglie per i cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale ha  assunto identica posizione.

 

La ragione fondamentale della assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la relazione tra formazioni di addotti e dose  di regola è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva incontri il punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole presenti. Un ulteriore argomento, basato su semplici criteri matematici, è quello che in presenza di un'esposizione di fondo a cancerogeni, una ulteriore piccola  esposizione si andrà a collocare nel tratto lineare della relazione dose- risposta.

 

Ma l’OMS stima il rischio cancerogeno anche sulla base di dati  epidemiologici e a tal fine utilizza il parametro della rischio relativo (RR) definito come il rapporto tra il numero di casi osservato e atteso nella popolazione esposta; diversamente il centro tossicologico e ecotossilogico europeo dell'industria chimica (ECETOC 1998), nel rapporto dedicato al cloruro di vinile, nelle sue conclusioni, specifica che "sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli sicuri di esposizione per i cancerogeni genotossici, l'evidenza presentata in questo rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai livelli correnti nel rispetto del limite di 3 ppm  comporti rischi significativi per la salute "; il professor Zapponi, consulente tecnico dell'accusa privata Presidenza del Consiglio e Ministero dell'Ambiente, partendo dalla premessa che non può essere identificata una soglia per i cancerogeni genotossici non essendo possibile definire un livello senza effetto,  passa in rassegna le principali stime,  su dati epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio cancerogeno per il c v m, e nelle considerazioni conclusive trae una prima considerazione: che queste valutazioni di rischio, pur operate da autori diversi e pur considerando che le diverse stime si basano su diverse categorie di dati (epidemiologici e sperimentali), pur tuttavia pervengono a risultati molto simili.

 

L'indicazione che se ne trae è che una esposizione  lavorativa presumibilmente priva di un rischio significativo dovrebbe andarsi a collocare a livelli di frazione relativamente piccole di 1 ppm e l'uso del modello a soglia, pur in presenza di un cancerogeno genotossico, ha portato a stime di livelli di esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono valori di un ordine di grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni di rischio che assumono l'assenza di soglia;il consiglio nazionale delle ricerche degli Stati Uniti (NCR), cui è stato chiesto dal congresso americano di valutare l'operato dell' EPA per quanto attiene la valutazione del rischio, ne ha innanzitutto individuato l'ambito di applicazione, assumendo che "le stime del rischio ottenute non sono stime scientifiche del vero rischio di tumore ma sono utili ai regolatori per stabilire delle priorità di intervento": si tratta cioè di stime estremamente conservative che ricomprendono opzioni inevitabilmente politiche di protezione della salute pubblica.

Si evidenzia conseguentemente che le scelte politiche portano a opzione di default utilizzate ai fini di aggirare il problema dell'incertezza sui seguenti problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di dati scientifici che correlino in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze chimiche con i rischi per la salute; 2) divergenze di opinioni all'interno della comunità scientifica sul livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza di una conformità nel riportare i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei risultati prodotti dai modelli teorici.

 

E così, ogni qualvolta il procedimento di valutazione del rischio  si scontra con elementi in cui il livello di conoscenza scientifica può risultare incompleto, problematico, discordante, non convincente, è necessario far ricorso a congetture e semplificazioni, assumendo per l'appunto opzioni di default di cui le più importanti sono: 

1) gli animali da laboratorio sono un surrogato per gli esseri umani nella valutazione del rischio dei tumori e i risultati positivi negli esperimenti sono presi come evidenza della capacità di una sostanza chimica di causare il tumore negli uomini; 

2)  gli esseri umani sono sensibili come le più sensibili specie animali; 

3) gli agenti che risultano positivi negli esperimenti a lungo termine sugli animali e che mostrano anche evidenza di attività promovente devono essere considerati cancerogeni completi; 

4) anche una sola molecola della sostanza chimica ha associata una probabilità di indurre tumori che può essere calcolata mediante il modello linearizzato multistadio.

 

Osserva dunque il Tribunale che in realtà nella comunità scientifica e' messo in discussione soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi; ed in proposito si ricorda l’affermazione di un ricercatore di biologia molecolare (Ames) secondo la quale "vi sono sempre più prove che la scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così aumentando in tal modo il rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli studi di Swemberg secondo cui a seguito delle sperimentazioni a basse dosi effettuate "esiste la prova che bassi livelli di esposizione non sono cancerogeni né per gli uomini né per i roditori".

 

Onde nella comunità scientifica si propone una valutazione realistica del rischio che superi il postulato ritenuto estremo e irrazionale che "nessuna dose è sicura" proprio alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere affetto da angiosarcoma, così da far ritenere che  le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente protettive ( Storm-1997). 

 

In conclusione secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che stanno alla base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni di default, che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati cui è pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati a fini precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni sull’uomo.

Ad analoghe conclusioni di incertezza a livello scientifico ai fini di utilizzo nell’accertamento probatorio del nesso causale, perviene il Tribunale, dopo avere analiticamente esaminato le posizioni dei consulenti dell’accusa e della difesa e gli specifici studi della comunità scientifica internazionale, in ordine al tema dei meccanismi molecolari e della carcinogenesi, sia relativamente alla problematica della soglia che alla problematica degli organi bersaglio.

Quanto alla soglia, rimarca inoltre il Tribunale i risultati dello studio di Storm e Rozman ( 1997) che ha esaminato 80 mila lavoratori esposti ai bassi livelli dopo il 1968 negli Stati Uniti e dopo il 1972 in Europa e non ha osservato alcun angiosarcoma, e che conclude ammettendo l'esistenza di una soglia che resta avvalorata dalla considerazione delle informazioni derivanti dagli studi epidemiologici e dagli stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui risulta per l'appunto che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun angiosarcoma nei lavoratori esposti per la prima volta al c v m a partire dal 1968, pervenendo gli autori alla conclusione che la riduzione delle esposizioni entro il range e 0. 5 - 5 ppm possa ritenersi adeguatamente  protettiva.

Gli autori mettono anche in discussione l'ipotesi di default che l'uomo abbia una suscettibilità alla angiosarcoma indotto da c v m pari a quella dei ratti esposti: infatti non solo l'uomo sarebbe meno sensibile dei ratti ai cancerogeni genetici in generale a causa della durata di vita più lunga, della minore velocità del suo metabolismo basale e delle maggiori capacità di riparazione del DNA, ma anche perché dai risultati sperimentali è stata osservata un'incidenza di angiosarcomi tra i ratti almeno 100 volte superiore rispetto all'uomo esposto al c v m e nell'ambiente di lavoro.

 

Da parte del Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere compatibili con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi dell'assenza di soglia e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a quella degli animali non hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati che possono avere validità in un ambito prettamente precauzionale, ma sono smentiti dall’osservazione scientifica, potendosi concludere pertanto che i risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali proprio perché convergenti  hanno una loro rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che peraltro dagli studi analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le basse dosi vigenti successivamente alla oncogenità del c v m abbiano avuto un qualsiasi effetto su incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.

 

Comunque, sulla base delle opinioni espresse  dai consulenti delle parti e dell'ampia letteratura cui hanno fatto riferimento, il tribunale rileva come gli approdi scientifici siano ancora parziali e non sempre coerenti con le ipotesi assunte, sicchè appare difficile poter affermare che si siano raggiunti risultati di conoscenza in base ai quali poter affermare che sussiste un meccanismo specifico di azione del cvm nella causazione dei tumori.

 

Si evidenzia al riguardo che l' oncogenesi è una scienza in rapida evoluzione, come e' messo in rilievo dai risultati degli studi sperimentali o  osservazionali sopra riferiti, e non sempre i protocolli sperimentali sono basati su modelli comuni. E' ancora in discussione il modello di cancerogenesi, e cioè se si tratta di un processo multistadio in cui un numero pur limitato di alterazioni genetiche sia alla base dell'insorgenza del tumore ovvero una più ampia instabilità genetica che determinerebbe la mutazione di una gran parte dei geni a seguito di un difetto dei sistemi di riparazione del DNA che favoriscono l'instabilità del genoma: già queste due contrapposte o divergenti teorie rendono problematico stabilire la rilevanza, pur osservata, di mutazioni ai geni p53 e k-ras ai fini della causazione del tumore, affermandosi da questa ultima teoria che la loro mutazione non sarebbe che la conseguenza delle alterazioni della struttura del DNA causate dalla instabilità genetica.

 

Per quel che riguarda il cloruro di vinile la stessa esistenza di un meccanismo d'azione specifico di tale sostanza è affermato dai consulenti dell'accusa ma al tempo stesso dagli stessi viene ammesso che "i dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità specifica che permetterebbe di identificare l'azione del cloruro di vinile". E d’altra parte la stessa relazione EPA (2000) manifesta (pag 52 e seguenti) problematicità al riguardo, circostanza che non può non lasciare intendere quale sia lo stato delle conoscenze ancora incerte e passibili di falsificazioni nel loro progredire.

Peraltro ritiene il Tribunale non si possa negare il dato di fatto che il cvm è cancerogeno, anche se non si conoscono i particolari del suo percorso genotossico di cui emergono sperimentalmente in via ipotetica alcuni tratti pur significativi: il cvm si metabolizza nel metabolita reattivo "presumibilmente il CEO" che "diversi indizi indicano come genotossico in quanto interagisce direttamente con il DNA" (in tal senso il citato rapporto EPA a pagg.48-59).

E, quanto agli organi bersaglio, se ne rileva, sulla scorta degli studi esaminati che lo hanno evidenziato, maggior incidenza e specificità negli angiosarcomi di animali inalati e di lavoratori esposti a cvm. Tale maggior incidenza non è stata invece individuata in altri organi (polmone e cervello) attraverso studi metodologicamente corretti, condivisi e reiterati. Si ricorda al riguardo che le mutazioni a p53 sono state osservate sia in lavoratori esposti che non esposti pressochè in pari percentuale affetti da epatocarcinoma e comunque tali mutazioni non solo non sono specifiche ma "possono riflettere meccanismi endogeni piuttosto che essere indotte da cancerogeni esogeni"(Weihrauch).

 

Osserva poi il Tribunale come la  tesi accusatoria si sviluppi ulteriormente deducendo l’ipotesi della concausalità, a tal fine sostenendo la potenzialità dell'alcol di interagire con il cvm. Sulla scorta delle critiche dei consulenti della difesa, metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse dinamiche del processo metabolico del cvm e dell'alcol si ritiene però che non sussistano dati scientifici su cui solidamente basare l'esistenza della asserita interazione tra etanolo e cvm e, anzi, l'analisi delle reazioni metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere improbabile l'interazione suggerita dai consulenti del pubblico ministero che non hanno dimostrato come verrebbero a determinarsi gli effetti sinergici tra le due sostanze.

 

Sulla scorta dei dati e studi di cui sopra, il Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei fatti di cui in imputazione, premettendo brevi cenni sulle note teorie della causalità, che riteneva necessari perché nel processo che ci occupa vi sarebbe stata la insistita tendenza a sostituire il modello classico di causalità con la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, oltretutto senza preoccuparsi di verificare tutti gli apporti scientifici e forzando i passaggi con ipotesi di default o presunzioni o assimilazioni e, soprattutto, trascurando di verificare la effettiva incidenza della sostanza sul singolo caso. Impostazione che, secondo il Tribunale, non può trovare consenso posto che, in via di principio, la causalità generale non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l'idoneità della sostanza a causarla.

 

Si afferma infatti che tra gli stessi epidemiologi vi è largo consenso nel ritenere che i loro studi, che riguardano popolazioni generali e si propongono scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non sono in grado di spiegare la causalità specifica e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.

Anche perché gli studi epidemiologici non si basano su un censimento di casi provatamente causati dall'esposizione a sostanze tossiche (soprattutto quando la pluralità dei casi dipende da una pluralità di fattori eziologici), ma solo di differenze tra i casi osservati e i casi attesi: in tale ambito la causalità generale ha un significato ancor più circoscritto nei confini di tale scienza e indica più propriamente un eccesso di rischio senza costituire in sé una prova della idoneità della sostanza a provocare la malattia.

 

E' per questa ragione che non c'è alcuna possibilità di distinguere tra i casi esposti chi non si sarebbe ammalato in assenza di esposizione e chi invece si sarebbe ammalato egualmente. Infatti, salvo rari casi (tra cui rientra oltre che il mesotelioma da asbesto,  l'angiosarcoma per esposizione a c v m) le neoplasie professionali non hanno carattere di specificità e non sono distinguibili  neppure istologicamente sotto il profilo  morfologico da quelle extra professionali.

Si ritiene dunque che l'incertezza domina sul caso singolo proprio perché la quasi generalità dei tumori ha cause in elevatissima percentuale extraprofessionali ignote e gli scienziati non hanno ancora compreso appieno il modello molecolare nella carcinogenesi e formulano pertanto ipotesi per cui qualsiasi dichiarazione riguardo al ruolo di qualsivoglia agente in quanto cancerogeno trova un limite nella sua ipoteticità. E si richiamano concetti espressi da epidemiologici e dalla stessa EPA nonché studi soprattutto negli USA che hanno messo in rilievo che solo una piccolissima parte dei tumori è in realtà ricollegabile all'attività industriale (dall'1 al 3% secondo l'agenzia) mentre la percentuale residua è dovuta a cause diverse, cioè all'esposizione a inquinanti diffusi nell'ambiente o all'ingestione di inquinanti che passano nella catena alimentare il cui uso è normalmente consentito. Ricordandosi altresì che  gli stessi consulenti della accusa pubblica e privata hanno concordemente affermato che lo studio epidemiologico non può bastare perché suggerisce inferenze  eziologiche senza però poterle dimostrare in rapporto ai singoli individui.

 

Se dunque la causalità in epidemiologia, anche quando affermata dalle agenzie, non solo riguarda sempre e solo il livello di popolazione e non del singolo, ma può essere soddisfatta da evidenze scientifiche ancora deboli e incerte dovendo assolvere a finalità precauzionali, sarebbe errato affidarsi, ai fini di ritenere assolto ogni compito accertativo della causalità generale, alle valutazioni e alle enunciazioni delle stesse: eppure i consulenti medico legali dell'accusa pubblica e privata hanno assunto come dato indiscusso proprio le indicazioni di IARC 1987, senza neppure tenere conto degli studi successivi e in particolare degli aggiornamenti del 1991 e del 2000 illustrati in aula dai loro coautori dott.Simonato e dott.Boffetta.

Diverso invece l’approccio, in quanto, una volta chiarito il contributo che l'epidemiologia, attraverso il calcolo del rischio attribuibile, può dare alla soluzione del problema, la sussistenza del nesso causale per l’attribuzione del fatto contestato va argomentata giuridicamente considerando tutte le implicazioni e considerazioni  che vanno ben oltre quelle epidemiologiche, e decisa dal giudice sulla scorta dei principi di diritto ai quali il Tribunale si ispira enucleandoli dopo excursus anche relativo alla giurisprudenza e dottrina americana che ben metterebbero in rilievo, pur nell'ambito del processo civile, le spinte che tendono a superare il modello meccanicistico di causalità evocate dallo stesso P.M.: l'esigenza di una tutela delle vittime, dei beni della salute e della vita umana.

 

Osserva il Tribunale che seppur detti beni devono essere tenuti senz'altro in alta considerazione, e seppur queste sono le motivazioni più o meno esplicite che spingono a orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale (e si cita S.C 12/7/91 -sez 4° cui si rifà il P.M.), neppure bisogna trascurare che nell'ambito del processo penale vi sono altri beni da tutelare che sono quelli della responsabilità personale e della libertà. Ritiene dunque il Tribunale di uniformarsi ai più recenti e più rigorosi orientamenti della giurisprudenza della S.C. così potendosi enucleare i principi in diritto applicati: le esigenze di certezza e garanzia, il rispetto dei principi di legalità e personalità della responsabilità penale, di rango costituzionale, devono essere soddisfatti mediante il mantenimento di un rigoroso modello causale ove il rapporto di condizionamento sia spiegato o daleggi universali, secondo il modello nomologico-deduttivo, o da legi di copertura scientifico-statistiche, secondo il modello statistico-induttivo.

 

Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di un arelazione logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché qualificato “alto” o “elevato”. Il ricorso a tali criteri rischia infatti di introdurre nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese  di giustizia;dalle scienze e dai limiti di conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:

1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza scientifica; 

2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una "corroborazione provvisoria "; 

3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto;

4) l’incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento;

5) la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento della causalità non può essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia aumentato il rischio del verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una illegittima confusione tra il piano soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre l’attribuibilità dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;

6) gli studi epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni generali e proponendosi scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non sono assolutamente in grado di spiegare la causalità individuale e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.

Osserva peraltro il Tribunale come nella specie proprio la causalità generale da esposizione a clorulo di vinile è stata utilizzata dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della sostanza, ma altresì per indicare gli indici di rischio relativo per ciascuna  neoplasia che si è ritenuta in qualche misura, forte o debole , associata all'esposizione. E però, ritiene il Tribunale, dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività statistica, ma ciò nonostante  sempre e comunque  assunta come ineludibile presupposto della causalità individuale  anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza esplicativa che  sono stati valutati come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sè sufficienti e necessari.

 

Si osserva al proposito che le conclusioni di IARC 1987, punto di partenza per le imputazioni e di approdo per le conclusioni del PM, salvo alcuni aggiustamenti quantitativi dell'ultimo momento, che indicavano una associazione tra esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e carcinomi epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del sistema emolinfopoietico, melanomi, hanno subito rivisitazioni critiche e ampi aggiornamenti per la maggior parte incorporati nei due studi multicentrici americano ed europeo ( Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di recente (Ward 2000 e Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale. Sulla base di tali studi, considerando anche i risultati dello specifico studio sulla coorte di Porto Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non significatività dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema emolinfopoietico, del fegato diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per la cirrosi epatica e per le malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che gli stessi consulenti  epidemiologici dell’accusa(si cita l’ultima relazione presentata dai consulenti  Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque espresso dubbi e perplessità in ordine alla correlabilita' con le sostanze in considerazione quantomeno dei tumori del cervello, del sistema emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe aggiungere anche del tumore della laringe .

 

Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste patologie, sulla base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e delle più  perentorie conclusioni cui erano pervenuti gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico europeo e del successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento, può affermarsi che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a dire della idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene infatti, che l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più significativi (e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava ”non considerare l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”) individua una associazione forte tra esposizione a c v m e  angiosarcoma epatico e eccessi di rischio nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto riferimento IARC, non sono state confermate.

Ma il PM non ne avrebbe tratto le logiche e  conseguenti conclusioni, in quanto, pur avendo al termine della requisitoria presentato le schede riferite a 263 parti offese relative a 311 patologie rispetto alle 721 patologie riferite a 542 parti offese introdotte con il decreto di rinvio a giudizio e con le successive contestazioni supplettive nel corso del dibattimento, tuttavia, non ha ritenuto di fornire una spiegazione di questa modificazione della contestazione originaria, limitandosi ad affermare che i casi non ripresentati avrebbero avuto comunque un loro rilievo nell'ambito dei reati di strage e di disastro contestati.

Sono stati eliminati tutti i tumori gastrici e del pancreas che erano stati associati alla esposizione a dicloroetano, ed altresì le broncopatie  e le broncopneumopatie (87), nonchè le pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto, quest'ultime indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi epidemiologici è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che supporterebbe l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999 concludeva per "inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le altre  patologie  (neoplastiche e non ) siano state ritenute o non sussistenti a seguito della esame della documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa ovvero non correlate all'esposizione.

 

Ma, secondo il Tribunale la logica conseguenza sarebbe che essendo insussistenti o comunque non causalmente riconducibili esse non possono avere rilievo neppure nelle fattispecie più ampie di pericolo per la pubblica incolumità cui il pubblico ministero ha fatto riferimento. 

Si osserva che alla debolezza delle evidenze epidemiologiche il PM ha cercato di supplire facendo ricorso alla biologia molecolare e ai risultati ancora incerti, contraddittori e lacunosi che allo stato è in grado di offrire, in particolare sostenendo la tesi dell’azione sinergica tra i fattori di rischio noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione che in tal modo assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti lesivi: non considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso statuto epistemologico della causa con la conseguenza che se non è dimostrato che un fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste di concausa

 

Il PM nessun rilievo ha invece dato all'evidenza epidemiologica e sperimentale che indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto dose–risposta la cui considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi alle esposizioni di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad escludere la rilevanza causale delle esposizioni  successive al 1974.

 

Infatti in tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i tumori rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in coloro che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti riconducibili ad elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie degli anni '50 '60 e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità della sostanza. E si citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici Simonato, Ward, Mundt, ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può individuare un accordo uniforme e assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente processo, in ordine a tale conclusione. Pacifico, infatti, che nessun angiosarcoma del fegato (che è il tumore tipico da esposizione a c v m) si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella corte europea e successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di Porto Marghera.

 

Ulteriore conferma deriverebbe dal recente studio di Rozman e Storm (1997) dal quale emerge che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968 ", traendone la conseguenza che " la riduzione delle esposizioni entro il range di 0, 5-5 ppm sembra essere stata fino ad ora adeguatamente protettiva".

Si osserva poi che se si considera che la dose cumulativa più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma (oltretutto di tipologia non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm circa di esposizione giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già presenti nella coorte di Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni degli anni successivi, pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e in seguito imposti di 3 ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli stessi come documentato dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta esservi prova di una efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero convergenti anche gli studi tossicologici e di oncogenesi che pure individuano un rapporto dose-risposta per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata accertata  una idoneità lesiva del c v m.

 

I consulenti del pubblico ministero relativamente al problema della idoneità lesiva del cvm alle bassi dosi non hanno potuto smentire né i risultati epidemiologici né quelli sperimentali. Si sono limitati ad affermare "che non si può escludere", "che la soglia al di sotto della quale non si sono osservati tumori  non è una soglia effettiva ma una soglia apparente... perché non si possono fare degli studi che dimostrino l'inesistenza di una soglia perché bisogna andare nell'infinitamente piccolo".. (Berrino);  “attualmente una relazione tra esposizione e cancerogenità delle sostanze  genotossiche è troppo confusa per offrire linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità di uscire dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e sul rischio e  quindi accettare che non vi è una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non riesco a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire assolutamente nulla " (Martines).

Resta il fatto, e questo rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si osserva infatti che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e nei solo insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica, si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni 50 e 60 e prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate antecedenti alla conoscenza della cancerogenità del cvm.

Nessun tumore del fegato e del polmone ha interessato lavoratori della corte di Porto Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data oramai è trascorso interamente il periodo di latenza non solo medio ma approssimantesi anche alle punte medio-alte rilevate.

 

Conseguentemente si può trarre una prima incontestabile conclusione:  alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità lesiva del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi  mentre non sussiste la prova di una  efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle esistenti dal 1974 in poi.

Le incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza per ulteriori approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in ambito  processuale dove ci si deve attenere ai fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione dunque le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti  in giudizio, sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli eventi.

 

Infatti le condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974 e, quindi, a epoca precedente alla conoscenza della canceroginità del cvm. Mentre per il periodo successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte  cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.

 

Invece, si osserva, il PM compie una vera e propria traslazione dei piani temporali perché rappresenta nella imputazione “un quadro del passato” che ci riporta a condizioni lavorative (e a conseguenti addebiti di colpa) che sono quelle proprie degli anni ’50-’60, e propone all’esame dibattimentale tali situazioni come verificatesi nel successivo ampio arco temporale che va dal 1970 al 2000. In tal modo, oltrechè non selezionare, alla stregua delle risultanze epidemiologiche, le patologie correlabili, neppure il PM ha  adottato un criterio selettivo per individuare i soggetti cui fondatamente addebitare gli eventi lesivi : si è scelta invece - come è stato reiteratamente affermato dalle difese - la strategia “della massificazione degli eventi e delle condotte“: indubbiamente “fatto“ di maggior evidenza e impatto verso l’esterno , ma di nessun fondamento in “diritto”. Ma l'accusa ha obbiettato, in diritto, che all'epoca erano vigenti nel nostro ordinamento i DPR n° 547/1955 e n°303/1956- di cui si parlerà più diffusamente nella parte concernente la colpa- che ricomprendevano norme che dovevano considerarsi cautelative rispetto ai rischi che hanno determinato gli eventi.

Ma il Tribunale già osserva che allora si ignorava la pericolosità e la canceroginità sia del gas (cvm) sia delle polveri (pvc) che si diffondevano nell'ambiente di lavoro,  e quindi la rappresentazione e la prevedibità degli eventi poi verificatisi, essendo il solo rischio noto alla metà degli anni 60 la sindrome di Raynaud, evento di tipo tutt’affatto diverso, patologia che determinava disfunzioni alla circolazione delle mani e che  veniva a colpire i lavoratori che per le loro mansioni venivano a diretto contatto con la sostanza nella pulizia delle autoclavi o dei filtri o nell’insacco.

Dunque non appare condividibile l'assunto accusatorio secondo cui quelle norme richiederebbero al datore di lavoro, qualunque sia la nocività, prossima o remota  del fattore inquinante, di mettere in atto ogni strategia possibile  per eliminarlo o neutralizzarlo, assumendosi diversamente  la responsabilità di tutte le conseguenze potenziali derivanti da quella violazione ancorché in quel momento impreviste o imprevedibili.

 

Questa tesi dilata sino alla imputabilità oggettiva il concetto di responsabilità colposa poiché non si fa carico neppure di assumere come elemento essenziale non tanto la prevedibilità dell'evento tipico, ma neppure la rappresentazione dell'evento generico di un grave danno alla vita o alla salute: non si può eludere il problema della conoscenza o conoscibilità della nocività, e ancor più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso particolare del cvm) in un determinato momento storico sia in ambito scientifico che in quello industriale secondo il modello del c.d. agente modello.

Ma soprattutto, osserva il Tribunale, ancor meno è legittimo confondere il piano soggettivo con quello oggettivo deducendo dalla inosservanza di quelle norme di cautela generica la attribuibilità dell'evento lesivo "con alta probabilità riconducibile proprio all'inalazione delle polveri o del gas", così ritenendo decisivo per l'accertamento della causalità il solo fatto che la condotta omissiva abbia astrattamente aumentato il rischio del verificarsi dell'evento.

 

 La dottrina e la giurisprudenza prevalenti escludono che nell'ambito dell'accertamento del nesso causale possa farsi ricorso alla teoria dell'aumento del rischio, "non essendo possibili ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo" poichè dalla problematica oggettiva del nesso di causalità devono rimanere escluse tutte le questioni afferenti la prevedibilità che attengono propriamente all'elemento psicologico"( Cass 17/12/93-Ianieri-).

 

Ma pur seguendo il P.M. su tale piano ci si dovrebbe interrogare, secondo il Tribunale, su quale sia stata nel 1974 la condotta antidoverosa e quale avrebbe dovuto essere per contro la condotta  corretta che, se posta in essere, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento. Secondo l'ipotesi d'accusa i comportamenti antidoverosi sarebbero stati principalmente sia l'omessa fermata degli impianti - o comunque un adeguato e tempestivo intervento sugli stessi per ridurre l'esposizione nociva e cancerogena - sia l'omesso allontanamento dai reparti o dalle lavorazioni a rischio dei lavoratori maggiormente esposti ( in particolare autoclavisti e insaccatori).

 

Ammesso per pura ipotesi che tali condotte omissive si siano verificate pur in presenza della conoscenza del rischio tossico e oncogeno , si tratta di verificare se  avrebbe potuto il comportamento alternativo che si esige evitare il verificarsi dei tumori epatici e polmonari in quei lavoratori che erano stati esposti, come risulta dalle consulenze epidemiologiche e dalle schede personali prodotte nel corso degli esami medico-legali, alle elevate concentrazioni degli anni 50 e 60 . I dati di conoscenza scientifica ci dicono: a) che il cvm è una sostanza che agisce secondo un rapporto dose risposta e che le esposizioni cumulative più elevate sia per quantità sia per durata sono quelle maggiormente responsabili degli effetti oncogeni; b) che secondo il modello carcinogenetico multistadio il cvm sarebbe un cancerogeno iniziante e cioè inducente una mutazione tendenzialmente irreversibile nei primi stadi del processo tumorale ; c ) che il periodo di esposizione lavorativa e di latenza, anche sottratto il periodo di "lag"( che è il periodo intercorrente tra la presumibile epoca della induzione a seguito di esposizione alla sostanza cancerogena e la manifestazione del tumore calcolato in circa 15 anni sulla base della letteratura esistente), sarebbe rispettato per tutti  i lavoratori che hanno contratto i tumori così da poter ragionevolmente ritenere che le esposizioni rilevanti a determinare i tumori siano quelle degli anni  50-60. Ne consegue che all'epoca in cui i comportamenti doverosi erano concretamente esigibili essi non avrebbero potuto evitare gli eventi verificatisi o, se si vuole, non sussiste una prova  dimostrativa avente elevata probabilità che il comportamento alternativo avrebbe impedito o ritardato il verificarsi dei tumori.

 

Ma il Tribunale, ha intrapreso una diversa soluzione della problematica attinente la causalità: tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente, non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio.

 

A tali fini il Tribunale ritiene di effettuare, con specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, un esame più dettagliato e una valutazione critica dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare nonché di approfondire le caratteristiche nosologiche e morfologiche delle neoplasie alla luce dei contributi  dei consulenti medico-legali e anatomo patologi. E conclude ritenendo non individuati fattori di rischio professionale, né ipotizzabile un ruolo concausale dell’esposizione lavorativa proprio perché non provata la causalità del fattore professionale, per i tumori del laringe, del sistema linfatico e omopoietico, del cervello, per i melanomi, ma anche per i tumori del polmone, e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma.

Circa il tumore al polmone il tribunale ha ritenuto non sussistere l'evidenza epidemiologica e neppure la plausibilità biologica e ha accertato perdipiù la presenza in 11 dei 12 casi di un rilevante fattore di rischio extraprofessionale per elevato tabagismo.

Con riferimento all’epatocarcinoma, il Tribunale, pur prendendo atto dei risultati degli studi epidemiologici che individuano eccessi statisticamente significativi esclusivamente nei lavoratori alto esposti che hanno svolto mansioni di autoclavisti, e pur prendendo atto anche dei risultati degli studi sperimentali citati e altresì delle osservazioni cliniche e istologiche sui casi in letteratura dibattuti che individuirebbero carcinomi epatocellulari in esposti a c v m, ritiene che non possa dirsi raggiunta la prova dell'attribuzione causale di tale tumore all'esposizione al c v m.

 

E ciò, non solo perché gli studi epidemiologici riguardano ancora un piccolo numero di persone sia nella corte europea (10 soggetti ) sia in quella di Porto Marghera (4 autoclavisti) con problematiche ancora aperte sulla precisione della stima e con andamenti di rischio non particolarmente elevati se si tiene conto della eziologia variegata e dell’alta incidenza dei plurimi fattori di rischio, ma soprattutto perché in tutti i casi esaminati mediante indagine autoptica e discussi in dibattimento non sono state evidenziate le tipiche lesioni indotte dal c v m, e per contro sono state invece individuate le lesioni riferibili ad accertati fattori noti di induzione di tale tumore presenti in tutti i casi di Porto Marghera (epatiti virali b e c, elevato consumo di alcol, cirrosi) che proponevano giustificate soluzioni alternative.

 

Alla logica della falsificazione si sono richiamati gli stessi consulenti dell’accusa, allorquando hanno affrontato il problema se sia possibile pervenire dal dato epidemiologico a livello di popolazione a quello individuale, e la risposta è stata cautamente affermativa, ma ristretta sostanzialmente ai casi in cui  non si è in grado di fornire una spiegazione alternativa, cioè solo se si è in grado di affermare che il singolo soggetto esposto a cvm non era esposto ad altro fattore eziologico che giustifichi la insorgenza della patologia indipendentemente dal cvm.

 

Analogamente si ritiene non provato il nesso causale per la cirrosi, osservandosi che tutti i casi di cirrosi osservati nella casistica di Porto Marghera per i quali era disponibile l'istologia hanno mostrato evidenza di processi necroinfiammatori e in tutti i casi l'esame istologico ha consentito anche di identificare l'agente eziologico coincidente con uno dei noti fattori di rischio (infezione virale b o c, consumo di alcool).

Proprio la presenza di tali fattori di rischio ha indotto i consulenti del pubblico ministero  a ipotizzare comunque solo un ruolo concausale del c v m. Ma, osserva il Tribunale, l'esame istologico non ha evidenziato in nessun caso di cirrosi lesioni tipiche  dell'esposizione a c v m: in particolare nei casi riguardanti i lavoratori Zecchinato e Simonetto che, secondo i consulenti del PM, avrebbero sviluppato in sequenza prima cirrosi e successivamente angiosarcoma epatico, così da avvalorare la associazione tra tale malattia epatica e esposizione a c v m , tale processo patologico non ha trovato conferma. Infatti, l' esame istologico di Zecchinato dimostra fibrosi epatica congenita e angiosarcoma ma non evidenza di cirrosi e quello di Simonetto dimostra epatocarcinoma in cirrosi con emocromatosi e non angiosarcoma: nel primo caso la cirrosi è esclusa, nel secondo caso la cirrosi ha origine in una malattia metabolica congenita e evolve in epatocarcinoma.

Analoghe, ancora, le conclusioni per le epatopatie non caratterizzate da tipiche lesioni da cvm, relativamente alle quali la letteratura esaminata evidenzia associazione non già all’esposizione a cvm, bensì a consumo alcoloico o a epatiti virali.

 

In conclusione, osserva il Tribunale che all’osservazione epidemiologica gli eccessi significativi che hanno evidenziato un associazione forte riguardano i tumori epatici, angiosarcoma e epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico organo bersaglio del cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori esposti ad elevate concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60, perlopiù svolgenti le mansioni di addetti alle autoclavi. Precisa tuttavia che le evidenze epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa incidenza dei due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di fattori confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’ epatocarcinoma, rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo una relazione dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di conferme per soddisfare il criterio di riproducibilità del dato.

 

Altresì per quest’ultimo si pone un problema di plausibilità biologica inquantochè non è noto neppure a grandi linee il meccanismo di induzione di tale tumore, che interessa le cellule epiteliali, da parte del cvm che, invece, tipicamente viene a colpire le cellule endoteliali : si dovrebbe dare una spiegazione plausibile della circostanza che una medesima sostanza produce neoplasie nettamente diverse sul piano morfologico ancorché interessanti lo stesso organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta neppure a livello sperimentale.

 

Eguali considerazioni merita l’ipotesi del cvm come fattore concausale che interverrebbe cioè a interagire con i noti fattori di rischio (alcool, epatite b e c, cirrosi): lo stato delle conoscenze  non consente di pervenire a nessuna conclusione in ordine alla sussistenza di tali meccanismi sinergici.

Il ricorso alla concausalità non può essere neppure un espediente per sfuggire alla prova della efficienza causale esclusiva  del fattore professionale posto che il nostro ordinamento (art 41 c p) non autorizza l’assunzione di un “modello debole “di causalità e lo statuto epistemologico della concausa impone che anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di copertura. 

Pertanto trovano spiegazione causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm  solo gli angiosarcomi  (otto) e, tra le patologie non neoplastiche, le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine, le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).

 

Tanto ritenuto in ordine alla problematica del rapporto eziologico tra esposizione a cvm e a polveri di PVC ed eventi contestati, si addentra poi il Tribunale nella disamina degli impianti e sistemi di lavorazione del cvm, PVC e DCE in Porto Marghera ponendoli in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità di dette tali sostanze, procedendo quindi alla valutazione delle condotte contestate, per verificarne la sussistenza in relazione altresì agli specifici addebiti contravvenzionali, e per desumerne o meno la configurabilità della colpa nell’analisi altresì delle singole e specifiche posizioni degli imputati.

 

In diritto, peraltro, previamente esclude la configurabilità nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage colposa secondo l’accusa da ritenersi punita "dall'articolo 449 in riferimento all' articolo 422 c p". Ricordato che appunto secondo l’accusa, sulla scia di parte della dottrina, l’accento andrebbe posto sull’articolo 449 cp che consentirebbe di ricostruire un autonoma fattispecie aperta di disastro innominato che si riempie via via di contenuto attraverso il rinvio che tale norma fa ai disastri nominati di cui al capo primo e alle altre figure di disastro indicate nel capoverso dell'articolo 449 cp, ritiene invece il Tribunale di seguire il diverso orientamento che esclude la sussistenza della strage colposa. Si osserva infatti, richiamandosi al riguardo le ritenute fondate critiche della difesa, che il dato testuale dell'articolo 449 c p, nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un richiamo selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo, individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione di genere " disastro". Ha individuato nominativamente l'incendio perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione delle norme relative ai "disastri" e costituisce anche il limite iniziale della serie delle disposizioni richiamate.

 

Ritiene invece il Tribunale corretta la prospettata configurabilità del delitto di disastro innominato colposo, disattendendo, quanto a tale reato, le critiche della difesa. Premesso che in punto di fatto il pubblico ministero, come ha chiarito anche nel corso della sua requisitoria, è ricorso a tale fattispecie per utilizzarla come "trait d'union" tra i due capi di imputazione e, anzi, per configurare un unico disastro in quanto " l'attività di industria e di impresa ha esplicato i suoi negativi influssi ed effetti sia all'interno che all'esterno della fabbrica " e cioè provocando lesioni personali e morte ai lavoratori esposti alla sostanza oncogena e altresì determinando un grave inquinamento dei sedimenti e delle acque nei canali industriali e nelle acque di falda sottostanti le discariche con tutte le conseguenze che ne sono derivate anche alla ittiofauna, si è infatti rilevato dalla difesa che, riferendo il disastro anche ad eventi interni allo stabilimento, riuscirebbe difficile tracciare il limite rispetto al disastro correlato all'articolo 437 comma secondo c p e che, inoltre, richiamando l'inquinamento delle falde e dell'ittiofauna vi sarebbe una sovrapposizione rispetto  ai contestati reati di avvelenamento e di adulterazione colposa di acque e di sostanze alimentari, e si è sostenuto che ad integrare la fattispecie non è sufficiente un qualsiasi pericolo, ma esclusivamente un pericolo che deriva da una atto diretto a cagionare un disastro (comma primo) o integrato dalla verificazione dell'evento disastroso (comma secondo).

 

Ma ritiene il Tribunale che una siffatta ricostruzione della fattispecie non sia condividibile laddove nel reato di disastro innominato si ritengano, quali elementi necessari alla sua definizione, una sia pure relativa contestualità degli eventi e la loro determinazione da causa violenta. Elementi, questi, specificativi e non costitutivi, tali essendo invece la gravità e la diffusività degli eventi nell'ambito di una comunità estesa, così da essere idonei a concretamente porre in pericolo la pubblica incolumità, eventi determinati da condotte anche protratte nel tempo che hanno, ciascuna con efficienza causale, realizzato con attività predisponente o aggravante la situazione di rischio. L’evento può verificarsi solo quando si siano determinate un complesso di condizioni: in tal caso è irrilevante verificare se i fattori causali di quel complesso di apporti sia prossimo, remoto o concomitante rispetto alla verificazione dell'evento poiché anche in tal caso ricorre il principio di equivalenza delle cause diacronicamente succedutesi ( art.41cp).

 

E nel caso che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati , le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci sindromi di Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle mansioni più a rischio. Idoneità lesiva venuta meno con la drastica riduzione delle esposizioni sin dal 1974.

Il Tribunale esclude infatti completamente la configurabilità dei delitti contestati in relazione alle condotte successive al 1973, osservandosi che, per come emerso dall’istruttoria dibattimentale, l’accertata drastica riduzione delle esposizioni a partire appunto dal 1974, avrebbe fatto venir meno l’idoneità lesiva della sostanza ed ogni situazione di rischio per l’incolumità pubblica. A sostegno di tale conclusione il Tribunale si dilunga nell’analisi delle risultanze processuali in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità del cvm, ai processi produttivi nei singoli reparti, agli interventi di manutenzione e di modifica degli impianti, volti a limitare le esposizioni dei lavoratori, alle misure di prevenzione personale predisposte, in particolare per la tutela degli insaccatori ed autoclavisti.

 

Ne consegue che il predetto reato si ritiene causalmente riferibile a quegli imputati che ricoprivano nell'epoca in considerazione (1969-1973) posizioni di garanzia e, in tale ambito temporale rimane circoscritto, perché per il periodo successivo viene meno anche l'efficienza causale della sostanza e, quindi, la situazione di rischio.

Peraltro la riferibilità causale di tale reato, così come dei reati di omicidio e di lesioni colpose per gli angiosarcomi e per le epatopatie correlate, agli imputati che nell'epoca considerata, ricoprendo posizioni di garanzia, avevano la gestione del rischio relativo all'esposizione alla sostanza tossica e oncogena, non è accompagnata anche dalla imputabilità degli eventi a titolo di colpa (tranne che per i reati di lesioni colpose per i casi di Raynaud in ordine ai quali il proscioglimento degli imputati specificamente interessati in relazione al predetto periodo di causazione, consegue alla prescrizione).

 

Il principio ispiratore, quanto appunto alla componente psicologica del reato, è che nei delitti colposi, la prevedibilità dell’evento deve essere riconosciuta, in particolare per quanto riguarda l’esercizio di attività pericolose, sulla base del criterio della migliore scienza ed esperienza presenti in un determinato settore ed in un preciso momento storico, costituito dall’epoca in cui viene iniziata la condotta. La prevedibilità dell’evento può essere affermata solo quando sussistano leggi scientifiche di copertura, le quali permettano di stabilire che da una certa condotta possono conseguire determinati effetti. La responsabilità dell’imputato può essere affermata solo quando l’evento verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che la regola cautelare intende prevenire.

 

E nella specie, all'epoca non era noto sulla base di esaurienti conoscenze scientifiche fondate su affidabili verifiche sperimentali il rischio oncogeno sull'uomo (angiosarcomi), e le lesioni epatiche indotte da cvm non avevano manifestato segni patologici inequivoci, anche perché, quando sono stati rilevati segni di sofferenza epatica, i lavoratori sono stati allontanati dall'esposizione, in tal modo osservando l'obbligo precauzionale di una adeguata sorveglianza sanitaria.

 

Obbligo non osservato, invece , relativamente ai casi accertati di Raynaud/acrosteolisi , trattandosi di patologia nota sin dalla metà degli anni '60 e regrediente con l'allontanamento dalle alte esposizioni cui era associata e perlopiù riguardante mansioni che implicavano un contatto diretto con la sostanza che doveva essere evitato con idonee misure protettive realizzate tardivamente.

Dunque secondo il Tribunale, nella fattispecie l’impresa, e per essa gli odierni imputati, risulta essersi mossa tempestivamente, sotto il profilo della modifica delle procedure e degli interventi sia immediati che a medio termiune sugli impianti e sulle apparecchiature, non appena il problema della canceroginità del cvm ebbe ad appalesarsi con un consistente fondamento scientifico. Le opere eseguite, comprovate documentalmente e confermate dai testi escussi, avrebbero, a parere del Tribunale, permesso di ottenere in breve termine una drastica riduzione dei precedenti livelli di esposizione, concretamente evidenziata soprattutto a partire dalla seconda metà dell’anno1974 e per tutto l’anno 1975, con successivi netti sviluppi di riduzione nei conseguenti anni 1976-1997 a valori ampiamente ricompresi nei limiti prudenziali e rispettosi delle soglie all’epoca individuate e successivamente stabilite dalla normativa.

 

Si ritiene dunque infondato l’addebito ascritto agli imputati sotto il profilo della responsabilità colposa, sia generica che specifica.

Né tantomeno, ed a maggior ragione, è ipotizzabile l’elemento soggettivo del dolo, integrante l’ipotesi di reato di cui all’art. 437 c.p., pure contestato dal P.M. Sotto quest’ultimo profilo, va rilevato che l’accusa, sotto la qualificazione dell’ipotesi di cui all’art. 437 c.p., ascrive l’omessa collocazione “di sistemi ed apparecchi di sicurezza destinati ed idonei a prevenire l’insorgenza di tumori e di malattie anche gravissime”.

 

Osserva al riguardo il Tribunale che tale tipologia di contestazione non contiene, nella fattispecie concreta, l’indicazione di fatti specifici, in particolare per quanto riguarda la natura degli apparecchi che avrebbero dovuto essere collocati, per cui si deve ritenere che il P.M. abbia fatto riferimento a tutte le asserite violazioni integranti gli addebiti di colpa ascritti.

Peraltro il Tribunale, nell’analisi della suddetta norma, precisa che: la previsione normativa di cui all’art. 437 c.p. configura la più severa sanzione,  predisposta per le violazioni più gravi del dovere di sicurezza, in quanto è caratterizzata sul piano soggettivo dalla necessarietà del dolo e sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà;

la fattispecie in  esame non descrive specificamente in quali situazioni sorga il dovere di attivazione, per cui deve ritenersi, secondo i principi generali concernenti la responsabilità per omissione, che la condotta di omessa collocazione possa essere correlata soltanto a quei sistemi o quegli apparecchi la cui collocazione sia obbligatoria sulla base di una specifica norma di prevenzione di disastri o d’infortuni;in sostanza, la previsione di cui all’art. 437 c.p. costituisce una fattispecie avente riguardo non già ad una qualunque violazione del generico dovere di sicurezza, ma soltanto alla violazione dolosa di precise disposizioni della statuizione normativa speciale, che di per sé siano sanzionate come contravvenzioni e che prescrivano specifici doveri di collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri od infortuni sul lavoro.

 

Dunque sorgono in considerazione, nella fattispecie, le asserite violazioni di cui ai DPR n. 547/55 e  n. 303/56; sotto il profilo oggettivo, la definizione di “impianti” individua delle installazioni caratterizzate da stabilità, così come il concetto di “apparecchi” qualifica delle attrezzature aventi una certa complessità tecnica, diretta specificamente alla prevenzione summenzionata; del resto, correlativamente, il termine “collocazione” corrisponde ad un’attività avente ad oggetto una cosa dotata di stabilità strutturale; dunque, si possono fondatamente escludere dal novero di tale previsione normativa i dispositivi di protezione individuale, nonché le cautele relative all’adozione di particolari procedure di lavoro o di organizzazione del sistema, in quanto non possiedono i requisiti suindicati. Neppure le parti d’impianto funzionali al ciclo produttivo rientrano nell’ambito dei dispositivi suddetti, poiché indubbiamente la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. si riferisce a strumenti aventi specificamente ed unicamente la destinazione  alla sicurezza.

 

E in forza di tali premesse ritiene che: gli addebiti di omesso blocco degli impianti e di omesso risanamento dei medesimi, di mancata manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, di mancata adozione delle misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, di mancata emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione (con la relazione del marzo 1977) dell’Istituto di Medicina del Lavoro, sono tutti al di fuori della previsione normativa succitata, sia per la genericità dell’oggetto, sia per la palese non correlabilità alle nozioni di collocazione di apparecchi specifici con finalità antinfortunistica o comunque di prevenzione; la contestazione d’insufficiente manutenzione degli impianti, con riferimento alla sostituzione degli organi di tenuta (valvole, rubinetti), non concerne ugualmente l’ambito applicativo della norma di cui all’art. 437 c.p. ; infatti, tali organi costituiscono parti degli impianti produttivi normalmente funzionanti e non integrano invece specifici e distinti strumenti con finalità preventiva; gli addebiti di omessa sorveglianza sanitaria, di omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti procedure, di omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di omessa separazione delle lavorazioni insalubri, sono ugualmente tutti estranei all’ambito della fattispecie normativa di cui all’art. 437 c.p., sempre per le motivazioni suesposte in ordine alla circostanza che trattasi di addebiti relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed antinfortunistica.

 

Secondo il Tribunale anche la contestazione di omessa collocazione di adeguati strumenti di monitoraggio non appare rientrare nel novero degli strumenti anzidetti. In ogni caso, anche a ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi tra le apparecchiature summenzionate, si è ampiamente evidenziato che i medesimi sono stati effettivamente collocati nel contesto dei singoli reparti, in termini di certa tempestività e con efficacia sicuramente appropriata a controllare le singole zone di lavoro.

E analogamente inconsistenti, alla luce delle installazioni e delle modifiche impiantistiche adottate con le commesse analiticamete ricordate dal Tribunale, si ritengono gli addebiti relativi alla mancanza di cappe d’aspirazione.

 

Ulteriormente precisa poi il Tribunale che l’infondatezza sul piano oggettivo dell’ipotesi di reato di cui all’art. 437 c.p. trova riscontro sotto il profilo soggettivo, in quanto è del tutto inesistente una consapevole volontà, negli imputati di cui al presente giudizio, di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi. La consapevolezza della condizione di rischio correlata all’esposizione  degli operatori risulta essere stata invece adeguatamente affrontata dall’impresa, e per essa dagli odierni imputati, mediante l’adozione di tutte le iniziative idonee, sia per quanto riguarda la modifica delle procedure che per quanto concerne l’adozione degli elementi tecnologicamente più avanzati e la modifica e ristrutturazione degli impianti.

In conclusione sarebbe rimasta provato che solo per quanto riguarda gli operatori sui quali è stato riscontrato il fenomeno di Raynaud i valori espositivi erano superiori ai limiti di cui alla normativa vigente, cioè 500 ppm, nell’arco temporale sino al 1974. Trattasi in particolare dei lavoratori autoclavisti e degli operatori all’insacco ed all’essiccamento, sopra specificamente individuati con riferimento all’ipotesi della malattia di Raynaud ed all’acroosteolisi, per i quali indubbiamente è emerso che, fino al momento dell’adozione delle diverse procedure ed alla modifica ed all’aggiornamento degli elementi delle apparecchiature, cioè fino all’epoca decorrente dall’anno 1974, non sono state adottate le misure cautelari idonee ad evitare l’eccessivo contatto diretto tra le mani ed il CVM.

 

Ma sulla scorta di tutte le considerazioni svolte, ribadisce il Tribunale che non può però ravvisarsi alcuna forma di continuità o di correlazione tra le predette patologie e quelle tumorali od epatiche, assolutamente distinte quanto a tipologia e formazione e quindi integranti un tipo di evento diverso e non prevedibile, le quali sono state oggetto di acquisizioni scientifiche sufficienti soltanto a partire all’anno 1974, come evidenziato da tutte le organizzazioni internazionali che si occupavano della sostanza in esame. Del resto, si ricorda, tutte le patologie anzidette, integranti eventi di tipo diverso, trovano origine nelle elevatissime esposizioni degli anni cinquanta e sessanta, le quali rimangono al di fuori della contestazione del P.M. e quindi del presente giudizio.

Conclusivamente quindi il Tribunale individua gli imputati cui riferire i ritenuti fatti-reato solo sotto il profilo causale (angiosarcomi e epatopatie) e talune patologie sia sotto il profilo causale che colposo (Raynaud/ acrosteolisi), lesioni colpose ormai estinte per intervenuta prescrizione, specificando dunque, per tutte le ipotesi di reato ricomprese nel primo capo d’imputazione le conseguenti formule di assoluzione o proscioglimento.

Non si esime infine il Tribunale da valutazione e conclusione di sintesi in ordine all’accusa prospettata, osservando che il processo ha sofferto della fuorviante impostazione accusatoria, un procedere senza distinzioni in cui sono mancate le coordinate spazio temporali necessarie per orientare nella individuazione delle condotte e dei soggetti ai quali fossero imputabili.

 

Si ricorda che nel 1° capo di imputazione si addebitano tumori e malattie (721 patologie – di cui 228 neoplasie-relative a 542 parti offese, ridotte nelle conclusioni a 311 patologie – di cui 164 neoplasie - relative a 263 parti offese) riferite a condotte omissive che si sarebbero estese in uno spazio temporale ininterrotto e non concluso di 30 anni (il PM ha contestato la permanenza in atto).

Addebiti di colpa infondati in fatto e eventi suggestivamente massificati configuranti i reati di disastro colposo e di strage colposa  (inesistente nel nostro ordinamento giuridico) di grande impatto e forza evocativa.

Eventi che, nei limiti in cui siano imputabili all’esposizione a CVM-PVC, devono essere ricollocati nel loro tempo reale, un "quadro del passato" che ci  riporta alle condizioni di lavoro incidenti sullo stato di salute dei lavoratori che sono quelle degli anni ‘50 – ‘60 e non  alla fase temporale successiva (1969-2000) che è stata proposta all'esame dibattimentale.

 

Questa sfasatura temporale, secondo il Tribunale, ha percorso tutto il processo e ne ha determinato gli esiti: perché era reale la rappresentazione dei fatti se riferita al tempo passato e, invece, inattuale e contraria al vero se riferita agli anni successivi.

Dunque necessaria una contestualizzazione storica per uscire dalla confusione e dalla sovrapposizione dei piani temporali.

Ricorda al riguardo il Tribunale che allorquando nei primi anni ‘50 presso il petrolchimico di Porto Marghera iniziò la produzione del cloruro di vinile e del polivinile  le condizioni di lavoro erano estremamente pesanti, usuranti e nocive e non subiranno cambiamenti fino alla fine degli anni ‘60, primi anni '70.

 

Da tale periodo iniziano a determinarsi alcuni non irrilevanti mutamenti sulla scorta delle rivendicazioni sindacali e della presa di coscienza dei diritti degli operai.

Vi concorrono le prime conoscenze sulla sospetta cancerogenità del c v m che gli esperimenti sugli animali portati avanti da Maltoni evidenziano.

La definitiva conferma, nel gennaio 1974, della cancerogenità della sostanza determinerà una accelerazione degli interventi sulle procedure di esercizio degli impianti di polimerizzazione, sugli interventi di manutenzione e sulle modificazioni ai processi e agli impianti.

L’incalzare del sindacato, da un lato, la responsabile disponibilità della controparte, dall’altro,  progressivamente e in uno spazio temporale relativamente breve,  ridurranno le esposizioni drasticamente: dai 500 ppm (e oltre) degli anni '50 '60 e dai 200 ppm dei primi anni '70  si passerà rapidamente a esposizioni di 25 ppm e già nel 1975 oscillanti tra 5 e 3 ppm, per portarsi poi negli anni successivi al di sotto di 1 ppm.

 

A esposizioni, cioè, non solo consentite sulla base del parametro di 50 ppm provvisoriamente raccomandato nell'aprile del 1974 dal Ministero della Sanità (che è quello stesso fissato in Germania  e nel Regno Unito), ma ampiamente al di sotto dei nuovi parametri allorquando la normativa di recepimento della direttiva CEE fisserà con DPR n° 962 del 1982 il limite di 3 ppm come esposizione media di lungo periodo.

Nei reparti di polimerizzazione, e quindi in quelli con i valori di esposizione più elevati e maggiormente a rischio (CV6, CV16, CV14, CV24), nel periodo intercorrente tra l'aprile del 1974 e la fine del 1975 sono state eseguite 5351 determinazioni mediante "pipettone": i valori medi mensili di concentrazione del c v m sono inferiori a 50 ppm in tutti i periodi di tale arco temporale e tendono a una progressiva diminuzione tanto da raggiungere nei primi mesi del 1975 valori medi inferiori a 5 ppm.

I valori espressi dalle rilevazioni dei gascromatografi entrati in funzione nel marzo 1975 vengono confrontati anche con i campionatori personali indossati su turni di 8 ore di operai dedicati a varie mansioni di lavoro e la correlazione è confermata : negli anni 1976-1977 il 75% delle determinazioni è risultato inferiore a 1 ppm, il 14% è risultato compreso fra 1 e 2 ppm, il 5% compreso fra 2 e 3 ppm, il 4% compreso fra 3 e 5 ppm e lo 0, 7% superiore a 5 ppm. A novembre del 1975 i valori medi mensili sono inferiori a 1 ppm.

Tale crollo delle esposizioni fu la conseguenza incontestabile di modifiche delle procedure, di interventi sugli impianti, documentata in atti e confermata dalle prove testimoniali.

Dunque, i tumori e le patologie che il pubblico ministero ha ritenuto riferibili all'esposizione al cvm sono tutti, pacificamente e incontrovertibilmente, come hanno detto unanimamente i consulenti della accusa e della difesa, attribuibili alle condizioni di lavoro e alle alte esposizioni degli anni '50 -'60.

 

Questa è l'epoca in cui sicuramente si ignorava la oncogenità del c v m: in tutti paesi in cui si produceva questa sostanza, in tutti gli stabilimenti in cui si sono compiuti i numerosi e approfonditi studi epidemiologici, aggiornati fino ai tempi nostri, la produzione del polivinile è avvenuta nelle medesime condizioni lavorative, con gli stessi elevati livelli di esposizione e con gli stessi sistemi produttivi  esistenti a quell'epoca a Marghera.

Per propria scelta quindi il pubblico ministero non ha agito nei confronti degli amministratori e dei dirigenti di quell'epoca perchè ha ritenuto che gli eventi verificatisi non potevano essere loro addebitati per mancanza di colpa derivante dall'ignoranza degli effetti oncogeni. Il pubblico ministero ha deciso invece di agire nei confronti dei loro successori.

Per portare comunque a compimento il suo proposito il PM è stato costretto a trasferire l’epoca della causalità a quella della colpa: ha collocato cioè la causa degli eventi, risalenti alla prima era degli anni '50 '60,  nella seconda era degli anni '70-2000 allorquando "si sapeva”, muovendosi su tre direttrici.

 

La prima tende, nei limiti in cui è possibile, a sovrapporre la prima e la seconda "era": la conoscenza della oncogenità del c v m è fatta risalire al 1969, e cioè ai primi esperimenti del dottor Viola che individua sui ratti esposti ad elevatissime concentrazioni di c v m (30 mila ppm) dei tumori sottocutanei, ancorchè tali esperimenti siano stati ritenuti non significativi e non estrapolabili da animale a uomo oltre che dalla comunità scientifica anche dallo stesso autore.

Si pretende cioè dal PM un adeguamento immediato ai risultati degli esperimenti di Viola comunicati nel 1970, ancorché lo stesso autore sia cauto sul significato degli stessi e ritenga sia necessario un  loro approfondimento.

Tutta la comunità scientifica e gli organismi internazionali (OMS) rimasero in attesa di conferme e di sviluppi della ricerca che era impostata su modelli sperimentali ritenuti inadeguati (alte concentrazioni, numero e specie di animali insufficiente..) e comunque non estrapolabili dall’animale all’uomo.

 

E’ stata Montedison ad assumere la tempestiva  iniziativa di uno studio basato su modelli sperimentali che saranno unanimamente apprezzati, incaricando sul finire del 1970 il professor  Maltoni di condurre un esperimento secondo metodologie adeguate, "meno pionieristiche", che produrrà i primi risultati, individuando i primi angiosarcomi al fegato in ratti, topi, criceti nel 1972, risultati che l’oncologo comunicherà al committente nel novembre e, ancorché parziali, alla comunità scientifica già nell’aprile dell'anno successivo.

 

Suggestivamente il PM insinua, ma non prova, che le industrie sapessero e che avessero sino allora taciuto perchè avvinte da un patto di segretezza svelato dalle prime morti per angiosarcoma accertate su tre lavoratori della società americana Goodrich nel gennaio del 74. In proposito anche il consulente dell'accusa prof. Carnevale, che pure si è occupato di complotti dell'industria, ha affermato che vi furono sospetti, ma che nulla risulta in letteratura. Sotto il profilo più propriamente probatorio, dagli atti acquisiti nel corso della rogatoria negli USA effettuata dal PM è emerso piuttosto che le industrie europee e americane si vincolarono ad un patto di riservatezza sino alla conclusione degli esperimenti di Maltoni con il proposito di garantirsi da fughe di notizie e strumentalizzazioni che potessero avvantaggiare gli uni e pregiudicare gli altri, patto che non ebbe alcuna esecuzione per le perplessità delle industrie americane e per le notizie preoccupanti sui primi risultati sperimentali comunicati da Maltoni.

Gli esperimenti di Viola possono essere considerati un campanello d’allarme sulla possibile oncogenità della sostanza e sono stati assunti da Montedison, cui si sono associate le altre industrie europee, come un impegno ad approfondire gli studi sperimentali per fare chiarezza e per pervenire a risultati probanti ai fini di adottare le conseguenti decisioni.

Ma nel frattempo Montedison non rimase inerte perché avviò commesse ed eseguì interventi già nel 1973 che riducevano l’esposizione negli impianti di polimerizzazione (il degasaggio e lo scarico delle autoclavi, la loro bonifica e  pulizia).

 

E successivamente, come si è detto, quando la cancerogenità fu confermata sull’uomo dai casi di angiosarcoma su tre lavoratori della industria statunitense Goodrich accertati nel gennaio 1974, intraprese quelle modifiche agli impianti, cui si è fatto diffusamente riferimento nella parte motiva, che ridussero drasticamente le esposizioni ai fini di prevenire tali eventi avversi.

Nel corso degli anni successivi l’attività di risanamento ha intrapreso ulteriori iniziative da cui è  conseguito il raggiungimento di valori ampiamente al di sotto della soglia stabilita.

Il pubblico ministero intraprende la seconda direttrice.

 

Contesta l'affidabilità delle misurazioni da parte dei gascromatografi installati nei vari reparti : ma la comparazione con i rilevamenti effettuati con “i pipettoni” e con i campionatori personali smentiscono tale assunto perché viene evidenziata una situazione espositiva sostanzialmente corrispondente con diversi sistemi di rilevazione. Anche gli accertamenti effettuati dal consulente dell’accusa privata su pretese violazioni di procedure nell’esercizio dei gascromatografi  risultano del tutto inidonei a infirmare la validità e la correttezza del loro funzionamento e, comunque, anche a voler ammettere l’esattezza dei rilievi, le divergenze cui si perviene sono del tutto trascurabili.

 

Contesta ancor più radicalmente il PM l’introduzione nel 1975 di un sistema di monitoraggio sequenziale multiterminale che determinerebbe una diluizione delle concentrazioni. Ma tale sistema è conforme alla direttiva CEE e al DPR n° 962/1982, è stato quello prescelto anche dalla componente maggioritaria del sindacato, perché più idoneo a rilevare l’effettiva esposizione dei lavoratori nelle zone di lavoro: comunque dai raffronti eseguiti nei reparti CV6,CV14,CV16 è risultato che i valori medi ottenuti dal sistema monoterminale erano sovrapponibili a quelli acquisiti col sistema pluriterminale.

La pubblica accusa nell’intento di infirmare i valori espositivi, ampiamente al di sotto di quelli stabiliti dalla normativa, intraprende la terza direttrice e si attesta su una posizione di assoluta intransigenza, negando che vi possa essere una qualsivoglia soglia di sicurezza per gli oncogeni : "non si può escludere". Si tratta di una posizione cautelativa condivisibile sotto l'aspetto sociale, ma la valutazione del legislatore è stata diversa perché non ha vietato la produzione del cvm, ma ha semplicemente imposto dei limiti di esposizione che ritiene possano essere cautelativi rispetto al rischio oncogeno.

 

Gli studi tossicologici e di oncogenesi ampiamente esaminati e discussi nella parte motiva sono convergenti, secondo il Tribunale, nell’individuare un rapporto dose-risposta per il c v m, individuando una dose cumulativa di non effetto a 10 ppm (Maltoni, Weinrauch, Swemberg).

Ricorda d’altra parte il Tribunale come gli studi epidemiologici hanno individuato un caso di angiosarcoma ad una esposizione cumulativa per dieci anni di 288 ppm, la più bassa che ha provocato tale tumore, equivalente a 25 - 28 ppm di esposizione cumulativa annua.

E che l'osservazione ha messo in evidenza che nessun angiosarcoma del fegato si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella coorte europea e successivamente al 1967 nella coorte statunitense e in quella di Porto Marghera. Ed ancora si ricorda il recente studio (Rozman e Storm-1997-) con il quale viene confermato che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968, traendone la conseguenza che la riduzione dell'esposizione entro il range di 0,5- 5 ppm sembra essere stata sino ad ora adeguatamente protettiva".

 

Si osserva infine che il principio di precauzione è divenuto patrimonio della cultura scientifica, industriale e legislativa solo in tempi recenti e per quanto riguarda il CVM la sua produzione iniziale del cvm, risalente agli anni 30, non fu sottoposta a sperimentazioni precauzionali se non per quanto riguarda il rischio di esplosione e fu usato negli spray e come anestetico fino ai primi anni '70. Solo, dopo la scoperta della sua oncogenità e purtroppo delle morti causate, i numerosi studi sperimentali e epidemiologici hanno dato delle indicazioni in base alle quali il legislatore ha posto dei limiti cautelativi che appaiono adeguatamente protettivi.

 

E se tali limiti sono rispettati (si intende i limiti cumulativi medi e non gli sforamenti occasionali che pur possono tutt'ora esserci per disfunzioni o per "incidenti rilevanti" in occasione dei quali vengono tuttavie attivate le procedure di emergenza) e se sinora non si sono verificati effetti avversi nonostante che sia trascorso un periodo temporale che oltrepassa il periodo medio di latenza dei tumori indotti, che è di 28-30 anni, l’ultimo fronte su cui si attesta  il pubblico ministero -secondo cui "nessuna dose è sicura"- non ha nessuna valenza giuridica e nessun fondamento in fatto.  Così come infondata si sarebbe dimostrata la tesi dell'effetto sinergico anche a basse dosi tra c v m, alcol ed epatiti virali b e c.  Si ricorda ancora, infatti, che in presenza di tali fattori di rischio, che da soli possono offrire una spiegazione causale o alla patologia o alla neoplasia (in particolare alle epatopatie, alle cirrosi, all'epatocarcinoma), il supposto contributo del cvm non ha trovato convincenti conferme nelle ricerche sperimentali.

 

Queste le ragioni in base alle quali il tribunale ha ritenuto di non poter accogliere l'impostazione accusatoria che contesta i reati in oggetto a 31 amministratori e dirigenti che avevano governato e gestito il petrolchimico per trent'anni ai più alti livelli, ognuno accusato di essere consapevole della responsabilità del predecessore, ognuno partecipe  del medesimo disegno criminoso, tutti responsabili dei medesimi addebiti di colpa come se la situazione all'interno dello stabilimento fosse rimasta immodificata non solo negli ultimi trent'anni, ma fosse rimasta quella degli anni ’50-’60.

 

Conclude infine il Tribunale ribadendo ancora che in questa traslazione dei piani temporali si annida il vizio d’origine della imputazione, in un quadro del passato riportato al presente, in una artificiosa forzatura che non consente di individuare negli imputati condotti a giudizio i responsabili di eventi che hanno la loro causa  in un'altra epoca, cui si accompagna la rappresentazione di un quadro accusatorio che risente dell’enfasi della formulazione “a grappolo” delle fattispecie di reato in cui è inserito un ingiustificato accumulo di eventi.

Avverso tale sentenza proponeva appello il P.M., nonché, ex art. 576 cpp, le costituite Parti Civili.

In particolare, il P.M. proponeva impugnazione e chiedeva la riforma della sentenza relativamente alla intestazione dell’imputazione, nonché relativamente a tutti i punti del dispositivo che fanno riferimento al primo e al secondo capo d' imputazione  e per tutte le fattispecie di reato contestate agli imputati (fatta eccezione per quella di cui agli art. 422-449 c.p.) risultanti sia dal decreto di rinvio a giudizio, sia dalle contestazioni ex art. 517c.p.p. di cui alle udienze dell' 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000.

 

Il P.M. chiede, quindi, che venga dichiarata la penale  responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati e per i periodi di competenza rispettivamente loro contestati fin dall’udienza preliminare, nonchè  che i medesimi vengano condannati alla pena della reclusione specificatamente per ognuno di essi richiesta all'esito della requisitoria di primo grado.

Non viene presentato appello relativamente al terzo capo d’accusa (parte C), perché il reato è ormai prescritto, e in relazione all’ipotesi di reato di cui agli artt. 422-429 (rectius 449) c.p., affermandosi essere ipotesi del tutto residuale.

Sostanzialmente e sinteticamente, i motivi che determinano l’appello  per entrambi i capi d’imputazione (A e B) vengono enunciati nei seguenti:

- omessa lettura ed omessa considerazione di tutto il materiale probatorio fornito da Pubblico Ministero e dalle parti civili;

- omissione dei fatti, storici e processuali, indicati dal Pubblico Ministero e dalle parti civili, a sostegno delle proprie rispettive richieste finali;

- travisamento dei fatti;

- omessa considerazione di tutti i fatti e i dati riferiti dai consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili;

- travisamento ed errata interpretazione delle valutazioni di cui consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili.

- incompletezza e contraddittorietà della motivazione;- omessa considerazione e omessa applicazione di norme di legge, poste a tutela sia dei lavoratori che dell’ambiente, norme di legge vigenti da decenni rispetto all’epoca (1974) considerata dal Tribunale come rilevante in questo processo;

- errata interpretazione delle norme del codice penale e delle leggi speciali penali contestate agli imputati; errata interpretazione ed errata applicazione delle norme processuali penali relative al rigetto di richieste istruttorie dibattimentali sia del P.M. che delle parti civili.

 

Si lamenta quindi preliminarmente la NON CORRETTA INTESTAZIONE DELLA SENTENZA e l’ERRONEA RICOSTRUZIONE DELLE ACCUSE DEL P.M. evidenziandosi che il Tribunale ha omesso di riportare l'integrale capo d'accusa, e in particolare, ha omesso di riportare le contestazioni formulate ex art. 517 c.p.p. nel corso delle udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000.

 

Già per tale motivo, si chiede innanzitutto una riforma totale della sentenza di primo grado.

Quanto al merito, relativamente al primo capo d’imputazione, esordisce il P.M. con la disamina delle ACCUSE DI CUI AGLI ARTT. 437-589-590 C.P., lamentando superficiale ed erronea valutazione da parte del Tribunale, osservandosi che  in più punti della motivazione, ma in particolare alle pagine 462 e 463, la sentenza riconosce per " l'arco temporale fino al 1974 "che i livelli di esposizione al CVM per autoclavisti, insaccatori ed  essiccatori erano " nettamente superiori " ai limiti della normativa vigente, che il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi riscontrati e confermati anche dal Tribunale in queste categorie di operai erano dovuti al loro lavoro, per il quale fino al 1974 " non sono state adottate le misure cautelari idonee ".

 

In conclusione, riconosciuto il nesso causale, il Tribunale -a causa dell'eccessivo decorso del tempo- dichiarava la prescrizione per le lesioni colpose in questione e, contrariamente a quanto ci si poteva e doveva attendere, dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437 (omissione dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per condotte tenute in un'epoca successiva al 1973 ".

Il Tribunale si sarebbe dunque dimenticato del periodo precedente -che di dice sicuramente contestato dal Pubblico Ministero- mentre altrettanto sicuramente, stando alle sue stesse motivazioni, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare per l'articolo 437 c.p. la penale responsabilità quanto meno degli imputati per i quali lo stesso Tribunale aveva dichiarato la prescrizione del reato di lesioni colpose (CEFIS, BARTALINI, CALVI, GRANDI, GATTI, D’ARMINIO MONFORTE e SEBASTIANI), anche perché l'ultimo fenomeno RAYNAUD riconosciuto e ammesso dal Tribunale ( quello di Gabriele BORTOLOZZO) era stato diagnosticato nel 1995 e, quindi, non era prescritto (neanche come lesione) il 2 novembre 2001 (come, peraltro, non erano prescritte le lesioni diagnosticate dopo il 1995 per Terrin Ferruccio e per Guerrin Pietro, posizioni che il Tribunale non ha nemmeno considerato, pur trattandosi di parti civili ancora costituite).

 

Ciò già imporrebbe la modifica della sentenza di primo grado e del dispositivo "in parte qua". Ma comunque, secondo l’appellante, relativamente all'accusa di cui all'art. 437 codice penale, nella sentenza si rinvengono ulteriori e più ampi vizi, in fatto e in diritto, per i motivi che seguono, che hanno attinenza sia alla interpretazione giuridica delle norme, sia alle contestazioni specifiche risultanti dal primo capo d'imputazione, sia agli studi e alle conoscenze  storiche  sulla tossicità e sulla cancerogenicità del CVM, sia alle proprietà nocive, tossiche e cancerogene del CVM e del PVC.

Si sostiene, in particolare, che il Tribunale ha gravemente errato nella scelta di affidarsi totalmente ed esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati, omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale probatorio acquisito, che riguarda:

- le conoscenze storiche sulla tossicità del CVM (che si dice risalire alla fine degli anni quaranta e non ai primi anni settanta);

- i particolari organi colpiti dal CVM .

Si aggiunge altresì che, altrettanto inspiegabilmente,  il Tribunale ha negato l'esistenza e comunque l'applicazione di norme a tutela della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970, norme sicuramente vigenti quanto meno dall’epoca dei D.P.R. nr. 547/55 e nr. 303/56.

 

Quanto all’INTERPRETAZIONE GIURIDICA DELL’ART. 437 CP, per l’appellante fulcro e punto centrale di riferimento relativamente al primo capo d’imputazione, considerato come la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole imputazioni, premesso che il Tribunale avrebbe dedicato a tale norma poche, carenti, contraddittorie e generiche osservazioni liquidando come insussistente il fatto ascritto agli imputati, si precisa che nel presente procedimento tutte le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p. sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura: sono riferite cioè a tutte le disposizioni normative espressamente previste nello stesso capo d’imputazione.

 

E rispetto alle condotte individuate sarebbero stati esattamente individuati e provati i fatti specifici ascritti agli imputati, affermandosi che questi fatti hanno costituito violazione dei doveri di sicurezza in materia di lavoro; commessi consapevolmente, sono fatti la cui volontarietà ha concretizzato il reato dell’art. 437 1° comma c.p. determinando, nella verificazione dei molteplici eventi costituenti malattie e il disastro colposo, l’aggravamento della richiesta della pena come previsto dal 2° comma dello stesso articolo.

 

Si sostiene preliminarmente in ordine alla natura oggettiva e soggettiva di tale reato, che la motivazione dell’impugnata sentenza dimostra un’evidente incongruenza che inficia già dall’inizio l’intero impianto logico su cui è costruita. Ed infatti si fa osservare che mentre inizialmente essa nega la configurazione del reato dal punto di vista oggettivo, soffermandosi sulla natura e sulla nozione dei concetti di “impianti”, “apparecchi” “segnali”, sulla locuzione “destinati a”, sull’interpretazione del termine “collocati”, successivamente sostiene, in contraddizione con quanto poco prima affermato, che non vi è stata alcuna consapevole volontà da parte degli imputati di omettere quelle stesse condotte che tuttavia aveva negato essere esistenti sul piano oggettivo (“di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi”).

 

Circa l’ASSERITA INSUSSISTENZA DEL REATO EX ART. 437 C.P. SUL PIANO OGGETTIVO, ci si lamenta che il Tribunale abbia fornito a più riprese una interpretazione capziosamente rigorosissima - quanto assolutamente priva di seguito sia in dottrina che in giurisprudenza - della previsione normativa e della sua applicabilità in concreto. Interpretazione che, se si dovesse seguire la tesi del Collegio giudicante, verrebbe a vanificare l’applicabilità della fattispecie astratta ogni qual volta un Giudice si dovesse trovare di fronte all’imputazione per il reato di cui all’art. 437 c.p.. Infatti esordisce il Collegio con l’affermazione “…la previsione normativa di cui all’art. 437 c.p.……è caratterizzata sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà” (pag. 459).

 

E facendo tesoro di quest’ultima gratuita asserzione, la sentenza nega la sussistenza del reato sotto l’aspetto oggettivo sostenendo con puntiglioso vigore che le condotte omissive attribuite agli imputati sarebbero estranee alle nozioni espresse dalla  norma penale  in questione. Si osserva invece da parte dell’appellante che l’art. 437 c.p.  trova il suo primo, insopprimibile e fondamentale punto di riferimento negli articoli 32 1° comma e 41 della Costituzione che sanciscono il diritto della salute dell’individuo anchge nelle nelle sue formazioni collettive. Dunque è dalla Carta  costituzionale che derivano, concretizzandone i principi fondamentali, le disposizioni della normativa speciale che in questo processo sono  state enucleate e circoscritte,  quanto al  primo capo  d’imputazione, nei  D.P.R.  547/55,  303/56, nonché nell’art. 2087 c.c., oltre che  nelle  norme  derivanti dai contratti lavoro.

 

Tali norme speciali, che il Tribunale avrebbe decisamente ignorato, contengono tutte secondo l’appellante che così vuole risalire alla ratio dell’art. 437 cp, una disposizione di carattere generale, dalla quale non si può prescindere, che costituisce il “cappello” al rispettivo testo legislativo.Si tratta dell’art. 4 del D.P.R. 547/55 e dell’art. 4 del D.P.R. 303/56, norme che sono l’una lo specchio dell’altra: esse contengono il principio imprescindibile che impone l’obbligo per il datore di lavoro di attuare ogni misura diretta ad evitare che la sicurezza e la salute del prestatore di lavoro possano essere poste in pericolo e/o danneggiate. E’ il bene dell’integrità dei lavoratori l’oggetto centrale della tutela posta dall’art. 437 c.p., che interviene con al sanzione ogni qualvolta vi sia una volontaria violazione degli obblighi imposti a tali fini dalle norme speciali.

La norma di cui all’art. 437 c.p. è dunque diretta ad  anticipare  – reprimendo la condotta omissiva (o commissiva) – la soglia di tutela  rispetto all’effettiva lesione del bene  protetto,  imponendo che vengano adottate tutte le misure cautelari per evitare ingiustificati innalzamenti del rischio nell’esercizio di qualunque attività economica.

Il Tribunale invece, ne ha inopinatamente, ingiustificatamente, illegittimamente e arbitrariamente voluto restringere l’operatività, procedendo, sulla base di una elencazione fondata sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma penale, ad escludere dal novero della previsione normativa dell’art. 437 c.p., e quindi dalla possibilità di attribuzione del reato agli imputati sotto il profilo oggettivo:

a)tutti quegli strumenti o dispositivi (non collocati per effetto delle condotte omissive addebitate dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non rientranti nel concetto di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel concetto di apparecchi (“caratterizzati dalla complessità tecnica”)(pag. 460);

b)tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene o generiche per mancata individuazione dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi antinfortunistici (pag. 460-461);

c)tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità operative” e non ad attività di natura preventiva ed antinfortunistica (pag. 461).

 

In realtà, secondo l’appellante, la stessa dottrina più accreditata in materia e la costante giurisprudenza sostengono unanimemente il principio di carattere generale secondo cui l’interprete non è autorizzato, sia dal dato testuale della norma sia dalla ratio complessiva, ad introdurre elementi restrittivi tali da costituire insidiosi svuotamenti della norma. Richiedendosi solo, secondo citati pronunciati della Suprema Corte, “che il comportamento dell’agente si concreti nella omissione, rimozione o danneggiamento di apparecchiature che risultino necessarie per la prevenzione di infortuni in relazione ad una collettività lavorativa la cui entità pone essa stessa le condizioni della diffusibilità del pericolo” (Cass. sez. I 2.3.1983).

 

Quanto dunque al primo assunto (a), il Tribunale, per negare l’attribuibilità delle condotte specificamente contestate agli imputati, concentra l’attenzione sulla nozione “destinati a”, senza avvedersi che proprio quelle condotte che sono state contestate in questo giudizio hanno tutte un comune denominatore, costituito dall’essere state dirette a vanificare la sicurezza dei prestatori di lavoro nell’esercizio dell’attività in termini prevenzionistici e antinfortunistici. “Destinati a” dice l’art. 437 c.p., e dunque deve trattarsi di un qualunque congegno di qualsiasi rilievo a funzione prevenzionistica. Dunque anche i mezzi di protezione personale che costituiscono fondamentale strumento per il corretto esercizio di una doverosa attività di cautela e di prevenzione ai fini della sicrezza sul luogo di lavoro, cautela che nello stabilimento Petrolchimico non sarebbe stata adottata, per come riconosciuto dallo stesso Tribunale almeno fino al 1974.

 

Quanto al secondo assunto (b), gli addebiti liquidati dal Collegio come “generici” o “non correlabili” (le condotte omissive relative al blocco degli impianti, al risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in ordine alla sostituzione degli organi di tenuta) non solo trovano nell’istruttoria dibattimentale svolta la loro concretezza in situazioni di luogo e di tempo, ma è la loro stessa individuazione nell’imputazione a trovare corrispondenza nella fattispecie astratta descritta dalle norme speciali. Gli addebiti mossi sarebbero infatti immediatamente riconducibili alle disposizioni che nel capo d’imputazione identificano la condotta tenuta (ovvero, non tenuta) dagli imputati: in primis alle norme più sopra citate (gli articoli 4 dei due D.P.R. in tema di sicurezza e salute) che fanno parte del corpo normativo della legislazione speciale, costituendone i principi introduttivi che fondano le condotte doverose; a seguire le singole disposizioni citate; in chiusura l’art. 2087 c.c.

Quanto al terzo assunto ( c ) in forza del quale il Tribunale vorrebbe escludere l’operatività dell’art. 437 c.p. in  relazione a quelle condotte contestate che ritiene costituire soltanto “modalità operative”, diverse quindi dalla omissione di cautele (omessa sorveglianza sanitaria, omessa informazione ai dipendenti, omessa adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o differenti procedure, omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, omessa separazione delle lavorazioni insalubri), si sostiene contrariamente che le condotte omissive ora enunciate  trovano nelle disposizioni speciali la loro esatta e puntuale collocazione, laddove esse impongono che tali attività preventive siano svolte nel rispetto della sicurezza e della salute dei prestatori di lavoro nell’esercizio dell’attività imprenditoriale.

 

Passando alla questione relativa al PROFILO SOGGETTIVO DEL REATO EX ART. 437 C.P., si osserva come essa sia sorprendentemente esposta dal Tribunale in termini del tutto riduttivi, concludendo nel senso che gli imputati, nella consapevolezza della condizione di rischio correlata all’esposizione degli operatori, affrontarono adeguatamente la situazione adottando tutte le iniziative idonee. Lamenta al riguardo l’appellante che della grandissima parte degli elementi probatori emersi nel corso del dibattimento di primo grado la motivazione o non ha tenuto conto, o ne ha estrapolato solo alcune parti per fondare le proprie motivazioni, tralasciandone altre di uguale e contraria portata, o, infine, ne ha evitato la doverosa opera di confutazione.

 

Contrariamente il P.M. appellante, premesso in diritto sul tema del dolo nel reato di cui all’art. 437 c.p. che la condotta dolosa addebitata ai sensi dell’art. 437, I° comma c.p. agli imputati di questo processo è quella di avere omesso, con coscienza e volontà, tutte le doverose cautele indicate dal capo d’imputazione, con la consapevolezza che tali cautele avevano lo scopo di prevenire il disastro, sostiene che tali elementi, comprovati dall’istruttoria dibattimentale, mettono in luce prima di tutto che gli imputati, tutti, dovevano conoscere e conoscevano le specifiche e inderogabili prescrizioni contenute nelle norme dei D.P.R. 547/55 e 303/56 che il capo d’imputazione ha dettagliamente descritto. Dovevano conoscere e conoscevano il dovere di diligenza e di perizia dettato dall’art. 2087 c.c.: dovere qualificato, perché posto in capo a datore di lavoro.

 

Dovere di diligenza che significa anche dovere d’informazione, anche in relazione a tutto ciò che attiene le conoscenze scientifiche e tecniche, e che imponeva agli imputati di adottare precisi comportamenti e di apprestare tutti i mezzi per la concreta tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.

E sostiene l’appellante che nella specie gli imputati di questo processo si sono esattamente rappresentati la situazione di grave rischio lavorativo che incombeva sui dipendenti nel lavorare sostanze conosciute da decenni come tossiche e poi come cancerogene e si sono conseguentemente rappresentati gli strumenti necessari ad evitare o a contenere le dinamiche offensive, ma pur in tale consapevolezza e conoscenza non hanno ottemperato ai loro doveri.

Secondo il P.M. infatti il processo di primo grado ha provato che il CVM è conosciuto sin dagli anni ’40 come sostanza tossica per il fegato e per gli arti, produttrice di malattie quali il morbo di Raynaud, l’acroosteolisi, varie forme di epatopatia; ha provato che ben prima del 1974 le aziende chimiche produttrici della sostanza e dei suoi derivati avevano saputo quali erano stati i risultati delle indagini scientifiche svolte a livello mondiale sulla cancerogenicità del CVM-PVC; l’istruttoria ha provato che ne erano venute a conoscenza per prime, suggellando con il noto patto di segretezza tra europei ed americani la volontà di mantenere occulta la notizia.

A fronte di questa conoscenza gli imputati avrebbero dovuto attivarsi usando le tecnologie esistenti al fine di predisporre i mezzi di tutela e di prevenzione che la legge loro imponeva; eliminando tutte le situazioni lesive determinate da impianti irrecuperabili o bisognosi di manutenzione, fonti di rischio continuo per chi vi lavorava; predisponendo mezzi e sistemi di protezione, prevenzione e controllo come quelli di cui dà ampia descrizione l’imputazione ad essi ascritta. Tutto questo non è stato fatto –secondo il P.M.- perché non è stato voluto, Dunque neppure può escludersi la sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

Al riguardo il P.M. appellante, riaffermati i concetti in ordine al dovere di sicurezza che incombe sul datore di lavoro in forza delle previsioni di cui all’art. 2087 C.C. ed ai DD.P.R. 547/55 e 303/56, ripercorre la cronologia delle conoscenze sulla nocività del CVM-PVC facendole appunto risalire agli anni ’40, e sugli studi sugli animali e sull’uomo che portarono alla conoscenza fin dagli anni ’60 anche della cancerogenità, tenuta nascosta dalle industrie chimiche europee ed americane in forza di un patto di segretezza che si sostiene provato anche documentalmente.

Lamenta dunque che il Tribunale non ha tenuto in conto i fondamentali e cogenti obblighi imposti al datore di lavoro dall’art. 2087 C.C., ma neppure ha dato rilevanza alle conoscenze sulla tossicità del cvm-PVC, facendo anche confusione continua tra i concetti di tossicità e cancerogenicità, trattandoli alla stessa maniera, come se fossero la stessa cosa. Precisa invece l’appellante che il rischio tossico del CVM da parte delle aziende non era e non poteva essere ignorato negli anni sessanta: non era ignoto, era volutamente ignorato. Cosa diversa il rischio oncogeno, che anche temporalmente è emerso dopo il rischio tossico, ma comunque non nel 1974 come sostiene il Tribunale, ma già nel corso degli anni sessanta, anche se si è avuta consapevolezza certa di ciò, a livello mondiale, solo con il prof. Viola nel 1969, dopo una serie di studi, citati e documentati, che dai primi anni sessanta avevano confermato i sospetti in tal senso, ed il tutto era ben noto a Montedison.

Il Tribunale dunque avrebbe errato di fatto lì dove ha detto che il CVM deve ritenersi cancerogeno solo dal 1974 e che, quindi, soltanto  dal 1974 incombevano sul datore di lavoro gli obblighi normativamente previsti.

In realtà, osserva il P.M., dopo la presentazione del lavoro di Viola a Tokyo, c’è stato l’intervento di maggio a Houston. Però, contemporaneamente, nel maggio del 1970, era stato pubblicato su Medicina del Lavoro un approfondimento del dottor Viola  sulla situazione del cloruro di vinile. Questo studio del dottor Viola, oltre che essere pubblicato su “La Medicina del Lavoro”, quindi su una rivista italiana ben nota e ben considerata, è stato trovato anche negli Stati Uniti tra la documentazione delle varie società industriali,  a conferma del clamore creato dall’ingresso del prof. Viola sulla scena mondiale. Viola dice che, pur parlando di animali, il suo obiettivo rimane pur sempre l’uomo.

E dice anche che le lesioni ossee dei tessuti connettivali sono simili  a quelle osservate nell’uomo. Pertanto, conclude confermando le raccomandazioni espresse al sedicesimo congresso internazionale di Medicina del Lavoro di Tokyo nel 1969: “vorrei che venissero prese alcune precauzioni negli stabilimenti di produzione, quali la riduzione del valore limite di soglia del monomero e la sostituzione della pulitura manuale delle autoclavi con mezzi automatici”: e il direttore-proprietario della rivista “La Medicina del Lavoro” era Enrico Vigliani, direttore della clinica del lavoro di Milano e autorevole consulente di Montedison, sia personalmente che attraverso il suo allievo prof. Ghetti, anche per i problemi connessi ai tumori professionali. L’attenzione alla problematica lanciata da Viola da parte delle industrie del settore a livello internazionale, sarebbe d’altra parte provata documentalmente, così come peraltro sarebbe documentalmente provato che la risposta fu quella dell’occultamento della notizia attraverso il c.d. patto di segretezza.

 

Nello specifico, il P.M., lamenta poi che il Tribunale nell’attribuire al CVM solo l'angiosarcoma epatico, il fenomeno di RAYNAUD, l’acroosteolisi e pochi rari casi di epatopatia, escludendo qualsiasi altra patologia, in maniera estremamente contraddittoria, ha chiuso completamente gli occhi di fronte ad un dato storico e processuale incontestabile e cioè che il CVM sia, innanzi tutto, un epatotossico generale ed ha di fatto negato l'esistenza di studi e di pronunciamenti anche di organismi internazionali sulla natura tossica del CVM e del PVC per il fegato e per i polmoni: natura tossica innanzitutto e poi anche cancerogena.

 

L’impostazione del Tribunale sarebbe sbagliata in fatto, in quanto tutti i maggiori organismi e organizzazioni internazionali e nazionali (quelli di indiscutibile serietà e prestigio) hanno confermato tale natura tossica del CVM-PVC, ed hanno ritenuto pure la cancerogenicità del CVM. E  persino gli organismi d’origine industriale, statunitense ed europea, non hanno avuto mai dubbi sulla tossicità del CVM e poi sulla sua cancerogenicità tanto da descriverlo come un cancerogeno totipotente, fin dal 1974.

La natura tossica del CVM-PVC risulterebbe d’altra parte pure da specifiche schede cosiddette di sicurezza di origine aziendale, che costituiscono una sorta di confessione extra-giudiziale, e consapevolezza sulla tossicità da parte degli imputati emergerebbe altresì dai loro acquisiti  interrogatori in sede di indagine preliminare, e dalle indicazioni sul punto dello stesso sanitario Montedison di Porto Marghera,  dottor Salvatore Giudice, che  in un documento agli atti del 1971 espressamente parlava delle “tecnopatie” causate dal CVM  e che in aula ha detto tranquillamente che, giunto a Porto Marghera, nel 1969, sapeva già che il CVM era un epatotossico.

 

Procede poi il P.M., con citazione di specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi della situazione degli impianti CVM-PVC di Porto Marghera che ritiene vetusti, obsoleti e inadeguati alle sostanze tossiche e cancerogene trattate, e sostenendo che la sentenza assolutoria del Tribunale deve essere radicalmente riformata per i seguenti principali motivi:

- omessa valutazione di fatti e dati offerti all’esame del Tribunale, così come emergenti dalla documentazione acquisita presso Enichem e Montedison;

- omessa valutazione degli stessi dati, così come esposti e provati dalla disamina dei consulenti del P.M. e delle parti civili;

- incomprensibile e comunque immotivato appiattimento sulle posizioni dei consulenti tecnici di Enichem e Montedison, dei quali sono riportati pari pari in sentenza interi brani tratti dalle loro relazione tecniche, senza alcuna considerazione, né alcuna critica (nemmeno negativa) di quanto sostenuto e provato in senso contrario dal P.M., dalle parti civili e dai loro consulenti;

- deformazione e travisamento delle dichiarazioni dei testimoni assunti in dibattimento;

utilizzazione di dati di fatto completamente sbagliati, ma tratti pari pari dalle memorie della difesa.

 

Lamenta il P.M. che l’assunto indimostrato da cui parte (e a cui, poi, arriva inevitabilmente) il Tribunale è quello relativo al fatto che MONTEDISON, quando nel 1974 sarebbe divenuta consapevole del pericolo cancerogeno costituito dal CVM, avrebbe fatto immediatamente di tutto per garantire la sicurezza degli operai. Una tale asserzione del Tribunale è stata fatta in relazione sia all'accusa di cui all'art. 437 c.p., sia a quella di disastro innominato colposo, sia a quella di lesioni e morti colpose. E però una tale asserzione sarebbe profondamente errata per tutta una serie di considerazioni, soprattutto di fatto.

 

Primo e gravissimo errore del Tribunale sarebbe stato quello di “cancellare” dal suo esame e dalle sue valutazioni il fattore “tossicità” e trattare solo quello relativo alla cancerogenicità.

Infatti, la tossicità del CVM è emersa fin dagli anni cinquanta e da quell’epoca gli impianti dovevano adeguarsi alla normativa e tutelare la salute dei lavoratori. A ciò va aggiunto il fatto che anche il rischio cancerogeno è emerso durante gli anni sessanta, comunque ben prima del 1974 e quantomeno dal 1969 con gli studi del prof. Viola.

Inoltre, non corrisponderebbe assolutamente al vero quanto detto ancora dal Tribunale e cioè che gli impianti ed i reparti del CVM-PVC di Porto Marghera fossero dotati delle migliori tecnologie disponibili. Ciò non era vero all'epoca della messa in funzione dei primi impianti negli anni cinquanta e sessanta e tanto meno vero si dimostrò mano a mano che giungevano dagli studiosi e dai ricercatori le conferme della tossicità e poi della cancerogenicità del CVM.

Al riguardo, sostiene il P.M. che nel citare i lavori compiuti dall'azienda per adeguare gli impianti alle “emergenze cancerogene” (sempre dimenticando i problemi della tossicità), i giudici di primo grado sono incorsi in affermazioni, gratificanti per le aziende, che però non hanno assolutamente alcun riscontro con la realtà dei fatti.

Il Tribunale per sostenere la sua tesi ha ripetutamente fatto riferimento a limiti di esposizione al CVM per gli operai dei vari reparti, che dopo il 1973 sarebbero stati bassissimi e comunque senza effetto per la salute dei medesimi. Ma sostiene l’appellante che i dati  documentali agli atti del fascicolo processuale vanno in tutt'altra direzione e parlano di esposizioni elevate e molto elevate ancora per tutti gli anni settanta e, in alcuni casi, anche oltre. E cita al riguardo i bollettini d’origine aziendale che andrebbero ben oltre il 1973.

Inoltre, si sostiene nell’appello la totale inaffidabilità dei controlli ambientali sul CVM-PVC disposti in fabbrica a Porto Marghera (tra l'altro e in ogni caso, con grave e colpevole ritardo), per tutto l'arco temporale contestato ai vari imputati.

 

Lamenta poi il P.M. la generalizzata assoluzione degli imputati dalle contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro  (DPR 547/55, DPR 303/56, DPR 10/9/82 n. 962). Assoluzione che peraltro, pur indistintamente e generalmente pronunciata dal Collegio, non risulta motivata né con riferimento alle singole contravvenzioni contestate in imputazione, né con riferimento alle prove fornite dal dibattimento che, per come analiticamente nei motivi precedenti ricostruite, dimostrano senza ombra di dubbio non solo l’inefficienza e la non adeguatezza del sistema di monitoraggio ad oggi utilizzato all’interno dello stabilimento ma, soprattutto, la sua non conformità nè ai dettami prescritti dagli artt. 21 e 21 del DPR 303/88 nè alle regole tecniche imposte dal DPR 962/82 abrogato dall’art. 13 del D. Leg.vo 25/2/2000, n. 66 che ha ricondotto tutta la materia in precedenza disciplinata dal citato DPR nell’ambito della generale disciplina dettata dal D. leg.vo 626/94 e successive modifiche, recuperando, in particolare, quanto alle tecniche di monitoraggio, i sistemi di controllo ambientale previsti negli allegati al D. Leg.vo 277/91.

Osserva il P.M. che proprio tale modifica normativa dimostra che la materia è tuttora penalmente sanzionata sulla base delle norme incriminatrici contenute sia nel D. leg.vo 277/91 che nel D. Leg.vo 626/94: non vi è stata, pertanto, “abolitio criminis” ma soltanto successione delle leggi penali nel tempo. Il Tribunale avrebbe conseguentemente dovuto affrontare il problema della norma penale applicabile sulla base dei noti criteri contenuti nell’art. 2 del cod. penale.

Non lo ha fatto perché ha ritenuto -trascurando del tutto di considerare gli elementi di fatto illustrati dai CC.TT. dell’accusa e le relative implicazioni giuridiche prospettate nel corso della discussione- che il sistema di monitoraggio fosse rispettoso di tutti i dettati normativi e fosse davvero in grado di misurare la reale concentrazione del gas negli ambienti di lavoro.

Lamenta l’appellante che una tale valutazione è però errata sia in fatto che in diritto. Il Tribunale, infatti, non ha tenuto in alcun conto la denunciata insufficienza ed inadeguatezza del numero e della collocazione dei punti di prelievo (campanelle) nel reparto CV 24.

La sproporzione evidente tra il volume d’aria destinata ad essere campionato dalle campanelle a piano terra rispetto a quelle collocate sopra le autoclavi, ad esempio (700 mc per le prime contro 340 mc per le seconde), dimostra tale inadeguatezza e consente di fondare la censura della violazione dell’art. 4, I. C. DPR 962/82.

Ma le censure più gravi sono quelle relative all’imposizione di soglie massime di misurazione al gascromatografo. Esse sono inferiori addirittura alla soglia di allarme prevista dalla direttiva europea e dal DPR che ne ha dato attuazione: di qui la violazione dell’art. 5 di detto DPR 962/82.

Violazione che sussiste anche in relazione all’installazione ed al funzionamento dell’interruttore ON/OFF, dal momento che si è dimostrato come lo stesso abbia significativamente alterato gli automatismi su cui il legislatore contava proprio per impedire ogni possibilità di interventi correttivi nella rilevazione del gas.

 

Ma un tal genere di genere di monitoraggio è anche contrario agli obblighi affermati, ad esempio, dall’art. 20 del DPR 303/56. Da tale norma, infatti, scaturiscono sia il dovere di eliminazione e/o di progressiva riduzione all’infinito della possibilità di sviluppo e/o della diffusione del gas tossico sia il dovere di eliminare immediatamente, in caso di fuga, il gas nello stesso punto in cui lo stesso è stato prodotto.Di qui, conseguentemente, l’obbligo di aspirare il gas nei punti critici che dovranno, pertanto, essere verificati e controllati da un sistema di misurazione puntiforme capace di controllare, in ognuno di essi, il verificarsi  di una fuga e di consentire i tempestivi interventi di contenimento e di bonifica.Tutto questo avrebbe dovuto essere considerato dal Tribunale.

L’assoluzione dalle contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal C.T. prof. Nardelli.

 

Procede poi il P.M., con la consueta tecnica di citazione di specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi delle singole condotte omissive contestate agli imputati, erroneamente, si sostiene, non ritenute dal Tribunale.

 

Si precisa in particolare l’indicazione e l’illustrazione dei fatti che concretamente si contestano agli imputati, ognuno per il periodo di rispettiva competenza, sostenendosi che:

1.VENIVA OMESSO QUALSIASI INTERVENTO DI BLOCCO (definitivo o anche solo temporaneo) DEGLI  IMPIANTI, in particolare di quelli più obsoleti ed irrecuperabili, ad esempio il CV6, come evidenziato e richiesto dalle piattaforme e dai documenti sindacali (del 1975 e del 1977), nonché dalla mozione n. 4 presentata al Consiglio regionale Veneto il 4 agosto del 1975, mozione cui il Presidente della Montedison Eugenio CEFIS rispondeva in data 19 agosto 1975.

2. VENIVA OMESSO DI PREDISPORRE E COLLOCARE (o far collocare) SISTEMI E APPARECCHI DI SICUREZZA DESTINATI ED IDONEI A PREVENIRE LA INSORGENZA NEI DIPENDENTI DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA, NONCHE’ NEI DIPENDENTI DELLE VARIE COOPERATIVE D’APPALTO, DI TUMORI E MALATTIE (ANCHE GRAVISSIME), a causa del contatto con il CVM-PVC (e relativi componenti/additivi di polimerizzazione e lavorazione).

3. VENIVA OMESSO IL SEGNALATO RICHIESTO “INTERVENTO GLOBALE DI RISANAMENTO DEGLI IMPIANTI DA UN LATO E MISURE CHE GARANTISCANO PER IL FUTURO IL MONITORAGGIO CONTINUO DELL’AMBIENTE E DEGLI OPERAI”(relazione FULC e Università di Padova del 12.3.1977)

4. ANCORA PIU’ IN PARTICOLARE, LA COLPA (progressiva nel tempo) E’ CONSISTITA IN IMPRUDENZA, NEGLIGENZA, IMPERIZIA ED ESPRESSA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 2087 C.C. – ARTT 236 CO.1 E 4, 244 LETT. A, 246, 354 CO. 1 E 2, 374, 375, 377, 383, 387, 389, 391 D.P.R. 27 APRILE 1955 N. 547 – ARTT. 3, 4, 17, 19, 20,21, 25, 58, 59 DEL D.P.R. 19 MARZO 1956 N. 303, PER NON AVER – PUR IN PRESENZA DELLE CONOSCENZE MEDICHE E SCIENTIFICHE DI CUI SOPRA – ADOTTATO NELL’ESERCIZIO DELL’IMPRESA TUTTE E IMMEDIATAMENTE LE MISURE NECESSARIE PER LA TUTELA DELLA SALUTE DEI LAVORATORI.

5. PER AVER INSERITO (o fatto inserire) NEI PROGRAMMI E NEI BUDGETS ANNUALI (o poliennali) DI INVESTIMENTO E DI MANUTENZIONE CAPITOLI DI SPESA RELATIVI, IN MANIERA SPECIFICA, AGLI IMPIANTI DEL CVM-PVC, DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLA NECESSITA’ DI ELIMINARE TOTALMENTE ED IMMEDIATAMENTE LE FUGHE DI GAS CVM, DI 1,2 DICLOROETANO E LE LORO IMPUREZZE DI REAZIONE NELL’AMBIENTE DI LAVORO (reparti) E NELL’AMBIENTE ESTERNO (a partire, in particolare, dal programma di investimenti 1973-75, datato novembre 1973, acquisito c/o la Prefettura di Venezia).

6. PER NON AVER CURATO CHE I LAVORATORI USASSERO TUTTI I MEZZI NECESSARI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE (in particolare quelli addetti alla pulizia delle autoclavi, dei serbatoi di CVM, slurry, cicloesanone, delle colonne di strippaggio, degli essicatori e filtri, dei gasometri del CVM di recupero, nonché all’essiccamento e all’insacco) E GLI APPARECCHI RESPIRATORI IDONEI AD EVITARE L’ASPIRAZIONE DEI GAS.

7. PER NON AVER PREDISPOSTO MISURE DI SICUREZZA PER TUTTE LE FASI DEL CICLO PRODUTTIVO (comprese quelle di essicamento, stoccaggio, immagazzinamento, trasporto, carico, insaccamento, ecc.) E PER TUTTI GLI AMBIENTI DI LAVORO, COMPRESO IL LABORATORIO.

8. PER NON AVER SEPARATO LE LAVORAZIONI INSALUBRI, PONENDO IN PARTICOLARE ALL’ESTERNO DEI LOCALI LE PARTI DEGLI IMPIANTI POTENZIALMENTE SOGGETTE A PERDITE ANCHE STRAORDINARIE DEI GAS.

9. PER NON AVER DISPOSTO (o almeno richiesto) LO SPOSTAMENTO DAGLI AMBIENTI A RISCHIO CVM DEI LAVORATORI DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE, il cui spostamento era stato indicato come inevitabile nella relazione del marzo 1977 dell’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Padova.

10. PER NON AVER REAGITO IN ALCUNA MANIERA O COMUNQUE IN MANIERA INSUFFICIENTE, ALLE SEGNALAZIONI CONTENUTE IN DETTA RELAZIONE DEL MARZO 1977, in cui si parlava di “situazione sanitaria complessiva grave e tale da richiedere un intervento globale di risanamento degli impianti da un lato e misure che garantiscano per il futuro il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai”.

11. PER AVER CREATO, ORGANIZZATO E MANTENUTO UN’INFERMERIA, UNA STRUTTURA SANITARIA E UN SERVIZIO MEDICO-SANITARIO ALL’INTERNO DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLE NECESSITA’ DI PREVENZIONE E DI CONTROLLO DELLA SITUAZIONE SANITARIA GENERALE E PARTICOLARE DELLE MIGLIAIA DI DIPENDENTI DELL’INTERO STABILIMENTO PETROLCHIMICO e, in particolare, delle varie centinaia di dipendenti addetti alla lavorazione e trattazione in qualsiasi maniera del CVM-PVC, nonché dei dipendenti delle società cooperative che lavoravano in appalto all’interno dello stabilimento, entrando in contatto con il CVM-PVC.

12. PER NON AVER FORNITO INFORMAZIONI DETTAGLIATE E TEMPESTIVE AI PROPRI DIPENDENTI DI PORTO MARGHERA E AI DIPENDENTI DELLE DITTE CHE LAVORAVANO IN APPALTO IN ORDINE ALLA NOCIVITA’ E PERICOLOSITA’ DEL CVM-PVC (fin dal 1970) E DEL DICLOROETANO (fin dal 1977), ALLA REALTA’ IMPIANTISTICA E ALLE QUANTITA’DI EMISSIONE IN ARIA (sia all’interno che all’esterno dei singoli reparti), SE NON A SEGUITO DI PRESSANTI RICHIESTE SINDACALI (reiterate in particolare fino al 1977 e al 1980) generate dalle conoscenze acquisite “aliunde” dai lavoratori e dai loro rappresentanti di fabbrica e sindacali.

13. PER NON AVER MUNITO DI CAPPE DI ASPIRAZIONE E DI SISTEMI DI CAPTAZIONE DEGLI INQUINANTI IDONEI I LUOGHI IN CUI VENIVANO EFFETTUATE OPERAZIONI CHE PER MODALITA’ DI ESECUZIONE ESPONEVANO GLI OPERAI ADDETTI AD INALAZIONE DEI VAPORI, DI GAS E DELLE POLVERI SUINDICATI (tutte le fasi di lavorazione del PVC, tra cui le fasi di prelievo del lattice, pesatura e successiva analisi fisica, pulizia dei filtri, insaccamento del polivinilcloruro.

14. PER NON AVER REALIZZATO SUFFICIENTI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE E MANUTENZIONE DEGLI ELEMENTI DEGLI IMPIANTI PIU’ SOGGETTI A DETERIORAMENTO E DEI QUALI ANDAVA GARANTITA LA PERFETTA TENUTA, ONDE EVITARE IL RISCHIO DI DISPERSIONE E FUGHE DI GAS IN AREE DI LAVORO (quali valvole, flange, premistoppa e compressori CVM.

15. PER NON AVER TEMPESTIVAMENTE INSTALLATO GASCROMATOGRAFI O ALTRI STRUMENTI DI RILEVAZIONE IN CONTINUO, PREDISPOSTI ANCHE PER SEGNALARE IMMEDIATAMENTE IN TUTTI I REPARTI LE FUGHE (ordinarie e straordinarie) DI GAS CVM (quantomeno dal 1972) E DI DICLOROETANO ( quantomeno dal 1978) NELL’ARIA DEI LUOGHI E DEI SINGOLI POSTI DI LAVORO.

16. PER AVER COMUNQUE INSTALLATO NEL 1975 E SUCCESSIVAMENTE CONTINUATO AD UTILIZZARE GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO DEL TUTTO INIDONEI A GARANTIRE LA TEMPESTIVA RILEVAZIONE DELLE FUGHE, L’ESATTA INDIVIDUAZIONE DEL PUNTO DI FUGA, NONCHE’ LA CONCENTRAZIONE DEL CVM NEI SINGOLI POSTI DI LAVORO, GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO PER DI PIÙ MALFUNZIONANTI E COMUNQUE IN CONTRASTO PURE CON LE PREVISIONI DELLA NORMATIVA C.E.E. – DIRETTIVA N. 78/610 – E CON IL D.P.R. 10 SETTEMBRE 1982 N. 962, NONCHE’ INSUFFICIENTI NUMERICAMENTE, con particolare riferimento al fatto che presso il reparto CV24, quantomeno fino al 1989, era necessario, ad esempio, interrompere il monitoraggio del CVM sull’intera linea in occasione delle ispezioni delle autoclavi (sprovviste di sistemi di monitoraggio autonomo) ad opera del personale addetto al controllo ed alla pulizia, ad ogni ciclo e quindi dopo ogni bonifica.

 

Ripropone poi il P.M. l’elenco dei lavoratori del Petrolchimico più a rischio, e cioè quelli addetti alle autoclavi, all’insacco e all’essiccamento del PVC, colpiti da diversificate patologie. Elenchi che durante la requisitoria erano stati proiettati sullo schermo e che, secondo l’appellante, anche visivamente venivano a confermare questa sorta di singolare epidemia che aveva colpito (e continua a colpire) gli operai in questione.

Ci si lamenta al riguardo che il Tribunale non ha considerato minimamente questi elenchi nel loro insieme, che specificavano – tra l’altro – anche i casi dei lavoratori assunti dopo il 1970. Pur avendo dovuto riconoscere l’esistenza di tali particolari mansioni a rischio, il Tribunale non ne avrebbe tratto – illogicamente e immotivamente – le conseguenze, non avendo valutando la massa imponente di dati storici ed oggettivi attestanti il pericolo corso da questi e da altri operai, pericoloso concretizzatosi con numerosi casi di malattia e di morte.

 

A sostegno di tale motivo l’appellante richiama l’argomento relativo alle mansioni degli autoclavisti e alle asserite modifiche portate alle autoclavi che sarebbe uno dei più emblematici e rappresentativi dell’intera sentenza impugnata in tema di mistificazione della realtà processuale. Sostiene infatti il P.M. che in questa parte della motivazione, più che in ogni altra, si rinviene una sbalorditiva concentrazione di errori, di contraddizioni in punto di fatto, di omissioni evidenti, di vere e proprie distorsioni ed alterazioni della realtà processuale emersa nel corso del dibattimento di primo grado. Al riguardo si evidenzia che in questa, come nelle altre parti della sentenza relative alle modifiche e agli interventi eseguiti sugli impianti dello stabilimento Petrolchimico, la motivazione accoglie in toto, considerandole come valido ed unico elemento di prova, le risultanze documentali provenienti dall’azienda. In particolare le già note “commesse”. Si ignorerebbero invece le prove documentali e testimoniali fornite dall’accusa, distorcendone altre per renderle favorevoli alla tesi sostenuta.

 

Secondo il P.M., così facendo, la sentenza si concentra sui dati forniti dalle “commesse” discusse dai CC.TT delle aziende, elevandoli ad elementi certi di una asserita ma non dimostrata modifica delle procedure e delle apparecchiature. E però, nel far questo, da un lato la sentenza cade in continua contraddizione persino con se stessa , dall’altro costruisce l’intero impianto logico su di un errore di fondo insuperabile: errore di fondo che consiste nel ritenere eseguiti gli interventi su impianti e procedure solo perché progettati dalle singole commesse.

Ma gli interventi o non sono mai stati realizzati o, anche se avviati, sono stati successivamente interrotti e abbandonati per l’inefficacia delle strumentazioni acquistate a seguito delle commesse. Commesse, dunque, che, elevate ad unico elemento probatorio dal Giudice di primo grado, dimostrano in pieno la totale fallacia e inaffidabilità.

 

Si citano dunque nell’atto di appello i passi della sentenza che trattano l’argomento con evidenziazione degli asseriti errori e contraddizioni e indicazione delle fonti probatorie che deporrebbero il contrario, rimarcando come il Tribunale omette ogni citazione testimoniale quando si tratta di deposizioni che rilevano l’inefficienza degli impianti; quando sceglie un teste estrapola solo le dichiarazioni concordanti con la tesi accolta dell’efficienza degli impianti.

Dunque secondo il P.M., i discordanti riferimenti testimoniali citati, le omissioni evidenti e le contraddizioni contenute nella stessa motivazione dimostrano ancora una volta l’erroneità della sentenza impugnata, che deve essere quindi radicalmente riformata.

Per analoghi motivi ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere totalmente riformata anche in relazione alle posizioni riguardanti tutti i lavoratori addetti all’insacco.

Al riguardo ripercorre le quattro principali contestazioni d’accusa mosse agli imputati che fanno riferimento alla categoria degli operai addetti all’insacco.

 

1. Con particolare riferimento agli insaccatori soci delle cooperative in appalto, osserva l’appellante come il Tribunale, dopo aver escluso la sussistenza di una relazione causale (o concausale)  tra le  patologie respiratorie che hanno colpito tale categoria di lavoratori e l’ esposizione dei lavoratori  alla polvere di PVC, riconosce comunque  che vi è stato, da parte di Montedison, l’omissione del controllo dell’uso della maschera antipolvere nei confronti dei soci - lavoratori delle cooperative. In tal modo il Tribunale, fra  le condotte contestate nel capo di imputazione, ritiene fondata tale specifica omissione che trova espresso  riferimento normativo  nell’obbligo del datore di lavoro   “di disporre ed esigere che i lavoratori usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione …”, obbligo previsto  dall’ art. 4 lett. c del DPR 27 aprile 1955 n. 547 e art 4 DPR 303/56 che va messo in relazione, per quanto concerne il lavoro di insacco che espone il lavoratore al contatto con le polveri, con l’art. 387 del medesimo DPR 547 che fa obbligo “l’uso di maschere respiratorie a lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas, polveri o fumi nocivi”.

 

E così il Tribunale, mentre:

- da un lato riconosce  l’applicabilità degli obblighi di cui alla citata normativa antinfortunistica in capo ai dirigenti di Montedison e a tutela  dei soci lavoratori delle cooperative – in evidente applicazione  degli artt. 3, 2 comma letta a) del DPR 547 e art. 3 DPR 303/56,  nonché del principio della cosiddetta “ingerenza” della ditta committente, che determina la responsabilità della ditta  committente – Montedison -  per eventi di malattia o morte che colpiscono i soci delle cooperative in appalto;- e, conseguentemente,  riconosce che questa categoria  di lavoratori  (ma non diversamente si può desumere anche per gli insaccatori dipendenti di Montedison) era soggetta a “specifici rischi di inalazioni pericolose” e  che  la polvere di PVC era a tutti gli effetti “nociva;

si pone poi in evidente contrasto   – con conseguente   vizio della sentenza sotto tale  profilo – con quanto dallo stesso assunto in altre parti della decisione   laddove ritiene la “non pericolosità”  della polvere di PVC e l’ insussistenza di situazione di alta polverosità degli ambienti di insacco (che, se insussistente,  avrebbe esentato i lavoratori dall’obbligo dell’uso delle maschere)  ed anzi assume  che Montedison ed Enichem  avrebbero  predisposto   tutti gli accorgimenti e gli interventi idonei ad evitarla.

 

Tanto, nonché l’omessa valutazione delle ulteriori specifiche contestazioni rende viziata, secondo l’appellante, la decisione. Ritenuta, infatti, la nocività del PVC  – sia in quanto “polvere” in sé (cfr art. 21, 1 comma, DPR303/56) sia in quanto polvere “pericolosa” (cfr il riferimento, seppur implicito, all’art. 387 ) - non si poteva non  rilevare la palese violazione  degli  altri obblighi   contestati nel capo di imputazione.

2.           Palese poi, secondo l’appellante, la violazione dell’obbligo di “rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui erano esposti…” (cfr art. 4 lett b DPR 547/55e art. 4 e  5 DPR 303/56), violazione contestata all’ultima riga di pag. 6 del capo di imputazione (“per non aver fornito informazioni dettagliate … ai dipendenti delle ditte..”).

 

Al riguardo sostiene l’appellante che intanto sicuramente esistente, in forza delle evidenze processuali fondate sulle relazioni dei consulenti tecnici che si richiamano in ordine al punto specifico, era il rischio, quantomeno della nocività del PVC per l’apparato respiratorio dei lavoratori addetti all’insacco, e sicura la sua conoscenza in capo ai dirigenti Montedison che emergerebbe dai seguenti elementi probatori:

- dalla doverosa   conoscenza della normativa vigente (il DPR 303/56, art 21 , impone, ad esempio,  al datore di lavoro di evitare il contatto  e/o di ridurre la dispersione delle “poveri in genere” mentre  l’articolo 33 e la tabella richiamata prevede l’obbligo di effettuare visite trimestrali nei confronti di lavoratori addetti all’impiego del cloro e dei suoi composti);

- dalla conoscenza certa sin dagli anni cinquanta e sessanta che all’interno del polimero, in particolare nel PVC in sospensione,  erano inglobate molecole di CVM, come è confermato anche indirettamente dal fatto che l’impresa avrebbe negli anni ‘76 e ‘77, a suo dire, introdotto il sistema di strippaggio proprio per prelevare queste molecole di CVM;

- dai rilievi svolti dai singoli operatori che accertavano, contrariamente alle rilevazioni  dell’impresa, che la presenza di CVM nei locali addetti all’insacco  era particolarmente consistente;

- dalla scheda della Montedipe numero 336 del 05/07/85 in cui il PVC viene definito “tossico acuto per inalazione” e che - si dice- “induce alterazione al sistema respiratorio”;

- dalla consegna ai lavoratori (solo quelli dipendenti) del dentifricio NOVO SATURNO da usare prima dei pasti, per evitare l’ingestione delle polveri e dei vapori depositati nel cavo orale da parte dei lavoratori del CVM-PVC;

dal fatto che nel 1967 vennero pubblicati, come detto, sulla Tribuna del CEBEDEAU (Liegi) i risultati delle indagini sui granuli del PVC svolte da Montedison.

 

Di converso la contestata violazione dell’obbligo di informazione sarebbe invece dimostrata, dai seguenti elementi:

- dai contratti di appalto  con le varie Cooperative, dove non vi è cenno alcuno al rischio specifico per i lavoratori derivante dalla polvere di PVC e dal CVM nella stessa contenuto come monomero residuo;

- dalla lettera  del maggio del 1984 con la quale il dott. Clini  chiedeva a Montedison, Montepolimeri, a Riveda e alla Cooperativa Facchini Tessera, i motivi per i quali non sono stati comunicati al suo servizio i nominativi dei lavoratori delle cooperative per la tutela sanitaria;

-  dalle testimonianza  dei testi Barina, insaccatore dal ‘76 all’80, che ricorda   che ai corsi per la prevenzione non vi erano i lavoratori delle cooperative; Battaggia che esclude nel modo assoluto di essere stato informato della pericolosità del PVC  e del CVM in esso contenuto come monomero residuo; Pezzato, che ha lavorato dall’80 all’86, ma non ricorda che gli sia stata mai comunicata tale pericolosità; De Catto che non è mai stato avvertito da nessuno, ma lo è venuto a sapere  indirettamente dai dipendenti; Giacomello, che dichiara pure lui saperlo soltanto dagli anni 80; ed anche il teste della difesa Gasparini, che è il principale teste, dice che i capi delle cooperative erano messi a conoscenza della pericolosità del CVM, ma non del PVC.

Connesso al predetto obbligo sarebbe poi quello del committente di accertarsi che l’appaltatore a cui affida l’opera sia soggetto non soltanto munito di titoli di idoneità previsti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale in relazione al tipo di lavoro che gli è stato affidato. E anche in riferimento a questo obbligo  vi è, secondo l’appellante, il fondato dubbio che, nel caso in esame, vi sia stata una violazione di legge.

3.  Risulta, ancora,  provata la violazione dell’obbligo  del datore di lavoro e  committente dei lavori in appalto di “adottare intereventi volti ad impedire o a ridurre lo sviluppo o la diffusione della polvere”   (art. 21 comma 1 DPR 303/56 ) e  di “ove non sia possibile sostituire il materiale di lavorazione polveroso, di adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri…”  “…vicino al luogo di lavoro …”, ..”comunque impedendo alle polveri di rientrare nell’ambiente di lavoro “ (art 21 comma 3,4,5 e 7 DPR), norme richiamate nel capo d’imputazione con specifica contestazione.

Al riguardo, ricordate le tecniche di produzione del PVC (con polimerizzazione del CVM in “emulsione”, adottata presso l’impianto CV6, e con polimerizzazione in “sospensione” adottata presso gli impianti CV14, CV16, CV24/CV25), contesta il P.M. l’assunto del Tribunale secondo il quale la polverosità dell’ambiente conseguente alla polimerizzazione in sospensione sarebbe migliorata dopo i primi anni settanta, affermandosi invece che tale miglioramento e adeguamento impiantistico sarebbe sconfessato da ben 7 testi, e perché gli interventi tecnici realizzati sarebbero comunque o tardivi o inutili, onde la valutazione del Tribunale sarebbe oltre che erronea frutto di travisamento dei fatti emergenti dalle dichiarazioni testimoniali, e ricorda l’appellante le testimonianze non considerate dal Tribunale e quelle asseritamente travisate.

E così fondata sarebbe  l’accusa di “aver omesso le misure quali  …. il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai…”  e “di non aver tempestivamente installati gascromatografi o altri strumenti di rilevazione in continuo” negli ambienti di insacco.

 

Sarebbe infatti dato indiscutibile che gli ambienti dove veniva svolto l’insacco  non sono mai stati   ricompresi tra le “zone sorvegliate”, fatto confermato da tutti i testi escussi, mentre sul punto nulla dice il tribunale che anzi lo ritiene irrilevante perché  la presenza di CVM residuo nel PVC in emulsione sarebbe stato inferiore od eguale ad 1 PPM. Ma le cose, secondo il P.M., non starebbero così in quanto nell’apice  del reparto CV6 , dopo il degasaggio , rimane ancora presente  una notevole quantità di CVM residuo, CVM  che si libera in ambiente dagli sfiati dei serbatoi di stoccaggio dell’apice e dalle successive apparecchiature. E sottolinea l’appellante come il Tribunale dimentichi  che i  bollettini di analisi – a campione - che avvalorano tale dato sono del periodo  1987 - 1989 e quindi assai recenti  ( nulla ci dicono della presenza del CVM in epoca anteriore)   e che  il  teste Perazzolo ha riferito che il quantitativo di CVM che si riscontrava con gli  apparecchi di rilevazione  presso il magazzino PVC o CV7 era  “di  base” pari a non meno di 10 PPM. Ragione questa che doveva imporre il monitoraggio continuo in tali ambienti.

 

4) E’ Fondata,  ancora, per il P.M.,  la contestazione “di aver creato organizzato e mantenuto all’interno dello stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, un servizio sanitario del tutto insufficiente rispetto alle necessità di prevenzione e di controllo della situazione generale e in particolare dei dipendenti delle cooperative che entravano in contatto con CVM e PVC”.

Lamenta l’appellante che sul punto il Tribunale  nulla assume,  nonostante fosse pacifico che  i soci delle cooperative, dalle misure sanitarie praticate agli altri lavoratori, periodicità dei controlli normativamente previsti per gli addetti a produzioni nocive e ai lavoratori del ciclo del cloro (cfr art. 33 DPR 303/56), sono sempre stati i grandi esclusi, fatto comprovato in atti testimonialmente.

Analoghe censure muove poi l’appellante in merito ai lavoratori addetti alla manutenzione, in ordine ai quali nulla avrebbe riferito il Giudicante di primo grado.

 

Secondo il P.M. i dati certi che si traggono dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale e disattesi dal Giudicante di primo grado, sono due.

Innanzitutto, i testi sono concordi nell’affermare che mentre la manutenzione straordinaria, eseguita episodicamente a cura delle officine centrali, veniva normalmente svolta previa fermata degli impianti, la manutenzione ordinaria, eseguita anche quotidianamente e posta in essere dalle officine di zona e dalle squadre di reparto, veniva comunque fatta con gli impianti in esercizio e ciò con conseguente esposizione dei lavoratori addetti alle sostanze ivi lavorate.

In secondo luogo, i lavoratori sono concordi nel riferire che gli addetti alla manutenzione intervenivano sempre qualora si verificassero fughe di gas nei reparti senza, tuttavia, previa bonifica degli stessi e conseguente diretta esposizione ai gas tossici fuoriusciti.

Sul punto poi si ricorda ancora la mancata predisposizione ed il mancato controllo sull’utilizzo anche da parte dei manutentori dei mezzi di prevenzione personale, richiamando testimonianze al riguardo.

 

Ne deriverebbe come inevitabile conclusione l’esposizione a CVM ed a PVC dei lavoratori addetti alla manutenzione. Secondo il P.M. infatti, trattandosi di personale adibito agli interventi manutentivi all'interno di tutti i reparti, ivi compresi anche quelli ritenuti ad alto rischio espositivo dallo stesso Giudicante di primo grado, senza adeguati mezzi di prevenzione, senza previa sospensione degli impianti e senza infine previa bonifica in caso di intervento a seguito di fughe, è incontestabile l'esposizione di detti lavoratori a tutte le sostanze nocive prodotte nei singoli reparti.

Conclusioni che sarebbero conformi a quanto risultante dalle matrici mansione-esposizione pubblicate dai dott. Comba e  Pirastu e altri (“La mortalità dei produttori di cloruro di vinile in Italia in Med. Lav. 1991) sulla base di dati forniti dall’azienda. E conformi altresì alle risultanze d’origine aziendale della “Legenda dei reparti con esposizione diretta e/o indiretta degli addetti ai cancerogeni CVM, DCE, PVC, nonché ad altri agenti tossico nocivi presso il Petrolchimico di Porto Marghera”, egualmente agli atti del procedimento, legenda secondo la quale i lavoratori addetti a interventi manutentivi su impianti e macchinari nonchè negli ambienti di lavoro relativi a tutte le lavorazioni del CVM e PVC sono soggetti all’esposizione  di tutti gli agenti tossico nocivi presenti nei reparti frequentati. Ed altresì conformi alle indicazioni fornite dall’azienda che, conglobando i detti lavoratori nel cd. “Gruppo H” comprendente i laboratori di controllo, il parco serbatoi, le manutenzioni ed il controllo cromatografi (come risultante della lettera datata 12.6.1979 a firma dott. Giudice ed inviata al dott. Bartalini, discussa all’udienza 5.4.2000), risulta classificare i lavoratori addetti tra gli esposti. Lamenta poi l’appellante  un’altra grave omissione addebitabile al Tribunale, al quale era stato rappresentato, chiaramente e documentalmente, che dal 1970 in poi erano stati assunti ed erano stati assegnati ai reparti CVM –PVC decine di nuovi operai. Per costoro, quindi, l’esposizione al CVM-PVC iniziava dopo il 1969 e per tredici di loro persino dopo il 1973.

 

 Rilievo, questo, che si assume importante in quanto:

- secondo l’accusa, la  cancerogenicità  del CVM venne segnalata ufficialmente al mondo intero in occasione del Congresso internazionale di Medicina del Lavoro di Tokyo del settembre 1969, a seguito delle vicende  del Prof. Viola;

- secondo il Tribunale, l’epoca scriminante relativamente alla conoscenza della cancerogenicità del CVM è la fine dell’anno 1973, che coincide con la vicenda “Goodrich”.

Ciò significa che, dal punto di vista della conoscenza sulla  cancerogenicità, prendendo per buono l’assunto del Tribunale sull’inizio dei consequenziali obblighi per l’imprenditore, andavano in ogni caso, esaminate ed approfondite accuratamente le posizioni dei lavoratori:

- con inizio esposizione successiva al 1969 (accettando l’impostazione del P.M.);

- con inizio esposizione successiva al 1973 (accettando   l’impostazione del Tribunale).

Ma i Giudici di primo grado non hanno fatto né una cosa né l’altra.

 

Per contro, nel riproporre i relativi elenchi, sostiene il P.M. che meritavano una analisi particolareggiata quei lavoratori colpiti da patologie per le quali lo stesso Tribunale aveva riconosciuto un nesso causale (malattia di Raynaud ed epatopatie).

E meritava un’analisi, anche semplice, quel gruppo di lavoratori (21) che avevano iniziato ad essere esposti dopo il 1973, in un periodo in cui – secondo il Tribunale – ormai tutti i precedenti gravi problemi di esposizione al CVM-PVC sarebbero stati risolti.

In particolare, si cita il caso di Carlo Bolzonella, deceduto per epatocarcinoma, assunto nel 1981 ed andato in cassa integrazione nel 1989 (come già ricordato): morto dopo aver lavorato per MONTEDISON, per ENICHEM e per ENIMONT.

Ma nemmeno lui, rimarca l’appellante, ha meritato un commento per il Tribunale, nemmeno una riga sulla sua particolare situazione.

 

Anche per questi motivi, ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere radicalmente riformata.

Rimarca poi ancora l’appellante la doglianza secondo la quale il Tribunale avrebbe operato, con USO  DISTORTO  DELLE  DICHIARAZIONI  TESTIMONIALI, una errata ricostruzione dei fatti storici oggetto della presente vicenda processuale estrapolando, dalle deposizioni dei numerosissimi testi assunti nel corso del dibattimento, solamente alcune affermazioni ed alcune circostanze, mirate alla decisione di cui al dispositivo, senza mai dare alcun conto dei criteri di selezione, scelta e valutazione adottati.

E cita al riguardo, a titolo esemplificativo, le testimonianze di GASPARINI Danilo, GIUDICE Salvatore, ALONGI Vittorio, BACCHETTA Enzo che porterebbero a diversa valutazione rispetto a quella avvalorata dal Tribunale.

 

Circa i reati di cui agli ARTT. 589 - 590 C.P. ed alla problematica della CASUALITA’, il P.M. appellante, premesse alcune considerazioni che troverebbero giustificazione a seguito della sentenza n. 30328 del 10.7/11.9..2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sostiene che anche su questa parte, che può considerarsi il pilastro dell’intera vicenda processuale che ci riguarda la sentenza impugnata commette gravissimi errori di interpretazione del nesso causale: errori che riguardano sia l’interpretazione data dai Giudici di primo grado dell’istruttoria dibattimentale del presente processo penale, sia la stessa interpretazione giuridica del nesso causale in relazione alle condotte ascritte agli imputati e agli eventi di reato che ne sono conseguiti.

Osserva in particolare: che la sentenza delle SS.UU. della Suprema Corte, dirimente un contrasto interpretativo sorto in seno alla sezione IV dello stesso giudice di legittimità, pur riguardando un caso di responsabilità per attività medico-chirurgica, è riferibile – come la stessa pronuncia afferma espressamente – anche ai settori delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto.

 

Nello specifico settore delle malattie professionali si ritiene che essa si attagli precipuamente al caso oggetto della presente vicenda processuale.

L’imprescindibile riferimento ad essa consente, inoltre, di affermare la valenza della tesi sostenuta dall’accusa, in particolare di quanto questo Ufficio ebbe ad esporre in sede di replica della propria requisitoria all’udienza del 10 ottobre 2001 sulla questione giuridica del nesso causale.

Nel contempo, la pronuncia citata permette di evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza impugnata.

Premette al riguardo che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – per usare le stesse parole della Corte - sono state chiamate a dirimere un conflitto interpretativo che non riguarda lo statuto condizionalistico e nomologico del rapporto di causalità, riguardando invece il contrasto giurisprudenziale a causa del quale è stato chiesto l’intervento delle Sezioni Unite la concreta verificabilità processuale di quello statuto, ovvero la individuazione dei criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale.

 

E rivendica il P.M. che già in sede di replica nel giudizio di primo grado, seguendo un ragionamento logico analogo a quello che oggi si ritrova nella sentenza delle SS.UU., dopo aver fatto riferimento alle varie e diversificate pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di causa penalmente rilevante, si era soffermato sulla necessità di definire e precisare meglio il concetto di grado di probabilità. Aveva fatto riferimento a questo proposito alla sentenza 12.7.1991 della sez. IV, che riteneva sufficiente un grado di probabilità pari al 30% per ritenere sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento lesivo. Ma solo come riferimento di minima, come si potrebbe chiamarlo, e solo per considerare che lo stesso concetto veniva ripreso da una sentenza di 10 anni dopo, il 17.9.2001, a ridosso della conclusione del primo grado di questo processo, sentenza che era in contrasto con le tre sentenze della stessa quarta sezione (estensore Battisti), che accoglievano un criterio più rigido di probabilità.

 

Errerebbe quindi la sentenza impugnata laddove, inspiegabilmente, addossa al Pubblico Ministero affermazioni di stretto diritto che non ha mai espresso, attribuendogli del tutto arbitrariamente “orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale”. Ma soprattutto erra nelle conclusioni cui giunge in tema di spiegazione del nesso causale.

Al riguardo, ricorda l’appellante che il Tribunale afferma che “il modello causale compatibile con il nostro ordinamento è quello idoneo ad includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza (la copertura data dalla legge universale), ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca l’approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e l’analisi di tutti i fattori presenti e interagenti: in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero in grado di spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione logico-probabilistica” (pag. 145).

 

E questo modello – continua – è quello assunto dagli orientamenti giurisprudenziali più recenti.

Questo è il modello, secondo il Tribunale, che consente di spiegare l’indagine causale nell’ambito delle scienze cui si è fatto ricorso nel processo che ci riguarda (epidemiologia, biologia molecolare, tossicologia, medicina legale).Continua, ancora, il Tribunale sostenendo che il ragionamento del medico-legale è tipicamente induttivo: muove da un fatto concreto (l’evento) per risalire al fenomeno che lo ha determinato (la causa) e questo ragionamento, anche se fondato su osservazioni di valore statistico-probabilistico, può fornire apprezzabili e rigorosi risultati (pag. 146).

E precisa ancora che il rigore metodologico e epistemologico con cui le scienze conducono le loro indagini, la potenza dei risultati raggiunti per l’ampiezza di uno studio, il grado di consenso ricevuto nella comunità scientifica, la coerenza dei risultati raggiunti nelle diverse scienze, sono tutti elementi necessari a propendere verso la certezza dei nessi sia nella causalità generale che nella causalità individuale (pagg. 146-147).

 

Può accadere tuttavia, prosegue il Tribunale, che nonostante siano le scienze e il loro metodo scientifico a consentire di spiegare le inferenze causali, nonostante ci sia validazione degli stessi risultati scientifici sulla base dell’accettazione generale da parte della comunità scientifica e delle verifica empirica mediante il controllo dell’ipotesi attraverso la confutazione, nonostante vi sia  coerenza complessiva del risultato raggiunto attraverso il confronto con altre discipline e la verifica delle conclusioni raggiunte nel loro progressivo evolversi, nonostante tutto ciò può accadere che rimanga l’incertezza scientifica.

A questo punto, di fronte all’incertezza scientifica non resta che ricorrere – conclude il Tribunale – alla regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata oltre il ragionevole dubbio, “regola di giudizio che ormai fa parte del nostro ordinamento” (pag. 148).

Conclusioni, queste del Tribunale, ribadisce l’appellante, erronee che non possano essere accettate. Ciò prima di tutto e proprio alla luce del criterio offerto dalle SSUU della Corte di Cassazione, dal quale ogni giudice di merito da oggi in poi non può prescindere.

Sostiene infatti il P.M. che le Sezioni Unite non assumono affatto il modello causale invocato dal Tribunale di Venezia. Al contrario, esse aprono la via per chiarire in questa sede come nel processo che ci riguarda il Tribunale sia caduto in un errore fondamentale e irrimediabile.

 

E così ritiene di schematizzare il P.M. il ragionamento seguito dalla Suprema Corte:

il processo penale, passaggio cruciale e obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, è sorretto da ragionamenti probatori di tipo inferenziale induttivo che partono dal fatto storico, rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, essendo dipendenti da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse;

1)     lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche non può, d’altra parte, spiegare in via deduttiva la causalità, perché è impossibile per il giudice conoscere tutti gli antecedenti causali e tutte le leggi pertinenti;

2)     il giudice ricorre, invece, nella premessa minore del ragionamento ad una serie di “assunzioni tacite”, presupponendo come presenti determinate “condizioni iniziali” e “di contorno” non conosciute o solo congetturate sulla base delle quali mantiene validità l’impiego della legge stessa;

3) non potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il suo effetto, né potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale;

4) ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica “certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari;

5)tutto ciò significa che il giudice è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza processuale” conducenti ad un giudizio di responsabilità enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica” o “probabilità prossima alla – confinante con la – certezza”.

 

A questo punto si può già rilevare, secondo il P.M., il netto distacco tra la tesi sostenuta dal Tribunale (viziata da gravi errori di interpretazione) e i principi espressi dalle Sezioni Unite del Giudice di legittimità.

 

“….Non è sostenibile – afferma la C.S. – che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”.

E qui, si sostiene, il punto cruciale: “E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento. (pag.15)

 

Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale, pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’”attendibilità” in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile.

 

Ecco allora, secondo il P.M. appellante, il distacco del Tribunale di Venezia dal principio enunciato dalle Sezioni Unite. Si osserva infatti che la sentenza impugnata sostiene che l’incertezza scientifica va provata oltre il ragionevole dubbio, ma così facendo si ferma ad un passaggio precedente, che priva il suo ragionamento proprio di quella natura rigorosa che voleva attribuirgli, e non è in grado di arrivare alla conclusione decisiva che le Sezioni Unite raccomandano: quella per cui è l’incertezza del riscontro probatorio che va provata oltre il ragionevole dubbio.

Il Tribunale si è fermato al riscontro scientifico (peraltro, in maniera del tutto incompleta e contraddittoria, come si è visto e come si vedrà) e non ha valutato il riscontro probatorio dell’istruttoria dibattimentale, mancando comunque di verificare i dati delle scienze con i riscontri probatori del processo.

 

Sostiene il P.M. che mentre per il Tribunale il giudizio finale di probabilità causale in presenza di una legge statistica con coefficiente medio-basso deve essere risolto secondo la regola dell’oltre il ragionevole dubbio, per le Sezioni Unite una legge statistica con coefficiente medio-basso può costituire legge di copertura se corroborata dal positivo riscontro probatorio.

Nel caso di specie, lamenta l’appellante, il Tribunale ha trascurato completamente tutte le evidenze processuali, ha persino svolto un’operazione inaccettabile che è stata quella di valutare separatamente i contributi offerti dalle discipline e dalle scienze che hanno avuto ingresso in dibattimento. Partendo dall’epidemiologia ha operato una scarto progressivo di ciascuna scienza, considerandola isolatamente, ed evitando di fatto quel raffronto tra discipline, che pure esso stesso aveva invocato per il conseguimento di un modello ideale di causalità. Raffronto che avrebbe, invece, consentito il raggiungimento di un primo fondamentale risultato nella scala dei criteri da utilizzare per la spiegazione causale dell’evento: il convincimento che attraverso l’ausilio di quelle scienze, tra loro raffrontate e verificate nei loro concreti risultati, il dibattimento ha permesso di raggiungere un livello di rilevanza causale prossimo alla certezza per quanto riguarda molti degli aspetti considerati.
Si sostiene dunque conclusivamente in diritto sul punto che la tesi sostenuta dall’accusa in relazione alla questione della causalità combacia e coincide proprio con i criteri enunciati dalle Sezioni Unite, dei quali si chiede quindi una corretta e limpida applicazione, mentre, scegliendo il metodo inaccettabile della riduzione dell’accertamento in termini causali alla sola considerazione che vi è incertezza scientifica, il Tribunale ha abdicato al proprio ruolo di “Giudice”, avendo totalmente tralasciato e ignorato l’aspetto centrale del metodo di accertamento, quello relativo allo svolgimento del processo dibattimentale, ignorando che l’accusa aveva corroborato le lamentate (dalla difesa) carenze scientifiche con gli elementi e i riscontri probatori che sono stati forniti nel corso del dibattimento.
Lamenta poi il P.M. che neppure il Tribunale  affronta nè risolve in termini giuridicamente corretti  il problema del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di alcune patologie (in particolare il tumore al fegato ed il tumore al polmone) che, invece, l’accusa aveva puntualmente posto nel corso del dibattimento di primo grado. Sbrigativamente, infatti, la motivazione si limita ad affermare che ciò che non è causa non è idoneo ad assumere il ruolo di concausa di un evento: poichè il Giudice di primo grado ha ritenuto di poter escludere persino l’idoneità astratta dell’esposizione a CVM a cagionare un certo genere di patologie, ne ha tratto l’erronea convinzione che ciò solo bastasse ad escludere, automaticamente, anche l’eventualità che detta esposizione potesse svolgere  un ruolo concausale nell’insorgenza delle stesse, ove fosse associata ad altri fattori quali fumo ed alcool.

Sostiene il P.M. che la tesi sarebbe erronea sotto  molteplici punti di vista.

Innanzitutto è quantomeno illogica  - oltre che contraria al dettato normativo - l’affermazione apodittica secondo cui “ciò che non è causa non può essere concausa”, dal momento che si risolve in una confusione di concetti.

 

E’ evidente, infatti, che l’art. 41 del codice penale, nel disciplinare il cd. concorso di cause, ha per oggetto (al primo comma) distinti fattori ciascuno dei quali - per definizione - è, da solo, privo dell’efficacia causale che si determina, invece, proprio per effetto del concorso di tutti.

Di norma, infatti, secondo il P.M. che richiama sul punto dottrina e giurispridenza, il fenomeno delle concause si verifica con riferimento a fattori che sono, da soli, privi della capacità di determinare un evento il quale, invece, si produce necessariamente grazie al contributo sinergico di due o più fattori concausali (la sentenza citata, Cass., sez. IV, n. 7617 del 31/10/1973, parla di situazione di interdipendenza tra due fattori che, da soli, sarebbero privi di efficacia causale “non potendo nessuna di esse, disgiunta dall’altra, causare l’evento”).

 

Tale pronuncia evidenzierebbe secondo il P.M. proprio il fenomeno trascurato dal giudice di primo grado: l’interdipendenza tra esposizione a CVM ed altri fattori (per la verità spesso preesistenti e/o concomitanti), quali il consumo di alcool e di sigarette da parte degli operai deceduti per tumore al fegato ed al polmone.

 

Sostiene il P.M. che nessuno potrebbe dire che, nel procedimento penale in questione, sia stata davvero fornita la prova certa che i tumori al fegato erano stati cagionati esclusivamente dal consumo di alcool, così come che quelli al polmone erano stati cagionati esclusivamente dal fumo di sigaretta, o che i lavoratori deceduti avessero contratto dette malattie a causa di un consumo di alcool e di sigarette avvenuto successivamente alla loro esposizione al CVM. Dunque, in nessuno dei casi esaminati dal Tribunale fumo ed alcool avrebbero potuto essere considerati, ai fini della corretta applicazione della legge penale, concausa sopravvenuta degli eventi. Eppure,  nonostante tale indiscutibile evidenza probatoria, il Tribunale si sarebbe ritenuto dispensato dal dover  svolgere quell’accertamento  sul  tema della rilevanza concausale dell’esposizione a CVM che l’accusa aveva prospettato,  avendo postulato quell’apodittica ed erronea affermazione di ordine generale secondo cui  la mancanza dell’idoneità causale rende, per ciò solo, il fattore inidoneo ad essere concausa di un evento. Ed in tal modo sono state ignorate circostanze provate dall’accusa che avrebbero potuto e dovuto essere valutate con attenzione in siffatta ottica di approfondimento del tema.

 

In particolare, erano stati dimostrati i ritardi e le omissioni in relazione agli spostamenti dei lavoratori, fumatori o bevitori, che, in passato, erano stati esposti ad alte concentrazioni di CVM.

In casi del genere, l’esposizione a CVM oltre che ad essere determinante sotto il profilo concausale avrebbe potuto e dovuto essere considerata dal Collegio anche in relazione agli effetti di accelerazione dell’insorgenza della malattia, così come i Consulenti tencici di parte dell’accusa (in particolare i medici  Bracci, Rodriguez, Bartolucci e sopratutto Martinez) avevano puntualmente, ma inutilmente, evidenziato.

 

Al riguardo osserva il P.M. che il tema dell’accelerazione della malattia derivante dal prolungamento dell’esposizione  è ben noto alla giurisprudenza, avendo di regola costituito tema di approfondimento specifico nelle più importanti vicende di malattie professionali. E sul punto rinvia alle considerazioni, ad esempio,  svolte dal Tribunale di  Casale Monferrato 30/10/1993, in cui si legge (sia pure in tema di malattie professionali da amianto, ma -per il P.M.- non vi è alcuna ragione – né logica, né scientifica, né normativa- per sostenere – come fa il Tribunale – che i criteri di valutazione del nesso causale per le patologie derivanti da esposizione da amianto dovrebbero essere diversi da quelli da seguirsi nella presente vicenda processuale):“Con riferimento ai tumori professionali si è rilevato in giurisprudenza che, allorchè la prosecuzione dell’attività lavorativa dopo l’innesco biologico di una malattia professionale costituisce causa certa di aggravamento, deve affermarsi il rapporto di causalità fra tale prosecuzione e l’evento delle lesioni o dell’omicidio colposo del lavoratore”.

 

Il P.M. conclude dunque sul punto sostenendo che il grave errore giuridico compiuto dal Giudice di primo grado a proposito della ricostruzione del nesso causale ha, così, irrimediabilmente condizionato la sua valutazione, allorquando si è trattato di considerare profili specifici e particolari della causalità come, per l’appunto, il descritto tema del contributo concausale del CVM (insieme ad altri fattori quale alcool e fumo) in relazione sia all’insorgenza che allo sviluppo ed all’accelerazione delle patologie tumorali (tumori al fegato ed al polmone), in ordine alle quali è stata pronunciata l’assoluzione degli imputati per insussistenza del fatto. Inoltre, a questo grave errore giuridico sia è aggiunta un'altra grave omissione, di fatto: quella di non aver per nulla considerato nè trattato le relazioni tecniche depositate e le dichiarazioni in aula dei CC.TT. del P.M. (Prof. Vineis - Comba - Pirastu), proprio sulle interazioni CVM-alcol e CVM-fumo.

 

Infine, sostiene il P.M., il Tribunale si è completamente dimenticato della distinzione tra patologie monocausali e patologie policausali, distinzione ribadita ampiamente dal P.M. in sede di replica, distinzione ben nota anche ai consulenti tecnici di Montedison, prof. Fornari e prof. Colombo. Il primo, infatti, aveva parlato espressamente in aula di tumori policausali e il secondo aveva definito in aula la concausa come “la contemporanea presenza di due fattori noti e documentati per dare malattia epatica” e “mutatis mutandis” malattia dell’apparato respiratorio.

E non vi può essere dubbio che affezioni epatiche e affezioni polmonari possano essere causate sia dal CVM-PVC, sia da fumo/alcol.

 

Anche in forza di tali argomenti e doglianze, dunque, l’appellata sentenza andrebbe riformata.

L’appellante peraltro, nel contesto dei motivi relativi alla problematica della causalità lamenta altresì che il Tribunale abbia prospettato una tesi, ancora una volta sbagliata, sia dal punto di vista fattuale che da quello giuridico, portando a paragone i meccanismi di azione del cloruro di vinile e dell’amianto, che ritiene non  assimilabili, onde  se per quanto riguarda l’amianto “…il verificarsi del mesotelioma piuttosto che dell'asbestosi, può correttamente ricomprendersi nell'evento pur dall'agente non rappresentatosi tipicamente ma prevedibile come conseguenza dannosa dell'inosservanza di norme cautelari comuni”, per quanto riguarda invece il cloruro di vinile, “…non è accettabile un’applicazione di tale orientamento per estrapolazione dall'amianto al CVM-PVC, non essendovi alcuna correlazione o progressione tra la patologia nota (Raynaud) e la neoplasia (angiosarcoma) causata dal CVM”.

 

Le argomentazioni e conclusioni del Tribunale sarebbero per il P.M. appellante arbitrarie, sostenendosi invece, previo excursus sul meccanismo cancerogeno dell’amianto con richiamo e citazione di letteratura, che il mesotelioma non va ritenuto complicanza dell’asbestosi e che non è vero che i meccanismi d’azione dell’amianto sarebbero noti, onde se non è posto in dubbio, neppure dal Tribunale, che l’amianto provochi il mesotelioma pleurico, non si vedrebbe perché questo discorso non debba valere anche per il CVM-PVC e perché non sia possibile sostenere, come per l’amianto, che la mancata conoscenza certa di tutti i meccanismi d’azione (che possono essere plurimi) del CVM-PVC nel cagionare ad esempio il tumore del polmone non può e non deve incidere sulla attribuibilità  al CVM-PVC pure di questa forma tumorale, risultando peraltro evidente il parallelismo con i diversi, ed intercorrelati, meccanismi di cancerogenesi dell’amianto.

 

Ne conseguerebbe, secondo il P.M., che, sia alle malattie professionali da amianto che a quelle CVM-PVC, va applicata la medesima normativa (a partire dalle leggi speciali a tutela dei lavoratori in vigore dagli anni cinquanta), così come per entrambe le patologie vanno applicate le medesime categorie interpretative, a partire da ogni discussione in materia di nesso causale.

Passa quindi il P.M. ad analisi dettagliata dei presupposti che per l’appellante fanno ritenere sussistente il nesso di causalità in questione, per la gran parte negato dal Tribunale, e lo fa seguendo passo passo, pagina per pagina, come dallo stesso preavvertito, la motivazione della sentenza di primo grado, avvertendo altresì che, in ogni caso, la base giuridica di questo appello è costituita dalla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte, di cui si è discusso poco fa, mentre i presupposti di fatto, storici e scientifici per giungere ad affermare la penale responsabilità degli imputati consistono nella disamina delle seguenti parti:

- epidemiologia e studi epidemiologici;

- metodologia epidemiologica;

- studi epidemiologici sul CVM;

- gli studi epidemiologici a Porto Marghera;

- la causalità;

 - la causalità generale da esposizione a cloruro di vinile;

- l’effetto lavoratore sano rilevato nella coorte di Porto   Marghera;

- cancerogenesi;

- l’influenza delle esposizioni a basse dosi;

- cancerogenesi e organismi internazionali;          

-  le patologie riscontrate a Porto Marghera: il fegato, il polmone, gli altri organi.

 

Circa il primo punto, si pone il P.M. l’obiettivo di evidenziare il modo sbagliato del Tribunale di trattare il nesso causale intercorrente fra  esposizione a cloruro di vinile e insorgenza in particolare dei tumori epatici (angiosarcoma e carcinoma epatocellulare), della cirrosi epatica e dei tumori polmonari, attraverso la trattazione di tre questioni di fondo delle quali lamenta un mancato apprezzamento  da parte del Tribunale: a) la distinzione che è necessario fare tra le valutazioni dell’insieme dell’evidenza di cancerogenicità  di una sostanza fatta  da organismi internazionali e i risultati di singoli studi,  come anche il diverso significato da attribuire  ai due; b) i fattori che sono alla base e che garantiscono  una elevata qualità degli studi epidemiologici; c) tentativi di ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM.

 

Quanto alla prima questione sostiene l’appellante che le valutazioni dell’evidenza complessiva  ad opera di organismi nazionali e/o internazionali sono  il risultato di un processo di ricerca del consenso nell’ambito di un gruppo di esperti che si raggiunge attraverso procedure standardizzate ed esplicitate, che hanno come oggetto l’esame delle conoscenze scientifiche disponibili al momento della formulazione della valutazione… ed i risultati di singoli studi non mettono in discussione le suddette valutazioni; bensì essi contribuiscono all’insieme delle conoscenze in modo commisurato alla loro qualità. Onde non sarebbe corrispondente a realta’ (Pg. 27) l’affermazione generale che: “Le conclusioni cui era pervenuta IARC nel 1987……… sono state poste in discussione  dagli studi epidemiologici successivi . In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999)”.

 

Sarebbe infatti assurdo e fuori dalla realtà sostenere, come ha fatto ripetutamente il Tribunale (pag.148-158-159), che le valutazioni di un organismo scientifico internazionale, che gode della massima stima e del massimo prestigio, come IARC (o EPA), sarebbero superate. IARC infatti a partire dal 1975 non sarebbe mai tornata sui suoi passi né avrebbe delegato l’uno o l’altro studioso a compiere autonomi accertamenti, ed i nuovi studi, per quanto ampi, sarebbero una parte del tutto che si inseriscono nell’alveo di quelli precedenti e di per sé non portano a modifica della precedente valutazione, essendo necessario tutto un meccanismo di approfondimento ai fini della classificazione (o riclassificazione) di una sostanza.

 

Quanto alla seconda questione, sostiene il P.M. che la sentenza sarebbe gravemente viziata per non avere dato contezza delle manchevolezze dello studio Mundt 2000 fondato su carente database del “filone principale” U.S.A., nonostante che in dibattimento i vari consulenti tecnici del P.M. (Berrino, Comba, Pirastu, Mastrangelo) si siano ampiamente soffermati su tale problematica.

Quanto alla terza questione sostiene il P.M. che i tentativi di ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM presenti nella letteratura scientifica sarebbero conseguenza del ruolo svolto dall’industria nella diffusione delle conoscenze sulla cancerogenicità del CVM, nello specifico quella statunitense, ma anche Enichem, con il supporto di noti e ben pagati epidemiologi stranieri, tra cui Richard Doll, al quale Enichem ha dato mandato di sostenere che l’angiosarcoma epatico e’ l’unico tumore causalmente associato con l’esposizione a CVM.

 

Passa quindi il P.M., nell’affrontare le altre parti di cui sopra, all’esame degli specifici punti della sentenza ritenuti errati in fatto o frutto di una contraddittoria valutazione. E così, riguardo alla metodologia epidemiologica, sostiene l’erroneo utilizzo da parte del Tribunale, in uno stesso studio di livelli di confidenza diversi per diverse cause di morte, e non sarebbe accettabile in assoluto nemmeno l’ulteriore affermazione e decisione del Tribunale,  che esclude sempre e per partito preso le situazioni con limitata significatività statistica: a questo proposito richiama ancora l’appellante la recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (nr.27 del 2002: pag.15), dove viene scritto che  “coefficienti medio bassi di pericolosità …. impongono verifiche attente e puntuali …. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia  medico-legale …. possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Riscontro probatorio secondo il P.M. per il caso dei tumori professionali possono essere le evidenze sperimentali sugli animali e su altri modelli di laboratorio.

Lamenta poi il P.M. errori ed errate valutazioni da parte del Tribunale in merito alle conclusioni assunte relativamente ai tumori diversi dall’angiosarcoma con riferimento agli studi epidemiologici sul CVM, sia di corte europea coordinato da IARC (Ward 2001), sia USA (Mundt 2000), ritenendosi invece che una esatta proposizione dei dati stessi porterebbe a diversa conclusione, in particolare relativamente al carcinoma epatocellulare, al tumore al polmone ed alla cirrosi.

 

Richiamando poi il P.M. gli studi epidemiologici a Porto Marghera, lamenta che il Tribunale, pur citando una serie di dati prodotti dai Consulenti Tecnici del PM, che dimostrano come nella coorte di Porto Marghera, oltre all’eccesso degli angiosarcomi epatici,  vi sia stato un significativo eccesso di altri tumori epatici, in particolare per gli autoclavisti, nonché, come emergerebbe dall’aggiornamento 1999, un significativo eccesso di tumori polmonari per i lavoratori che avevano svolto mansioni di insaccatori, su tali risultati chiarissimi (che emergerebbero da due tabelle riproposte), ha evitato di fare commenti e valutazioni, pur dando atto della pericolosità particolare delle mansioni rispettivamente di autoclavista e di insaccatore.

 

Anche per tali omissioni, si chiede la riforma della sentenza.

Riaffrontando nello specifico la parte relativa alla causalità, il P.M. innanzitutto lamenta  che il Tribunale non ha assolutamente seguito i criteri che egli stesso aveva richiamato e indicato come i criteri-guida per ogni decisione. Ne deriverebbe quindi contraddittorietà della motivazione.

Si citano quindi i quattro criteri fatti propri dal Tribunale nei seguenti:

“1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza scientifica; 

2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una "corroborazione provvisoria "; 

3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto ; 

3)     la incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento”.

 

E si sostiene da parte dall’appellante, in tema di causalità generale da esposizione a cloruro di vinile, che, alla luce di quanto scritto, e sopra accennato, in merito agli studi epidemiologici sul CVM, non è assolutamente condivisibile l’affermazione del Tribunale relativa  “all'assenza della prova allo stato delle conoscenze scientifiche della idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone , il carcinoma  epatocellulare e la cirrosi riconoscendo solo la sua associazione causale con l'angiosarcoma , con tipiche epatopatie e con la sindrome di Raynaud”. Lamenta il P.M., che per affermare ciò, il Tribunale avrebbe dovuto prima di tutto affrontare e criticare quanto esposto dall’accusa in senso contrario, esaminando le relazioni finali depositate dal P.M., criticandone l’eventuale metodologia, la logica e le conclusioni. Il Tribunale non avrebbe fatto nemmeno questo, essendosi affidato in maniera del tutto acritica alle relazioni dei consulenti degli imputati, riportandone pari pari le osservazioni e tralasciando le specifiche repliche dei CC.TT del P.M.

 

Analogamente, sarebbe del tutto arbitraria l’affermazione del Tribunale secondo la quale “tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente,  non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra CVM-PVC e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio”.

Nello specifico delle singole patologie, sostiene l’appellante, richiamando in particolare gli studi dei propri consulenti, che, quanto al tumore al polmone, “nelle coorti che hanno condotto un'analisi specifica per gli insaccattori, definiti come "solo addetti all'insacco" e " addetti all'insacco " si sono identificati incrementi di mortalità. Pertanto la persuasività scientifica della relazione causale fra l'attività lavorativa che comporta esposizione a polveri di PVC è elevata”.

 

Richiamando poi ancora i dati in materia, rileva che:

a) Il trend positivo con l’esposizione a CVM nella coorte europea (Ward 2001);

b) L’incremento della mortalità nella coorte degli insaccatori Montedison-Enichem, che contrasta con il deficit di mortalità per queste cause osservato nella coorte complessiva;

c) L’assenza di elementi per suggerire un ruolo confondente del fumo di sigaretta: è ovvio che i casi di cancro polmonare occorsi tra gli insaccatori siano fumatori (come la quasi totalità dei casi di cancro polmonare in qualunque categoria professionale); il fatto è che nella coorte degli insaccatori nel suo complesso non ci sono evidenze di un abnorme consumo di tabacco. Al Tribunale sfugge la distinzione fra “le cause dei casi” e “le cause dell’incidenza”, così come sfugge la distinzione fra “individui malati” e “popolazioni malate” … In assenza di questi essenziali riferimenti scientifici e culturali, il paragrafo “L’epidemiologia: un primo approccio” (motivazioni, pp. 29-37) appare del tutto inadeguato a sostenere le successive valutazioni del Tribunale in campo epidemiologico.

 

Ed alla luce delle considerazioni di cui ai tre precedenti rilievi, ritiene il P.M. che i quattro criteri di cui a pag. 142 delle motivazioni, sopra citati, siano adeguatamente verificati e, quindi, va affermata l’esistenza del nesso causale anche in questo caso.

Quanto ai tumori del fegato –angiosarcoma a bassa  esposizione sostiene l’appellante che neppure avrebbe ben compreso il Tribunale i dati emergenti dallo studio europeo WARD 2001, che pur ritiene fondamentale, dati dai quali, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, emergerebbe un rischio di angiosarcoma anche a bassa esposizione, non avendo d’altra parte il Tribunale considerato che era stato discusso dal P.M. un caso di angiosarcoma per un operaio assunto dopo il 1973 (Dalla Verità Domenico, assunto nell’aprile del 1974), ed avendo pure rigettato la richiesta del P.M. di acquisire della documentazione attestante un’altra morte per angiosarcoma a causa del CVM, verificatasi negli USA, per bassissime esposizioni: di tale ordinanza,  del tutto immotivata, si chiede la nullità e la conseguente rituale acquisizione della documentazione tramite rinnovazione del dibattimento.

 

Quanto al carcinoma epatocellulare si richiamano ancora gli studi e conclusioni dei propri consulenti che suggeriscono che “l’esposizione a   CVM può essere associata anche con questo tumore”. Si ricorda inoltre che valutazioni dell’associazione causale intercorrente fra esposizione a CVM e carcinoma epatocellulare sono state formulate, oltre che da IARC, anche da EPA. Onde anche nel caso secondo il P.M. i criteri di causalità esposti dal Tribunale a pag. 42 siano stati adeguatamente verificati e, quindi, anche in questo caso va affermata la sussistenza del nesso causale.

E così per la cirrosi relativamente alla quale se è vero che nella coorte generale di Porto Marghera la mortalità per tale patologia è inferiore all’attesa, va peraltro rilevato che essa è superiore all’attesa fra gli autoclavisti.

 

Osserva poi il P.M. che nelle motivazioni della sentenza viene in più punti affermato che la coorte dei lavoratori di Porto Marghera è costituita da soggetti in buono stato di salute, come mostrato dalla diminuita mortalità per tutte le cause, quando la coorte viene confrontata con la popolazione residente nel Veneto. Tale richiamo del Tribunale non avrebbe però portato il Tribunale stesso a valutarne adeguatamente il significato e le implicazioni. I soggetti assunti al lavoro non sono un campione casuale della popolazione generale, ma costituiscono un campione di soggetti in buono stato di salute che desiderano un lavoro. Il gruppo dei soggetti assunti è perciò un campione selezionato, non rappresentativo della popolazione generale. Quando si confronta l’esperienza di mortalità dei lavoratori con quella della popolazione generale residente in Veneto da cui provengono, si riscontra perciò un rischio di morte. Questa differenza è chiamata “effetto lavoratore sano” ed è una distorsione di cui tener conto in fase di analisi, proprio perché potrebbe mascherare (in generale) l’effetto di importanti agenti tossici e nocivi a cui i lavoratori vengono esposti nella loro vita professionale. Tale distorsione ha portato erroneamente ad attribuire l’osservata diminuita mortalità dopo il 1974 a diminuite esposizioni ad agenti tossici, mentre questa è una osservazione spuria: una volta rimosso l’effetto distorcente della selezione all’assunzione, la diminuzione, non più statisticamente significativa, è di entità assai modesta.

 

Per il P.M., contrariamente a quanto immotivatamente ritenuto dal Tribunale, ciò renderebbe possibile rilevare che:

a) non c’è alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a partire dal 1974, tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione;

b) gli assunti in anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza” necessaria perché si manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a quelle patologie per le quali il periodo di latenza può essere molto lungo);

c) non vi è alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni precedenti;

d) i soggetti esposti nelle mansioni a rischio (autoclavisti e insaccatori) manifestano una mortalità per tutte le cause aumentata e questo rischio appare crescente al crescere della durata di impiego nella mansione a rischio;

vi è evidenza notevole   di   due   particolari    rischi   specifici, il tumore polmonare per gli insaccatori e l’epatocarcinoma per gli autoclavisti, oltre che una evidenza molto elevata anche  per la cirrosi epatica.

 

Nell’esame delle parti ritenute importanti nell’argomentazione dei motivi d’appello, affronta poi il P.M. le questioni relative alla “CARCINOGENESI”, pure affrontate dal Tribunale che però, subito osserva l’appellante, non ne avrebbe compreso il significato.

 

Il Tribunale si sarebbe sbarazzato in fretta della questione, con due parole, non motivate (a pag.101) dicendo che il problema è ancora “incerto e dibattuto”, così abbandonando la stessa linea tracciata dal  prof. Harry BUSCH, presidente di un centro di ricerche sul cancro negli USA indicato dalla difesa, il quale sull’origine del cancro aveva chiaramente confermato l’impostazione dei consulenti del P.M., parlando di stabilità genetica e precisando (controesame del 20.4.99 pag. 88) che “il genoma umano è estremamente stabile”: a conferma della necessità di alcune alterazioni genetiche affinché una cellula diventi maligna.

 

E oltre a “non considerare” il prof. BUSCH il Tribunale avrebbe citato i consulenti del P.M. soltanto per le parti che servono a sostenere la tesi assolutoria. Ma le questioni fondamentali trattate dai CC.TT. del P.M. non sono state né affrontate né eliminate e, quindi, alle relazioni dei professori Berrino e Colombati si deve fare integrale rinvio, con particolare riferimento ai numerosi lavori scientifici presentati (e discussi dal P.M. in requisitoria) a sostegno della origine professionale dei tumori da CVM non solo del fegato, ma anche degli altri tre organi bersaglio (polmone “in primis”).

Ripropone poi il P.M. concetti di genetica molecolare per sostenere altresì che molte delle disquisizioni della sentenza (da pag 106 a pag 126) sembrano poco rilevanti e poco appropriata appare l'interpretazione di molti dei lavori scientifici citati. Fatto essenziale, riconosciuto dalla stessa sentenza, è che il CVM è cancerogeno. In questo, osserva ol P.M.,  non vi è contrasto di opinioni ed è stata precisamente identificata la modifica chimica in un gene causata dal CVM, o meglio da un suo derivato.

 

E prosegue l’appellante osservando che, chiarito questo, che è il punto centrale per stabilire le responsabilità di chi ha esposto gli operai del Petrolchimico al CVM, si può passare ad esaminare la questione della presenza o meno di una " soglia di sicurezza" per il CVM  e anche per altre sostanze.  Al riguardo richiama quanto detto in aula, e riportato nell’atto d’appello, dal prof. Maltoni,  portato, osserva l’appellante,  sul palmo della mano dal Tribunale su tutto, meno che per la sua affermazione relativa alla inesistenza di una soglia biologicamente sicura per il CVM. E riporta, altresì, un concetto di cinetica degli enzimi: la velocità di qualsiasi reazione enzimatica (e quelle in  cui il CVM partecipa come substrato non fanno eccezione) dipende in modo asintotico dalla concentrazione del substrato. A concentrazione molto bassa del substrato, inferiore al valore della costante di Michaelis (Km), la velocità di reazione è pressochè lineare in funzione della concentrazione del substrato ( nel nostro caso, il CVM).

 

Dunque per il P.M. parlare di soglia è, teoricamente, un assurdo:  si può dire, tutt'al più, che ci possono essere concentrazioni del “veleno” tanto basse da rendere la reazione iniziale, e le successive, molto lente, e lo sviluppo del tumore molto improbabile: ma mai impossibile. Il fatto che sia difficile rilevare l'insorgenza di tumori per piccole dose di mutageni dipende dal metodo di misura e dai limiti della sua sensibilità, come è stato rilevato nel corso del processo.  Il problema, a questo punto è  giuridico (oltre che morale): è lecito esporre consapevolmente persone ad una probabilità sia pur piccola di tumore? E quando, poi, questo tumore si verifica, che succede?

Per quanto riguarda le mutazioni del gene p53 nei lavoratori esposti a cloruro di vinile, è stata pubblicata recentemente un’estensione dello studio sui lavoratori di Taiwan (Wong e altri, Cancer Epidemiology Biomarkers and Prevention 2002; 11: 475-82), di cui si chiede l’acquisizione, previa rinnovazione del dibattimento, che rafforza le conclusioni della precedente indagine. Infatti, i soggetti maggiormente esposti a VCM avevano una sovraespressione della p53 due volte più spesso dei soggetti con livelli più bassi di esposizione, e la sovraespressione era modulata da polimorfismi metabolici (CYP2E1, uno dei geni maggiormente coinvolti nel metabolismo del VCM) e di riparazione del DNA (XRCC1). In altre parole, danni al gene p53 si manifestavano già a dosi molto basse ed erano più frequenti nei soggetti con mutazioni (polimorfismi) dei geni coinvolti direttamente nel metabolismo del cloruro di vinile e nella riparazione dei danni da esso provocati al DNA.

Questo ulteriore studio rafforza quanto riportato in precedenza dagli stessi autori. Nello studio condotto a Taiwan, su 251 lavoratori esposti  a CVM il 13% presentava una sovraespressione del gene p53, contro il 5.6 % di 36 soggetti non-esposti. Mutazioni (identificate con un metodo immunologico) erano presenti nel 10% e nel 2.8% rispettivamente; le differenze erano statisticamente significative (p=0.032)(Luo et al, 1999). L’aspetto interessante al fini processuali è che le mutazioni erano presenti anche nei lavoratori che avevano subito una modesta esposizione cumulativa (meno di 40 ppm-anno): e ciò conferma anche il rischio di angiosarcoma a basse dosi, illustrato dal dr. Simonato, dal dr. Boffetta e da WARD 2001.

 

Ma anche il tema relativo alla influenza delle basse dosi sarebbe stato trattato in maniera generica e superficiale dal Tribunale, il quale – anche in questo caso – si è  completamente dimenticato della esistenza di una relazione tecnica del prof. Franco Berrino (direttore dell’Unità Operativa di Epidemiologia dell’Istituto Tumori di Milano), pur arrivando ad affermare in motivazione il presunto vuoto accusatorio sul punto. Ed elenca l’appellante tutta una serie di elementi, in fatto e tecnici, che non sarebbero stati considerati dal tribunale e che confermerebbero invece quanto sostenuto dall’accusa, lamentandosi in conclusione un appiattimento totale del Tribunale sulle posizioni della difesa, con oblio totale delle relazioni tecniche e delle posizioni dell’accusa.

 

Richiama infine sul punto il P.M. quanto segnalato e motivato dal professor Giovanni Zapponi, le cui valutazioni il Tribunale ha frainteso o non compreso, in relazione alla valutazione del rischio cancerogeno da CVM secondo organismi internazionali (e non) come l’O.M.S., l’Unione Europea e l’EPA,  con particolare riferimento alle basse dosi di esposizione.

 

Quanto alle patologie riscontrate a Porto Marghera, ricorda ancora il P.M., contrariamente alle diverse conclusioni del Tribunale, che secondo vari organismi e organizzazioni internazionali, tra cui IARC ed EPA in primo luogo, devono essere considerati come principali organi – bersaglio del CVM il fegato, il polmone, il cervello, il sistema emolinfopoietico. Inoltre, sulla base di singoli studi, devono essere attribuite all’azione del CVM alcune altre patologie, come il tumore del laringe, nonché – come ampiamente illustrato anche nel capitolo 2.3 – il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi. Ancora lamenta il P.M. da parte del Tribunale, che ha ritenuto di riconoscere come conseguenti all’esposizione a CVM solo l’angiosarcoma, il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi ed alcune epatopie, omissioni nell’esame del materiale probatorio fornito dall’accusa e, in molti casi, anche fraintendimenti del contenuto degli atti esaminati e soprattutto delle esposizioni e dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M., con conseguente grave vizio della motivazione della sentenza, la quale dovrebbe dunque essere completamente riformata.

 

Nello specifico, con la consueta tecnica argomentativa di richiamare determinati passi della sentenza che si ritengono contenere osservazioni, valutazioni o conclusioni errate (per lo più, secondo il P.M., preconcette, frutto di appiattimento sulle posizioni della difesa, funzionali ad originario disegno assolutorio), si sottopongono già a critica alcune affermazioni del Tribunale relative anche all’angiosarcomo, pur riconosciuto come conseguente all’esposizione a CVM, ma che nella loro erroneità producono influssi negativi su altri punti fondamentali della decisione, quali ad esempio quelli relativi alla carcinogenesi, all’influenza delle basse dosi (magari successive ad alte dosi) e al concorso di cause (fumo ed alcool); e quali l’esclusione della presenza dell’angiosarcoma epatico per Simonetto Ennio su asserito unanime giudizio di tutti i consulenti, quando invece tra i consulenti vi era contrasto sul punto, potendosi citare a favore della diagnosi di angiosarcoma ed epatocarcinoma, la diagnosi iniziale del Prof. Maltoni che include il paziente fra i casi di angiosarcoma della coorte dell’Istituto Superiore di Sanità e la conferma della diagnosi che il maggior esperto in questo campo ne fa in aula nel corso del processo, la diagnosi del Prof. Rugge che descrive la lesione con “fenotipo” compatibile con la diagnosi di angiosarcoma, la registrazione di Simonetto Ennio nel registro mondiale degli angiosarcomi.

 

Sostiene poi il P.M., sempre a tale riguardo, che il Tribunale senza alcuna motivazione reale avrebbe rifiutato non solo l’ipotesi di approfondire il tema delle morti per angiosarcoma a bassa esposizione nella popolazione, ma ne avrebbe aprioristicamente negato la rilevanza, scrivendo ad esempio che per i casi proposti al suo esame “manca la certezza diagnostica” o che “i tempi di latenza non sono osservati” (pag.212), mentre al contrario in atti esistono addirittura atti d’autopsia e precise indicazioni sulle esposizioni.

Quanto all’epatocarcinoma, l’appellante, dopo citazione di osservazioni sul punto dei vari consulenti e critica ancora di specifiche affermazioni e conclusioni del Tribunale che non trascura di apostrofare come arrampicate sugli specchi, lamentando travisamenti ed erronei apprezzamenti dei contributi scientifici, e dopo aver ancora ribadito la tesi, sostenuta dai propri consulenti, dell’azione sinergica del CVM con gli abusi di alcol e le infezioni  da virus B e C, sostiene che in forza degli atti del processo il carcinoma epatocellulare può essere ascritto all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:

                                                              i.     Dati epidemiologici ormai derivanti da coorti assai numerose provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.

                                                            ii.     Una forte evidenza (p<0,002)  in favore di una relazione dose-risposta

                                                          iii.      I casi occorsi in Germania in lavoratori nei  quali erano stati esclusi tutti i fattori extralavorativi

                                                           iv.     Cinque lavoratori di Porto Marghera, Fusaro Vittorio, Cividale Luigi,  Favaretto Emilio, Mazzucco Giovanni, Monetti Cesare, che non presentavano fattori di rischio extralavorativi. In due casi di epatocarcinoma   (Bonigolo e Mazzucco) i consulenti della difesa ammettono la responsabilità dell’esposizione a CVM.

                                                             v.     Una evidente anomala distribuzione dell’eziologia  (50% alcolica e solo il 19 % virale) che è stata dimostrata nei lavoratori di Porto Marghera che non ha riscontro in casistiche finora pubblicate, provenienti da aree come quella della regione veneta con un’alta incidenza di infezioni da virus epatitici.

                                                           vi.     I casi di pazienti descritti in letteratura  nei quali nello stesso fegato sono stati trovati noduli di angiosarcoma ed  epatocarcinoma (Simonetto Ennio è uno di questi casi)

                                                         vii.     I riscontri sperimentali che dimostrano che l’esposizione a CVM nei ratti può determinare l’insorgenza di diversi tipi di tumori fra i quali l’angiosarcoma e l’epatocarcinoma.

                                                       viii.     L’analogia con l’esposizione al  Thorotrast che è ormai accettato che possa indurre nell’uomo non solo l’angiosarcoma ma anche l’epatocarcinoma.

 

Analogamente, anche relativamente alla cirrosi epatica contesta il P.M. come già accennato, le conclusioni del Tribunale, ritenendole non basate sulla realtà dei dati e sulle logiche considerazioni che  ne sarebbero dovute scaturire, il tutto ampiamente presentato in dibattimento, anche in sede di requisitoria e di replica finali. E previa elencazione dei principali aspetti della questione, sulle quali il Tribunale sarebbe incorso in madornali sviste e/o errori di valutazione, con il supporto di copiosa citazione di dati e passi dei consulenti, e riproposizione di casi, sostiene che, se ci si  attiene agli atti del processo, la cirrosi epatica, può essere ascritta all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:

- Dati epidemiologici derivanti dall’aggiornamento della coorte europea (Ward et al, Epidemiology, 2001) con un RR di 9,24 nella classe di soggetti esposti fra  524 e 998 ppm.anni.

- Evidenza in favore di una relazione dose-risposta analoga a quella riscontrata per l’angiosarcoma e per il carcinoma epatocellulare, con una tendenza della curva di dose risposta intermedia tra i due.

- L’associazione tra cirrosi epatica e angiosarcoma, che secondo il Tribunale potrebbe avvalorare la tesi dell’associazione tra “tale malattia epatica (la cirrosi) ed esposizione a CVM è stata riscontrata in tre (su sette) lavoratori di Porto Marghera con angiosarcoma (Simonetto Ennio, Zecchinato Gianfranco, Pistolato Primo.

- In letteratura sono stati descritti altri casi  di pazienti con cirrosi ed angiosarcoma.

-  La plausibilità biologica confermata dalla spiccata attività fibrogenetica del CVM che in presenza di un abuso di alcol o di una infezione cronica virale causa un’amplificazione notevole delle conseguenze in termini di tossicità e di potenziale profibrogenico.

 

Sempre con riferimento all’organo bersaglio fegato, sostiene infine il P.M. che trattando delle epatopatie riscontrate nei lavoratori del PCV-CVM di Porto Marghera, il Tribunale continua a far confusione tra tossicità e cancerogenicità del CVM. Infatti, ancora a pag.246 della sentenza, citando fuori luogo l’audizione del consulente del P.M. prof. Berrino, il Tribunale continua a mescolare senza ragione IARC 1987, “oncogenità del CVM”, epatopatie e bronchiti. Sostiene dunque l’appellante, dopo richiamo alla già ricordata differenza concettuale e sostanziale tra tossicità e cancerogenicità, e dopo riproposizione dei casi dei lavoratori le cui epatopie sono state escluse dal Tribunale come causate dall’esposizione a CVM, che al riguardo la sentenza ha ripetutamente invocato (fin da pag.9) l’elevato consumo di alcol come “giustificata soluzione alternativa” all’eccesso di tumori del fegato, di cirrosi e di epatopatie.

 

Ma, sostiene l’appellante, l’eccesso osservato negli operai di Porto Marghera è troppo elevato per poter essere spiegato da un eccessivo consumo di alcol. Infatti, gli operai di Porto Marghera avrebbero dovuto fare un consumo di alcolici doppio rispetto alla popolazione generale maschile della stessa età, un comportamento che sarebbe difficilmente compatibile con una regolare attività lavorativa e di cui non vi è alcuna prova in atti. Anzi, vi sono diverse prove in senso contrario, a partire dalla relazione FULC del 1975, alle indagini effettuate dalla ULSS e dalla ASL di Mestre anche negli anni novanta: in proposito si indicano le dichiarazioni rese in aula dai testi dr. Magarotto e dr. Munarin.

 

Di tutto ciò i  giudici di primo grado si sarebbero completamente dimenticati, ed anche sul punto il Tribunale avrebbe scritto circostanze e fatti sbagliati in sentenza e avrebbe gravemente omesso di vagliare e di valutare il materiale probatorio offerto dall’accusa, affidandosi alle dichiarazioni in aula dei consulenti di Montedison Colombo e Lotti. Il primo, però, all’udienza del 18 maggio 1999 ha ripetutamente detto: “chiedete a Lotti” (pag. 70 e 71) e quest’ultimo sempre su questo tema ha detto: “io non sono molto esperto di questi studi di cancerogenesi” (pag.71): e il Tribunale si è ripetutamente affidato e fidato di entrambi! Al contrario, di passaggi fondamentali per la ricostruzione dei fatti e per la valutazione degli eventi non vi sarebbe traccia in motivazione.

 

Lamenta altresì il P.M. che il Tribunale abbia assolto gli imputati amministratori Montedison del periodo 1969 – 1973, non meglio individuati, perché il fatto non costituisce reato, dai cinque casi di epatopatia (Poppi Antonio, Bartolomiello Ilario, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe e Sicchiero Roberto) riconosciuti come causati dal CVM. Non convincenti secondo l’appellante le motivazioni per l’esclusione dell’elemento soggettivo, atteso che il CVM era un noto epatotossico (lo si sapeva dagli anni cinquanta-sessanta e lo si insegnava all’università). Ed a questo proposito e in relazione all’art.437 c.p. (malattie derivate da omissioni del “datore di lavoro”) nulla ha risposto il Tribunale.

Ciò dovrebbe portare a una totale riforma della sentenza, con conseguente declaratoria di penale responsabilità di tutti gli imputati per tutti gli specifici reati loro rispettivamente contestati (artt. 437,589,590 c.p.).

Prosegue poi il P.M. sostenendo che le critiche svolte nei confronti della sentenza per la parte concernente le patologie epatiche dovranno sostanzialmente essere svolte anche per le altre patologie, "in primis" quelle polmonari.

Si lamentano, infatti, ripetute omissioni in fatto rilevate in motivazione; incompletezza grave nell'esame di tutti gli elementi probatori sottoposti dall'accusa all'esame del Tribunale; distorsione di quanto scritto e segnalato dai consulenti tecnici dell'accusa; accettazione acritica e totalmente immotivata delle tesi della difesa degli imputati.

Anche in questa  parte dell'atto d'appello, si richiamano e si citano, oltre ai passi della sentenza sottoposti a critica, concetti e informazioni espresse in varie relazioni tecniche oppure in vari lavori scientifici presentati al Tribunale, in particolare lo studio caso-controllo del professor Mastrangelo sul rischio di cancro polmonare nei lavoratori del cloruro di vinile, concludendo il P.M., sulla scorta degli stessi, da un lato per una lacunosità della motivazione della sentenza che avrebbe trascurato una parte sostanziale della elaborazione del prof. Mastrangelo (e del prof. Pinzani e del prof. Vineis, eccetera, e dall’altro per la non accettabilità delle conclusioni della sentenza riguardo alla problematica attinente la causalità del cancro polmonare, osservandosi che se è vero che tutto il lavoro scientifico è suscettibile di essere ribaltato o modificato dalle conoscenze future, ciò non ci conferisce la libertà ignorare la conoscenza già accumulata.

 

Conclude, infine, sul punto il P.M. contestando altresì l’esclusione delle patologie degli altri "altri organi" bersaglio del CVM-PVC (laringe - sistema emolinfopoietico -encefalo). Anche al riguardo, ci si lamenta che le motivazioni della sentenza sono del tutto insufficienti e non affrontano nemmeno ("more solito") tutti i dati, gli studi scientifici, le relazioni tecniche e le dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili offerti all'esame e alla valutazione del Tribunale.

 

E una situazione analoga si presenterebbe anche per i melanomi, per i quali sono emersi "eccessi", nonché relativamente alla sindrome di Raynaud per la quale il Tribunale oltre a fornire dati numerici sbagliati rispetto ai casi introdotti dal P.M. nel processo, fa poi confusione sul numero dei casi da lui stesso ammessi, si è completamente dimenticato di Terrin, non ha considerato che il certificato di diagnosi di RAYNAUD per Gabriele Bortolozzo è del 1995, ed inoltre, si è dimenticato dell’accusa di cui all’art. 437c.p..

 

In questa situazione di carente motivazione, per di più contraddittoria nei pochi punti trattati, sostiene il P.M. che la sentenza dei giudici di primo grado debba essere riformata "in toto", facendo esplicito richiamo alle fonti di prova d'accusa indicate nell’atto di appello e che già erano state sintetizzate durante la requisitoria all’esito del giudizio di primo grado.

 

Conclude quindi il P.M. i propri motivi di appello relativamente alle statuizioni sul primo capo d’imputazione, sostenendo ancora la sussistenza del disastro innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437 c.p., della cooperazione colposa ex art. 113 c.p. tra tutti gli imputati, e della continuazione fra tutti i reati colposi contestati, nonché l’insussistenza della prescrizione.

 

Quanto al disastro innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437 c.p., ricordato che il Tribunale ha pronunciato assoluzione dal reato di disastro innominato colposo contestato al primo capo di imputazione, in quanto il fatto non costituisce reato per condotte tenute sino al 1973 e per insussistenza del fatto per condotte successive al 1973, avendo appunto i giudici di primo grado individuato nel 1973  l'anno a partire dal quale sarebbe cessata l'efficienza lesiva del C.V.M. a seguito degli interventi per la riduzione delle esposizioni, il P.M., ferme restando le critiche in fatto su tale epoca sopra ricordate, censura comunque la pronuncia assolutoria alla quale il Tribunale sarebbe pervenuto sulla base di una interpretazione non corretta della fattispecie contestata. Sostiene infatti l’appellante che il Tribunale, secondo il quale  il reato di disastro andrebbe inteso "come evento di danno caratterizzato nel suo manifestarsi dalla gravità, complessità, estensione e diffusività", ha operato una indebita sovrapposizione tra l'evento di  pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli eventi di danno a quel pericolo conseguiti. assumendoli quali elementi costitutivi della fattispecie colposa; mentre avrebbe dovuto configurarli come condizione di punibilità dell'ipotesi aggravata di disastro considerata al comma secondo dell' art. 434 cp. Necessario e sufficiente, sostiene il P.M., la mera  insorgenza di  uno stato di fatto che  renda possibile il danno.

Dunque i giudici di primo grado avrebbero dovuto chiedersi se, in un momento anteriore al  giudizio, il bene protetto -incolumità pubblica-  fosse effettivamente  "caduto in crisi", formulando un giudizio prognostico sugli eventi futuri. Orbene, il Tribunale ha affermato che il rischio costituito dall'esposizione a CVM ha avuto idoneità lesiva dell'integrità fisica ed efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori  esposti, in quanto lo dimostrano i tumori e le malattie che la sostanza  ha causato. Se ne doveva trarre la conseguenza che il bene protetto era stato messo in pericolo, quel pericolo che la constatazione degli eventi lesivi  implica e che perciò stesso era stato cagionato un disastro causalmente riferibile ed imputabile alla condotta colposa degli imputati che, rivestendo posizioni di garanzia, avevano la gestione del rischio relativo all'esposizione ad una sostanza tossica ed oncogena.

 

Quanto al rapporto esistente tra la fattispecie di disastro innominato colposo e la fattispecie di cui all’art.437 c.p., ritiene il P.M. di sistemarlo dogmaticamente (e cita Cass. pen. Sez. IV, 16.7/8.11.1993, Arienti ed altri – caso Mec Navi; prodotta) nel senso che il capoverso dell’art.437 c.p. costituisce un reato complesso in cui l’evento disastroso (l’altro disastro o infortunio) concreta appunto un disastro innominato colposo, che viene dunque assorbito nel reato di “omessa collocazione” seguita dal disastro. Ciò viene precisato in ossequio al principio del “favor rei”, in relazione alla eventuale determinazione della pena da infliggere all’imputato.

 

Quanto alla cooperazione colposa, contestata nell'imputazione, la stessa secondo il P.M. pare del tutto provata, oltre che giuridicamente configurabile. Sostiene l’appellante che in contrario, non giova sostenere che mancherebbero i supposti requisiti della "reciprocità" e "contestualità" della rappresentazione dell'altrui condotta colposa, nei partecipi di questa "anomala" forma di partecipazione al reato; e che proprio la dimensione diacronica enorme, che connota questa vicenda, nonché la autonomia dei due "centri decisionali organizzati" che hanno determinato le decisioni di politica d'impresa sub iudice escludono già "logicamente" la possibilità di concepire una cooperazione colposa. Viceversa, né nella lettera né nella ratio di disciplina dell'istituto, si rinviene una siffatta restrizione o possibilità di esclusione del suo ambito di operatività, essendo anzi vero il contrario.

 

Nel citare dottrina e giurisprudenza che avallerebbero una interpretazione che riconosce autonoma capacità "incriminatrice" all'art. 113 c.p., che estende anche a casi non altrimenti punibili la responsabilità penale, in quanto la pericolosità di determinate condotte (di per sé atipiche) può diventare attuale solo incontrando la condotta pericolosa altrui, sostiene il P.M. che il legame di "cooperazione" su cui si fonda detta estensione di punibilità, non implica affatto un atteggiamento psicologico reale e contestuale di "consapevolezza reciproca" delle rispettive azioni, essendo sufficiente, in conformità con i requisiti della colpa, la «prevedibilità della condotta altrui, concorrente con la propria» (Severino di Benedetto, La cooperazione, cit., 103; Cognetta, La cooperazione, cit., 87); e, si deve, aggiungere: realizzatrice (o "concretizzatrice") proprio del tipo di rischio che la norma precauzionale violata mirava ad evitare (cfr. Grasso, Comm. sist. cod. pen., II, Milano, 198), con l'avvertenza che detta norma cautelare —rilevante per la imputazione a titolo di cooperazione colposa — potrebbe essere anche semplicemente quella volta a prevenire non direttamente l'evento lesivo in sé, bensì la condotta colposa altrui che poi lo ha effettivamente causato (Cognetta, La cooperazione, cit., 88).

 

Nel caso di specie, l'aspetto più importante dei fatti contestati, in cui rileva tale forma di responsabilità concorsuale colposa, sarebbe  manifestamente quello che riguarda il subentro di fatto e la successione anche "informale" in posizioni di controllo e gestione dell'impresa o di singoli reparti ed impianti. Sarebbe infatti evidente e documentale la piena consapevolezza, più che mera "conoscibilità", da parte di ENI-ENICHEM e dei suoi responsabili e dirigenti, ai vari livelli di competenza oggi imputati, sia delle condizioni degli impianti, sia delle problematiche di sicurezza e rischio della produzione e delle sostanze, sia dell'adibizione degli operai alle varie mansioni ed attività, con ampia partecipazione alla piena responsabilità nel «dimensionare il personale degli impianti e dei servizi, di intesa con ENI, in relazione ai costi concordati prima del closing». Ed è dunque fondata su prove sicure, oltre che logica, al di là dell'ampia dimensione temporale della vicenda, l'estensione di responsabilità ai diversi imputati ENI-ENICHEM accanto ed in cooperazione colposa con quelli Montedison, nella causazione delle malattie professionali e dei disastri contestati.

 

Quanto alla configurabilità della continuazione ex art. 81, comma 2, c.p., fra i delitti colposi contestati, in specie: lesioni personali, disastri e strage colposi, nonché reati ambientali vari, contesta il P.M. la tesi difensiva secondo la quale tale istituto sarebbe incompatibile con i reati colposi relativamente ai quali non ci potrebbe essere  l'identità del disegno criminoso. Sostiene contrariamente che non solo qualche isolata ed "originale" voce dottrinale sostiene la piena compatibilità della continuazione con i delitti e i reati colposi, ma neppure la giurisprudenza sarebbe in posizione così monoliticamente negativa. Al di là della sentenza (già citata Cass., sez. I, 24 maggio 1985, Sicchiero, in Cass. Pen., 1987, pag. 742 s., m. 536, con nota di richiami, che fa espresso riferimento alla possibilità di continuazione nei reati colposi, allorché vi sia - come nel caso di specie! – l'aggravante di aver agito nonostante la previsione dell'evento: e non si riscontrano invece precedenti in senso contrario, specifici su tale ipotesi), ve ne è quantomeno un'altra, assai significativa e riportata nei repertori e codici commentati, che riconosce la possibilità di ravvisare la continuazione anche quando si abbia la cosiddetta "colpa impropria", che come noto implica un reale contenuto psicologico a base della condotta dell'agente, pur se l'imputazione sia poi a titolo di colpa e non di dolo (Cass., sez. I, 10 marzo 1983, Avena, in Cass. Pen., 1985, pag. 1112 s., m. 672, con nota di richiami e motivazione).

 

Dunque non vi sarebbe certo impossibilità di diversa interpretazione ed applicazione dell'art. 81, comma 2, c.p.. Anzi: proprio di fronte alla oggi acquisita maggior rilevanza e frequenza di applicazione delle fattispecie colpose, in ambiti soprattutto qual è quello in questione, di attività economiche di per sé non illecite, se rispettose delle regole cautelari volute dall'ordinamento, si è affermata la piena consapevolezza dogmatica che la colpa è senz'altro interna e compatibile con la volontà e consapevolezza dell'agire economico, delle scelte d'impresa. Sarebbe dunque senz'altro compatibile, con il rimprovero di colpa, tanto più se "cosciente", la presenza di un unico "disegno criminoso", realizzato dalle diverse condotte esecutive, attive od omissive, in sé finalistiche, anche se non tecnicamente "dolose" rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo intergrano, non dovendo d’altra parte fare riferimento all’intera serie di elementi che costituiscono i reati, ma solo alle mere “azioni od omissioni”. In ogni caso rileva il P.M. che il Tribunale, nel contestare la sussistenza della cooperazione colposa e la sussistenza della continuazione (ex art.81 c.p.), abbia completamente dimenticato che in questi processo si parla anche di un grave reato di natura dolosa (art.437).

 

Quanto infine alla insussistenza della prescrizione, ricorda il P.M. coma abbia già contestato supra la tesi che l’esposizione sia cessata nel 1974 e si è sostenuto che l’esposizione è perdurata fino agli anni ’90: è allora sufficiente applicare i principi affermati in sentenza  in tema di disastro innominato colposo per escludere che ricorra detta causa di estinzione. Secondo la sentenza è infatti “irrilevante verificare se le condotte quali fattori causali siano state concomitanti, prossime o addirittura remote rispetto al venire in essere dell’evento” (pag. 268), cioè della malattia o del decesso.

Fermo che si debba dunque rispondere per un evento avvenuto anche trent’anni dopo la tenuta della condotta colposa, non può evidentemente fare alcuna differenza che gli eventi siano uno, due o molteplici; si tratta di reato che può venire qualificato come eventualmente progressivo ed  il “dies a quo” decorre dalla consumazione, quindi dall’ultimo evento. E dalle schede prodotte dall’avv. Zaffalon, difensore di parte civile (ud. 15.6.01) e ricostruite sulla base dei dati forniti in aula dalla Guardia di Finanza, oltre che dai CC.TT. degli imputati, schede in cui  è stato ricostruito il disastro innominato colposo specificamente attribuibile a ciascun imputato (cioè con la specificazione delle lesioni e degli omicidi colposi a ciascuno addebitabili), emerge che per ciascuno e per tutti gli imputati l’ultimo evento è avvenuto nel 2000: è dunque da questa data che decorre il termine prescrizionale, termine allo stato evidentemente non ancora maturato.

Nello specifico, quanto al rapporto fra disastro innominato colposo (artt. 449-434 c.p.) ed omessa collocazione di impianti antinfortunistici, ribadito che  il capoverso dell’art. 437 c.p. costituisce un reato complesso in cui l’evento disastroso (l’altro disastro od infortunio) concreta appunto un  disastro innominato colposo, che viene dunque assorbito nel reato di omessa collocazione seguita dal disastro, osserva il P.M. che ai fini dei termini prescrizionali non cambia nulla, in quanto il citato reato complesso si consuma al verificarsi degli eventi e quindi la decorrenza si ha dall’ultimo evento. Ed anche i reati di omicidio o lesioni colposi, la maggior parte apparentemente estinti essendo molto datati, possono andare esenti da prescrizione in quanto vincolati da continuazione con l’omessa collocazione di impianti antinfortunistici, reato che, attesa la contestazione dell’aggravante di avere agito con la previsione dell’evento, può costituire la base del reato continuato comprendente le lesioni e gli omicidi colposi, onde ancora nel 2000 andrebbe individuato il dies a quo.

 

Per tutti i predetti motivi insiste dunque il P.M. per l’accoglimento delle avanzate richieste in merito al primo capo d’imputazione, e cioè: rinnovazione del dibattimento,  al fine di acquisire le prove, specificate nell’atto d’appello che qui s’intendono trascritte, previo annullamento, ove necessario,  delle ordinanze della 1a Sezione Penale del Tribunale Ordinario di Venezia;e quindi dichiarazione di penale responsabilità degli imputati:  CEFIS Eugenio,  GRANDI Alberto,  PORTA Giorgio; GATTI Pier Giorgio,  BARTALINI Emilio,  LUPO  Mario, D’ARMINIO MONFORTE Giovanni, CALVI Renato, TRAPASSO Italo, DIAZ Gianluigi, MORRIONE Paolo, REICHENBACH  Giancarlo, SEBASTIANI Angelo, FEDATO Lucian, GAIBA Sauro, FABBRI Gaetano, SMAI Franco, PISANI Lucio, ZERBO Federico, PRESOTTO Cirillo, BURRAI Alberto, BELLONI Antonio, GRITTI BOTTACCO Carlo Massimiliano, MARZOLLO Dino, PALMIERI Domenico, NECCI Lorenzo, PARILLO Giovanni, PATRON Luigi,, con la conseguente condanna degli imputati alla pena già richiesta in sede di conclusione del giudizio di primo grado (ed indicata in  epigrafe) o, comunque, alla pena che sarà ritenuta equa, con ulteriore  condanna alle spese di giustizia e ai risarcimenti dei danni che saranno richiesti dalle Parti Civili costituite.

 

Quanto alle impugnazioni delle Parti Civili, le stesse ripercorrono e ripropongono, in ordine alle statuizioni del Tribunale relative al primo capo di imputazione, le doglianze stesse più ampiamente sviluppate dal P.M. e di cui sopra.

In particolare, l’Avvocato dello Stato, in qualità di difensore ex lege del Presidente del Consiglio dei Ministri  e del Ministero dell’Ambiente e della tutela del Territorio, proponeva impugnazione e chiedeva la riforma della sentenza nella parte in cui, in relazione al primo capo, ha assolto, tra gli altri, Porta Giorgio (relativamente alle condotte tenute quale Presidente della società Enichem spa dal gennaio 1991 al giugno 1993), Trapasso Italo (relativamente alle condotte tenute quale Direttore della programmazione della società ENI dal 1/1/1980 al 31/12/1981nonchè  di Vice Presidente ed Amministratore delegato della società ENOXY dal 1/1/1982 al maggio 1983, di Presidente della stessa società dal maggio 1983 al settembre 1983, di Vice presidente vicario ed amministratore delegato della società Enichimica da maggio 1983 al 31/12/1984)  , Smai Franco, Pisani Lucio, Zerbo Federico, Presotto Cirillo, Burrai Alberto,  Necci Lorenzo dai reati di <lesioni personali colpose> e di <omicidio colposo>  riferiti alle ulteriori persone offese nonché dai reati di <omissione dolosa di cautele>, di <strage colposa> e di <disastro innominato colposo> per condotte tenute in epoca successiva all’anno 1973 perché il fatto non sussiste.

Al riguardo, premesso da parte dell’appellante che tutte le osservazioni e le censure mosse ai provvedimenti impugnati vanno intese e sono riferite alle sole posizioni degli imputati e dei responsabili civili nei cui confronti continua ad essere coltivata l’azione civile con la proposizione dei motivi d’appello, in quanto all’esito del dibattimento di primo grado lo Stato ha definito transattivamente la lite proposta con la dichiarazione di costituzione di parte civile nel presente procedimenti nei (soli) confronti del responsabile civile  Montedison spa  e del responsabile civile Montedipe spa  e degli imputati agli stessi collegati limitatamente alle condotte di gestione degli impianti del petrolchimico di Porto Marghera  attuate dalle predette società e di cui le stesse debbano, a qualsiasi titolo, rispondere, onde si anticipa che nel corso del giudizio d’appello si procederà a revocare (così come in effetti si revocherà) la dichiarazione delle costituzione di parte civile nei confronti di singoli  imputati  rispetto ai quali, per effetto dell’intervenuta transazione, è divenuta improcedibile - in tutto o in parte, nei limiti che saranno precisati per ciascun imputato -  l’azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno, si indicano nei seguenti gli specifici motivi di doglianza relativi al primo capo d’imputazione:

1) In relazione all’affermata esclusione del nesso causale tra esposizione a CVM e tutte le restanti patologie diverse da angiosarcoma epatico, epatopatie e morbo di Reinaud.

 In generale si sostiene che la sentenza  perviene a tali conclusioni sulla base di ripetuti gravi  errori giuridici, che riguardano tutta una serie di profili concernenti tanto gli elementi oggettivi quanto quelli soggettivi dei reati contestati, di contraddizioni logiche e di incomprensibili  travisamento dei fatti, sottovalutazione di precisi elementi probatori, alcuni dei quali addirittura del tutto trascurati benchè fossero stati oggetto di particolare attenzione dibattimentale. E nello specifico:

1a) In relazione alla pretesa esclusione della colpa specifica da violazione delle norme in materia di igiene del lavoro per la mancanza  conoscenza scientifica delle correlazione tra le singole patologie e l’esposizione a CVM (con particolare riferimento all’affermata inapplicabilità - in mancanza di detta conoscenza - di norme di  igiene del lavoro quali gli art.. 20-21 DPR 19/3/56 n. 303).

Sul punto si lamenta che il Tribunale avrebbe compiuto almeno tre gravi errori, di diritto e nell’apprezzamento del fatto.

 

Innanzitutto ha inserito la categoria della prevedibilità dell’evento nella struttura della colpa per violazione di legge, ignorando  del tutto l’antico e  costante insegnamento del Supremo Collegio (valido a maggior ragione  in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, atteso il carattere assoluto ed oggettivo del dovere di sicurezza) secondo cui:

 “In  tema di colpa specifica per violazione di determinate disposizioni di leggi, regolamenti, discipline etc decisivo, ai fini di una prognosi sulla responsabilità penale, deve ritenersi, in positivo, l’accertamento in ordine alla regola trasgredita, nessuna influenza  potendo esplicare il criterio della prevedibilità; di guisa che, accertata la violazione, sorge la responsabilità, dovendosi considerare che l’inosservanza delle norme predette sostanzia quella imprudenza e negligenza che costituisce il dato saliente della responsabilità per colpa” (Cass. Sez. IV sent. nr. 14202 del 25/10/1989 RV 182332).

 

Del resto dovrebbe essere dato ormai acquisito dalla cultura giuridica italiana  (trattandosi di  principio  affermato significativamente  ancora negli anni ’60, con le prime applicazioni della normativa in riferimento) che “le norme per la prevenzione degli infortuni  sono state dettate per evitare i pericoli, anche non facilmente prevedibili, che sono connessi a particolari condizioni di lavoro” (Così Cass. Sez. V, sent. nr. 806 del 17/6/1969, RV 111908).

Dunque è sufficiente che vi sia una norma di legge che detta misure di prevenzione a tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro affinchè il datore di lavoro venga gravato dell’osservanza degli obblighi in essa descritti, a nulla potendo rilevare la rappresentazione (e la prevedibilità) di eventi  ritenuti conseguenza della sua  eventuale inosservanza.

 

In secondo luogo, e conseguentemente, il Tribunale ha completamente ignorato che era comunque  nota, a livello scientifico, la conoscenza di rischi per la salute,  ancora non mortali (ma non per questo giuridicamente irrilevanti) derivanti dall’esposizione del lavoratore a concentrazioni  non elevate di CVM (dell’ordine di decine di p.p.m.),  quali quelli ben illustrati sin dagli studi di TORKELSON e SOCIN, e che tale conoscenza avrebbe dovuto indurre il datore di lavoro Enichem spa (ed anche negli anni ‘90) , secondo la nitida previsione dell’art. 20 cit.,  innanzitutto ad impedire   del tutto lo sviluppo e la diffusione del gas tossico (quale il CVM era noto che fosse) nell’ambiente di lavoro o, in caso di assoluta impossibilità tecnica, a ridurre sempre più, progressivamente e tendenzialmente a zero, nei limiti consentiti dal progresso tecnologico e con l’utilizzo delle migliori tecnologie di volta in volta disponibili, la presenza del gas in detto ambiente. (Sul pregnante e complesso contenuto del dovere di sicurezza risultante dall’art. 20 DPR 303/56, che non si limita a prevedere impianti di aspirazione localizzati il più vicino alle fonti di produzione egli agenti nocivi ma che impone anche misure organizzative del lavoro allorquando tali misure di difesa risultino insufficienti cfr. Cass. Sez. IV sent. nr. 10730 del 25/10/1991, RV 188570).

Che ciò non si sia affatto verificato (e per quel che interessa la prospettiva di questa parte civile neppure nelle epoche più recenti,  per tutta  la fase di gestione  ENICHEM  degli impianti)  sarà oggetto di altre considerazioni specificamente sviluppate in seguito in diverso motivo di appello (infra sub 1b)

Infine ha omesso di considerare che il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro in forza del  sistema giuridico costruito sui principi dettati dall’art. 41 cpv. Cost. (e quindi art. 2087 cc. nonché normativa speciale in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro e di igiene del lavoro) ha contenuto oggettivo. L’ambiente di lavoro deve risultare “oggettivamente” sicuro, a prescindere dall’affidamento che si può fare sulle capacità dei soggetti che in esso vi operano di prevenire i rischi ed i pericoli sulla base delle istruzioni eventualmente ricevute o in forza delle loro articolari abilità. Da sempre il principio è stato affermato dal Supremo Collegio: ad esempio Cass. Sez. IV sent. nr. 8082 del 6/10/79, imp. Vigano ha espressamente statuito che “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, le persone preposte alla organizzazione imprenditoriale hanno il dovere di garantire la  sicurezza oggettiva degli impianti e non possono delegare ad altri tali doveri”.

 

Più recentemente il contenuto oggettivo del dovere di sicurezza (riferito alla oggettiva sicurezza dell’ambiente di lavoro in quanto tale) è stato ribadito  da Cass.  Sez. IV sent. 8261 del 28/9/1982, imp. Tizza, Cass. Sez. III sent. nr. 7936 del 3/10/84, imp. Barni; Cass. Sez. III sent. nr. 7893 del 10/9/85, imp. Donvito; Cass. Sez. IV sent. 6686 del 7/7/93 imp. Moresco).

Dunque non sarebbe, in alcun caso, giuridicamente proponibile la tesi seguita dal Collegio, dal momento che la semplice esistenza (che il datore di lavoro ha l’obbligo giuridico di conoscere e di valutare)  di una condizione di rischio, anche minimo, per la salute del lavoratore  comporta, ex se, in capo al datore di lavoro l’obbligo giuridico di eliminazione del rischio in modo tale che, oggettivamente, l’ambiente di lavoro risulti sicuro.

 

I gravi errori descritti che, in serie, sono  stati commessi nella ricostruzione della colpa e, in particolare,  nell’esclusione  dei profili di colpa specifica derivanti dalla violazione della normativa in materia di igiene e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, hanno poi condizionato il decisum del Tribunale anche per quanto concerne la tematica della ricostruzione delle effettive concentrazioni di gas (CVM in particolare) cui i lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera sono stati esposti non solo immediatamente dopo il 1973 ma anche in epoche molto più recenti, appunto durante la gestione ENICHEM (i dati probatori più significativi si riferiscono  al periodo 1990-1993).

 

La valutazione del Tribunale, sul punto, ha, infatti, pesantemente risentito degli effetti derivanti dall’esclusione della colpa per le ragioni suddette, dato che tale argomentazione giuridica (usata dal giudice di I° grado soprattutto per escludere la colpa in epoca antecedente alla conoscenza della cancerogenicità della sostanza) è stata subito accompagnata da un giudizio di adeguatezza delle misure adottate dopo tale conoscenza che non solo non può essere condiviso nel merito (per le ragioni di cui si dirà a proposito dell’effettiva esposizione dei lavoratori a CVM) ma anche perché non è minimamente rispettoso  di quello che è il reale contenuto del dovere di sicurezza del datore di lavoro quale, invece, risulta dalle indicazioni fornite dal Supremo Collegio alle quali si è fatto più sopra riferimento.

 

1b1) Errori, sottovalutazioni e travisamenti nella ricostruzione della reale ed effettiva concentrazione del CVM cui sono stati  e sono tuttora esposti i lavoratori (con particolare riferimento alle esposizioni registrate dal gascromatografo nel periodo 1990 - 1993).

 

Si sostiene sul punto che le evidenze probatorie, e si citano testimonianze e documentazione oltre che le valutazioni dei consulenti tecnici, farebbero cadere il pilastro su cui la sentenza appellata ha fondato – in fatto – l’esclusione del nesso causale per molte delle patologie prese in considerazione. Ciò in quanto le esposizioni reali dei lavoratori impegnati nei reparti di produzione e/o di utilizzazione del CVM erano e sono sempre state (anche nei tempi più recenti tra quelli presi in considerazione dall’imputazione) enormemente più alte di quelle (trascurabili) mediamente indicate dai monitoraggi aziendali, eseguiti in modo non conforme a quanto richiesto dalla normativa vigente, privi dell’indispensabile completezza delle misure, con strumenti inefficienti e, comunque, utilizzati in più occasioni con vistose correzioni apportate dagli operatori e finalizzate ad ottenere risultati ben più favorevoli al datore di lavoro di quelli altrimenti  fornite dal funzionamento automatico del sistema. Ed i dati che certificavano tali più alte concentrazioni di CVM in ambienti di lavoro (quali, ad esempio, le annotazioni sul registro per il  passaggio di consegne, in cui erano talvolta annotate le concentrazioni reali misurate  con le sonde in occasione di fughe) sono stati ignorati dal Tribunale benchè attestassero (sia istantaneamente che cumulativamente intesi) un  superamento di gran lunga della soglia di idoneità lesiva che lo stesso Tribunale ha ritenuto debba consistere  in 10 ppm  cumulativi (pagg. 116 – 121)  e persino delle soglie più basse di esposizione cumulativa riscontrate, in letteratura, per alcuni tipi di tumore (288 ppm. per l’angiosarcoma).

 

E si sostiene altresì che la predetta censura esplica efficacia anche sotto il profilo della critica al  disconoscimento del disastro innominato  in relazione alle condotte successive tenute dal 1973, doglianza, pertanto, che espressamente si propone a codesta On.le Corte d’Appello sulla scorta sia dei dati sin qui illustrati in ordine alla reali concentrazioni del CVM negli ambienti di lavoro sia in relazione al riconoscimento del nesso causale tra esposizione e le patologie per le quali esso è stato, invece, erroneamente escluso, alla luce delle considerazioni sviluppate nei seguenti motivi d’appello.

 

1b2) In relazione alla generalizzata assoluzione di tutti gli imputati da tutte le contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro (con riferimento a quelle previste dal DPR 547/55, dal DPR 303/56 nonchè dal DPR 10/9/82 n. 962).

 

Si sostiene sul punto che le assoluzioni dalle contravvenzioni, pur indistintamente e generalmente pronunciate dal Collegio, non risultano motivate nè con riferimento alle singole contravvenzioni contestate in imputazione nè con riferimento alle prove fornite dal dibattimento, che, nell’evidenziare le elevate esposizioni di cui sopra, dimostrerebbero non solo l’inefficienza e la non adeguatezza del sistema di monitoraggio ad oggi utilizzato all’interno dello stabilimento ma, soprattutto, la sua non conformità nè ai dettami prescritti dagli artt. 21 e 21 del DPR 303/88 nè alle regole tecniche imposte dal DPR 962/82 abrogato dall’art. 13 del D. Leg.vo 25/2/2000, n. 66 che ha ricondotto tutta la materia in precedenza disciplinata dal citato DPR nell’ambito della generale disciplina dettata dal D. leg.vo 626/94 e successive modifiche, recuperando, in particolare, quanto alle tecniche di monitoraggio, i sistemi di controllo ambientale previsti negli allegati al D. Leg.vo 277/91.

 

Proprio tale modifica normativa dimostra che la materia è tuttora penalmente sanzionata sulla base delle norme incriminatrici contenute sia nel D. leg.vo 277/91 che nel D. Leg.vo 626/94: non vi è stata, pertanto, abolitio criminis ma soltanto successione delle leggi penali nel tempo. Il Tribunale avrebbe conseguentemente dovuto affrontare il problema della norma penale applicabile sulla base dei noti criteri contenuti nell’art. 2 del cod. penale.

Non lo ha fatto perchè ha ritenuto - trascurando del tutto di considerare gli elementi di fatto illustrati dal Prof. Nardelli e le implicazioni giuridiche che questa difesa aveva prospettato nel corso della discussione - che il sistema di monitoraggio fosse rispettoso di tutti i dettati normativi e fosse davvero in grado di misurare la reale concentrazione del gas negli ambienti di lavoro. La valutazione, tuttavia, è errata sia in fatto che in diritto.

 

Il Tribunale, infatti, non ha tenuto in alcun conto la denunciata insufficienza ed inadeguatezza del numero e della collocazione dei punti di prelievo (campanelle) nel reparto CV 24.

La sproporzione evidente tra il volume d’aria destinata ad essere campionato dalle campanelle a piano terra rispetto a quelle collocate sopra le autoclavi, ad esempio, (700 mc per le prime contro 340 mc per le seconde) dimostra tale inadeguatezza e consente di fondare la censura della violazione dell’art. 4, I. C. DPR 962/82 con riferimento al punto 1C2 dell’Allegato I.

 

Ma le censure più gravi sono quelle relative all’imposizione di soglie massime di misurazione al gascromatografo.

Esse ( si ricorda: soltanto 25 ppm!) sono inferiori addirittura alla soglia di allarme prevista dalla direttiva europea e dal DPR che ne ha dato attuazione: di qui la violazione dell’art. 5 di detto DPR 962/82. Violazione che sussiste anche in relazione all’installazione ed al funzionamento dell’interruttore ON/OFF, dal momento che si è dimostrato come lo stesso abbia significativamente alterato gli automatismi su cui il legislatore contava proprio per impedire ogni possibilità di interventi correttivi nella rilevazione del gas.

Ma un tal genere di genere di monitoraggio è anche contrario agli obblighi affermati, ad esempio, dall’art. 20 del DPR 303/56.

Da tale norma, infatti, scaturiscono sia il dovere di eliminazione e/o di progressivariduzione all’infinito della possibilità di sviluppo e/o della diffusione del gas tossico sia il dovere di eliminare immediatamente, in caso di fuga, il gas nello stesso punto in cui lo stesso è stato prodotto.

Di qui, conseguentemente, l’obbligo di aspirare il gas nei punti critici che dovranno, pertanto, essere verificati e controllati da un sistema di misurazione puntiforme capace di controllare, in ognuno di essi, il verificarsi  di una fuga e di consentire i tempestivi interventi di contenimento e di bonifica.

Tutto questo avrebbe dovuto essere considerato dal Tribunale, specie alla luce dei dati e delle informazioni di cui si è trattato nel precedente motivo.

 

L’assoluzione dalle contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal prof. Nardelli.

1c) Errore e travisamento dei fatti in generale nella ricostruzione del nesso causale tra le malattie contestate e l’esposizione a CVM, in particolare per le seguenti ragioni:

1c1) Difetto di motivazione, errore e contraddittorietà nella considerazione di ciò che, per il diritto penale, deve essere inteso come malattia.

 

Sul punto rileva l’appellante come il Tribunale abbia del tutto ignorato la necessità di considerare, come malattie in relazione alle quali porsi il problema della riconducibilità causale all’esposizione al CVM ed alle altre sostanze tossiche indicate in imputazione , qualsiasi modificazione della condizione di benessere fisiopsichico dei lavoratori cui fosse associata una anche solo temporanea modificazione delle funzioni  organiche (secondo il noto insegnamento del Supremo Collegio: per tutte Cass sentenza nr. 714 del 19/1/1999 che statuisce:” Il  concetto clinico di malattia richiede  il  concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di  funzionalita',  a cui puo' anche non corrispondere una lesione anatomica, e  di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso  un  esito che potra' essere la guarigione perfetta, l'adattamento a nuove condizioni  di vita oppure la morte. Ne deriva che non costituiscono malattia e  quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le alterazioni anatomiche,  a cui non si accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalita'”). 

 

Il Tribunale ha dunque omesso di fare chiarezza sulla stessa nozione di malattia penalmente rilevante, così come definita dal Supremo Collegio  e si è adagiato acriticamente sul concetto (clinico) di malattia  che  era stato fornito da alcuni consulenti di parte della difesa.

Ciò nonostante questa difesa avesse dimostrato – in sede di controesame di detti consulenti di parte, e se ne riportano nell’atto di appello i passi – quale fosse il limite vistoso derivante dall’assenza della nozione di malattia così come descritta dalla Suprema Corte.

 

Ed il Tribunale non solo non si è accorto del grave problema – che l’accusa aveva prontamente evidenziato – ma, in nome del primato della scienza, ha ritenuto che la nozione clinica (e dunque riduttiva) della malattia dovesse prevalere sul concetto che di essa è ricavabile dal sistema penale.

Il problema non è stato minimamente affrontato dal Collegio e la circostanza – invece – pacifica avrebbe potuto svolgere – a tacer d’altro – un ruolo importante nella configurazione di una dichiaranda responsabilità penale per i delitti di disastro innominato di cui all’art. 434 cp. nonché per quello di cui all’art. 437 cp. in relazione ai quali il verificarsi della malattia-infortunio costituisce circostanza aggravante.

 

1.c2)  Errore nel ritenere che il nesso causale sussista soltanto quando sia possibile dimostrare l’esistenza di una legge scientifica di copertura capace di dare la spiegazione scientifica dell’evento, limitando  così la certezza processuale  ai soli casi in cui la scienza sia giunta a dare, in termini certi, la spiegazione dei meccanismi che ingenerano la patologia e del loro modo di agire.

Proprio su tale punto, sostiene l’appellante, la sentenza avrebbe compiuto l’errore più grave, allorquando ha escluso il nesso causale tra esposizione a CVM e la quasi totalità delle patologie  che erano state oggetto di contestazione sulla base di una concezione giuridicamente errata dei criteri di ricostruzione del nesso causale, criteri significativamente disattesi persino dal recente pronunciamento sul punto delle Sezioni Unite del supremo Collegio ( cfr. Cass. Sezioni Unite penali ,  sentenza nr. 30328 del 10/7 – 11/972002, Pres. Marvulli, rel. Canzio,)

 

L’idea che fosse necessaria la precisa dimostrazione scientifica del meccanismo causale di ogni patologia in generale e per ciascun lavoratore (ovviamente impossibile da dare) è stata ritenuta sufficiente dal Giudice di primo grado  per escludere in assoluto la rilevanza penale dei fatti sulla base di una asserita mancata dimostrazione del nesso causale.

Sono stati, in tal senso, enfatizzati dal Collegio i limiti degli studi epidemiologici, quasi che solo una  certezza delle ricerche in quel settore della scienza (per la verità avente ben altri obiettivi rispetto a quelli che caratterizzano la ricostruzione del nesso causale nel diritto penale!) potesse fungere da parametro obiettivo per discriminare le patologie riconducibili al cloruro di vinile.

 

In realtà  non solo tale postulato si fonda sull’erronea rappresentazione del valore da assegnare allo studio epidemiologico all’interno del processo penale (in assenza del quale, pertanto, dovrebbe – stando al criterio applicato dal Tribunale – negarsi ogni possibilità di accertamento di responsabilità penali: una vera e propria delega della giurisdizione all’epidemiologia, con buona pace dei sacri principi sul ruolo della giurisdizione in uno stato democratico proclamati più volte dallo stesso Tribunale!) ma anche risulta obiettivamente in contrasto con le finalità dichiarate dagli epidemiologi stessi.

Più volte, nel corso del dibattimento, si è avuto modo di far loro precisare che  la mancanza di  significatività della correlazione accertata tra l’esposizione ad una sostanza ed una patologia non significa affatto che deve essere esclusa la possibilità che la correlazione esista e che operi pienamente sul piano causale. Significa, invece, limitarsi ad affermare che la scienza, in quel caso, non è in grado di affermare che essa opera con regolarità nella totalità dei casi, come invece si potrebbe affermare nel caso in cui lo studio epidemiologico avesse raggiunto la dimostrazione di altri, e più elevati, livelli di correlabilità .

 

In ogni caso – come insegna il Supremo Collegio – la valutazione del Giudice in ordine al nesso causale non può ridursi ad un mero calcolo di probabilità (anche perché nessuno ci può dare il limite di probabilità oltre al quale l’evento viene considerato effetto cagionato dal quel tipo di fattore causale) ma deve essere effettuata sulla scorta di un prudente apprezzamento di tutti i fattori tecnici del singolo caso, fattori la cui presenza viene abitualmente rilevata dall’utilizzazione di quella “criteriologia medico-legale” sistemata dal Cazzaniga ancora negli anni ’50 e, ancora una volta, del tutto ignorata dal Collegio, che pure avrebbe ignorato il contributo specifico di due consulenti medico-legali indotti dalla parte civile (il prof. Rodriguez ed il dr. Bartolucci), i quali avevano analiticamente illustrato al Collegio i singoli casi  di operai affetti da patologie che avrebbero dovuto essere ricondotte con certezza  scientifica all’esposizione a  CVM,  sulla scorta dei più consolidati criteri di valutazione medico-legale.

 

Il tema sarebbe stato ignorato, secondo l’appellante, proprio a causa della scelta “ideologica” compiuta dal Collegio in materia, tutta condizionata dall’ovvia impossibilità di fornire una legge scientifica di copertura per ogni singolo evento.

Si dovrebbe operare invece, sostiene l’appellante, una valutazione sempre ed insuperabilmente probabilistica, in cui la certezza processuale si raggiunge (come sempre in materia di apprezzamento della prova, del resto) sulla base di un convincimento logico del Giudice che pone alla base del suo giudizio una valutazione altamente probabilistica e criticamente vagliata del meccanismo causale quale ricostruito, nella sua complessità, alla luce di tutti i fattori conosciuti.

 

Alla luce di detti principi, allora, ben altra valutazione avrebbe dovuto essere compiuta dal Collegio in ordine alle singole patologie attribuibili all’esposizione a CVM non solo, genericamente,  nei periodi successivi al 1973 ma anche, più specificamente, in relazione ai periodi di gestione ENICHEM spa di cui, pertanto,  possono essere chiamati a rispondere gli imputati  nei confronti dei quali questa parte civile coltiva l’azione civile nel giudizio d’appello.

 

1.c3) Erronea applicazione del regime delle concause di cui al’art. 41 cp ed omessa e/o erronea valutazione del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di patologie, con particolare riferimento al tumore al fegato ed al polmone.

Si sostiene che Tribunale non affronta nè risolve in termini giuridicamente corretti  il problema del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di alcune patologie (in particolare il tumore al fegato ed il tumore al polmone) che, invece, l’accusa aveva puntualmente posto nel corso del dibattimento di primo grado

 

Si critica l’affermazione del Tribunale secondo il quale  ciò che non è causa non è idoneo ad assumere il ruolo di concausa di un evento, sostenendosi invece, con sostanziale riproposizione delle argomentazioni pure svolte dal P.M. e sopra ricordate, e con richiamo delle singole specifiche vicende dei lavoratori interessati, che in tutti i casi descritti sarebbe stata possibile un’affermazione di responsabilità degli imputati se solo il Tribunale avesse utilizzato i proposti diversi (e corretti) criteri di valutazione e di giudizio.

2) In relazione all’erronea esclusione della configurabilità giuridica, in astratto, di alcuni dei delitti contestati agli imputati (449 con riferimento all’art. 422 cp) e della sussistenza, in concreto degli estremi obiettivi di altri delitti (437 cp).

2.a) Sull’esclusione della responsabilità in ordine al  reato di cui all’art. 437 cp. per condotte successive al 1973.

2 a1) Asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p.- in generale.

2a2) In ordine all’asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano oggettivo. La ratio dell’art. 437 c.p.

2a3) Asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano soggettivo.

Sostiene l’appellante che la sentenza appellata commette due gravi errori di diritto dal momento che esclude la stessa configurabilità in astratto del delitto di disastro colposo di cui agli artt. 422 – 449 cp. e, in concreto, esclude la sussistenza del delitto di cui all’art. 437 cp. per condotte successive all’anno 1973.

 

Quanto a quest’ultima fattispecie, premesso che, come affermato dal P.M., viene considerata come la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole imputazioni per i reati indicati dal decreto che dispone il giudizio, ci si lamenta che il Giudice di I° grado - del tutto superficialmente, ma soprattutto in netto contrasto con i molteplici e concordanti riscontri istruttori, documentali e testimoniali, resi in dibattimento – liquida come insussistente la relativa imputazione, dedicando peraltro a questa norma poche, carenti, contraddittorie e generiche osservazioni sugli aspetti oggettivo e soggettivo del reato in questione, argomentando in modo assolutamente insufficiente, illogico e contraddittorio.

 

Sostiene al contrario l’appellante, così come sostenuto anche nel proprio appello dal P.M. ed in forza di sostanziali analoghe argomentazioni sia sulle preliminari nozioni in ordine agli elementi costitutivi  oggettivi e soggettivi del reato di cui all’art. 437 c.p., sia nell’analisi dettagliata delle singole condotte rilevanti ai sensi del delitto in esame, che se si pone mente al fatto che nel presente procedimento tutte le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p. sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura, la responsabilità avrebbe dovuto essere dichiarata in relazione a tutte le condotte  omissive attribuite agli imputati, atteso il  riscontro probatorio che le stesse hanno ottenuto nel corso del dibattimento di primo grado.

 

2b) In ordine alla ritenuta impossibilità giuridica di configurare il delitto di disastro colposo di cui agli artt. 449 – 422 cp. Erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione.

Si sofferma l’appellante su tale ulteriore profilo di doglianza (non avanzato dal P.M.) sostenendo che la motivazione in proposito fornita dal Tribunale  appare troppo sintetica. Si rinnova, quindi, la richiesta relativa all’applicazione della fattispecie risultante dal combinato disposto di cui agli artt. 449 e 422 c.p., delitto colposo la cui esistenza all’interno dell’ordinamento vigente dev’essere affermata in forza delle argomentazioni già svolte in primo grado e che si riprendono nell’atto di appello.

 

Si sostiene al riguardo che la configurabilità di tale fattispecie emergerebbe sia da una interpretazione letterale, atteso il riferimento testuale contenuto nell’art. 449 c.p. ai “disastri” di cui al capo primo, onde resterebbe infirmata l’interpretazione del Tribunale che ricollega il riferimento al solo incendio e disastri previsti successivamente all’art. 423 c.p., sia dalla volontà del legislatore che, quasi interpretazione autentica, laddove successivamente ha voluto escludere una particolare previsione lo ha fatto in modo esplicito come per la ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 423bis c.p., sia da una interpretazione sistematica che farebbe venir meno anche le argomentazioni del Tribunale in ordine ad assunta inconciliabilità tra tale riferibilità del rinvio di cui all’art. 449 cp anche all’art. 422 cp, e l’elemento soggettivo (dolo specifico) del reato di strage. In proposito si richiama dottrina che sostiene che il rinvio operato dall’art. 449 cp deve intendersi esclusivamente per gli elementi materiali delle varie fattispecie, con totale estromissione di ogni riferimento all’elemento soggettivo, dovendo fare riferimento all’art. 42, comma 2, c.p. che consente in via generale la punibilità a titolo di colpa di condotte già punite a titolo di dolo senza alcuna limitazione rispetto al dolo generico piuttosto che a quello specifico, e rinvenendosi nell’ordinamento altre ipotesi di reati colposi che già sono previsti anche nella forma dolosa con dolo specifico, quali la contravvenzione di cui all’art. 712 cp rispetto al delitto di cui all’art. 648 cp.

Ed anche successivamente all’art. 423 (Incendio) si riscontrano “disastri” puniti  ordinariamente a titolo di dolo specifico, i quali, e ciò seguendo proprio la tesi restrittiva del rinvio selettivo, dovrebbero comunque rientrare nel sopradescritto meccanismo generatore (cfr., ad esempio, artt. 424, 427, 429, 431 c.p.).

 

Secondo l’appellante allora è coerente concludere per la ragionevolezza e la coerenza di un’interpretazione che, in aderenza alla legalità stretta del dato testuale, ipotizzi la chiara configurabilità di un “disastro” ex artt. 422 e 449 c.p., disastro che certo strage non è, proprio perché la definizione legislativa di strage è riservata al delitto doloso e, per così dire “puro”, di cui all’art. 422 c.p.. Si tratterebbe di diversa ipotesi che “strage” in senso tecnico non è, e che viene punita a titolo di colpa per espresso rinvio legislativo.

Analogamente troverebbe smentita sul piano sistematico anche l’obiezione relativa alle distorsioni che si verificherebbero sul piano sanzionatorio laddove si ammettesse la configurabilità di un delitto colposo ex artt. 449 e 422 c.p. Sostiene infatti l’appellante che le asserite incongruità nel regime sanzionatorio sono frutto non già dell’originale disegno codicistico, quanto, piuttosto, delle modifiche settoriali di volta in volta apportate.

 

Al riguardo si consideri, ad esempio, il  sopravvenuto (e non ancora ricomposto) discrimine tra le fattispecie “interne” alla disposizione dell’art. 422, commi 1 e 2, dopo la soppressione della pena di morte (ex d.l. lgt. del 10 agosto 1944) e la sostituzione alla stessa dell’ergastolo.

A seguito di tale modifica si è operata una parificazione del trattamento sanzionatorio di fatti diversi: invero, se dal reato derivi la morte di una o, invece, di più persone diverse risulta essere circostanza del tutto indifferente ai fini della pena, essendo in ogni caso applicabile soltanto la pena di un unico ergastolo.

 

L’incongruenza diventa poi ancora più evidente ove si considerino gli effetti della predetta modifica in relazione al trattamento sanzionatorio dell’omicidio volontario plurimo aggravato.

Mentre la sanzione prevista nel caso in cui molteplici eventi di morte conseguano alla situazione di pericolo di cui all’art. 422 c.p. è l’ergastolo, il trattamento punitivo previsto, invece, per l’omicidio aggravato plurimo (art. 577, comma 1, n.2) risulta consistere in una serie di ergastoli, con conseguenze giuridiche  tutt’altro che indifferenti per il reo.

 

Pertanto, se incongruenze sanzionatorie sono allora ipotizzabili anche con riferimento all’ipotesi dolosa della strage (frutto di una riforma non sufficientemente attenta a tutte le sue implicazioni), non si potrà certo far leva su tale circostanza per contestare la configurabilità della fattispecie colposa di cui al delitto ex artt. 422 e 449 c.p., trattandosi – in ipotesi - di incongruenza che non consegue all’originaria concezione del Codice Penale, ma soltanto ad alcune sue modifiche.

Ma al riguardo richiama l’appellante anche un’ulteriore sviluppo interpretativo, che sarebbe idoneo in quanto tale a risolvere ogni argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio.

In particolare ci si riferisce alla tesi, in dottrina, in ordine alla possibile qualificazione degli eventi mortali di cui al delitto ex artt. 449 – 422 c.p. come “condizioni di maggiore punibilità”, che porterebbe a concludere per un concorso tra l’omicidio colposo plurimo e la realizzazione colposa di una “strage” sviluppatasi in più eventi.

 

Lamenta ancora sul punto l’appellante che nella sentenza impugnata non trovano espressa menzione  due ulteriori considerazioni generali, avanzate da questa difesa per illustrare e “contestualizzare” la discussione circa l’esistenza del delitto ex artt. 449 – 422 c.p.

La prima attiene all’attuale configurazione del bene “incolumità pubblica” di cui all’art. 422 c.p, evidenziandosi da parte dell’appellante che il caso di cui si discute in questa sede ben si concilia con lo sviluppo non solo  interpretativo ma anche normativo che il bene incolumità pubblica ha conosciuto nel corso del tempo, potendosi oggi ritenere che tale nozione sia idonea ad abbracciare interessi rilevanti e strettamente connessi quali la salubrità ambientale e la salute pubblica, soprattutto laddove, come nel caso di specie, “atti tali da porre in pericolo” (ex art. 422) gli interessi suddetti si accumulino nel corso del tempo in un progressivo acutizzarsi dei profili offensivi ed in un conclusivo materializzarsi, accanto ad un evento di pericolo ed al corrispondente disvalore, di un evento di danno (morte di una o più persone, più eventi di morte).

 

Dunque, secondo l’appellante, nella fattispecie ex artt. 422 e 449 c.p. trovano adeguata collocazione molteplici elementi emersi nell’analisi fattuale: la tutela dell’ambiente, le ripercussioni delle alterazioni dello stesso e dei pericoli indotti sull’incolumità di una cerchia potenzialmente indeterminata di persone, le morti di più persone, la violazione colposa di discipline poste a tutela dei medesimi interessi, la pervasività e la diffusività del pericolo e/o del danno.

 

La seconda importante considerazione “sistematica” favorevole alla configurabilità del delitto ex artt. 449 – 422 c.p., troverebbe poi fondamento nella consolidata definizione giurisprudenziale del “disastro”, la cui ampiezza si rivela del tutto conciliabile con le caratteristiche della nuova fattispecie colposa generata dalla combinazione delle suddette norme (cfr. la sentenza del 16/07/1965, n.949, della Sezione IV della Corte di Cassazione, a giudizio della quale la nozione di disastro, in relazione ai delitti contro l’incolumità pubblica, implica un evento grave e complesso, che colpisca le persone e le cose, e sia altresì suscettibile non solo di mettere in pericolo e realizzare il danno di un certo numero di persone e di una certa quantità di cose, ma anche di diffondere un esteso senso di commozione e di allarme; ma cfr. anche: Cass. pen., sez. I, sentenza del 10/12/1964, n.1291; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 28/02/1970, n.2630; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 17 marzo 1981; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 23/07/81, n.7387; Cass. pen., Sez. V, sentenza del 17/08/1990, n.11486; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 19/05/2000, n.5820).

 

Concludendo sul punto sostiene l’appellante che l’esclusione della configurazione del delitto colposo di cui al combinato disposto degli artt. 449 – 422 cp è, pertanto, erronea, insufficientemente motivata in relazione alle argomentazioni già prospettate dall’accusa nel corso del dibattimento di primo grado oltre che nel corso della stessa udienza preliminare.

3) Impugnazione dell’ordinanza dibattimentale del 7/4/1998.

Osserva infine l’appellante come la  stessa valutazione negativa del Tribunale in ordine alla struttura del reato che si è esaminato avesse caratterizzato anche l’ordinanza del 7/4/1998 con la quale in Collegio, pronunciando sulle eccezioni difensive, aveva tracciato il solco dei c.d. “periodi di pertinenza”.

 

Tale indicazione, secondo l’appellante, è da criticare nella parte in cui dimostra di non aver inteso il valore dell’imputazione del delitto di cui agli artt. 449 – 422 cp. così come ricostruito nel presente motivo d’appello. Si lamenta infatti che l’ordinanza impugnata, al pari della sentenza, considera atomisticamente le morti dei singoli lavoratori , quasi  che le stesse fossero slegate da quel contesto generale di disastro all’interno del quale, invece, le aveva correttamente poste l’imputazione formulata dal P.M.

Contesto generale ed unitario, fortemente strutturato intorno a tutti i reati contro l’incolumità pubblica  contestati (e, dunque, oltre al delitto di cui agli artt. 449-422 cp anche il delitto di disastro innominato, quello di cui all’art. 437  cp nonché quelli di avvelenamento e di adulterazione di cui si dirà in seguito) ma che vedeva proprio nel delitto di cui agli artt. 449-422 cp il contenitore naturale di condotte tutte singolarmente pericolose per la pubblica incolumità, stratificate nel tempo, dalle quali (o dal concorso delle quali) si erano poi verificati quegli eventi-morte che, nella struttura del reato, costituiscono condizioni di punibilità (o, al massimo, circostanze aggravanti).

Dunque anche sul punto si chiede la riforma dell’impugnata sentenza, tanto nella decisione assolutoria tanto nell’ordinanza che ne costituiva il fondamento logico giuridico.

 

Conclusivamente lamenta la suddetta parte civile il carattere parziale e limitato della decisione di primo grado, quale risulta da una motivazione solo apparentemente ricca e completa ma rivelatasi, in realtà, incredibilmente carente sotto numerosi punti di vista. Prove decisive ignorate,  assoluzioni con la formula più radicale (“perchè il fatto non sussiste”) del tutto rimaste prive della benchè minima spiegazione, diritti dell’accusa privata in più occasioni violati, norme penali erroneamente applicate, travisamento del significato di numerose consulenze tecniche. Una sentenza ingiusta, dunque, prima ancora che sbagliata, frutto di un grave “pre-giudizio” nei confronti dell’accusa, e tutta l’impostazione che è stata data al percorso argomentativo seguito dalla motivazione manifesta una scelta aperta del Collegio a favore di valori  di garanzia incondizionata verso i diritti dell’imputato. Scelta sacrosanta e condivisibile pienamente, ma, osserva l’appellante, tale  rispetto avrebbe dovuto, tuttavia, essere dimostrato anche nei confronti delle parti offese più deboli.

Quanto alle restanti parti civili appellanti, per lo più ripropongono, alla lettera, i motivi di doglianza, tesi ed argomentazioni del P.M., ripresi, come visto anche dall’Avvocato dello Stato, sui temi in oggetto (sussistenza dei reati, in special modo di quello ex art. 437 cp, causalità, natura cancerogena del cvm e conoscenze in merito alla stessa, colpa, ecc.), con limitate specificazioni in ordine alle vicende personali di alcune delle parti offese appellanti, concludendo quindi tutti per la riforma della sentenza con affermazione, ai fini civilistici, della responsabilità degli imputati in ordine agli addebiti di cui al primo capo d’imputazione.

 

Circa il secondo capo d’imputazione, le argomentazioni del Tribunale a sostegno del deciso, si sviluppano sostanzialmente in tre parti, cui si contrappongono le specifiche censure degli appellanti.

 

I parte - sentenza

L’ipotesi  accusatoria formulata col secondo capo di imputazione

Considerazioni generali

 

IL Tribunale dopo avere premesso che, anche per questo secondo capo di  imputazione, il PM ha ritenuto necessario, in relazione alla molteplicità  e complessità dei fatti  ed alla estensione dei danni, utilizzare per correttamente  inquadrare le  fattispecie concrete , lo schema dei delitti contro l’incolumità pubblica  ,in particolare  quello del disastro innominato -per i danni  all’ambiente e all’ecosistema  nel suo complesso- e quello dell’avvelenamento e della adulterazione delle acque o di sostanze alimentari – per quanto riguarda il biota vivente sul sedimento contaminato dei canali dell’area industriale e le falde acquifere sottostanti le aree di discarica  interne ed esterne al Petrolchimico- e ricordato che in data 13 –12 2000 è stata variata l’imputazione, rileva che  la accusa  ha proposto una lettura dei fatti basata su soluzioni in diritto controverse,e che all’esito del processo non sono state ritenute fondate in fatto le tesi della accusa, ,né condivisibili in diritto le ipotesi  interpretative sottostanti.

 

 Viene quindi puntualizzata l’ipotesi  accusatoria   con cui viene contestato ad un primo gruppo di imputati  di avere realizzato e gestito discariche abusive  di rifiuti tossico nocivi– gli allegati B e C ne contengono l’elenco  di 26 siti di smaltimento- all’interno e all’esterno del Petrolchimico dal 1970 al 1988.

 

Ad una seconda serie di imputati, parzialmente coincidente con la prima – ritenuti consapevoli  degli illeciti dei propri antecessori  e dello stato di degrado ambientale preesistente -viene invece contestato: di avere abbandonato rifiuti tossico nocivi in violazione dell’art 9 D.P.R n 915/82;di avere stoccato senza autorizzazione rifiuti tossico  nocivi nelle discariche  di cui sopra  senza la  autorizzazione  richiesta ai sensi dell’art 16 D.P.R. 915/82; di avere effettuato  scarichi nelle acque  di fanghi di derivazione da catalizzatori esausti ,cosi come di altri sottoprodotti di risulta dei  processi effettuati presso gli impianti produttivi – relativi alla produzione del cloro e dei suoi derivati – in particolare gli scarichi SM2 e SM15 con il superamento dei limiti , per quel che riguarda clorurati e nitrati, di cui alle tabelle allegate al D.P.R n .962 /73 –di avere consentito la dispersione  nel sottosuolo  e nelle acque sottostanti il suolo  di residui tossico nocivi  e di acque di rifiuto non trattate – si tratterrebbe delle sostanze indicate negli elenchi  I e II allegati al D .Lvo n132/1992  riguardante la protezione delle acque sotterranee ,il cui inquinamento deriverebbe dalla trasmigrazione passiva della   pregressa contaminazione; di avere omesso  l’adozione delle misure necessarie  al fine  evitare il deterioramento della situazione  sanitaria igienico ambientale ,dei siti contaminati, delle falde  acquifere sottostanti e delle acque finitime; di avere omesso di informare l’autorità pubblica,  preposta al controllo,  delle attività di  discarica e smaltimento  di rifiuti tossico nocivi; di avere omesso le necessarie opere di bonifica dei siti contaminati, iniziando un parziale interevento limitato a due zone, solo con la richiesta di autorizzazione presentata alla Provincia di Venezia nell’agosto del 1995.

A  tutti gli imputati viene  quindi contestato di avere, attraverso le condotte di cui ai capi a )e  b) sopradescritte, causato eventi di  danno  qualificati come disastro c. d. innominato – previsto  punito dall’art 434 c.p - richiamato nella imputazione- e dall’art 449 c.p- non espressamente richiamato  ma da intendersi sottinteso . data la contestazione  a titolo di colpa.

L’evento di danno consisterebbe nella contaminazione dei diversi comparti ambientali e nella alterazione dell’ecosistema.

Vengono in  considerazione innanzitutto a tal fine  la contaminazione delle acque di falda  sottostanti la zona di Porto Marghera   , dei sedimenti  dei canali e delle acque  prospicienti Porto Marghera  dovuta alla elevata concentrazione di diossine e di altre famiglie di composti tossici, secondo quanto accertato dalla consulenza espletata  dal C. T del P.M. depositata il 3-9-1996.

Viene poi in considerazione la compromissione del suolo  e del sottosuolo come conseguenza della illegittima gestione delle discariche . e come conseguenza di tutte le  condotte di cui sopra viene quindi addebitato  a tutti gli imputati   l’avvelenamento delle acque di falda , utilizzate anche per uso domestico e agricolo tramite i pozzi , l’avvelenamento (452 e 439 c p)  e l’adulterazione (452 e 440 c.p)  delle risorse alimentari  costituite dalla ittiofauna e dai  molluschi  , contaminazione avvenuta  a seguito dell’inquinamento  del biota ,  a sua volta inquinato  dai sedimenti contaminati dagli scarichi. e dalle percolazioni delle discariche.

 

Il pericolo  derivante dalla condotte contestate sarebbe attuale  e vi sarebbe di conseguenza la permanenza in  atto,  benché invero  il capo di imputazione ,cosi come modificato all’udienza del  13 –12 2000 limiti i fatti all’autunno del 1995.

Il Tribunale richiama quindi le ordinanze con cui  sono state rigettate alcune eccezioni della difesa  relative alla incoerenza o /e vaghezza della imputazione  che  si sono basate sui principi generali, relativi  alla rilevanza causale di qualsiasi condotta , che costituisca un antecedente necessario, anche nella sola forma dell’aggravamento, dell’evento, senza che rilevi  la  sua maggiore o minore importanza, la distanza temporale  rispetto al momento in cui si verificato l’evento, evidenziando però che con quelle ordinanze è anche stato ribadito che in relazione alla funzione  del diritto penale,  che è quella di accertare  responsabilità individuali, la rilevanza causale dell’apporto del singolo imputato deve essere rigorosamente provata.

 

Altro problema che viene esaminato è quello costituito dal richiamo allo schema concettuale della cooperazione nel delitto colposo.

L’ipotesi  dell’accusa non si presenta come un concorso di cause tra loro indipendenti  ma richiama condotte caratterizzate dalla prevedibilità del comportamento altrui  e dalla consapevolezza  di ciascuno di aderire  con la propria condotta  alla condotta altrui, per cui sarebbe una reciproca consapevolezza di condotte inosservanti da cui  deriva un unico evento disastroso.

In ogni caso lo schema sostenuto dalla accusa ,della cooperazione colposa, piuttosto che quello del concorso  di cause , schema  ritenuto astrattamente possibile dal Tribunale, non consente comunque di eludere il problema causale in quanto ,anche  nello schema della cooperazione colposa, condotta penalmente  rilevante è quella che , insieme alle altre ,costituisce conditio sine qua non dell’evento o, quantomeno, può dirsi efficiente in relazione alla condotta altrui, causalmente rilevante nella produzione dell’evento ,anche nella forma  di aggravamento dell’evento preesistente.

 

Non potrebbe configurarsi  poi la cooperazione per il solo fatto di essere consapevoli dello stato di inquinamento pregresso se  manca un apporto  quantomeno nella forma   dell’aggravamento.

Non è pertanto condivisibile la tesi dell’accusa , secondo cui tutte le condotte sarebbero unificate  in un addebito di cooperazione colposa, in cui ,ciascun cooperante assume corresponsabilità per l’insieme delle conseguenza prodotte dal catabolismo del plesso industriale.

 

La cooperazione si ritiene configurabile solo tra coloro che agiscono in epoca coeva ,non tra persone che agiscono in epoche diverse, in contesti organizzativi mutati e indistinti contesti societari.

Diverso è poi il problema di  una  successione nella posizione di garanzia, ma  comunque sia, non potrà mai, secondo i principi generali, essere eluso il problema delle rilevanza causale della condotta del singolo imputato, tramite lo schema della fattispecie concorsuale nella forma colposa. Ciascun imputato potrà essere chiamato a rispondere solo di fatti-anteriori, concomitanti  o successivi causati da altri,solo se vi un rapporto con la sua sfera di attività , se vi è una relazione  con la garanzia dovuta, se sussiste la prova di un nesso di causa tra la sua propria condotta -non quella dell’azienda- e l’evento.

 

La imputazione in tema  di disastro innominato,  ancor prima di essere infondata in fatto lo è in diritto perchè comporta accuse indifferenziate non compatibili con il principio della personalità della responsabilità penale.

Centrale nell’ipotesi accusatoria è la figura del reato di disastro innominato - disastro ecologico permanente - che si concretizza nella mancata bonifica di siti contaminati da altri in antica data.

Secondo il Tribunale invece  si può parlare di reato permanente solo quando l’offesa al bene giuridico si protrae fino all’attualità per effetto della  persitente  condotta del soggetto.

Secondo l’accusa è causale anche la condotta inattiva di chi subentra nella titolarità dei siti  inquinati, condotta che si concretizza in una serie di omissioni,intese come violazioni dell’obbligo di attivarsi per la bonifica di quanto contaminato da terzi antecessori in antica data.

 

Ed in questa prospettiva l’accusa trascura di verificare  l’epoca della contaminazione e l’apporto che ciascuno  degli imputati vi avrebbe avuto in termini  quanto meno di aggravamento.

Il Tribunale ritiene invece che perché una condotta omissiva sia penalmente rilevante  debba individuarsi  in capo  al soggetto quell’ obbligo ,il  cui adempimento è stato omesso  , obbligo che  non sussiste, nella fattispecie , nei confronti di chi succede  nella disponibilità di un sito contaminato da terzi.

 

Non esisteva infatti nel nostro ordinamento , prima del D Lvo n22 /1997, un obbligo generale di bonifica  di siti contaminati da terzi  in antica data a carico del successore nel potere di impresa o nella titolarità del diritto o nel potere di fatto su un sito già precedentemente  inquinato.

Rileva anche il Tribunale come nel testo della imputazione  vi siano una pluralità di riferimenti normativi relativi a violazioni costituenti titolo contravvenzionale , che assumono rilevanza con  riferimento alle principali imputazioni , come  titolo di colpa specifica .

 

Ed ancora  viene rilevato come, secondo la interpretazione autentica da parte dello stesso organo dell’accusa, il reato di disastro innominato sia unico , riguardando sia il primo come il secondo capo di accusa, in quanto l’attività di industria ha esplicato i suoi effetti negativi,sia all’interno come  all’esterno della fabbrica, con la conseguente continuazione tra tutti delitti contestati  nel primo  e nel secondo capo d’accusa  e la continuazio0ne interna tra i reati ipotizzati in ciascun capo di accusa.

Ma il  Tribunale non ritiene essere compatibile la continuazione con l’elemento soggettivo della colpa.

Della ritenuta compatibilità della fattispecie di disastro innominato colposo con il principio costituzionale di stretta legalità.

Viene quindi osservato come le fattispecie  richiamate dagli art 449 e 450 c.p contengano entrambe il riferimento al termine disastro -termine generico- soprattutto nella ipotesi di cui  all’art 449 e 434 c.p., in cui viene usato il predetto termine ,senza alcuna ulteriore specificazione  sul fatto costituente la fonte del pericolo.

E sulla indeterminatezza  della fattispecie la difesa ha fondato la eccezione di costituzionalità che è stata  ritenuta manifestamente infondata dal Tribunale  con le argomentazioni che sinteticamente si ricordano. 

 

Evidenzia  il giudice di primo grado che nell’ipotesi di cui all’art 449 c.p. il disastro, anche quello innominato, come evento di danno grave complesso ed esteso ai singoli comparti ambientali e all’ecosistema nel suo insieme ,deve sussistere e come  in entrambe le fattispecie  per definizione deve sussistere  una situazione di messa in pericolo  della pubblica incolumità; che nei reati di danno è però necessario anche che sia accertata una serie cospicua di eventi di  danno alle cose, mentre  invece nei reati di pericolo  basta la probabilità del verificarsi dell’evento di danno alle cose; che la sussistenza del  reato  comunque non può prescindere dall’accertamento della intrinseca idoneità del danno ,cagionato alle cose,  a porre in pericolo, in modo serio ,reale la incolumità delle persone.

Capitolo terzo

Dalla destinazione a discarica delle ventisei aree nominate in imputazione  , alla  contaminazione  da sostanze  tossiche del suolo e sottosuolo  rilevante in termini di disastro colposo

Dalla contaminazione  del suolo  e sottosuolo a quella delle falde acquifere e delle acque dei pozzi  che ad esse attingono  rilevante in termini  di loro avvelenamento o adulterazione

 

3.1 premesse

Preliminarmente nella sentenza vengono richiamati gli addebiti rivolti specificatamente al primo gruppo di imputati e  quindi viene  premesso  che ,nel  trattare gli effetti del catabolismo degli impianti  sul suolo, sottosuolo  e quindi sulla falde acquifere, l’accusa ha considerato  in modo distinto le discariche interne da quelle esterne all’area di insediamento del Petrolchimico  e che secondo lo stessa schema accusatorio verranno dal Tribunale valutate  le risultanze probatorie

Dagli esiti delle prove assunte risulta  quanto alle discariche interne : che le acque di falda- oggetto dell’indagine processuale sono le acque della prima e  della seconda falda- attinte  dal percolato di discarica verticale sono in suscettibili di qualsiasi utilizzo per la loro modestissima portata. che l’inquinamento delle acque di falda, sottostanti il plesso industriale , non ha potuto attingere, seguendo processi  di trasferimento orizzontale , acque  e sedimenti dei canali lagunari confinanti con l’area industriale, perché il flusso del primo acquifero verso la laguna è privo di significato- tali falde sono pressoché stagnanti- né i pozzi verso l’entroterra, perché il terreno scende  in direzione opposta verso la laguna .

 

In sintesi la alta concentrazione di inquinanti che caratterizzano le discariche interne sono contenute nelle zone sottostanti  e non si sono verificati  significativi spostamenti

Per le falde acquifere  sottostanti le discariche esterne l’inquinamento orizzontale è escluso per mancanza di dati .

Solo in tre casi –tre discariche-la prima falda acquifera risulta contaminata  , non vi è però prova del trasferimento orizzontale  della contaminazione  dall’ambito sottostante le aree  di discarica a quello da cui  attingono i pozzi.

Ne conseguente la  infondatezza delle accuse che derivano dall’ipotesi di avvelenamento delle falde acquifere del suolo e sottosuolo

 

Dopo avere evidenziato  con le predette argomentazioni che non vi è prova di una situazione di pericolo per la incolumità pubblica, relativamente alla situazione delle discariche viene osservato che non vi è alcuna prova in ordine alla realizzazione –gestione-utilizzo delle discariche senza titolo o in violazione  delle norme di protezione ambientale vigenti   all’epoca del loro esercizio .

Innanzitutto viene  quindi  premesso che la prima disciplina normativa è stata introdotta con il D.P.R 915 /82 e che  il Tribunale ha ritenuto   non sussistesse dopo l’entrata in vigore della citata normativa l’ obbligo di chi succedeva nella gestione  del plesso di attivarsi per la bonifica di siti contaminati da terzi.

Viene poi evidenziato che , per il periodo antecedente l’82, l’accusa  non indica quale norma generica o meglio regola o cautela avrebbe dovuto essere adottata e non risulta esserlo stata, né  fornisce alcuna prova di un aggravamento dello stato di contaminazione preesistente.

 

Capitolo 3.2

Dalla contaminazione da sostanze tossiche del suolo e sottosuolo nell’ambito dell’area di insediamento   del plesso industriale, in  relazione  allo stato delle c. d discariche interne (rilevante in termini di disastro innominato colposo) alla contaminazione delle falde acquifere  e delle acque dei pozzi che ad esse attingono (rilevante in termini di avvelenamento o adulterazione).

 

Della efficienza di un processo di trasferimento orizzontale  della contaminazione dalla falde sottostanti l’area di insediamento del plesso  industriale  verso i pozzi siti a monte e verso i canali lagunari finitimi

Viene fatta innanzitutto una  descrizione della zona in cui insiste il plesso industriale in questione  ed evidenziato come sia incontroverso che ,all’interno dell’area di insediamento del plesso industriale, esistano antiche discariche di rifiuti

Richiamate  le risultanze precedenti  per quanto riguarda il rispetto delle normative in vigore viene  quindi ulteriormente evidenziato come la gestione della massima parte dei  siti di discarica  nominati  in imputazione  sia andata materialmente esaurendosi  prima della entrata in vigore della disciplina transitoria  di cui al DPR  n.915/82.

Su tale circostanza sono state raccolte le deposizioni testimoniali di Spoladori –Pavanato   Gavagnin e Chiozzotto.

 

E prima dell’entrata in vigore del DPR 915/82  la attività di gestione dei rifiuti  trovava la sua disciplina nell’art 216 T. U .L. S e nelle vigenti previsioni di   piano  Norme Tecniche di attuazione del Piano Regolatore Generale di Venezia  del 1956 che fornivano all’art 15  la seguente indicazione “ nella zona industriale troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono   nell’aria fumo , polvere  o esalazioni dannose alla vita umana ,che scaricano sostanze velenose ,che producono vibrazioni e rumori .

Varianti al piano regolatore sono state adottate  dal Comune di Venezia solo nel marzo del 1990.

Riprendendo la descrizione del luogo in cui   è stato realizzato il Petrolchimico  viene ricordato che l’area di sedime, in cui è insediato il complesso industriale , è stata in gran parte realizzata mediante ’imbonimento delle zone di barena, attuato mediante la utilizzazione di materiale dragato e rifiuti e residui di lavorazioni industriali fino agli anni 70 e fino al raggiungimento di spessori medi di riporto di 2,5-3 metri  sopra il livello del mare

 

E tale origine  del Petrolchimico risulta ampiamente documentata  in particolare  dalla cosiddetta convenzione Levi intervenuta con la Regia amministrazione  che prevedeva .  appunto l’utilizzo dei rifiuti industriale  per imbonire le zone arenose .

Più della meta della superficie oggetto della convenzione risulta essere oggi occupata dall’area   di insediamento del Petrolchimico. 

ED in tale ambito –molti anni dopo - sono stati scavati il canale industriale sud , il canale industriale ovest ed il canale Malamocco-Marghera  e dove le sponde non sono protette  o dove la protezione è permeabile o danneggiata  i materiali vengono sistematicamente  erosi ,entrando in soluzione nelle acque lagunari o disperdendosi sul fondo dei canali stessi.

 

Dopo aver ricordato lo schema giuridico utilizzato dall’accusa  incentrato sulla figura del disastro  ecologico – art 434 c.p - e della cooperazione colposa,  tramite omissione,  assumendo la rilevanza di una permanenza in atto delle condotte di reato (come omessa bonifica della contaminazione preesistente) e la permanenza dei suoi effetti , osserva il collegio come l’ipotesi sopradelineata  finisca per trascurare la prospettiva della rilevanza causale delle condotte dei singoli imputati, cui viene riferito l’evento contaminazione – e quindi si allontani da  una schema concettuale accettabile , quale un evento di danno  alla cose causato per accumulo di differenti apporti nel tempo,

Non potendosi accettare la configurazione di cui sopra sarebbe stato  necessario accertare se i singoli imputati avessero potuto recare  tramite  la loro condotta – di gestione della discarica attiva od omissiva – un ulteriore apporto  rilevante in termini di aggravamento.

 

Non rileva  invece secondo l’ipotesi accusatoria accertare se ci sia stato o meno un apporto causale della condotta di ciascuno ,trovando fondamento la responsabilità di tutti gli imputati nella consapevolezza della esistenza dell’inquinamento e  nella violazione dell’obbligo di  bonifica.

Rimane cosi estraneo al programma della pubblica accusa la verifica dell’apporto di ciascuno, durante  la gestione della discarica , all’aggravamento dello stato di contaminazione preesistente.

 

Le tesi dell’ accusa sono comunque non solo non condivisibili  in  diritto ma anche infondate in fatto

Vengono quindi ripetute le ragioni per cui risulta irrilevante l’inquinamento delle falde - sottostanti il sedime  delle discariche sia interne come esterne  e cioè sostanzialmente la  loro inutilizzabilità per qualsiasi  uso antropico e  riportate le considerazioni tecniche  su cui si basano le conclusioni di cui sopra  ,mediante una descrizione dettagliata delle condizioni del suolo e del sottosuolo e della struttura stratigrafica-  dati tecnici questi su cui  concordano tutti gli esperti delle parti.Da atto poi il tribunale di come si sia  accertato che la contaminazione , partendo dal piano di posa dei rifiuti, attinge  le falde acquifere sottostanti lo strato di  caranto , fino  a raggiungere il secondo acquifero,ad una  profondità  superiore ai venti metri .

 

Ed, essendo  accertato il passaggio dell’inquinamento del sedime al primo e secondo acquifero,  tanto basterebbe secondo la accusa  a provare l’avvelenamento delle acque – come risorsa alimentare - essendo irrilevante ai fini  del reato di cui all’art 439 c.p la non attualità della loro destinazione alla alimentazione , bastando quella potenziale , che potrebbe rendersi necessaria ad esempio  in particolari condizioni di siccità–

Tale tesi ,condivisibile secondo il Tribunale in linea di principio , non lo è in concreto  perché  le acque della prima e  della seconda falda sono assolutamente  inutilizzabili per qualunque uso industriale o antropico, attesa la loro bassa portata- praticamente stagnanti  e le loro originarie caratteristiche.

 

Anche pensando insussistente lo stato di inquinamento , le falde sottostanti l’area del  Petrolchimico  sarebbero inutilizzabili per qualsivoglia uso.

Le prove raccolte consentono conclusivamente di ritenere  con certezza che,  nell’area di Porto Marghera, l’utilizzo delle falde entro i primi 30 metri di profondità non è in alcun modo ipotizzabile

Quanto alla tesi accusatoria del trasferimento orizzontale - sia verso i pozzi a monte e verso i canali lagunari finitimi - del percolato di discarica  attraverso l’acqua di falda inquinata,  osserva il Tribunale come l’inquinamento derivante  dal sottosuolo attraverso le falde non attinga  le acque e i sedimenti dei canali lagunari in termini realmente efficienti  la loro contaminazione ,perché il flusso del primo acquifero( il solo che comunichi con i canali  non essendoci possibilità di comunicazione per il secondo acquifero perché piu profondo del fondo della laguna  ) verso la laguna  è insignificante ( si tratta di quattro litri/secondo lungo tutto il perimetro  dell’area di insediamento  del plesso industriale  7-8 Km).

 

Al lento movimento delle falde- cui è attribuibile una velocità di deflusso dell’ordine di grandezza del metro /anno - va poi aggiunto per gli inquinanti il cosiddetto”coefficiente di ritardo”,  dovuto  al rallentamento che la presenza di sostanza organica  attua nei confronti dei contaminanti , che tendono  a fermarsi  aderendo ai granuli di terreno, per cui  la velocità di movimento dell’inquinante è  sempre inferiore  a quella della falda anche di qualche decina di volte.

Su tali dati concordano i tecnici di entrambe le parti  che  indicano un valore approssimativo della portata della prima falda  lungo tutto l’area del Petrolchimico dell’ordine  di  4 litri/ secondo ed un  tale  modesto apporto  risulta ininfluente in termini di rilevanza causale.

 

Alle conclusioni di irrilevanza della contaminazione derivante dal percolato di discarica attraverso le falde  acquifere, con riferimento alla inquinamento dei sedimenti e delle acque, dei canali lagunari finitimi al plesso industriale  , fa seguire il Tribunale una sintesi dei risultati degli esami analitici eseguiti , che hanno dimostrato  la presenza di un inquinamento in misura  che va diminuendo, man mano che si passa dalle acque  di impregnazione negli strati superficiali alle  acque della prima  e della seconda falda ed inoltre viene aggiunto che l’eventuale moto di trasferimento orizzontale della contaminazione  risulta ostacolato  dall’ingressione dell ‘acqua marina ,  che determina una consistente diluizione degli inquinanti

Altro dato certo risulta poi  essere quello della insussistenza di un trasferimento orizzontale della contaminazione dal sottosuolo, cioè dagli acquiferi situati sotto l’area di insediamento  del plesso industriale , verso monte   essendo dato un gradiente che declina nettamente a scendere verso la laguna  e peraltro  non sono stati trovati inquinanti di origine industriale nei pozzi oggetto di campionamento.

 

Viene esaminata  anche la deposizione sul punto del teste Chiozzotto valorizzata dalla difesa e contrastante con le diverse ma tra  loro concordi valutazioni dei tecnici di entrambe le parti , che viene ritenuta dal Tribunale  non rilevante  perché non aggiunge né toglie  nulla al quadro probatorio gia esaminato e risulta  inoltre contraddetta dalle valutazione dei tecnici di entrambe le parti .

 

3.3 Dalla contaminazione da sostanze tossiche del suolo e del sottosuolo in aree diverse da quella di insediamento del plesso industriale  in relazione alle cosiddette discariche esterne ( rilevante in termini di disastro innominato  colposo) alla contaminazione delle falde acquifere e della acque dei pozzi  che ad esse attingono,rilevante in termini di avvelenamento ( o adulterazione )

Anche per le discariche esterne, la cui esistenza è incontroversa, valgono innanzitutto  le considerazione gia fatte per quelle interne ,  sia per quanto riguarda tempi  e modi  della loro gestione, sia per quanto riguarda  le loro caratteristiche tecniche nonché   l’inquinamento delle falde  sottostanti.

 

Osserva anche il tribunale ,quanto ai dati probatori acquisiti che per 13 discariche esterne  mancano completamente  i dati , e  che mancano per tutte, al di fuori di tre, i dati relativi  allo stato delle falde, risultando inquinate solo le acque di impregnazione , cioè quelle immediatamente sottostanti lo strato di rifiuti  e sovrastanti la linea del caranto.

Nei tre casi in cui risulta inquinata l’acqua della prima falda non vi è però alcuna prova di trasferimento orizzontale, così come non risultano mai prove di contaminazione da processi di lavorazione industriale nelle acque dei pozzi oggetto di campionamento né vi è prova che l’inquinamento del suolo e sottosuolo sia riferibile a fatti di  gestione di rifiuti in discarica , attuati dagli imputati che avrebbero gestito le discariche in conformità delle regole vigenti .

 

 3.4

Della mancanza di fondamento giuridico della accusa di concorso nel reato di disastro avvelenamento o adulterazione mediante omessa bonifica o messa in sicurezza di siti contaminati  da terzi antecessori in epoche  pregresse

Della carenza probatoria in punto di fatto degli addebiti di ritardo nella bonifica mossi agli imputati di appartenenza Enichem

Della carenza probatoria pertinente agli addebiti di colpa riferiti agli imputati di appartenenza Montedison.

 

 Conclusioni pertinenti alle accuse fin qui considerate 

Premesso che non risultano provate  ,all’esito dell’istruttoria dibattimentale , condotte connotate da antigiuridicità  nella gestione dei rifiuti in discarica da parte degli imputati di  appartenenza Enichem esercenti potere d’impresa dopo il 1983, rileva il Collegio come  nei reati casualmente orientati , quali il disastro innominato  sia l’evento  a svolgere la necessaria funzione tipizzatrice  nel senso  che devono essere provate non solo le  condotte contrarie alle  regole generiche o specifiche , finalizzate ad impedire il verificarsi dell’evento dannoso, ma anche il verificarsi  dell’evento ,  in quanto il carattere colposo della condotta  non può prescindere dalla esistenza di un nesso di causalità definito.

 

 L’accusa invece assume unicamente come dato rilevante  la esistenza delle antiche discariche attive non oltre  la fine degli anni 70 ,quando l’azione di smaltimento dei rifiuti  nelle forme praticate  dagli imputati  era quella adeguata alle valutazioni normative ,tecniche e di disciplina vigenti

La costruzione accusatoria , da cui deriva la responsabilità e  prima  la riferibilità giuridica a ciascun imputato  della contaminazione , si basa sulla esistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento, come conseguenza della posizione di garanzia rivestita dagli imputati , per il non verificarsi  dell’evento disastro  o avvelenamento o adulterazione , e con  una sostanziale equivalenza della azione  all’omissione sotto il profilo causale.

È infatti in questo quadro che si svolgono le contestazioni  relative a  tutte le  condotte omissive contestate , per cui  viene ritenuto sufficiente accertare  che non  sia stato  impedito l’inquinamento, omettendo nelle fattispecie  la bonifica degli antichi siti di discarica, a cui per la posizione di garanzia  gli imputati erano  tenuti.

 

Centrale nella tesi accusatoria è infatti  la esistenza e quindi la esigibilità dell’obbligo di bonifica delle discariche realizzate e gestite in passato da altri  secondo l’art 25 D.P.R.915/82 .

Ma invero tale tesi  dell’accusa è  in contraddizione con l’indirizzo giurisprudenziale  ,confermato  dalla sentenza delle Sezioni .unite C. C 5-10-1994, che ha affermato come diversa sia la  realizzazione e la gestione della discarica  ,condotte che possono assumere entrambe la forma del reato permanente , dal mero mantenere nell’area i rifiuti scaricati quando la discarica  sia stata chiusa , condotta questa non riconducibile alla gestione delle discarica in senso proprio .

 L’accusa  a sostegno della propria tesi  richiama altre sentenze della C .C del  4-11- 1994 e 29-4-1997  che però riguardano fattispecie diverse , in cui si discute di condotte contestuali alla  gestione  delle discariche.

 

Conforme a quanto affermato dalle Sezioni unite è invece  anche la successiva sentenza della C.C 2-7-1997 che afferma analogo principio ,  anche dopo l’entrata in vigore del D l vo 22/1997 ,che ha abrogato l’art 25 del D. P R. 915/82  sostituendolo con l’art  51 comma 3

E sulla base della giurisprudenza citata il reato è permanente , solo però per il tempo in cui l’organizzazione  è presente e attiva

La norma incriminatrice ha riguardo solo alla fattispecie  commissiva ,  e l’equivalenza del non  impedire al causare presuppone la esistenza della giuridicità dell’obbligo di impedire, obbligo che non può derivare dalla  pura  semplice disponibilità della discarica .

 

Ribadita la necessità di una norma agendi specifica , quale fonte dell’obbligo di impedire l’evento  osserva il Collegio che le norme –altre dall’art 25 D .P R N n.915 /82- richiamate  dall’accusa  come fonte dell’obbligo giuridico di attivarsi per la bonifica dei siti contaminati da altri antecessori in nessun modo possono essere ritenute tali.

Alcune hanno contenuto analogo  a quella del D.P.R., quale l’art 10 L.  5-3- 1963 n. 366, l’art   9 L 16-4 -1973  n. 171  l’art 3 D.P.R. 20-9-1973 n 962   gli  art 1 e 3 L .R. 23 –4 -1990 n.28

Richiamate tali norme ritiene l’accusa che pure il semplice mantenere  discariche contribuisca alla dispersione di sostanze inquinanti mediante trasmigrazione  passiva.

 

Il mantener discariche – osserva invece il Collegio- concreta quella condotta omissiva che la C .C esclude possa integrare il reato di discarica abusiva , per la ribadita  inesistenza di un obbligo di  attivarsi per la bonifica di siti contaminati da terzi antecessori e per la  necessità di individuare una norma  su cui fondare o da cui derivare l’esistenza di un obbligo di fare , con la conseguenza che il non fare viene ad integrare una  fattispecie criminosa.

Non  contengono obblighi di disinquinare neppure  le altre  norme generiche citate dal P. M .quali l’art 1 L.16-4-1973 n171 , l’art 28 L 5-3 1963 n366 ,art 217 T. U. L .S del 1934.

 

Trattasi in tutti i casi di norme che non prevedono un obbligo generale di attivarsi per la bonifica , bensì conferiscono poteri di intervento alla P.A.,  che può imporre determinati obblighi  di ripristino in presenza di particolari situazioni.

Tra le norme richiamate vi sarebbe anche l’art 14 2° comma D .L. vo .n132/92  -disciplina  transitoria  della legge concernente la protezione delle acque sotterranee- che riguarda i termini entro cui presentare la  domanda  per una nuova autorizzazione ad effettuare operazioni di eliminazione o di deposito di rifiuti, che comportino scarichi indiretti ,gia autorizzati dal  d p r n915/82.

Tale norma secondo l’accusa consentirebbe di ritenere che, anche il solo deposito di rifiuti in discariche chiuse ,avrebbe bisogno di autorizzazione  ai sensi del d.p.r 915/82  ciò che non è riguardando la disciplina del citato D.P.R solo le attività di gestione dei rifiuti e non situazioni di discariche gia esaurite

Altra fonte dell’obbligo di bonifica sarebbe stata individuata nella Delibera del comitato interministeriale  del 27-7-1984  al punto 7, che invece risulta chiaramente avere contenuto diverso riferendosi ad impianti preesistenti, trasferiti o modificati, ma ancora attivi e gestiti al momento delle entrata in vigore della nuova normativa e non  discariche o impianti cessati prima della sua entrata in vigore .

 

Viene quindi ribadito che l’omissione è in realtà inconcepibile senza pensare alla norma impositiva dell’agire  , non tutte le omissioni rilevano ma solo quelle violative di un dovere giuridico di fare .

Conferma  ulteriore delle inesistenza di un obbligo di bonifica  viene dall’art 17 D L. vo n22 /97 – decreto Ronchi- che per la prima volta prevede l’obbligo di bonificare e ripristinare le aree inquinate nel caso di superamento di determinati limiti di accettabilità  della contaminazione.

Il silenzio della disciplina previgente porta invece  ad escludere che sussistesse un obbligo generale di bonifica.

Anche alla stregua della disciplina vigente sembra comunque escluso un obbligo generale di bonifica del sito contaminato  al di fuori della ipotesi di cooperazione colposa

 L’ipotesi accusatoria rimane comunque  anche in fatto priva di fondamento risultando, dalle prove acquisite e dalla  valutazione in concreto dei tempi e dei modi di adempimento agli obblighi di disinquinamento, la legittimità  della condotta degli imputati ,che avrebbero rispettato le norme tenendo conto del momento  della loro  entrata in vigore ,della estensione del sito inquinato della complessità degli interventi – vedi confronto con altre analoghe esperienze e relazione  Francani e Alberti  in data 20-4-2001.

 

In particolare non risulta giustificata la contestazione specifica circa la intempestività degli interventi  relativi alle discariche  di cui  alle zone 31 e 32 in quanto nessuna prova adeguata è stata fornita da chi ne aveva l’onere circa  ritardi od omissioni nella esecuzione di interventi di disinquinamento.

Prima della entrata in vigore della normativa di cui al D. L vo n 22/1997 ,a livello locale,  era stato raggiunto un accordo di programma, per la chimica di  Porto Marghera e successivamente  un accordo integrativo  ,per meglio definire le procedure di approvazione dei progetti e degli interventi, che  risulta essere stato osservato da Enichem.Il Tribunale ribadisce quindi e sintetizza i  principi generali, già  prima esposti. ribadendo la necessità che venga individuata la norma giuridica, di cui si addebita la omissione, ed inoltre , trattandosi di reati di evento, che tra la ipotizzate omissione e l’evento  dannoso,risulti accertata la esistenza del  nesso di causalità materiale .

 

Ciò che non è stato fatto né per gli imputati della Montedison che gestirono rifiuti  in discarica quando tale pratica era abituale e non regolata , né per gli imputati Enichem che ,dopo l’entrata in vigore della disciplina  autorizzatoria, non risulta abbiano  commesso alcuna violazione  delle normative in vigore

Dopo avere quindi riaffermato che, prima dell’82, non esisteva una disciplina normativa relativamente allo smaltimento dei rifiuti, evidenzia il Tribunale che una “norma agendi”, intesa come comportamento, che  avrebbe dovuto essere tenuto e che non lo è stato ,non risulta neppure enunciata o addebitata nell’ipotesi accusatoria, e che il Tribunale ha comunque verificato che, le modalità di gestione dello smaltimento dei rifiuti da parte degli imputati ,sono state conformi a quelle seguite da chi svolgeva analoghe attività ,  e che  nessuna cautela o modalità  diversa risulta adottata da un agente modello, a cui confrontare la condotta dell’agente reale .

 

Sul punto la enunciazione della accusa non si concretizza mai ,rimanendo ferma ad un livello di indeterminatezza ,che interessa tanto l’epoca precedente quanto l’epoca successiva all’entrata in vigore del D.P.R 1982/915,mentre una “ norma agendi” a cui confrontare la condotta degli imputati, un parametro di diligenza esigibile dagli imputati usciti di scena prima del D.P.R.915/82   avrebbe dovuto essere  comunque determinata.

Prima dell’entrata in vigore della suddetta  normativa ,nessuna delle norme indicate dall’accusa  e relative  alla salvaguardia di Venezia conteneva una disciplina relativa al catabolismo nel suolo , in particolare anche la norma di cui all’art 9 d.p.r n 962/73 aveva un contenuto del tutto generico, che  non consentiva nè al privato nè alla P. A di individuare le regole o le prescrizioni da adottarsi.

È  solo nel periodo compreso tra il 1970 ed il 1982 che prendono forma le prime iniziative di gestione dei rifiuti secondo le tecniche allora conosciute e  la Montedison, vigendo valutazioni tecniche e di disciplina che rendevano problematica la scelta, si affidò all’unica impresa che produceva impianti di incenerimento in Europa, commissionandole il primo impianto di incenerimento di sottoprodotti clorurati organici   nel 1972.

 

Il funzionamento dell’inceneritore è stato poi oggetto di valutazione tecnica,nel contraddittorio delle parti,a causa  del rilevato pericolo di provocare lo sviluppo di diossine .

Ma sul punto rileva il Tribunale  come l’accusa non sia riuscita a dimostrare che gli imputati potevano, in base alle conoscenze tecniche dell’epoca , riconoscere le condizioni iniziali rilevanti, proprie della formazione di diossine.

In ogni caso sul punto risulta dalla deposizione dei testi che le temperature erano elevate e quindi il rischio di formazione delle diossine ridotto e che le analisi fatte dall’università  non avevano rilevato tracce di diossine.

Come poi si vedrà , la questione relativa allo smaltimento delle peci clorurate ha assunto nel processo un particolare valore , atteso che, secondo l’ipotesi accusatoria formulata, in base alla consulenza Ferrari ,  tali rifiuti sarebbero stati smaltiti tramite autobotti e bettoline fuori dal plesso del Petrolchimico, nel canale  Nord e nel canale Bretella

L’ipotesi è rimasta però priva di riscontri ed al contrario  proprio l’esistenza dell’inceneritore proverebbe il contrario, considerato anche  che, prima  di usare l’inceneritore, Montedison usava stoccare i rifiuti in fusti,nelle immediate vicinanze  dei reparti interessati, per poi interrarli in discarica.

 Le  deposizioni testimoniali consentono di ritenere provato che tutti i rifiuti erano stati depositati  nelle discariche prima del 1982  e che successivamente  lo smaltimento dei rifiuti era avvenuto solo nei luoghi autorizzati e con modalità conformi a quelle previste dalla prescrizioni accessorie alle autorizzazioni e comunque, quando le deposizioni testimoniali non sono sufficienti, non risulta  provato   il contrario.

 In particolare  risulta dai documenti prodotti dallo stesso P. M che la discarica Dogaletto,era stata chiusa nell’estate 1971 , mentre  la  discarica interna, sita in area 31-32 c .d Katanga , considerata particolarmente rilevante per la sua estensione  e per il suo prolungato uso, risulta da precise deposizioni testimoniali , che era stata esaurita e chiusa prima del 1983 – vedi la  deposizione del teste Spoladori e dei testi Gavagnin e Mason - dalle quali risulta che la discarica predetta  era stata aperta nel 1976 ed esaurita nel 1982.-

 

 Non consta  quindi  che siano state gestite dopo il 1983 discariche senza titolo o violando le prescrizioni accessorie ;

una tale ipotesi non viene peraltro neppure esaminata dalla accusa che  basa le sue richieste sulla  equivalenza ,della mancata bonifica delle discariche  definitivamente cessate in epoca pregressa all’assunzione del potere di impresa da  parte del singolo imputato, alla gestione senza titolo.

 Di fatto risulta comunque che nel 1988 venne iniziata la bonifica della discarica  Dogaletto e che successivamente  venne dato allo stesso ingegner Gavagnin l’incarico di mettere in sicurezza la discarica in sito Malaga e di studiare la cauterizzazione necessaria per la bonifica della  area 31-32  e dei sedimenti de canale Lusore- Bretelle , antico corpo recettore degli scarichi di provenienza del Petrolchimico.

 

Sintetizzando nell’ultima parte  del capitolo le motivazioni prima esposte  osserva conclusivamente il Tribunale  come sia infondata  l’ipotesi accusatoria  per quanto riguarda la contaminazione del suolo e del sottosuolo, rilevante in termini di disastro colposo  e per quanto riguarda altresì l’accusa di avvelenamento o adulterazione delle acque delle falde sottostanti ai siti di discarica

( Le pagine della sentenza  da numero 575 a 578 contengono una sintesi della motivazione sopra esposta  e contenuta nelle pagine da 477 a  574 ).

 

I parte -appello del P.M

Parte terza

Capo di imputazione n 2 Parte ambientale

 

Capitolo 3.1

La deformazione della accusa operata dal Tribunale

Il disastro innominato e l’art 437 c.p.

 3.1 Il P. M evidenzia  nelle premesse dell’appello la deformazione dell’accusa operata dal Tribunale. Secondo il P.M, il Tribunale, pur dando atto in questa seconda  parte della motivazione  della sentenza, della modifica dell’imputazione intervenuta all’udienza del 13-12 2000, ha come nella prima parte  della decisione deformato  le accuse del PM  ed  erroneamente ritenuto che l’accusa avesse  formulato delle contestazioni generiche  e generalizzate.

 

A)    Esempi della deformazione.

Mentre risulta dal capo di imputazione, che i fatti sono stati contestati in modo specifico, indicando i luoghi in cui l’inquinamento delle acque e dei sedimenti viene ricondotto alla attività del Petrolchimico e addebitandone la causa  a ciascuno degli imputati, che  avrebbe contribuito a darvi origine  o ad incrementarlo,  in modo  altrettanto preciso e, con riferimento  ai periodi in cui ciascuno aveva svolto il proprio incarico all’interno della azienda,il Tribunale ha invece parlato  di zona industriale nel suo complesso ,di decenni di catabolismo  industriale ,di decenni di gestione del plesso produttivo , usando termini che l’accusa mai aveva impiegato.  

 Al contrario di quanto affermato sono  invece ben individuati nella imputazione i luoghi  inquinati :  i siti delle discariche, le acque di falda, i sedimenti e le acque dei canali  e specchi lagunari prospicienti  Porto Marghera, dal cui inquinamento sarebbe  derivato  l’avvelenamento o l’adulterazione   della ittiofauna e  dei molluschi   a causa della gestione degli impianti  appartenenti al ciclo del cloro.

 

B) Non è poi  vero che sia stato contestato il disastro innominato  permanente. ma solo la permanenza in atti degli effetti,mentre le condotte risultano nel capo d’accusa chiaramente e temporalmente ben delimitate, e di tanto invero ne aveva dato atto lo stesso Tribunale con l’ordinanza del 2-2-2001 di rigetto  delle eccezioni di  indeterminatezza delle imputazioni  sollevate dalla difesa.

 

C) Prima di passare ad una  rassegna critica  dei vari punti della sentenza  premette quindi il P.M come siano condivisibili i principi generali  enunciati dal Tribunale e sviluppati nella pagine  482 e 483- in materia di rapporto di causalità,– art 40c.p. - secondo cui il rapporto di causa si identifica con quello  di un  fattore e necessario,rispetto al verificarsi dell’evento per cui , una volta accertatane l’esistenza ,rimane privo di rilievo,  ai fini del giudizio penale, valutarne l’intensità dell’apporto  e – in materia di concorso di cause – art 41 c. p-  secondo  cui in presenza di piu fattori  causali ,addebitabili a più persone, succedutesi nel tempo, è   irrilevante stabilire quale sia  più prossimo e quale piu remoto.

 

È  infatti in base a questi principi che sono state respinte  tutte le eccezioni di nullità sollevate dalle difese con riferimento a profili di in coerenza interna o di vaghezza  della imputazione.

Non sono invece affatto condivisibili  le successive deformazioni  delle tesi dell’accusa , operate dal Tribunale e che derivano dalla premessa  ,secondo cui , avrebbero dovuto assumere rilevanza  nelle indagini  le condotte che avevano determinato  condizioni di aggravamento dell’evento gia verificatosi;

 aveva infatti  sempre  l’accusa  parlato nel capo di imputazione di contributi dei singoli imputati alla causazione e /o all’incremento dei diversificati inquinamenti ,individuandone altresì la fonte  negli impianti del ciclo del cloro dettagliatamente indicati nel capo di imputazione.

E questi danni sono diversi da quelli generici e  generali cui fa riferimento la difesa ed il Tribunale.

 

D) Non contesta poi  il P.M , ed ancora una volta l’accusa viene deformata, che ciascuno debba rispondere per come ha adempito alla garanzia  da lui dovuta e nei limiti dell’apporto recato, non potendo mai l’imputato rispondere di fatti che non siano casualmente  riconducibili alla sua condotta, ma risultino causati da altri.

Mai il P.M. ha preteso di addebitare  a ciascun imputato, condotte diverse da quelle sue proprie ,nè conseguenze che alle predette condotte non siano riconducibili in base  al nesso di causalità

Non risulta inoltre  che il tribunale abbia  preso in considerazione il disastro contestato ai sensi dell’art 437 c.p.

Viene quindi avanzata la prima richiesta  di riforma totale della sentenza di primo grado.

 

Capitolo 3.2

Le norme esistenti prima del 1970

Il divieto di scarico dei rifiuti industriali

 

Presentazione della tesi fatta propria dal Tribunale

Osserva poi  il PM come i primi giudici,  abbiano escluso l’esistenza , in materia di gestione dei rifiuti industriali, di norme agendi prima del  D.P.R.915/82;

abbiano ritenuto la conformità  delle modalità di gestione dei predetti rifiuti da parte  degli imputati a quelle utilizzate da chi svolgeva attività simili;

abbiano affermato che la gestione dei rifiuti prima dell’82  trovava  la sua disciplina nell’art 216 TULS. e nell’art 15 del P. R .G del 1956   che destinavano la zona industriale agli impianti inquinanti  .

Contrariamente  a quanto sopra affermato  e che viene punto per punto contestato vi erano invece  delle norme di riferimento in materia di rifiuti ed  a queste norme  gli imputati avrebbero dovuto attenersi .

Innanzitutto va  rilevato che agli imputati non viene contestata solo la illegittima  gestione delle discariche ma anche la loro illegittima creazione e che  comunque, anche prima dell’82, il deposito e la realizzazione delle discariche era oggetto di limiti e divieti .

 

In primo luogo vi era la legge regionale del Veneto  6-6-1980 n.85 che cosi statuiva “  divieto di abbandonare e depositare rifiuti di qualsiasi genere su aree pubbliche e private nonché scaricare o gettare  rifiuti nei corsi d’acqua,canali, laghi, lagune o in  mare .

Su tale divieto nessuna motivazione si rinviene nella sentenza del Tribunale

Altra norma indicata nel capo di imputazione ,che vietava condotte idonee a produrre inquinamento era l’art 10 legge 5-3-1963 n.366 che non consentiva lo scarico  di  rifiuti o sostanze che potessero inquinare le acque della laguna , nonché  l’esercizio di industrie che refluissero in laguna  rifiuti atti ad  inquinare  o intossicare le acque .

Vi era poi la L n.366/ 41, che è stata abolita  solo dal Dl vo 5-2-1997 n.22 e che  si occupava invero dei rifiuti solidi urbani , in particolare rilevava   l’art 17- che  vietando in modo assoluto il gettito di rifiuti ed il loro temporaneo deposito nelle pubbliche vie ,piazze ,terreni pubblici e privati- e utilizzando  il termine rifiuti in modo del tutto generico , dimostrava cosi  che la volontà del  legislatore era quella di porre dei divieti per qualsiasi rifiuto ,senza distinzione in ordine alla sua natura o provenienza .

 

Ed una diversa interpretazione invero  porterebbe all’assurdo risultato di ritenere esistente dei divieti per i rifiuti , provenienti dalla abitazioni,e non invece  per i   rifiuti provenienti dalle industrie.

  Limiti e regole relativamente al deposito dei rifiuti sono poi contenute anche nel regolamento comunale di igiene  del Comune di Mira  pubblicato nel 1954–nel cui ambito risultano esserci cinque discariche  tra quelle di cui all’imputazione – che vietava ,all’art 36, di accumulare sul suolo qualunque  materiale di rifiuto lurido o nocivo ,all’art 50 ,di  depositare  prodotti chimici al di fuori  dei luoghi indicati  dall’autorità comunale ,all’art 199  imponeva di costruire i luoghi destinati a discariche  con materiale impermeabile per evitare qualsiasi inquinamento del  sottosuolo, e nel regolamento comunale  di igiene  del Comune di Venezia – art 6  -art 74- art 78.

 

Tutte le violazioni delle norme in esame comportavano la applicazione delle sanzioni e delle pene previste dal T.U. leggi sanitarie  ,dal regolamento stesso,nonché  di quelle previste dal CP.

 Esisteva quindi una regolamentazione locale che vietava l’esercizio di determinate attività  ritenute pericolose od insalubri e comunque subordinava ad un provvedimento della P.A. l’esecuzione dello smaltimento dei rifiuti industriali

 Esistevano poi altre due norme –art 9 e art 36 R D n 1064 del 8-10-1931-  che  vietavano lo scarico di rifiuti industriali nella acque pubbliche  : norme specifiche a tutela delle acque da pesca rispetto ai rifiuti industriali.

 

Esistevano conclusivamente delle norme che dovevano essere rispettate e che non  lo sono invece state , e non essendo state in alcun modo le discariche autorizzate . ne consegue che quelle  realizzate ,violando le predette normative, devono ritenersi contra legem.

 

Quanto all’art 15 del N. T. A  del  P. R. G  del  56 richiamata dal Tribunale rileva il P.M. che  è norma di natura esclusivamente urbanistica,che non riguarda la possibilità di creare delle zone di rilascio, scarico ,gestione incontrollata dei rifiuti ed che  è comunque superata dall’art 10 L1963/366, norma di rango superiore alla previsione regolamentare e di chiaro contenuto precettivo  .

 Inoltre, in atti normativi successivi al 1956, che prevedevano l’ampliamento della zona industriale di Porto Marghera, si prevedeva che il completamento dei cicli produttivi dovesse essere attuato, seguendo il criterio connesso alle esigenze  di sicurezza , igiene  pubblica ed incolumità degli abitanti (art 8 lett d) L397-02-03 63

 Errata  risulta quindi la conclusione dei giudici laddove ritengono che prima del 1982 non ci fosse alcuna normativa relativa alla gestione dei rifiuti delle produzioni industriali .

 

Capitolo 3.3

Rifiuti tossico nocivi e scarichi idrici

3.3.1 Illecito scarico di rifiuti anche dopo l’entrata in vigore del D.P.R 915/82

Ricorda innanzitutto il P.M. come, secondo il tribunale, le discariche sarebbero state realizzate  per la maggior parte prima dell’82 e, per quelle successive, le norme in vigore sarebbero state sempre rispettate o comunque non risulta che siano state realizzate senza titolo autorizzativo o con modalità incompatibili con le prescrizioni accessorie  pertinenti alle autorizzazioni rese”

Ne conseguirebbe che gli imputati sotto questo profilo non avrebbero commesso alcuna violazione delle disposizioni in materia di gestione dei rifiuti .

Ritiene invece l’accusa che non sia  vero che le discariche siano state realizzate  per la massima parte prima dell’entrata in vigore del D.P.R.915/82 ed evidenzia come valgano a smentire la affermazione del Tribunale sul punto la deposizione dell’ispettore  Spoladori del 20-9-2000 e dello stesso Gavagnin all’udienza  del 16-3 2001 ,nonché la elaborazione scritta dello Spoladori del 13-12 2000.

  possono  essere ritenute decisive  sul punto le deposizioni del teste Gavagnin che ha solo riferito di una razionalizzazione del sistema dei rifiuti dopo il 1983 ,  aggiungendo che ,di conseguenza ,solo la serie di fenomeni macroscopici in precedenza verificatisi,non sarebbero piu avvenuti; il teste predetto ha anche precisato che le sue convinzioni erano basate non  su una conoscenza diretta dei fatti bensì sul fatto che da quell’anno  responsabile del servizio Pas era divenuto il perito Ceolin.

Né dirimente poteva ritenersi la deposizione  del teste Pavanato,  che aveva   precisato di non essere in grado di escludere che il fenomeno delle discariche abusive fosse cessato dopo il 1982.

 Il Tribunale ha poi affermato ,senza indicare le fonti di prova di queste affermazioni ,che dopo il 1982  le discariche erano  autorizzate e gestite secondo le prescrizioni contenute nelle relative autorizzazioni  ma l’affermazione del Tribunale con cui si ritiene  che la normativa di riferimento per i conferimenti  a discarica successivi al 1982 risulti osservata è del tutto generica.

 

Capitolo 3.4

L’obbligo di attivarsi in relazione ai siti inquinati da terzi antecessori

1) la posizione del Tribunale sul punto

 Esamina quindi il P .M  la decisone del Tribunale, secondo cui non rientrerebbe nel concetto di gestione della discarica penalmente rilevante il solo mantenere nell’area rifiuti scaricati da altri quando ormai la discarica era chiusa ,  decisione fondata   sulla sentenza della C.C Sezioni  Unite   del 5-10-1994

 La questione riguarda la imputabilità dei dirigenti ed amministratori indicati nel capo di imputazione  per la gestione di discarica abusiva di rifiuti  e smaltimento non autorizzato, in violazione rispettivamente degli art  25 e 26 cpv DPR n915/82 , poi sostituiti dall’art 51 D.Lgs n22/1997 ,nell’ambito della contestazione  del reato di disastro innominato colposo.

Osserva quindi il P .M  come la questione  sia stata effettivamente  affrontata e decisa con la  nota sentenza della Cassazione Sezioni Unite , a cui  ha aderito il Tribunale, ma  come successivamente sia  intervenuta  giurisprudenza di merito e di legittimità difforme.

 

2) La  sentenza  della Cass. SS. UU. 5-10-1994

 Secondo la citata sentenza non si configurerebbe alcun reato  di gestione  di discarica  abusiva o smaltimento non autorizzato di rifiuti tossico nocivi nella condotta di chi  solo mantiene in un ‘area rifiuti  scaricati da altri , in assenza di qualsiasi attiva partecipazione, e nonostante abbia  consapevolezza della loro esistenza.  

 Alla affermazione di tale principio la Cassazione era pervenuta in base alle seguenti considerazioni:

 in primo luogo un dato  testuale , rappresentato  dal fatto che il concetto di gestione di discarica  e smaltimento dei rifiuti non consente di ricomprendervi  anche quello  di solo mantenimento degli stessi ; in secondo luogo la inesistenza nell’ordinamento di un preciso obbligo positivo di  porre fine alla situazione  antigiuridica in corso , non essendo rinvenibile una norma che imponga al nuovo detentore la rimozione dei rifiuti del terreno entrato nella sua disponibilità .

 

3) la nozione di gestione di discarica non autorizzata  alla luce del dato testuale  del DPR n915/82 e del D.LG.vo n.22/1997: la gestione successiva alla chiusura.

Ritiene invece il PM che la decisione della Cassazione del 1994 non sia condivisibile  alla luce di un attento esame delle normativa di settore sia  statale come comunitaria  .

 Innanzitutto va esaminato il DPR 915/82 ed in particolare  gli art 10  e16 che contengono anche delle prescrizioni  che riguardano la fase di chiusura, successiva all’esaurimento dell’impianto e relativa alla sua messa in sicurezza.

 E da tali disposizioni risulta in modo inequivoco che, anche dopo la chiusura, è ravvisabile un esercizio ossia una gestione della discarica di rifiuti tossico nocivi e che ,anche tale fase è ritenuta importante ,in quanto il legislatore impone alla autorità di controllo  di dare precise prescrizioni  da osservare proprio in tale fase,mentre alcune prescrizioni  sono gia contenute nel testo dell’art 16  quali : la ricopertura della discarica ,il riutilizzo dell’area.

 

Ed il successivo Dlgs  n 22/1997 conferma tali prescrizioni là dove ,nel fornire una definizione  di “gestione dei rifiuti”, vi include espressamente il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura , attribuendo al  gestore  del sito precisi obblighi e responsabilità .

 E non può  certo dubitarsi del fatto che tali obblighi ,nel caso di cessione della proprietà e della gestione della discarica,si trasferiscano  in capo al nuovo proprietario del sito .

La  diversa interpretazione fornita dalla Cassazione porterebbe alla assurda conseguenza che chi  riceve una discarica autorizzata ,sarebbe tenuto ad  osservare determinate prescrizioni ,che non sarebbe invece tenuto ad osservare chi  subentra in una discarica  abusivamente realizzata .

 

 4) La delibera interministeriale 27-7 1984 e l’obbligo giuridico di attivarsi per evitare l’inquinamento  da percolato : il reato di gestione di discarica abusiva in forma omissiva.

In relazione agli  obblighi  di gestione della discarica ,anche quando la discarica è stata chiusa , osserva la accusa come rilevi anche quanto stabilito dalla Delibera interministeriale del 27-7-1984- contenente disposizioni per la prima applicazione del DPR n915/82- che al punto 4.2 cosi  testualmente stabilisce, con riferimento allo stoccaggio definitivo di discariche di prima e  seconda  categoria “ i sistemi di drenaggio e captazione del percolato, nonché  l’eventuale impianto di trattamento del medesimo  dovranno essere mantenuti in esercizio anche dopo la chiusura della discarica  stessa e a carico del gestore di quest’ultima ,per il periodo di tempo che sarà stabilito dall’autorità competente “

 

Prescrivendo la delibera degli obblighi a carico del gestore della discarica , per impedire lo sversamento del percolato anche dopo la chiusura, si configurano i reati,   a carico di colui che non li  adempie, di cui agli art 25 e 26 D P. R n.915/82 come fattispecie omissive improprie in forza della clausola di equivalenza  dell’art 40 capoverso c.p .

 Risulta quindi  chiaro il vizio logico contenuto nella sentenza della Corte di Cassazione, in quanto quand’anche  non fosse possibile  configurare un obbligo  di rimozione dei rifiuti  a carico  del detentore di un discarica chiusa, ciò non significherebbe certo la inesistenza a suo carico di  un obbligo di porre fine alla situazione giuridica in corso,  impedendo il protrarsi o l’aumentare del degrado ambientale .

 

 Esisteva pertanto, anche  in  base alla disciplina normativa all’epoca vigente, un obbligo giuridico di attivarsi affinché  i rifiuti fossero  posti e mantenuti nelle condizioni di massima sicurezza, in particolare sotto il profili dell’inquinamento da percolato, finchè   non  perdevano la loro capacità lesiva dell’ambiente.

 

  Secondo il  Tribunale invece un obbligo di bonifica, a carico di chi subentra nella detenzione di una discarica chiusa, sarebbe stato introdotto solo dalla legge Ronchi , mentre invero, a  parte la introduzione di un obbligo specifico di bonifica a carico di chi subentra nell’area in cui altri hanno abusivamente smaltito rifiuti,attuata dalla successiva normativa, già il DPR.915/82 e la citata Delibera Interministeriale del 27-7-1984 stabilivano un obbligo di vigilanza e mantenimento in sicurezza  della discarica ,obbligo che viene solo ribadito dall’art 28 D Lgs n 22/97 , che espressamente richiede che, l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento,  prescriva le modalità di messa in sicurezza , chiusura e ripristino degli impianti esauriti.

 

4)     La interpretazione della normativa statale alla luce della disciplina  comunitaria

 

La suddetta  interpretazione della normativa statale  risulta in linea con la disciplina comunitaria-  Infatti una disposizione base della normativa comunitaria in materia di rifiuti  l’art 4 della Direttiva 75/442/CE  stabilisce che  gli stati membri devono adottare tutte le misure necessarie  per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti che potrebbero  creare  rischi  per l’acqua ,l’aria ,il suolo ed in base a tale normativa  la Corte di giustizia ha ritenuto sussistere a carico del detentore di un’area utilizzata in passato come discarica abusiva , l’obbligo di adottare le misure necessarie per impedire la protrazione del degrado ambientale

 

6) La giurisprudenza di legittimità e merito successiva

Per tali motivi la sentenza della CC.SU. del  5-10-94  non può essere ritenuta soddisfacente ed in senso contrario si sono infatti  gia pronunciate altre sezioni della Corte - Sez III 11-4-1997 imputato Vasco- C.C.  Sez III 4-11- 1994 imputato  Zagni  -C .C 17-12- 1996 n 8468 – C.C Sez III 11-4-1997  - nonché giudici di merito .

 L’accertamento della responsabilità andrà quindi verificato in concreto attraverso l’accertamento della consapevolezza della esistenza della situazione antigiuridica ,della conoscenza del protrarsi nel tempo dell’offesa al bene giuridico protetto e della sua esposizione a pericolo di ulteriore degrado , nonché della volontarietà della persistente condotta del soggetto.

 

E nel caso di specie non può dubitarsi del fatto che   i dirigenti e gli amministratori,succedutesi dopo la cessazione dei conferimenti, pur sapendo che esistevano numerose discariche abusive di rifiuti tossici, ed avendo di conseguenza consapevolezza del rischio di contaminazione del suolo,sottosuolo  e delle falde idriche  e della laguna  non abbiano posto termine né limite alcuno alla situazione giuridica in corso ed ai suoi  effetti .

Le prove in atti relativamente alle predette circostanze sono numerose e sono state presentate al tribunale dall’Ispettore del corpo forestale Spoladori ,dal maresciallo della Guardia di Finanza  Porcu  e da altri testimoni, nonche dai consulenti tecnici dell’accusa  .

Significativa, anche se non come prova , della conoscenza da parte degli imputati del grave  degrado ambientale di Porto Marghera è anche  la intera vicenda  definita American Appraisal nell’ambito della quale è emerso che  tutti erano a conoscenza del grave degrado ambientale .

1) sulla utilizzazione  delle falde

Dopo avere ricordato quanto affermato dal Tribunale sul punto e cioè la inutilizzabilità delle acque di falda-attinte per moto verticale dal percolato di discarica -  per qualsiasi uso  alimentare o antropico ,osserva  la pubblica accusa come risulti invece provato da numerosi documenti- vedi  indagine idrogeologica del territorio provinciale  del 1998- che in tutta l’area lagunare esistono pozzi che attingono alle prime falde del sistema idrogeologico veneziano,  più profonde di 10 metri, per un utilizzo dell’acqua a diversi fini.

Ne consegue che pur considerando la modesta quota di risorse attribuibili ai pozzi superficiali, contrariamente  a quanto  affermato dal Tribunale,anche attualmente, il complesso delle falde minori, oltre i 10 metri di profondità , era utilizzato proprio per usi alimentari  e continua ad essere utilizzato per usi antropici.

2) circa il  trasferimento degli inquinanti e le  caratteristiche idrogeologiche del sottosuolo del petrolchimico

 Dopo avere ricordato che,secondo il Tribunale ,le acque di falda risulterebbero pressoché  stagnanti  e la permeabilità  complessiva del sottosuolo bassissima , dell’ordine di 10-4 cm/S ,fino ad una profondità variabile tra i 2 ed i 6 metri , per la presenza di materiale di riporto e di  rifiuti fangosi , ed  a causa  del banco di sabbia  prevalentemente fine  e limoso , tra gli 8 e i 15 metri , rileva il P .M come il tribunale abbia utilizzato un valore  errato perché ha confuso l’unità di misura , utilizzando l’unita cm/s anziché m  /s .

In ogni caso i valori di questo ordine di grandezza rientrano tra quelli di grado medio con drenaggio buono.

 

 Osserva ancora il P:M come da questa erronea valutazione del tribunale  ne conseguono altre  e come in ogni caso la complessità delle indagini,in relazione alla variabilità del terreno, renda comunque difficile un accertamento preciso dei valori di permeabilità .

 Le affermazioni del Tribunale comunque si pongono in contrasto con quanto dallo stesso successivamente ritenuto –vedi pagina 522 –525- laddove si da atto del fatto che la contaminazione riesce ad attingere le falde acquifere immediatamente sottostanti lo strato di caranto, sino a raggiungere il secondo acquifero  ad una profondità superiore ai 20 metri.

Contraddittoria è anche  la affermazione del Tribunale laddove, prima riconosce in astratto la idoneità delle acque di falda ad essere oggetto di tutela penale ai sensi degli art 439-440 c. p. in quanto la destinazione alla alimentazione non implica certo la potabilità delle acque di falda   e poi  lo esclude in concreto, affermando che la ragione della esclusione consiste nella circostanza che si tratta di acque di falda inutilizzate per il consumo umano  . Non è poi vero che la portata delle acque di falda sia insignificante in quanto se si parla dell’acquifero superficiale solo dal Petrolchimico escono 4 l/s (per quanto inquinati)che vuol dire  345600  litri / giorno  , e 126 milioni di litri/anno.

 E ci sono poi le centinaia di pozzi ,fino a 10 metri ,citati dalla provincia, certamente  di interesse pratico anche se modesto .

 Ed ancora male interpreta il Tribunale le conclusioni cui perviene il consulente tecnico  della difesa, relativamente alla bassa portata ed alla cattiva qualità originaria delle acque  ,che le renderebbe inutilizzabili a  prescindere dall’inquinamento, e cioè anche se l’inquinamento non sussistesse, in quanto estende la predetta valutazione del consulente Dal Prà, riferita solo  alla falda superficiale, al complesso di falda superficiale, prima falda e seconda falda .

  Ed infatti, a conferma dell’errore in cui è incorso il tribunale, si evidenzia  come  la salinità della seconda falda non risulta  sussistere .

 

In ogni caso  deve osservarsi come le acque salmastre possano essere utilizzate per uso agricolo sopportando alcune coltivazioni  elevate quantità di sali , per cui anche le acque salmastre –senza contare la dissalazione –costituiscono una risorsa per l’uomo a  meno che non siano inquinate  .

 Anche la affermazione ,secondo cui la portata massima estraibile è di un decimo di litro al secondo e quella secondo cui l’utilizzo delle acque sotterranee finirebbe per richiamare acque salate , si riferisce solo  alla prima falda ed  è informazione di carattere marginale , ristretta  all’area indagata, che difficilmente può essere estrapolata all’intero stabilimento  considerata la notevole complessità e diversità dei depositi presenti  -vedi  sul punto la relazione  Aquater-Basi-96 pagina 25 -

 Ed egualmente la affermazione, secondo cui l’utilizzo per i primi 30 metri delle falde, non sarebbe ipotizzabile, perché in tempi brevissimi si prosciugherebbero a causa del loro ridotto spessore , è affermazione apodittica e indimostrata.

Si deve quindi concludere che le dimensioni adottate dalla difesa per proporre i propri modelli sono minimali e  che il Collegio è stato indotto  in errore .

Erronea  e travisante è stata poi anche la valutazione del Collegio  circa l’andamento dei flussi sotterranei.

 

Il Tribunale ha infatti ritenuto che l’impatto degli inquinanti, veicolati dalle acque di falda  sottostanti le aree di discarica interna , sulle acque e sui sedimenti dei canali finitimi all’area di insediamento del plesso industriale ,secondo un processo di trasferimento orizzontale , avrebbe un andamento degradante verso sud est, salvo il rilievo che le acque di impregnazione , e cioè la  falda superficiale , potrebbe degradare  anche verso Nord.

 Ed invece risulta incontestato, dalla ricerca Aquater Basi 96 e 2000, che le falde hanno un andamento centrifugo, in particolare nella zona di ponente dell’area di insediamento del Petrolchimico,corrispondente   alle aree in cui si trovano le discariche isola 31 e 32 .

  Anche la affermazione secondo cui, il flusso del primo acquifero verso la laguna è insignificante   perché nella peggiore delle ipotesi si tratta di 4 L/S lungo tutto il perimetro dell’area di insediamento del plesso industriale ,non è condivisibile  in quanto in ogni caso 4l/s fanno 120.000 metri cubi /anno.

 

E comunque la ridotta mobilità delle acque al contatto  tra falde e acqua di mare, che è del tutto ovvia per ragioni fisiche ed idrodinamiche , specie con i gradienti in gioco, è comunque dell’ordine  di qualche metro / kilometro.

Il trasferimento orizzontale seppure lento comunque avviene e come dimostrato dai flussi registrati da Aquater Base 96 e 2000.

Occorre poi ribadire  che i 4 L/S non escono dalla prima falda ma da quella superficiale  e che i anche in questo caso il Tribunale è incorso in equivoci ,utilizzando spesso il termine generico di falda del Petrolchimico e non è comprensibile  la ragione per cui il Tribunale abbia considerato ancora più basso il flusso delle acque sotterranee  ed affermato che le stime degli esperti indicano un valore approssimativo della portata della prima falda , lungo tutta l’area del Petrolchimico dell’ordine di 4/litri  al secondo .

 

 I dati elaborati dalla struttura pubblica ,sulla base di elementi conosciuti in letteratura e contenuti nel Piano direttore 2000 , avrebbero comunque dovuto essere confrontati e verificati con i dati strumentalmente attestati dai puntuali rilievi Aquater Basi che sono certamente più completi e aggiornati .

 Deve comunque essere ribadito secondo l’accusa  che i 4l/s non escono dalla  prima falda  bensì  da quella  superficiale  e che il consulente della accusa Nosengo ha utilizzato gli stessi dati  del consulente  Francani  ,giudicandoli come valori minimi  di un range in realtà più ampio .

 Indimostrata è infine la affermazione secondo cui , oltre alla bassa permeabilità del sottosuolo,alla stagnazione delle falde sottostanti  le discariche interne, alla portata insignificante della falda stessa  concorrerebbe ad escludere l‘apporto inquinante della acque di falda (per quanto riguarda sedimenti e acque dei canali lagunari a tale  area finitimi)  la  enorme diluizione   che comunque le stesse subiscono ad opera di altri apporti  .

 

 La affermazione relativa alla diluizione si basa sua un errata interpretazione  del lavoro del prof Perin che indica un valore di apporto  dalla gronda lagunare di 600 m c/s come corrispondente all’apporto massimo ,mentre nella relazione Francani cui si riferisce il Tribunale questo valore viene considerato un valore medio, con la conseguenza che il ragionamento relativo alla enorme diluizione risulta errato.

Il Tribunale ha infine omesso di considerare che in ogni caso la pretesa -ma inesistente diluizione-  potrebbe riguardare solo le acque superficiali  e non certo quelle della falda piu profonda .

 

Conclusivamente risulta accertato che le falde hanno capacità di movimento ;

che la falda superficiale raggiunge i canali perimetrali con la velocità almeno di 4l/s e  che dove manca il caranto  inquina ,con trasferimento verticale , la prima ed in misura piu ridotta anche la seconda falda ;

che  la prima falda a sua volta  , dotata  di gradiente generato dagli afflussi provenienti dalla sue zone di alimentazione  poste a monte, si muove dove può e cioè verso i canali perimetrali  abbastanza profondi  da raggiungerla  e, se vi sono ostacoli  e permane un gradiente in direzione diversa da quella generale NW-SE ,la prima falda si muove in  altra direzione( la citata direzione Nord )  secondo il ben noto, in idraulica, fenomeno del rigurgito , che è il moto retrogrado di un flusso  ostacolato.

 

La sentenza conterrebbe dunque errori e contraddizioni e trascurerebbe le valutazioni di  American Appraisal , dei  dati Aquater base 95-96-2000 ,né tiene in alcun conto le valutazioni e note critiche del prof  Nosengo, che ha  ritenuto le indagini svolte insufficienti a valutare correttamente sia la permeabilità  del terreno come la validità dei modelli di simulazione.

 

3.9.1 Trasferimento orizzontale di inquinamento verso la laguna e contaminazione della falda  sottostante il Petrolchimico e dei suoli.

 Osserva il P.M come, secondo il Tribunale, risulti incontroverso che da tutta l’area del Petrolchimico derivi un apporto per moto di trasferimento orizzontale dalla prima falda verso i canali della zona industriale  di quattro litri al secondo .

 Quantitativo solo apparentemente piccolo perché corrisponde  a 345600 litri al giorno  ed in termini di apporto annuale a 126 milioni di litri  all’anno .

 

Le misure di concentrazione delle diossine nelle acque sottostanti il petrolchimico , effettuate a cura dell’Enichem in  relazione al disposto del DM 471/99 sulle bonifiche.

 

Le analisi sulle acque sottostanti il Petrolchimico sono state fatte   solo per 6 campioni  anche sulle diossine e ,su 3 campioni, sono state rilevate concentrazioni superiori  ai limiti di cui alla tabella  del DM 471/99, di cui per un campione in modo molto elevato .

 In un campione è stata rilevata anche la presenza della diossina 2,3,7,8 –TCDD ad elevato livello.

 E se da un controllo su solo 6 campioni è risultato un superamento elevato in due casi, non può considerarsi che il superamento sia un fatto solo sporadico e raro,secondo calcoli statistici il superamento dei livelli potrebbe essersi verificato in un percentuale compresa tra il 20% e  l’80 % e quella del livelli piu elevati potrebbe essere stimata come compresa tra circa il 9 %e il 67 %.

 L’intervallo dei valori misurati è tra 2.31 p g /L(I-TE) e 634 p g/L(I-TE) e la media è circa 112 p g/ L(I-TE) ( anche non considerando il dato piu elevato la media risulta di circa 8 PG/I (I/TE) con un valore sempre molto elevato.

  L’appello contiene quindi una descrizione per ciascun campione di acqua dei singoli valori  delle diossine misurate .

 

L’impatto del trasporto verso la laguna di 4 litri al secondo delle acque sottostanti il petrolchimico

Anche il valore minimo misurato nelle acque di falda pari a 2,31 p g (I-TE/litro)è superiore  al valore limite  proposto dalla Commissione  consultiva tossicologica  nazionale  (CCTN) per gli scarichi di PCCD e PDDF nei corpi idrici pari a 0,5 p g(I-TE/litro).

Con riferimento alla contaminazione media dell’acqua di falda ,di circa 112 p g/I (I-TE) ed un rilascio di 4 litri /secondo verso i canali ovvero 126 milioni di litri/anno, il quantitativo di diossine trasportato verso i canali risulterebbe dell’ordine di circa 14 miliardi di p g (I-TE/anno) pari  a circa 14 mg I-TE /anno).

 Questo apporto inquinante diventa significativo con riferimento alla gia esistente contaminazione dei sedimenti della laguna di Venezia.

 

Anche un solo milligrammo ( corrispondente a un miliardo di picogrammi) può contaminare ogni anno, ad un livello pari a10 volte quello di fondo, un quantitativo di sedimenti pari a100 tonnellate .

Ed un milligrammo rappresenta un valore che è 14 volte  inferiore a quello che sarebbe immesso in laguna nell’arco di un anno con il trasporto di 4 litri / secondo di acque contaminate al valore medio misurato a cura dell’ENICHEM .

 A pagina 526 delle sentenza si dice che le falde di cui si discute non possono fornire portate compatibili con qualsiasi l’uso e ciò è certamente vero,soprattutto per l’inquinamento delle acque inaccettabile secondo il DM 471/99.

 La portata è invece un fattore molto  meno rilevante in quanto possono esistere usi che richiedono un quantitativo limitato   di acqua al giorno.

 

La contaminazione dei suoli del petrolchimico

Premesso che i dati di contaminazione del suolo da diossine sono presentati in termini di ITE, senza differenziare i vari congeneri ,risulta che i livelli di diossine e composti simili  rilevati sui diversi strati di suolo nell’indagine promossa  da Enichem, in relazione a quanto previsto dal DM 471/99 su un totale di 30 siti campionati superino in otto siti il livelli previsti dal D. M. citato  (limite per le aree industriali pari a 100 n g I-TE/kg) ;

 che in 6 campioni la contaminazione  supera 1000 n g I-TE/kg con valori massimi di circa 3300,3748 e 3507 n g I-TE/kg ,piu di 30 volte superiori  ai limiti .

Trattasi di percentuali di superamento dei limiti non irrilevanti che dimostrano come  esistano strati non superficiali dell’area del Petrolchimico contaminati a livello superiore della cosiddetta Zona B di Seveso .

 

Trattasi di valori di inquinamento del suolo che trovano corrispondenza in quelli dell’acqua, in quanto, tenuto conto della scarsa idrosolubilità delle diossine e della loro elevata affinità con il carbonio organico contenuto nel suolo , i  livelli nell’acqua  risultano inferiori piu di 10.000 volte rispetto a quelli del suolo .

Ed i livelli accertati nell’ acqua e nel suolo sono coerenti con questa ipotesi.

 Segue nell’appello l’elenco degli 8 campioni in cui sono stati rilevati i valori superiori ai limiti di cui al D. M 471/99.

In conclusione : per quanto riguarda le acque sottostanti il Petrolchimico i dati indicano per i 6 campioni livelli da 2.31 p g I- TE litro a 634 p .g I- TE litro  con un  valore medio di circa 112 p g I-TE /litro  , 3 campioni su 6 superano  il limite del DM 471 /99 e tutti i campioni hanno concentrazioni non compatibili  con il criterio proposto dalla  Commissione Consultiva Tossicologica nazionale per gli scarichi idrici .

Calcoli elementari indicano che 4 litri al secondo corrispondono  a 345.600 litri al giorno e circa 126 milioni di litri /anno.

Un tale trasferimento d’acqua inquinata comporta la contaminazione di 100 tonnellate di sedimento ad un livello pari a10 volte quello di  fondo.

 

 Le concentrazioni rilevate nelle acque sono quelle che erano prevedibili in base al rapporto con il grado di contaminazione del  suolo e sottosuolo.

I suoli inquinati rilasciano inquinanti nelle acque ed anche se il rilascio d’acqua è quantitativamente limitato risulta  di notevole impatto ambientale in relazione alla tossicità delle sostanze in esame.

La affermazione del tribunale sul punto non può di conseguenza essere condivisa, perché se è vero che il  flusso è limitato  è anche vero che il carico inquinante è rilevante e che comunque il flusso d’acqua in un anno è considerevole..

 

II parte -sentenza

Capitolo quarto                                      

La compromissione del sedimento dei canali dell’area industriale ( rilevante in termini di disastro colposo e come antecedente dell’avvelenamento del biota su di esso  vivente

4.1 Premesse

Secondo il P.M l’evento disastro  consisterebbe nella alterazione   dell’ecosistema dell’area  industriale e nella contaminazione dei comparti ambientali che lo costituiscono attinti dal catabolismo del Petrolchimico

Secondo l’ipotesi accusatoria il sedimento dei canali dell’area industriale  sarebbe stato attinto dal catabolismo del Petrolchimico-  con effetti rilevanti in termini di disastro colposo - e dal sedimento la contaminazione si sarebbe estesa  al biota ( su di esso vivente) con effetti rilevanti in termini di avvelenamento

 L’inquinamento sarebbe causato da microcontaminanti – organici ed inorganici- in particolare diossine che , per  la costante presenza di “octaclorodibenzofurani,”troverebbero la loro matrice nelle filiera del cloro ed i conseguenza nella produzione del Petrolchimico

 La cosiddetta impronta delle diossine denota la matrice della contaminazione,  ed è improbabile che la matrice possa essere individuata in altro tipo di produzione, in quanto le diossine derivanti da altri processi   produttivi, diversi dal Petrolchimico, sarebbero diversamente connotate.

 La circostanza è confermata dalla corrispondenza delle impronte caratteristiche del sedimento dei canali inquinati con quelle dei pozzetti interni al plesso Petrolchimico .

 

 L’accertamento avente per oggetto la presenza nel sedimento dei canali delle diossine , dei policlorobifenili ( PCB), degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) degli idrocarburi clorurati,ammine aromatiche, nitrofenoli e metalli pesanti,dimostrerebbe la sussistenza dell’evento di danno ambientale disastroso

Per dimostrare il grado “disastroso” dell’inquinamento vengono fatti confronti tra il sedimento  dei canali dell’area industriale ed il sedimento dei canali dell’isola di S.Erasmo

Per molti campioni risultano superati, ora per un parametro ora per più parametri , i limiti della classe B) e talvolta quelli della classe C) del Protocollo d’Intesa 1993 del Ministero  dell’Ambiente

In particolare risulterebbero molto inquinati i sedimenti del canale Lusore Brentelle- antico corpo ricettore degli scarichi di provenienza del Petrolchimico- il bacino di evoluzione del Canale Industriale  Sud  , per la concentrazione di IPA, la darsena della Rana per la concentrazione di IPA di esaclorobenzene e  di PCB.

 

Cause di contaminazione del sedimento sarebbero in sintesi :

1) gli scarichi  incontrollati nel canale Lusore Brentelle , antico corpo ricettore di quelli attivi fino alla metà degli anni settanta., salvo per quel che riguarda  taluni scarichi superstiti;

2) lo smaltimento delle peci clorurate  trasportate con autobotti e bettoline  in  tutte le acque dei canali industriali della prima  e della seconda zona industriale;

3) gli apporti inquinanti recati fino all’attualità dall”SM15 ( scarico principale  di provenienza del Petrolchimico) ritenuto responsabile della contaminazione dei cd “Bassi Fondali” antistanti l’area di insediamento del plesso industriale  -dove  comunque anche secondo l’ accusa i valori di PCDD/F si riducono di tre ordini di grandezza rispetto  a quelli della prima zona industriale.

 

Le prime due cause sarebbero pertinenti a fatti meno recenti, la terza a fatti più recenti anzi al presente  , in particolare l’accusa osserva come nelle acque in uscita dallo scarico SM15 si rinvengano quelle sostanze che ,in concentrazioni significative, si trovano nei sedimenti ,all’esterno del Petrolchimico , in primo luogo  le diossine.

In tesi di accusa sarebbero attuali apporti rilevanti di inquinanti

 In particolare la immissione di diossine  nelle acque dei canali finitimi al plesso industriale  si sarebbe protratta  almeno fino al1998.

 

Lo proverebbe il fatto che un campione prelevato dal Magistrato delle acque nel 1998 avrebbe rilevato un valore di concentrazione – 150 picogrammi /litro- 300 volte superiore al valore limite per gli scarichi industriali, proposto dalla Commissione consultiva tossicologica nazionale (per diossine e furani) pari a 0,5 picogrammi /litro.

Gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del  noto divieto di diluizione  - art 9 quarto e settimo comma L n.319/76, come modificato dalla L n .650/79- stante la confluenza di acque di processo  e di altre correnti nel principale scarico   del plesso industriale  prima  del recapito nel corpo ricettore.

 

Osserva ancora  l’accusa  come decine di migliaia di bollettini di analisi interne – dimostrerebbero il superamento dei limiti di legge  anche in epoca recente .

L’imputazione  addebita agli imputati lo scarico di fanghi, di catalizzatori esausti e di altri sottoprodotti di risulta attraverso gli scarichi SM2e SM15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai limiti di accettabilità previsti dal D.P.R n. 962/1973, normativa speciale per la con terminazione lagunare  e tale condotta si porrebbe così in nesso causale con il disastro  e l’avvelenamento del biota

Un ulteriore addebito di colpa , pertinente la disciplina dei rifiuti ma rilevante anche  per quanto riguarda la gestione degli scarichi nelle acque , è  quello  conseguente alla presenza di C .V. M nelle acque di processo e nei reflui  di provenienza dal Petrolchimico ,che . comporta la qualifica di tutti i rifiuti recapitati nel corpo ricettore  nel corso del tempo, anche quelli convogliati  attraverso gli scarichi SM15 e SM2, come rifiuti tossico nocivi

Tanto consegue al fatto che gli imputati non avrebbero dimostrato che ,nelle acque di processo provenienti dagli impianti CV22/23 e CV 23/24 le concentrazione del CVM fosse compatibile con le concentrazioni limite relative alla diossina sostanza nominate nella tabella 1.1 allegata alla delibera del Comitato Interministeriale  27-7-1984.

 

Tutti i reflui avrebbero dovuto essere smaltiti come rifiuti tossico nocivi ,in forme adeguate a quelle   indicate dal d.p.r 915/1982( termodistruzione) e non nelle forme adeguate alla disciplina relativa agli scarichi nelle acque

Le condotte sopradette integrerebbero i reati di disastro innominato per i danni interessanti l’ecosistema nel suo complesso,nonché  quelli di adulterazione e avvelenamento, estendendosi la contaminazione attraverso l’inquinamento del biota alle risorse alimentari costituite da pesci  e molluschi, suscettibili di essere immessi nel mercato attraverso la pesca abusiva praticata  nei luoghi . Il pericolo  per l’incolumità pubblica  sarebbe attuale e il reato di disastro innominato sarebbe  permanente in atto

 

4.2 Illustrazione delle tesi di accusa  sulla compromissione del sedimento dei canali dell’area industriale  veneziana a causa dei microcontaminanti  inorganici ed organici rilevante in termini di disastro  innominato colposo

Illustrazione delle tesi di accusa attinenti alla sussistenza   di una relazione tra tale evento di danno e gestione del catabolismo nelle acque del <petrolchimico (riferibili agli imputati)

 Sinossi:

a) i dati della  contaminazione

b) profilo storico  degli scarichi attraverso il riferimento  alla autorizzazioni rese dal magistrato  alle acque

c) dell’attuale rilevanza dell’apporto costituito  dal flusso dell’SM 15” principale scarico di provenienza del petrolchimico intermini di contaminazione da diossine 

d) tipicità dell’impronta delle diossine di risulta dalla produzione del cloro

e) studio dei profili di congenere  delle diossine presenti  nei campioni di sedimento prelevati dai canali dell’area industriale 

f) confronto tra tali impronte e quelle relative all’esito di analisi di campioni di fanghi prelevati da pozzetti del sistema fognario del Petrolchimico

 

Alcuni dati sono incontroversi

La contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale esiste ed  è quella descritta nel “Piano Direttore  1989 della Regione Veneto” che descrive la situazione qual’era negli  anni della transizione  del petrolchimico da Montedison a Enichem  evidenziando anche che la grave situazione che aveva portato  l’ecosistema lagunare vicino al collasso  agli inizi degli anni 70,appariva in miglioramento  ,grazie agli interventi di depurazione   già avviati  e al miglioramento e riconversione delle tecnologie industriali  , ma non facilmente superabile per quanto riguardava  la componente inglobata nei sedimenti.

Lo stato di compromissione del sedimento dei canali dell ’area industriale è attribuibile al catabolismo industriale risalente nel tempo ( vedi consulenti tecnici della  accusa  Bonamin e Rabitti e deposizione teste Pavanato e Ferrari ) tutte convergenti nel riconoscere che la maggior parte delle sostanze inquinanti  è stata immessa in laguna  nel ventennio 50-70

 

Gli esperti dell’accusa – Baldassari - Bonamin e Fanelli hanno accertato la presenza degli inquinanti di derivazione da processi di lavorazione industriale oggetto di interesse processuale ( PCDD, PCDF, IPA, esclorobenzene , metalli pesanti) e hanno individuato, nel contesto dell’intera conterminazione  lagunare,  sei distinte aree di rischio , seguendo l’andamento della concentrazione degli inquinanti e rilevando ,come da tutti atteso ,per tutti gli inquinanti concentrazioni più elevate nella zona industriale.

Nel canale Lusore Brentelle  hanno rilevato alte concentrazioni di mercurio ed  hanno altresì rilevato, nei campioni di sedimento dei canali dell’area industriale, diossine che recano l’impronta del cloro

 

Tanto premesso – trattasi di circostanze sostanzialmente incontestate - osserva  il Tribunale  come sia essenziale nel processo accertare se tale situazione sia riferibile a fatto degli imputati-se non altro in termini di aggravamento della contaminazione preesistente , e come  altrettanto essenziale nel processo sia il verificare se tale situazione possa dirsi obiettivamente riferibile al Petrolchimico degli anni interessanti l’imputazione .

 

Procede quindi il tribunale  alla analisi del consulente dell’accusa Racanelli

Premesso che l’analisi è stata orientata  su policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani PCDD/PCDF, policlorobifenili, PCB, idrocarburi policiclici aromatici IPA, idrocarburi clorurati, ammine aromatiche nitrofenoli  pesanti  e metalli pesanti; che degli esiti è stata fatta una valutazione secondo  i parametri del Protocollo d’Intesa del  1993; che nessuna distinzione è stata fatta tra la Prima e la Seconda Zona industriale ; che  sono stati assunti i dati di sedimenti superficiali campionati dal 1992 a tutto il 1999  con  conseguenti differenze  influenzate dalle variabili spaziali , temporali , analitiche – dipendenti queste ultime dai risultati ottenuti da diversi   laboratori , per cui sono state considerate significative solo le differenze  tra dati che variano per più di un ordine di grandezza; che quale parametro di confronto sono stati presi i campioni prelevati in prossimità dell’isola di S. Erasmo; che nella zona industriale sono stati fatti campionamenti in sette punti denominati rispettivamente da S1, a S 7 e tutti  raffrontati ai parametri  di cui alla colonna A),B)e C) del Protocollo d’Intesa  1993 del Mistero dell’Ambiente; sulla base delle indagini tecniche eseguite  seguendo i criteri  sopraindicati  si sono avuti i seguenti risultati: la presenza di Mercurio in misura superiore ai parametri sopraindicati nel punto S 7- sedimento del Canale Lusore – Bretelle- antico corpo recettore degli scarichi di provenienza del vecchio petrolchimico- la presenza di esaclorobenzene HCB – sotto prodotto delle produzioni di interesse processuale , composti clorurati – e presente in dosi massicce  nelle peci clorurate.

 

In base a tali dati ritiene l’accusa che la contaminazione del sedimento dei canali della zona industriale  sia causato da pratiche di smaltimento dei rifiuti mediante getto diretto nei canali  mezzo di autobotti e bettoline  di provenienza del Petrolchimico

 Quanto   sostenuto dall’accusa non risulta in alcun modo provato per quanto riguarda il periodo di gestione del Petrolchimico da parte degli imputati:  –1970 –2000.

Consta  l’esatto contrario

 

Le analisi evidenziano poi  in particolare  percentuali  che superano le soglie del citato protocollo  d’intesa nei policlorobifenili –P C B- , nei Policlorodibenzodiossine  policlorodibenzofurani  PCDD/PCDF, negli Idrocarburi policiclici aromatici tossici  IPA , negli IPA tossici  nel piombo, nel rame , nell’arsenico - l’arsenico supera in quattro punti il livello dei protocollo – ed  il  c .t  evidenzia che l’arsenico è contenuto nelle ceneri di pirite- fanghi rossi- usati in antica data per l’imbonimento dell’area di sedime della zona industriale.

Conclusivamente ora per un parametro ore per l’ altro ,talvolta per più parametri i  campioni di sedimento , prelevati dai canali della zona industriale , superano i limiti di cui alla classe B del Protocollo d’intesa.

Per i campioni di sedimento superficiale prelevati dai punti sotto indicati risultano superati i limiti di cui alla classe C dello stesso protocollo

 

Il sedimento del canale Lusore  Brentelle presenta un grado di inquinamento più elevato che non è classificabile in base al protocollo e dovrebbe essere gestito come “rifiuto  tossico nocivo “

Segue quindi l’esame della analisi  del consulente dell’accusa  Ferrari

Il c t. accerta  innanzitutto  che gli scarichi erano autorizzati dal Magistrato alle Acque ;

che  la produzione dei clorurati avviene nel vecchio Petrolchimico .e che gli scarichi versavano direttamente nel canale Lusore Brentelle  senza alcun tipo di trattamento;

che verso la metà degli  anni 70 la produzione dei clorurati si spostava nell’area del nuovo Petrolchimico e  che a questa stessa epoca risalgono  i primi impianti di trattamento e termocombustione dei reflui clorurati  denominati CS30 e CS28.

 Il consulente ha poi indicato, elencandoli, gli impianti che  scaricavano direttamente  nel canale Lusore –Bretelle :

A impianto cloro- soda avviato nel 1951 e chiuso nel 1972

B impianto di produzione del CVM e cioè il CV1- chiuso intorno al 1970-  il CV10 chiuso   nell’81

C altri impianti, fino alla realizzazione dell’impianto chimico fisico biologico SG31 avvenuta nel 1978;

D  le produzioni di tetracloroetano e trielina ,cloruro di benzile  e benzale scaricavano  le acque reflue con recapito nel canale Lusore B fino all’avvio dell’impianto di strippaggio dei clorurati CS30

 

E in realtà incontroverso che il canale Lusore Brentelle  sia stato gravemente compromesso dal catabolismo del Petrolchimico  e ciò nel tempo, per cui si sarebbe dovuto verificare se si trattava   di tempi storici che trascendevano o meno l’imputazione

L’accusa non si è invece  posto il problema di accertare  se si tratta di tempi storici che superino quelli dell’imputazione ,né di verificare , se vi sia una relazione tra la condotte degli imputati ed  una qualche forma di aggravamento della contaminazione preesistente.

 

 Sul piano normativo  viene evidenziato che la legislazione speciale per la salvaguardia di Venezia – l.366/73  l .171/1973  DPR 962/73 – entra in vigore tardivamente  essendo stati i termini per la installazione di impianti di depurazione dei reflui in laguna prorogati  fino a tutto l’1-3-1980 e  che prima di questa data non possono considerarsi operativi i parametri di  accettabilità degli scarichi di cui alle tabelle  allegate al D. P R. 962 /73  e che  neppure  altrove opera la legge Merli

 Consta che al 1-3-1980 gli scarichi di provenienza del Petrolchimico . erano muniti di impianti di trattamento delle acque di scarico

 

 Secondo l’ipotesi accusatoria .l’inquinamento dei canali e della laguna nella parte antistante la zona industriale – causato dalla presenza  di diossine e idrocarburi clorurati di risulta della produzioni del P. sarebbero stati causati per il passato da:

a ) scarichi      nelle acque di reflui senza trattamento

b) evacuazione diretta in laguna di rifiuti clorurati a mezzo di bettoline e autobotti

Per l’epoca più recente invece dallo scarico S.M.15

 

Con riferimento a tale scarico  e premesso che i sistemi di trattamento sono rimasti sostanzialmente gli stessi ,salvo alcune migliorie nel 1995/ 98 a seguito di interventi della magistratura , viene evidenziato che  nello scarico S12 che poi confluisce in quello predetta erano stati fatti dei campionamenti ed era stato trovato un valore di concentrazione  pari a 150 picogrammi litro superiore  di 300 volta al limite degli scarichi industriali  proposto dalla Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale per diossine e furani che lo pone eguale a 05 picogrammi per litro che la diossina, rinvenuta nei bassi fondali, ha la stessa impronta di quella dei reflui di produzione dei DCE e CVM e degli altri idrocarburi clorurati provenienti dallo scarico SM15

 Gli esperti dell’accusa pervengono a ritenere che la fonte di contaminazione dei canali dell’area industriale debba essere individuata nella produzione del Petrolchimico e nei relativi scarichi perché le diossine  rinvenute nei sedimenti dei canali avrebbero la stessa impronta di quelle presenti nei reflui di derivazione  delle produzioni di DCE e PVC .

 

Viene quindi spiegato il procedimento attraverso il quale diventa possibile individuare la cosiddetta impronta delle diossine collegarle ad un determinato processo chimico.

Sinteticamente viene spiegato come la famiglia delle  diossine e dei furani è composta da 210 congeneri  e che usualmente vengono esaminati solo 17 congeneri , quelli  con tossicità più elevata  che viene correlata   mediante il fattore di conversione (TEQ tossicità equivalente )   a quella più pericolosa  2,3,7,8-TCDD /tetraclorodibenzodiosssina- classificata come cancerogena .

 I 17 congeneri vengono poi ridotti a 10 omologhi  attraverso il grado di clorurazione    tetra –penta esa  epta e octa diossine  e furani ed in relazione al diverso processo produttivo che genera le PCDD/F varia anche la proporzione tra i predetti gruppi  di congeneri ,ciò che consente di identificare u profilo o impronta del PCDD/F ed associarlo da un determinato  processo chimico

Il collegamento e l’impronta avvertono  però i periti non è comunque paragonabile alla impronta digitale essendo certo meno precisa, peraltro le variazioni che caratterizzano i processi produttivi dello stesso tipo di quello considerato  inducono importanti variazioni  nel disegno di congenere e portano alla configurazione di profili relativamente diversi, che comunque mantengono la loro peculiarità o tratto caratteristico.

 

Sinteticamente i confronti effettuati dagli esperti consentono di accertare   che nella impronta  dei fanghi  prelevati  nei pozzetti interni del Petrolchimico vi è prevalenza di OCDF- octaclorofurano e la stessa prevalenza viene notata  nei sedimenti superficiali di tutta la  zona industriale

 Questo , unitamente  ai dati di letteratura  in materia di prevalenza di OCDF nei reflui di provenienza dalla filiera del cloro ,consente  all’accusa di ritenere che il Petrolchimico  sia la causa dell’inquinamento  di tutta l’area industriale , non essendo peraltro possibile individuare  nell’area interessata altri processi produttivi,responsabili della presenza del tipo di diossine PCDD/F rinvenute nei sedimenti dei canali  ,atteso che le diossine di risulta degli altri processi produttivi non sono in nessun modo connotate dalla presenza del  OCDF .

 

Ricorda a questo punto il Tribunale come uno studio del C .N. R perviene  a diverse conclusioni, escludendo  che le impronte dei sedimenti prelevati nei punti di campionamento siano sovrapponibili a quelle tipiche della produzione del CVM.

 Ritiene comunque l’accusa che i  profili e le impronte delle diossine di risulta delle lavorazioni del Petrolchimico  possono essere associate ad una impronta media  comunque peculiare , che  esclude la possibilità di individuare un’altra matrice della contaminazione ,caratterizzata dalla prevalenza di octoclorofurano  seguito da eptaclorofurano o  anche da octaclorodiossina

I  profili  e le impronte delle diossine di risulta delle lavorazioni del Petrolchimico non possono essere associate ad una impronta tipica però possono essere associate ad una impronta media  comunque caratteristica peculiare  ,tutti i sedimenti dei canali industriali  denunciano la stessa matrice della contaminazione  in quanto tutti i campioni dei sedimenti sono riferibile allo stesso insieme.

 

 Non si fa carico invece  l’accusa di datare  l’epoca della contaminazione  pur essendo tecnicamente possibile

  Osserva a questo punto il tribunale come  l’accusa trascuri due importanti evidenze che provengono dalla stessa analisi dei suoi consulenti :

 1)l’andamento delle concentrazioni delle sostanze  inquinanti  evidenzia una forte diminuzione procedendo da nord  verso sud , man mano che ci si allontana dalla prima  zona per avvicinarsi alla seconda zona industriale;

2) nello spazio antistante lo scarico SM15 –lo scarico principale di provenienza del plesso industriale ,dalla meta degli anni 70 ad oggi- i valori di concentrazione degli inquinanti risultano più bassi   di quelli rilevati nel sedimento di altri canali industriali .

Prima di  affrontare problematiche più complesse il Tribunale  ritiene di esaminare quella secondo cui la contaminazione è proseguita almeno  fino al 1998, con l’immissione di diossine attraverso lo scarico SM15 del Petrolchimico, ipotesi che ritiene non plausibile.

 

4.3  Definitiva  confutazione della tesi di accusa sulla rilevanza attuale dell’apporto costituito dal flusso del SM15 (scarico nelle acque di provenienza dal Petrolchimico dell’oggi)

Alla base dell’ipotesi accusatoria  sopra esposta ci sarebbero i risultati di un analisi di un prelievo fatto allo scarico S12- affluente nello scarico SM15-  in cui è stato rilevato un valore di concentrazione  pari a150 picogrammi /l, risultato 300 volte superiore al limite proposto  per gli scarichi industriali dalla CCTN( Commissione consultiva Tossicologica Nazionale per le diossine e furani  eguale a 0,5 picogrammi /l)

  Tali esiti  non sarebbero rilevanti secondo le condivisibili critiche del c. t della difesa Foraboschi che ha evidenziato: gli errori delle valutazioni fatte dalla accusa .

 

Innanzitutto si evidenzia che si tratta di un unico prelievo e non di campionamenti, fatto in un momento in cui la corrente andava alimentando l’impianto biologico e non all’atto di essere scaricata direttamente nel corpo idrico ricettore ; che il valore indicato è erroneo perché quando venne indicato il predetto valore limite 0,5 picogrammi/ litro nell’87, la misura di tossicità equivalente (TEQ) era calcolata  secondo i criteri EPA /87, adottando i quali la concentrazione dello scarico S12 risulta di 14 p picogrammi /l, e non di 151  p. g /l come  indicato dalla accusa adottando i criteri successivi EPA/89; che mancano altri rilevamenti tali da rendere il dato significativo,  mentre la stessa Commissione ritiene necessario disporre di un numero di rilevamenti statisticamente significativo;che non esistevano all’epoca, secondo la normativa italiana  limiti per le concentrazioni di PCDD/F nelle acque di scarico e  tanto meno nelle correnti interne inviate a trattamento cosi come lo era la corrente S12 al momento del campionamento; che il limite di cui sopra era stato indicato dalla Commissione , con riferimento ad un caso particolare molto diverso: ricaduta di polveri  esistenti nei prodotti di combustione derivanti  da un  impianto dall’ inceneritore della città di Firenze  ( per cui la situazione esaminata dalla commissione non era confrontabile con quella in esame; che comunque l’apporto inquinante era limitato –l’ accusa non si era fatta carico di indicare le conseguenza derivanti dalla  immissione delle diossine nella misura rilevata   attraverso lo scarico Sm15 – il consulente della difesa aveva invece dimostrato che il flusso di massa dello scarico S12 dati per buoni i risultati delle analisi risultava pari  a 6 microgrammi  all’ora  espressi in TEQ  1987.

 

In via esemplificativa venivano riportati alcuni esempi per dimostrare che l’apporto dello scarico SM15 non aveva  potuto essere  rilevante in termini di disastro

 Rilevava ancora  il Tribunale che   la portata delle acque , proveniente dagli impianti di produzione del Petrolchimico, trattate  dai suoi sistemi di depurazione e confluenti nello scarico finale SM15 è pari a circa 0,3 metri cubi /s e che non è fondata la affermazione  del c t. Ferrari secondo cui invece lo scarico SM15  sversa circa 12 metri cubi  al secondo di acque  

Risulta invero anche  dalla relazione del Magistrato alle acque che il flusso dello scarico SM15  era di 11 milioni di metri cubi ogni anno  volume che corrisponde ad una portata media di 0,3 metri cubi /s.

 Risulta ancora che lo scarico era stato regolarmente autorizzato e che erano stati imposti con le prescrizioni accessorie  controlli analitici e che  quello evidenziato risulta essere l’unico controllo positivo noto in materia di formazione di diossine.

 

 Ad integrare  la infondatezza dell’accusa sul punto vengono richiamate considerazioni che saranno  sviluppate poi  e che riguardano  la tesi dell’accusa- ritenute tutte infondate-  secondo cui gli scarichi erano stati effettuati in violazione del divieto di diluizione ;

il superamento dei parametri di accettabilità di cui al DPR n.962/1973 aveva determinato condizioni peggiorative dello scarico delle acque ;

la presenza di CVM nella acque di processo dei reparti CV22/23 e CV24/25 conferiva all’intero flusso in uscita dagli scarichi SM2 e SM15 il carattere di rifiuti tossico nocivi  con la conseguenza che  tutti i reflui di provenienza del Petrolchimico  dovevano essere gestiti  come rifiuti tossico nocivi e  non alla stregua delle valutazioni tecniche e di disciplina pertinenti agli scarichi nelle acque.

 

Nessun addebito può essere  fatto con riferimento ad epoca più recente- dal 1990 al 2000- risultando provato che  lo scarico inquinante del Petrolchimico  risulta attestato su valori medi inferiori al carico ammesso dai parametri tabellari  di riferimento

 Viene quindi ribadito prima di procedere analiticamente alla valutazione di tutti i passaggi che  secondo l’ipotesi accusatoria  i sedimenti  dei canali di tutta l’area industriale sono contaminati da microinquinanti inorganici ed organici,in particolare da diossine,che per la costante presenza della specie di octaclorobenzofurani  denunciano la loro provenienza dalla filiera del cloro e perciò del Petrolchimico :  e che quindi nella tesi accusatoria assume rilevanza centrale  il tema relativo alla impronta delle diossine .

 

4.4 Primi elementi di confutazione delle tesi di accusa sul tema della caratterizzazione delle impronte delle diossine

Innanzitutto rileva la difesa come i prelievi di campioni siano stati fatti da pozzetti  pertinenti a rami di impianti chiusi da tempo  e nei quali venivano convogliate acque meteoriche ed acque  di lavaggio ,non acque di processo.

Dall’80 le acque meteoriche vengono   raccolte in vasche ed inviate all’impianto di strippaggio CS30 dei clorurati  i cui fanghi vengono smaltiti nei forni dell’impianto CS28.

 Ciò pone innanzitutto un problema di rappresentatività  dei campioni di fango prelevati  nei pozzetti.

Comunque dalle analisi dei prelievi di fango effettuati dai consulenti della difesa negli stessi pozzetti in cui erano stati fatti i prelievi da parte dei tecnici del P. M ., orientate alla ricerca dei composti organo alogenati e dei PCDD/F risulta –  secondo i grafici  riportati alle pagine da 626-a 629 che ,contrariamente a quanto ritenuto dalla accusa,  le impronte delle diossine  rilevate nei pozzetti non hanno caratteristiche  proprie , essendo costituite da mescolanze eterogenee , comunque non rappresentative che vi sono differenze al confronto delle impronte caratteristiche del Canale Lusore- Brentelle - antico corpo recettore degli scarichi del Petrolchimico  e quelle del canale industriale Nord.

 

 Non solo le impronte  delle diossine rilevate nei pozzetti non hanno caratteristiche proprie ma anche non vi è corrispondenza con la distribuzione delle PCDD/F presenti nelle acque reflue dei processi produttivi .

Risulta invece  e ne danno atto gli stessi esperti delle difese che le impronte delle diossine  di cui ad un campione il  n.  4 – di cui peraltro l’accusa non aveva fornito i risultati- corrispondono esattamente a quelle dei sedimenti del canale Lusore- Brentelle

I composti che sono stati trovati nel canale Lusore - Brentelle  sono stati trovati in tutti i pozzetti esaminati

Le impronte del canale Lusore –Brentelle  sono diverse da quelle  degli altri canali - canale Industriale Nord, canale Brentella, canale Salso , canale San Giuliano

 L’impronta del pozzetto n 4 –fango di fognatura del CV10-11- è del tutto identica all’impronta del canale Lusore –Bretelle.

 

Le impronte dei campioni prelevati dagli altri pozzetti  del sistema fognario TS1 e CS3 non sono sovrapponibili a nessuna altra impronta

 Tali rilievi  tecnici pongono il serio problema di verificare la corrispondenza delle impronte rilevate dove transitavano acque reflue convogliate nei pozzetti del vecchio Petrolchimico. con le impronte dei canali diversi dal Lusore Brentelle 

 

 4.5  Ancora sulla questione delle impronte delle diossine confutazione della ipotesi che individua nel Petrolchimico  la matrice della contaminazione  del sedimento dei canali della area industriale, indistintamente considerata

 Osserva il Tribunale come la difesa abbia  sostenuto che la  identità delle impronte  rilevate nel sedimento del canale Lusore  Brentelle  con quelle tipica della produzione del CVM e quelle rilevate nelle analisi dei campioni di fanghi prelevati dagli scarichi SM15 , SM 12 ,S M 22- vecchi e nuovi scarichi del Petrolchimico - consente di ritenere che  le caratteristiche delle emissioni inquinati del Petrolchimico  rimangano almeno tendenzialmente uniformi nel tempo  in contrasto con l’ipotesi formulata dall’accusa  secondo cui invece le differenze riscontrate tra tali impronte – in particolare tra quelle dei canali della prima e della seconda zona industriale-   derivano da variazioni indotte  nel tempo delle caratteristiche dei processi produttivi del medesimo tipo di quello considerato (petrolchimico filiera del cloro).

 

Procede quindi il Tribunale ad elencare le ragioni della tesi difensiva elaborata sulla base della consulenza del c. t . Vighi,  che giustifica le conclusioni di cui sopra

Il consulente delle difese attraverso il confronto tra le impronte  dei sedimenti inquinanti nelle diverse aree della con terminazione lagunare ed in particolare nel campo della prima e seconda zona industriale –  evidenzia la differente matrice della contaminazione ;

 muovendo dall’ambito della prima zona verso la seconda zona industriale evidenzia altresì che ,  per tutti gli inquinanti di interesse processuale, i livelli di concentrazione tendono nettamente a diminuire .

 Sulla base delle accertate differenze  è possibile affermare che le due aree ,quella della prima  zona industriale  e quelle relative alla seconda  zona industriale sono soggette a fonti diverse di contaminazione da PCDD/F

 

 La prima zona industriale ha risentito di emissioni che presentano caratteristiche diverse  da quelle degli scarichi del Petrolchimico  , le quali  sicuramente caratterizzano l’impronta dei sedimenti del canale Lusore Brentelle

 Ciò confuta la tesi accusatoria della identità della  causa della contaminazione di tutti i sedimenti dei  canali della area industriale  indistintamente considerata , da identificarsi nel catabolismo delle acque di provenienza del Petrolchimico .

 

 La evidenza di tali differenza  viene giustificata dalla accusa  con variazioni indotte nel tempo nel ciclo produttivo

E vero che le impronte variano  e non sono riconducibili ad una unica impronta bensì ad una impronta media ma ciò perché  varia nel tempo il processo produttivo   

 Nella sua analisi il consulente della difesa utilizza un data-base di  1300 campioni di sedimenti  e come il consulente dell’accusa segue il metodo di  analisi delle componenti principali, applicandolo ai dati dell’intero data base

 Descrive le analisi  dei componenti principali  , con  un metodo di analisi statistica che consente di trasferire   in un sistema a due o tre dimensioni quindi graficamente rappresentabile la maggiore o minore analogia

Inoltre elimina alcuni dati che avrebbero potuto falsare   gli esiti, escludendo tutti quei campioni che sono caratterizzati da valori inferiori  al limite della rilevabilità  analitica  per almeno 6 congeneri

 Da tali analisi  risulta  che i campioni del Canale Nord  e del canale Brentella – canali della prima zona industriale-sono riconducibili al medesimo insieme , mentre quelli del canale Lusore Brentelle non sono riportabili al medesimo  insieme.

 

Questa differenza consente di affermare che le due aree sono soggette a fonti  di inquinamento da PCDD/F diverse

 Il contesto della prima zona industriale ha risentito nel tempo di emissioni che hanno caratteristiche  diverse  da quelle degli scarichi  del Petrolchimico ,che caratterizzano invece l’impronta dei sedimenti   del canale Lusore Brentelle 

Di conseguenza risulta infondata la tesi accusatoria secondo cui invece il Petrolchimico  sarebbe responsabile dell’inquinamento di tutta la zona industriale indistintamente.

 

 L’ipotesi della accusa secondo cui le differenze delle impronte di congenere dipenderebbero da varianti nel ciclo produttivo è rimasta a livello di sola ipotesi

 E stata  invece  dalla difesa dimostrata la sua inconsistenza in quanto lo studio di campioni superficiali  e profondi evidenziano una sostanziale uniformità della impronta PCDD/F   da  cui è lecito dedurre che le variazioni indotte nel ciclo produttivo non hanno modificato le caratteristiche delle emissioni

 

In conclusione  dall’esame delle impronte  risulta che : le impronte rinvenute nel canale Lusore Brentelle  corrispondono alle impronte riportate in letteratura  come caratteristiche della produzione del C V. M .;   che  sono diverse da quelle rinvenute nei canali della prima zona industriale –canale Brentelle, canale industriale nord; che l’impronta del canale Lusore Brentelle  è rimasta  costante nel tempo pertanto mutazioni del ciclo produttivo non hanno influito sulla impronta ;

 che  la spiegazione dei c t dell’accusa , secondo cui la differenza dipenderebbe da variazioni nella produzione non si giustifica ; che le impronte dei sedimenti del Lusore  Brentelle  corrispondono a quelle caratteristiche della produzione del CVM nonché  a quelle riscontrate nei fanghi  prelevati dagli scarichi SM15,SI2 ed SM22; che  queste impronte  sono diverse da quelle caratteristiche della prima zona industriale  che a loro volta dimostrano invece analogie con quelle tipiche di altre produzioni  industriali

 

4.6 Segue  confutazione della ipotesi  che individua nel Petrolchimico la matrice  della contaminazione del sedimento dei canali  dell’area industriale indistintamente considerata

Vanno innanzitutto evidenziate alcune circostanze che sono incontestate o comunque adeguatamente provate.

E  incontestato che il gradiente di contaminazione diminuisce passando dalla prima alla seconda zona  industriale  e cioè da nord  a sud , avvicinandosi ai canali prospicienti l’area di insediamento del Petrolchimico; che a sud nella zona dei cosiddetti bassi fondali, area che intesi di accusa continuerebbe ad essere inquinata dagli apporti dello scarico SM15  il livelli di concentrazione di PCDD/F sono notevolmente ridotti; che ‘unica eccezione è rappresentata dal canale Lusore  .Brentelle , che risulta molto  inquinato verosimilmente  perché antico corpo recettore degli scarichi del Petrolchimico in epoca in cui non vi era alcuna regolamentazione .

 

Ed il gradiente di inquinamento dalla prima alla seconda zona industria contraddice l’ipotesi accusatoria  secondo cui la  contaminazione avrebbe la sua origine  nel Petrolchimico

 Secondo gli esperti delle difese invece  la contaminazione da diossine e furani avrebbe inizio nella prima metà del secolo e si sarebbe intensificata fino a raggiungere  i valori massimi per le diossine e i furani  negli anni 50 e negli anni 60,  e per gli IPA negli anni 60

Gli esperti –Bellucci e Colombo- hanno poi individuato le cause della contaminazione della prima zona industriale ,identificando  la sorgente dell’impronta di PCDD/F presente nella prima zona industriale , ed accertandone la diversità da  quella presente nell’antico corpo recettore del Petrolchimico;hanno  poi giustificato la contaminazione del canale sud-seconda zona industriale-  e spiegato la influenza  negativa dell’antico sito di discarica  dell’isola delle Tresse vicino allo scarico SM15.

 

Prima di esaminare il lavoro degli esperti il Tribunale riprende però alcune delle valutazione gia fatte in ordine alla normative vigenti in epoca precedente l’entrata in vigore di norme di protezione ambientale , relativa alla insalubrità delle lavorazioni, norme che hanno disciplinato per decenni     l’esistenza e l’andamento  delle produzioni inquinanti

 Innanzitutto viene  ricordato l’art 216 TULS  che ,prevedendo l’isolamento delle fabbriche e manifatture che producevano gas  vapori o altre esalazioni insalubri, indicava chiaramente che la norma  veniva intesa con finalità di tutela solo sanitaria e non di tutela ambientale 

 È tale disposizione per quanto riguarda il contesto territoriale di causa venne attualizzata dall’art 15 e 16 delle Norme tecniche di attuazione del PRG di Venezia del 1956.

 In particolare la PA aveva previsto per attività che oggi definiremmo di impatto ambientale la destinazione delle aree prospicienti la zona  industriale di Porto Marghera , che attualmente occupa un fronte di 6 km per una profondità di circa 4 Km.

 

Da un punto  di vista storico doveva poi  essere tenuto presente –ciò che l’accusa aveva invece ignorato -che la prima zona industriale  era stata realizzata mediante l’imbonimento di vaste aree di barena  ,con materiale di risulta degli scavi dei canali portuali ,e la seconda zona industriale invece mediante l’imbonimento, avvenuto quasi esclusivamente con rifiuti di provenienza dalle lavorazioni della prima zona industriale – rifiuti che alla stregua delle valutazioni normative vigenti dal 1984 sono definiti tossico-nocivi.

 Di questi rifiuti  usati per l’imbonimento una grande quantità  di colore rosso ,i cosiddetti fanghi  rossi derivano da processi di “decuprazione delle ceneri di pirite” e da processi di lavorazione della bauxite ,entrambi estranei al catabolismo del Petrolchimico

 Naturalmente insieme vi erano rifiuti di molte altre produzioni- produzioni del ciclo dell’acido solforico, materiali di risulta della produzione metallurgica, scarti di fonderia , ceneri di carbone  di centrali termoelettriche , fosfogessi di scarto di produzione dell’acido  solforico.

 Al catabolismo delle predette produzioni si aggiunse poi quello derivante dalle produzioni del cloro da parte del  Petrolchimico ,. i cui insediamenti produttivi vennero collocati nella seconda zona industriale e per cui gli scarichi a avvenivano nel canale Lusore - Brentelle

Il sottosuolo della seconda zona industriale per alcune centinaia di ettari( ad est dell’ alveo del canale Bondante ) è costituito da rifiuti di antica derivazione dalla produzioni della prima zona industriale.

Nello zoccolo di questa enorme massa di rifiuti sono  stai scavati interamente il canale Industriale sud, ,il canale Industriale ovest e in parte il canale Malamocco Marghera.

Nella seconda zona industriale ,in area adiacente ai bassi fondali vicino allo scarico SM15- scarico principale del Petrolchimico , dopo la cessazione, a  metà degli settanta, di quelli che recapitavano nel canale Lusore Brentelle  trova collocazione l’isola delle  Tresse,sito storico di discarica di rifiuti della prima zona industriale.

Tutte le predette acquisizioni solo assolutamente certe e documentate e non possono essere messe in discussione sul piano probatorio.

E attraverso lo studio e la analisi  dei sedimenti dei canali  Industriale nord e Brentella è possibili  associare  al catabolismo proprio delle tipologie produttive della prima zona industriale  l’inquinamento  dei sedimenti in tale ambito.

 Lo studio verifica inoltre le conseguenze della  trasmigrazione della contaminazione dalla prima alla seconda zona industriale.

 

 È stato accertato  dai consulenti della difesa attraverso l’esame di dati di letteratura  innanzitutto che dal 1932 era presente nella prima zona industriale la lavorazione del magnesio- e a tale tipologia produttiva , secondo quanto riportato  in US .EPA.2000, la tabella allegata alla predetta relazione   associa  come contaminante proprio le diossine ; 

 che la decuprazione delle ceneri di pirite ,attuata dal 1932 a tutti gli anni 60, è in grado di produrre  rilevanti quantità di diossine, caratterizzate da un impronta  simile a quella diffusa nell’ambito della prima zona industriale.; che le  ceneri di pirite rientrano nel catalogo dei materiali di risulta,provenienti dalla prima zona industriale, e utilizzati per imbonire la seconda zona industriale

 Il tracciante principale di tale rifiuto ,utilizzato in grandi quantità  per imbonire la seconda zona industriale , è costituito dai cosiddetti fanghi rossi.

 

 Data la rilevanza di questa tipologia di rifiuti  sono state fatte specifiche analisi, previa  loro raccolta  e classificazione,  prelevando  sei campioni di fanghi rossi, i primi cinque ( da ES1 a ES5) sulla sponda del canale sud e l’ultimo ES6 sulla sponda del canale industriale  ovest

 Tutti i campioni sono stati prelevati nella seconda zona industriale  e dove i fanghi rossi  si trovano  in zona a diretto contatto con le acque dei canali ,le cui sponde subiscono continua erosione .

 Le analisi effettuato hanno consentito di accertare  la presenza in uno solo   dei campioni, di ceneri di pirite e in tutti gli altri la presenza di  fanghi rossi bauxitici,entrambi rifiuti estranei al catabolismo del Petrolchimico ;inoltre in tutti  questi campioni l’impronta di congenere .che distingue un tipo di diossina  dall’altra  è la stessa del canale Nord  e del canale Bretella.

 

  Le analisi dirette alla ricerca delle diossine hanno portato ad accertare anche  concentrazioni di arsenico –che caratterizza la pirite –ed alluminio –che caratterizza la bauxite-

 E ciò consente di associare i campioni alle tipologie produttive che li hanno originati.

Inoltre per tutti i campioni prelevati  al di fuori di uno l’impronta della diossina è eguale a quella del Canale Industriale nord ed al canale Brentella  e  si tratta di impronta eguale  a tutte quelle rinvenute negli altri canali al di fuori del canale Lusore  . Brentelle

 E l’impronta che consente di associare la presenza di PCDD/F rinvenuto nei canali  ai fanghi rossi provenienti dalla lavorazione della pirite e della bauxite ,entrambi presenti nell’ambito della seconda zona industriale e soggetti a fenomeni di intensa trasmigrazione passiva  

 

 Da documentazione non contestabile risulta inoltre che i fanghi rossi bauxitici erano prodotti in misura molto rilevante  e che venivano usati non solo per imbonire ma  che venivano anche   spappolati  direttamente nei sedimenti dei canali  e che tra le aree imbonite e contaminate risulta essere indicato il canale Industriale sud (della seconda zona industriale)

 Gli esperti delle difesa hanno anche evidenziato  sulla base delle informazioni assunte che  la bauxite veniva lavorata dalla Save utilizzando il processo Bayer, cominciare dagli anni 30, che non produce diossine e dalla società Italiana  Alluminia con il processo Haglund che come verificato sperimentalmente produce invece diossine

 

 Osserva a questo punto il tribunale che le sponde dei canali della seconda zona industriale  e l’area di insediamento del Petrolchimico  in tutta la sua lunghezza sono caratterizzati dalla presenza di una notevole quantità di fanghi rossi –che nulla hanno a che vedere con la produzione del Petrolchimico -tanto risulta obiettivamente rilevabile anche percorrendo il canale Sud fino  a giungere alle sponde del canale Industriale ovest.

E risulta anche la attuale  trasmigrazione  passiva di tali inquinanti dalle sponde dei canali industriali alle acque  e ai sedimenti, cosi come analoga trasmigrazione avviene dalla isola delle Tresse dove sono stati smaltiti oltre un milione di metri   cubi di fanghi rossi verso i cd bassi fondali prospicienti lo scarico SM15.

 

 Risulta anche dalla deposizione del teste Chiozzotto- teste dell’accusa -che nell’isola delle Tresse sono stati convogliati enormi quantitativi di rifiuti  ed il fenomeno di erosione della isola delle Tresse risulta  avere causato un arretramento  delle sue sponde di oltre 50 metri, proprio davanti al punto di recapito dello scarico  SM15, e che il progetto di messa in sicurezza del sito prevede  il contenimento della percolazione delle sostanze inquinanti .

 

 Viene  poi rilevato che  nel canale Malamocco –Marghera  frontistante  lo scarico SM15, per tutti quasi i parametri analizzati i sedimenti presentano  livelli di concentrazione piu bassi di quelli osservati in altre zone dell’area industriale  e che  i livelli di concentrazione  delle sostanze inquinanti si riducono notevolmente nel passaggio dalla  prima alla seconda  zona industriale  e in prossimità dello scarico SM 15  raggiungono valori non eccedenti quelli attesi ,comunque non sproporzionati ,rispetto  a quelli che caratterizzano situazioni paragonabile , connotate da un impatto ambientale moderato certo non disastroso.

 Dei valori di  contaminazione raggiunti in prossimità dello scarico S. M15 ne da atto invero lo stesso  consulente dell’accusa.

 

 L’accusa di fronte a questi accertamenti assume che la presenza di diossina nei fanghi rossi  lungo le sponde dei canali della seconda zona industriale  dipende  da pratiche di  commistione di tale residuo con peci clorurate  provenienti dal Petrolchimico ,che rimarrebbe cosi  l’unica matrice di contaminazione dei sedimenti della zona industriale  per quanto riguarda le diossine

 Ma si tratta di una asserzione non provata  né sorretta da indizi.

 

 A sostegno della sua tesi l’accusa replica che nel tempo in ambiti distanti dal Petrolchimico. sono state attuate pratiche di evacuazione  diretta in laguna di residui clorurati di provenienza da tale plesso a mezzo di bettoline e autobotti.

 Anche questa affermazione rimane non provata.

 Contrariamente a tale ipotesi accusatoria risulta invece che dagli inizi degli anni 70 le cosiddette  peci clorurate furono inviate per trattamenti presso l’impianto di incenerimento  CS28,  costruito nel 72  e che  in epoche precedenti erano smaltiti in discarica .

 La tesi accusatoria è smentita anche dal fatto che  nei canali della  prima zona  industriale non si riscontra associazione di diossina con clorurati, come avrebbe dovuto riscontrarsi se fosse vero quanto affermato dalla accusa , mentre è stretta la relazione tra diossine e metalli  pesanti –arsenico ed alluminio tipici delle lavorazioni della prima zona industriale.

 

 Nel canale Lusore .Brentelle . è invece presente in elevata concentrazione la contaminazione di solventi clorurati

E viene anche ribadito che non è vero che la  lavorazione della bauxite non produca diossine, valendo questa affermazione , solo per il processo  Bayer, ma non per il processo Haglund ,come dimostrato dalla difese e non contestato dalla accusa.

 

 Le conclusioni che il tribunale ritiene di dovere trarre  in base all’evidenza probatoria sopra esaminata sono quindi le seguenti:l’inquinamento ha diverse matrici:

a) scarichi nella acque aventi recapito ei canali della prima zona industriale  provenienti dagli insediamenti produttivi cola insediati dagli anni 20 e in grado di rilasciare gli stessi inquinanti che secondo l’accusa proverrebbero unicamente dal Petrolchimico  e ciò contro l’evidenza del forte gradiente di contaminazione nella prima zona industriale  e contro l’evidenza delle differenti  impronte delle diossine nell’uno e nell’altro ambito

b) rifiuti tossici- nocivi di risulta delle medesime produzioni-fanghi rossi bauxitici  e ceneri di pirite che sono stati certamente utilizzati per l’imbonimento delle aree della seconda zona industriale  e nel corpo dei quali sono stati scavati  i canali della seconda  zona industriale  e che sono  stati altresì oggetto di erosione da parte delle acque a seguito degli scavi dei canali e a seguito delle maree , del moto ondoso  e del transito delle navi

c) il catabolismo nelle acque del Petrolchimico come fattore inquinante delle sue immediate adiacenze ;

il canale Lusore Brentelle  antico corpo ricettore degli  scarichi del vecchio Petrolchimico  e di alcuni scarichi superstiti,  muniti  tutti all’entrata in vigore della prima normativa in materia d p r 962/1973 –l’ 1-3-1980  di impianti di abbattimento del loro carico inquinante  è stato certamente inquinato dal Petrolchimico.

 

 Segue la verifica della compatibilità delle acquisizioni probatorie sopraindicate con l’andamento dell’inquinamento nell’ambito della zona industriale e  della esistenza  di  eventi  disastrosi  in senso proprio.

 

4 .7 Sulla base di quali premesse ed  entro quali limiti è possibile constatare la presenza di eventi di danno per l’ecosistema

 

L’accusa ha assunto, per sostenere l’evento di danno rilevante in termini disastrosi per l’ecosistema, le tabelle  allegate al protocollo d’intesa per la laguna di Venezia  del 1993.

 Queste tabelle però non definiscono parametri  di qualità ambientale ma  sono finalizzate solo  a stabilire criteri di mobilizzazione dei sedimenti , individuando i parametri secondo cui valutare le caratteristiche che devono avere i materiali  sedimentari  per essere immessi o reimmessi in laguna , trattasi sostanzialmente di  criteri di mobilizzazione dei sedimenti .

I valori indicati rispettivamente  nelle tabelle A,B,C  del predetto Protocollo d’Intesa non significano pertanto  pericolo reale perchè non  esprimono condizioni di rottura di sicurezza per l’ecosistema  e non definiscono parametri di qualità ambientale

 

 Né si ritiene congruo assumere, come dato probante la rottura delle condizioni di sicurezza dell’ecosistema ,il confronto tra le concentrazioni di inquinanti rilevate nei sedimenti dell’area industriale  e quelle rilevate nel sedimento dell’isola di S Erasmo , considerato anche  che spesso l’accusa assume ,a termine di confronto, il valore  massimo di inquinamento rilevato nei canali della zona industriale . cioè il campione rilavatosi in assoluto “il più inquinato”

  Sono pertanto condivisibili le critiche della difesa  relative alla impostazione seguita dagli esperti della accusa  .

 Condivisibile è invece il diverso criterio di  verifica  dalle stesse proposto  che si basa sul confronto tra le concentrazioni  rilevata nell’area industriale  e criteri di qualità ambientale.

 

Il consulente delle difesa premette innanzitutto che secondo il Comitato scientifico tossicologico ed ecotosssicologico della commissione europea 1994 un obiettivo di qualità ambientale, per una determinata sostanza dovrebbe esprimere un livello od una concentrazione  tale da non determinare alcun effetto indesiderato nell’ambiente e tale da garantire la protezione delle comunità biologiche e degli ecosistemi naturali

 

Esempio di un obiettivo di qualità per  un ambiente acquatico:  dovrebbe permettere che tutti gli stadi del ciclo  vitale di tutti gli organismi acquatici possano compiersi con successo e senza alterazioni; non dovrebbe produrre condizioni tali da determinare l’allontanamento degli organismi  dall’habitat o da parte di esso  in cui sarebbero presenti in condizione naturali – assenza di impatto antropico- non dovrebbe  produrre bioaccumulo di sostanze  a .livelli pericolosi per il biota ( incluso l’uomo) attraverso la catena alimentare  o per altre vie ,non dovrebbe   produrre condizioni capaci di alterare la struttura  e la funzione dell’ecosistema acquatico.

 

 Per quantificare questo obiettivo il massimo risultato conseguibile sperimentalmente  è il cosiddetto livello di  non effetto osservato ( NOAEL) , cioè un livello che, nelle condizioni  sperimentali note, non ha permesso di osservare alcuno degli effetti avversi.

 Il metodo più usato è  quello che  si basa sulla estrapolazione dei dati  sperimentali, mediante la applicazione di fattori di sicurezza , che saranno tanto più elevati quanto più carente è l’informazione o quanto maggiore è il livello di incertezza dei dati sperimentali.

Nel caso dei criteri di qualità per i sedimenti  l’informazione è molto scarsa e sono pertanto necessarie ulteriori estrapolazioni.

 A questo scopo normalmente viene utilizzato il  metodo degli equilibri partitivi che si basa  sul  principio del calcolo  della ripartizione  delle sostanze tossiche tra acqua e sedimento

 Si immagina che l’effetto tossico sugli organismi del sedimento sia provocato dalla parte di sostanza in soluzione nell’acqua interstiziale  e si fa riferimento ai valori di tossicità noti per gli organismi acquatici.

 Data la incertezza che il metodo degli equilibri partitivi comporta  vengono applicati ulteriori fattori di sicurezza

 Il criterio di qualità ambientale ha finalità essenzialmente preventive ed è espressione del principio di precauzione.

 

I criteri di qualità devono considerarsi quindi come uno strumento preventivo ,ampiamente protettivo,  per cui il superamento di questi criteri non deve però essere visto come raggiungimento di livelli ambientali tali da determinare un rischio reale  ,ma soltanto come l’erosione di margini di garanzia , che in generale  possono avere l’ampiezza di alcuni ordini di grandezza rispetto al livello degli effetti osservati.

 Ed è evidente che nell’ambito di tale scelta vi possano essere differenze come conseguenza  della esistenza di margini di discrezionalità

 Quello che varia nei diversi criteri  o livelli protettivi è  il maggiore o minore grado di sicurezza, il loro superamento non comporta il superamento di una soglia di pericolo reale

 

Il c t degli imputati  Vighi utilizza un data base per valutare lo stato di contaminazione dei sedimenti da metalli e  microinquinanti organici che  ha riguardo a 1300  campioni di sedimenti, che sono stati prelevati in diversi settori dei canali industriali e della laguna, e confrontati con i valori limiti  indicati secondo i diversi criteri di qualità ambientale .

 I campioni sono stati prelevati a  profondità di oltre due metri  che si riferiscono a contaminazione pregressa di molti decenni or sono  ed a profondità più ridotte di 10-15 cm che possono essere considerati rappresentativi  di una contaminazione più recente, relativa agli ultimi 20 anni

In molti casi la profondità del prelievo non è indicata  e comunque la datazione delle contaminazioni non è rilevante nelle prospettive accusatoria  che riferisce al fatto dell’imputato –quello successo per ultimo  nella posizione di garanzia - l’intero ordine delle conseguenze la cui causa ritiene  di individuare nel catabolismo del Petrolchimico

Nessun rilievo viene dato  nella prospettiva dell’accusa al problema causale delle condotte dei singoli imputati

 

Vengono quindi nella sentenza a questo punto esposti in modo analitico gli esiti  del primo confronto, innanzitutto per quanto riguarda i metalli , attraverso dati e grafici dalla cui lettura derivano in sintesi  le seguenti conclusioni : i livelli complessivi di contaminazione dei sedimenti mostrano un netta differenza tra i canali della prima zona industriale, nei quali i valori medi superano spesso i criteri di qualità ,e i canali  della seconda zona, nei quali i valori medi risultano essere compatibili con i limiti di accettabilità considerati; il superamento dei limiti  nell’ambito della seconda zona industriale è relativo solo ad alcuni sporadici valori massimi; i valori relativi ai campioni superficiali sia nella seconda zona come nella prima  sono compatibili con i criteri di qualità di cui si detto  ,e, le situazioni di maggiore contaminazione sono imputabili ad emissioni pregresse presumibilmente anteriori all’ultimo ventennio.

 Per quanto  riguarda  i microinquinanti organici  gli esiti delle verifiche sono i seguenti :

per il PCB: è evidente il gradiente procedendo dalla prima alla seconda zona industriale; i valori della seconda zona e della laguna sono sempre compatibili con i limiti del NOAA ,ad eccezione di alcuni dati misurati nel canale ovest,anche in questo caso dovuti presumibilmente a campioni non superficiali;per campioni di sedimenti superficiali, cosi come per i metalli è evidente la tendenziale riduzione delle concentrazioni  ,compatibile con i limiti almeno nella seconda zona industriale e nel resto delle laguna.

 

per il PCDD/F:

 valgono le precedenti osservazioni con la precisazione che, nei campioni superficiali  della prima zona, diminuiscono i valori massimi ma aumentano  quelli medi;

tuttavia, nella seconda zona  industriale e nel resto della laguna,  i valori sia medi sia massimi sono costantemente al disotto del limite indicato dal NOAA.

 

 per gli IPA:

il gradiente di diminuzione è meno evidente ed è significativo il valore relativamente alto, anche nei sedimenti superficiali relativi alla zona urbana ,dati che dimostrano come questo tipo di inquinamento può derivare anche da fattori diversi da quelli industriali

in ogni caso i valori specialmente nei sedimenti superficiali sono sempre  entro i limiti di accettabilità.

 

 per gli HCB:    

 in questo caso i valori misurati, sebbene sia ancora evidente il gradiente , superano anche nella seconda zona industriale i livelli di riferimento.

  Deve però  a questo  punto accertarsi se il superamento dei limiti di cui sopra significhi  pericolo reale per l’ecosistema lagunare

 A tale scopo è stata calcolata la concentrazione prevista di non effetto (PNEC) utilizzando la metodologia ufficiale proposta dalla Commissione europea basata  sul principio degli equilibri partitivi e su dati  tossicologici sperimentali.

 

Viene cosi stabilito il limite, al disotto del quale non si verificano effetti tossici ,con una riduzione però sostanziale  dei margini di sicurezza.

 Con riferimento al valore PNEC risulta che sia i valori medi come quelli massimi dei canali della seconda zona industriale  sono inferiori al valore soglia , e pertanto non esiste pericolo reale di effetti tossici per gli organismi,nonostante la riduzione dei margini di sicurezza

 Il confronto tra il valore PNEC ed il criterio di qualità dimostra l’ampiezza dei margini di sicurezza che sono  stati applicati anche nei confronti effettuati per le altre sostanze.

 

Al metodo  sopraesposto seguito dai tecnici della difesa  sono state fatte dalla accusa le seguenti critiche : il confronto con i criteri di qualità  sarebbe di affidabilità incerta; l’uso frequente di medie e mediane ridurrebbe i significati  della contaminazione; viene trascurato il fatto che, nei sedimenti dei canali, vive una comunità di organismi detritivori,  per cui dovrebbe tenersi conto anche delle condizioni favorenti  la biodisponibilità  dell ‘inquinante  incorporato nel materiale sedimentario.

 

Alle critiche predette  va risposto –secondo  il Tribunale- che, per quanto riguarda i sedimenti, non si dispone di altri dati basati su criteri sperimentali , e tanto vale sia per  i metalli come per i micro contaminanti organici; che i pochi paesi ed organismi che hanno esaminato il problema  hanno declinato il principio di precauzione  , introducendo normative finalizzate  alla tutela dell’ecosistema  acquatico, che non vi è   motivo per ritenere inaffidabile; che i protocolli usati dal consulente tecnico  delle difese sono quelli elaborati dagli organismi internazionali; che si sono occupati della materia;

che, come tutti  i criteri di qualità, rappresentano delle estrapolazioni e sono stime teoriche  che vengono corrette da adeguati  fattori di sicurezza ,che sono tanto più ampi quanto minore e l’effettiva base sperimentale.

 

E gli esiti complessivi della valutazioni fatte dal Vighi, condivisibili per le argomentazioni sopraesposte dimostrano che le concentrazioni di inquinanti  rilevate nei sedimenti sono compatibili nei valori medi ( spesso anche in quelli di picco) con i parametri assunti.

 Casi di superamento si riferiscono solo ad aree distanti dal Petrolchimico, nell’ambito della prima zona industriale .

 Per quanto riguarda poi  la critica relativa  alla non adeguata valutazione della biodisponibilità degli inquinanti si rileva come non sia facile la valutazione  e come  in ogni caso con riferimento ai metalli  , secondo il principio di precauzione , i metalli si assumono totalmente  biodisponibili.

Per quanto riguarda i  microinquinanti  organici viene fatto presente che le sostanze in esame PCDD/F, PCB; IPA;HCB sono composti ad elevata persistenza , per cui l’intervento di organismi detritivori non può rendere più o meno disponibile la sostanza.

Per quanto riguarda la critica fatta all’uso delle medie e mediane viene fatto presente che contrariamente ad un valore massimo e proprio quelli medio  o mediano che rappresenta     adeguatamente la reale situazione  e che in particolare risulta  più corretta la rappresentazione  quando si fa riferimento alla media geometrica anziché a quella matematica.

Media geometrica  e mediana fanno parte dei parametri che gli statistici chiamano robusti cioè sufficientemente solidi da non essere alterati troppo da valori non rappresentativi della serie di dati considerata.

Rileva infine il Tribunale come le conclusioni del  consulente tecnico  dr Vighi , che sono per le argomentazioni sopraesposte  condivisibili, vengano a coincidere con quelle  del Piano Direttore  del 1989 , che ha accertato una situazione  al limiti del collasso fini agli anni 70, ed il miglioramento , certo l’assenza di un aggravamento,  dopo l’inizio degli interventi di depurazione   e di riconversione delle tecnologie industriale , ma non facilmente superabile per quanto riguarda la componente inglobata nei sedimenti.

Ma le concentrazioni di inquinanti  nei sedimenti dell’area industriale  non significano comunque rottura delle condizioni di sicurezza per l’incolumità pubblica.

 

Da  ultimo viene ancora osservato come , con riferimento al valore del fall-out atmosferico ,per quanto riguarda la contaminazione dei sedimenti  dei canali ,le emissioni di PCDD /f di attuale derivazione dagli impianti di incenerimento del  petrolchimico  siano compatibili con i limiti di legge.

Non può sostenersi un progressivo inquinamento nel tempo delle concentrazioni di PCDD/F  nei sedimenti  perché i dati confrontati si riferiscono  stazioni di prelievo totalmente diverse.

 Rimane infine non confutata la  affermazione e secondo cui ,per valutare la progressione nel tempo della contaminazione , l’unico metodo sperimentato  consiste nell’esame  delle carote di sedimento per cui sia possibile una sia pure approssimativa datazione .

Rimane altresì non confutata la valutazione , secondo cui le informazioni derivate da questo tipo di analisi , significano una progressiva diminuzione delle concentrazioni  dei principali inquinanti,  almeno negli ultimi decenni.

 

4.8                                     Infondatezza degli addebiti di colpa

 Premesse: infondatezza della tesi di accusa secondo cui gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati effettuati  in violazione del divieto di diluizione.

 Primo addebito: gli scarichi del Petrolchimico. sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di diluizione.

Premesso che l’ipotesi accusatoria collega l’evento disastro-  consistito nella contaminazione del sedimento dei canali- e l’avvelenamento e adulterazione del biota – vivente nel sedimento dei canali al supposto malgoverno degli scarichi di provenienza del plesso industriale nelle acque - concretizzatosi nello smaltimento di reflui convogliabili in condotta , catalizzatori esausti  e altri sottoprodotti di risulta attraverso gli scarichi SM2 e SM15 ( con concentrazione di nitrati e clorurati superiori ai limiti di accettabilità  previsti dalle tabelle allegate al D.P.R n 962 /1973)- osserva il Tribunale come, in ipotesi accusatoria, tre siano gli  specifici addebiti di colpa:

1) :gli scarichi del Petrolchimico  sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di diluizione;

 2) sarebbero stati violati i parametri di accettabilità stabiliti dal DPR 962/1973

 3) i reflui di provenienza del Petrolchimico  avrebbero dovuto essere smaltiti  come rifiuto tossico nocivo ,in forme adeguate a quelle nominate dal d. p .r n.915/1982 ,  e non nelle forme  adeguate alla disciplina pertinente gli scarichi della acque

 

Tutti gli addebiti sono infondati.

Nel corso degli ultimi venti anni interessanti il periodo di imputazione, si trovano ad essere in vigore le tabelle allegate al d .p .r n.962/73  ;

 il termine previsto per la costruzione degli impianti di depurazione risulta essere stato prorogato fino  a tutto l’1-3- 1980

 la prima disciplina normativa degli scarichi nella acque opera quindi dal marzo 1980;

molto prima  di tale data i gestori del Petrolchimico  sono intervenuti sul catabolismo delle acque :

 Nello specifico è innanzitutto infondato che gli scarichi del petrolchimico siano stati effettuati in violazione del noto divieto di diluizione

  E per spigare i motivi di tale valutazione viene premesso l’elenco degli scarichi e delle correnti del Petrolchimico , aventi recapito in laguna- con la indicazione dei vari canali interessati- e che sono  tenuti al rispetto dei  parametri di cui alle indicate tabelle:

SM15

SM 2

SM 7

SM 8

SM 9

SM 22 corrente  e non  scarico  diretto per cui valgono comunque gli stessi limiti di accettabilità 

S 11 e S 12 correnti che convogliano  reflui clorurati e reflui mercuriosi , a cui si applica la disciplina  prevista dal DLVo n133/1992

 

Viene  quindi osservato che tutti gli scarichi veri e propri- per i quali e richiesto il rispetto  dei parametri di accettabilità – risultano regolarmente autorizzati e che tutte le confluenze di correnti  interne  sono note al magistrato alle acque

 Premesso che è incontestato che nei predetti scarichi confluissero la acque di processo trattate del Petrolchimico . ,oltre ad acque meteoriche  , di raffreddamento, civili chiarificate,  rileva il Collegio come  l’accertamento dei requisiti di legge debba essere fatto in corrispondenza del  punto di immissione delle acque nel ricettore – salvo deroghe - mentre quanto attiene alle correnti interne è irrilevante , e ,salvo deroghe, le correnti interne non richiedono autorizzazione .

Ne consegue che  la tesi accusatoria ,secondo cui il principale scarico del Petrolchimico ,. SM15- in cui confluivano e confluiscono , oltre le acque di processo , le acque di altre correnti- avrebbe funzionato quale grande diluitore ,  in violazione del divieto  di cui all’art 9 comma quarto e settimo L319/1976 come modificato con legge 650/1979- è infondata perché  in nessun modo la diluizione era vietata.

 

A chiarimenti di quanto affermato ricorda il tribunale come, in un insediamento produttivo, possono esserci più scarichi parziali- provenienti diverse lavorazioni o da un determinato ciclo tecnologico -  oltre allo scarico totale -che è quello rappresentato dalla miscela dei diversi effluenti parziali-  e come sia  la legge Merli a precisare in quali termini   possa essere lecita la diluizione

 Due sono le enorme che si occupano della questione :l’art 9  4° comma  che precisa “ i limiti di accettabilità non potranno in alcun modo essere  conseguiti mediante diluizione  con acque prelevate esclusivamente allo scopo”

L’art 9 7° comma che  precisa “ non è comunque consentito diluire  con acque di raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi  parziali contenenti  le sostanze  di cui al n10 delle tabelle A) e C) prima del trattamento degli scarichi parziali  stessi per adeguarli ai limiti previsti dalla presente legge 

 

 Dalla lettura di queste norme risulta chiaro che è vietata sempre la diluizione con acque prelevate esclusivamente allo scopo , ,mentre la diluizione con acque di lavaggio o di raffreddamento  è vietata solo quando ha per oggetto taluni scarichi parziali ,. contenenti sostanze ritenute particolarmente inquinanti e cioè quelle indicate alle tabelle A e C della legge Merli

 La normativa citata  ,cosi come quella attualmente in vigore- D.lvo  n152/1999 - prevedeva anche la possibilità che gli scarichi particolarmente inquinanti  venissero sottoposti a specifiche prescrizioni, che ,nella fattispecie, non risultano essere state imposte ,nè pertanto violate

 Tanto premesse va ritenuto che in assenza di specifiche  prescrizioni , sia possibile la confluenza di acque di raffreddamento , di lavaggio nello scarico terminale, tenuto quest’ultimo  al rispetto dei limiti di accettabilità.

 

 E la P.A. risulta avere dato prescrizioni – nel senso dell’obbligo di rispetto dei limiti di cui alle tabelle del d .p .r n.962 prima della miscelazione- solo per la corrente SM22 , mentre per tutte le altre non risulta presa alcuna disposizione   .

La separazione delle acque di raffreddamento da quelle di processo è stata disposta  per gli scarichi in laguna  solo con D. M 30-7-1999 che innova il quadro di riferimento normativo pertinente agli scarichi di cui si discute

 Conclusivamente secondo le valutazioni normative ,tecniche e di disciplina  correnti all’epoca dei fatti dal 1980 al 1999 ,  l’addebito di colpa risulta pienamente infondato, perché la miscelazione delle correnti era consentita, le pubbliche amministrazioni ne erano informate, tanto che hanno, in alcuni casi ,dato specifiche prescrizioni che risultano essere  state rispettate.

 

4.9 Della infondatezza  degli addebiti di colpa

Infondatezza delle tesi d’accusa  secondo cui il superamento dei parametri di accettabilità di cui al D.P.R n962/1973 determinò condizioni peggiorative  dello scarico delle acque

 Anche questa tesi non è fondata

Hanno accertato i consulenti della accusa e il dato è incontestato, basandosi sull’esame dei bollettini di analisi interna che ci sono stati più superamenti  istantanei e  puntuali dei limiti stabiliti dalle tabelle allegate al D.P.R. n962 /73

 Il consulente delle difese ha  però ritenuto utile anche  riferire i superamenti , oltre che ai bollettini,  e alle date di verificazione ,alla entità delle misure effettuate .

 Ed è stato innanzitutto evidenziato  che per tutti gli scarichi vi è stato un progressivo miglioramento della situazione, nel senso che la percentuale dei superamenti  è andata drasticamente diminuendo dal 4,4% del 1990 all’1%  del 1994.

 

 La difesa ha poi orientato l’analisi nel senso della verifica dell’effettivo carico inquinante  ed ha quindi proposto di  verificare se il superamento puntuale dei limiti di accettabilità determina –nell’unità di tempo considerata – l’immissione nel corpo ricettore di un carico inquinante superiore o inferiore rispetto a quello ammesso dalla norma.

 Determinata quindi per ciascuno dei parametri- in relazione ai quali sono stati accertati superamenti  puntuali istantanei - la concentrazione media annua , la difesa verifica per gli anni 1994-1997-1998-1999 e 2000 che mai risulta  superato il valore  medio di concentrazione nell’anno.

 Gli scarichi di provenienza Petrolchimico , nel loro reale andamento, si attestano su valori medi evidentemente inferiori rispetto ai parametri di riferimento, producendo un impatto ambientale corrispondente a quello di una scarico regolare .

 

 La validità ed il significato dell’accertamento fatto dalla difesa deriva dalla imputazione che non è quella contravvenzionale bensì quella  del delitto di disastro e avvelenamento – comunque eventi di danno

 Sul punto la accusa sostiene che parlare di medie non avrebbe nessun significato  nè sul piano scientifico né sul piano normativo.

La norma si preoccupa infatti solo di  stabilire la concentrazione limite senza considerare il diverso problema  della quantità globale di inquinante , immesso in un certo intervallo di tempo nel corpo ricettore, non prendendo in considerazione il criterio di concentrazione  massima  ammissibile di inquinanti che il corpo ricettore può tollerare .

Nell’economia  dell’accertamento che ne occupa  non avrebbero pertanto cittadinanza i concetti di quantità  giuridicamente consentita o di portata autorizzata

 

 Ritiene invece il Tribunale ,con riferimento alla necessità di accertare l’evento di danno rilevante in termini  di disastro  o avvelenamento , giuridicamente necessario  accertare la entità del carico  reale  effettivo in termini di impatto ambientale ,  verificando se  degli apporti inquinanti dello scarico, nella unità di tempo,  superino la disciplina normativa concernente il catabolismo nella acque

 

E la difesa dimostra che uno scarico che si attesti su valori medi inferiori a quelli limite nel suo andamento nel tempo,determina  un impatto ambientale corrispondente a quello di uno scarico regolare

Diverso è l’accertamento avente per oggetto i singoli superamenti ,da quello relativo all’impatto ambientale e la sommatoria dei singoli superamenti non costituisce una lettura  di sintesi del catabolismo nelle acque .

 Evidenzia   ancora , il Tribunale, a sostegno della fondatezza della tesi difensiva, che la tecnica usata dal nostro legislatore ha una funzione  semplificativa degli accertamenti, e che in altri paesi vengono adottate tecniche diverse, che tengono invece conto  delle caratteristiche del corpo idrico ricettore e si basano sul metodo che verifica la concentrazione  massima ammissibile  di inquinanti che il ricettore può tollerare .

Il metodo seguito dalla legge Merli di stabilire tabellarmente  concentrazioni limite di inquinante , senza considerare la quantità globale di inquinante –prodotto della concentrazione per la  portata dello scarico immesso in un determinato arco di tempo nel corpo ricettore  - costituisce un limite e non un valore della legge.

 Normative più recenti e conformi alle direttive comunitarie  assumono come parametri di riferimento non solo le concentrazioni ma anche le quantità di inquinante effuse

 

 Ed anche  la normativa applicabile-legge Merli- non ignora  invero  le categorie di portata autorizzata e/o quantità giuridicamente  consentita , tanto che l’art 21  prevede un reato   contravvenzionale , quando la domanda di autorizzazione non risulta corredata dalla puntuale precisazione  delle caratteristiche quantitative e qualitative del carico inquinante .

 

4.10 Segue infondatezza degli addebiti di colpa Infondatezza della tesi  di accusa secondo  cui la presenza di C. V .M nelle acque di processo dei reparti CV 22/23 e CV 24/25 conferirebbe all’intero flusso in uscita dagli scarichi SM.2 e SM.15 il carattere di rifiuto tossico  nocivo

 

Secondo il c t dell’avvocatura – Cocheo - gli scarichi nelle acque di provenienza del  Petrolchimico  sarebbero soggetti alla disciplina normativa pertinente ai rifiuti tossico- nocivi e non a quella concernente  la tutela delle acque applicandosi nella fattispecie il regime di eccezione previsto dal comma 6 dell’art 2 D:P:R 915/82.

Intesi di accusa l’unico trattamento consentito  dell’intera masse di reflui consisterebbe  nella termo distruzione  o nel conferimento in discarica ,adeguatamente alle valutazioni normative ,tecniche e di disciplina di cui al D.P.R n 915/82

Secondo l’interpretazione dell’accusa ,la legge n.319 /76, alla stessa stregua del d. p .r n.962/73 avrebbe carattere di sussidiarietà  rispetto al D.P.R n 915/82, e rilevante in tal  senso sarebbe il disposto del penultimo comma dell’art 2 D. P .R n 915/82 che cosi recita”  resta salva la normativa dettata dalla legge 10-5-1976 n319 e successive modificazioni e relative prescrizioni tecniche per quanto riguarda la disciplina dello smaltimento nelle acque,nel suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi di cui all’art 2 lettera e punti 2 e 3 della citata legge, purchè   non tossici e nocivi ai sensi  del presente decreto

 

 Rileva il Tribunale come la norma parli invero di liquami e fanghi  e non di scarichi.

La differenza sostiene l’accusa è però  solo apparente  perchè il disposto del primo punto dell’allegato 5 della delibera 4-2-1977 del Comitato  dei ministri per la tutela delle acque dall’inquinamento stabilisce    una equivalenza normativa tra il termine liquame  ed il termine  scarico.

 Sarebbe di conseguenza secondo la accusa la reale tipologia del refluo a definire se ad uno scarico sia  applicabile la disciplina di cui alla legge 319/1976 o quella di cui al D.P.R 915/1982

 In tesi di accusa  la normativa tecnica di attuazione del D.P.R n.915/82 e pertanto la deliberazione  27-7-84  del Comitato interministeriale- norma madre l’art 4 D.P.R n.915/82- definirebbe in modo preciso quali scarichi possono essere regolati dalla legge n319/76 e quali invece siano sottoposti al più rigoroso regime di cui al D.P.R.n.915/82.

 

 Sono regolati dal D. P . R n 319/76 tutti gli scarichi che non derivano dalle attività produttive  che figurano nell’elenco 1.3 della deliberazione sopra citata,  purchè il soggetto  obbligato dimostri che i rifiuti non sono classificabile come tossico nocivi,

Conclusivamente  spetterebbe al produttore  provare che nei reflui della lavorazione  non siano contenute  una o più sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite, e/o una o più della altre sostanze, appartenenti  ai 28 gruppi di cui all’allegato al D.P.R. n915/82- 20 nel gruppo sono indicate le sostanze chimiche di laboratorio non identificabili e/o sostanze nuove i cui effetti sull’ambiente  non sono conosciuti- ,in concentrazione superiore ai valori di C. L ,ricavati dalla applicazione dei criteri generali desunti dalla tabella 1.2

 L’onere di dimostrare  quanto sopra incomberebbe  al produttore e quindi agli imputati prima della attivazione dello scarico

Tra le sostanze per le quali non sarebbe possibili escludere a priori la presenza di concentrazioni superiori al limite del consentito dalla tabella  1.2 citata verrebbe in rilievo il C. V .M

 

 Non avendo gli imputati dimostrato che la concentrazione delle sostanze  predette era entro il limite delle concentrazioni limite ,tutti i reflui convogliati in condotta  provenienti dal Petrolchimico  avrebbero  dovuto essere smaltiti in forme adeguate  tramite la termodistruzione

E se i reflui  22 milioni di metri  cubi/ annui  provenienti dagli impianti   CV22 e CV23 sono definiti  come rifiuti  liquidi tossico nocivi , con la conseguenza che avrebbero dovuto essere inceneriti ,  tale carattere tossico -nocivo  sarebbe stato conferito  all’intero flusso dello scarico SM15- 370 milioni di metri cubi/anno

Ed un così rilevante scarico di rifiuti tossico nocivi qualificherebbe la colpa dei delitti di pericolo contestati : disastro e avvelenamento del biota.

 

Sempre in tesi di accusa, da premesse legalmente presunte come vere, deriverebbero delle conclusioni che neppure sarebbe necessario sperimentare in fatto e ciò perché  gli imputati avrebbero dovuto rendere la prova del contrario

 Ritenendo invece il tribunale ,non condividendo l’ipotesi accusatoria , che fosse necessario accertare  in concreto la natura tossico nociva delle sostanze inquinanti  alla stregua delle norme di legge in vigore rivolgeva  al consulente della accusa la domanda  se ,al di la di ogni presunzione legale, egli fosse al corrente di un qualche indice della presenza delle sostanze nominate nella D. I.1984  in particolare del C. V. M   nelle acque di processo  dei reparti CV e/o nei reflui convogliati dagli scarichi S.M.2e S.M15. ed in caso affermativo della concentrazione rilevata , e riceveva  una risposta  negativa.

 

 Alla domanda ulteriore,avente per oggetto quale prova avrebbe dovuto essere data  dal titolare dello scarico  per essere legittimato ad applicare la normativa sugli scarichi anziché  quella sui rifiuti,  riceveva  la risposta  che  per escludere che un refluo sia tossico nocivo occorrerebbe  fare una  analisi completa dello stesso ,determinando le diverse sostanze presenti  sino a chiudere l’analisi alla milionesima parte in massa (1mg/kg)

 Ciò comporterebbe  delle analisi praticamente impossibili  che non sono mai state richieste dalla autorità amministrativa competente al rilascio della autorizzazioni .

 

 Ritiene comunque il Tribunale che, la pretesa della accusa di  ritenere il produttore onerato dalla prova della presenza delle sostanze di cui alla tabella indicata in concentrazioni   inferiori a quelle limite , sia errata con riferimento ai principi generali che riguardano l’onere della prova nel processo penale , in cui il principio della presunzione di non  colpevolezza fino a prova contraria  comporta  che la prova deve essere data da colui che  la nega elevando l’accusa

L’onere della prova spetta pertanto alla accusa  in quanto anche dalla delibera del C. I del 1984. non emergono regole di significato tanto pregnante da smentire questo principio

 In materia e cioè sul tema della definizione dei campi di intervento delle due fondamentali discipline normative di protezione ambientale- quella relativa ai rifiuti quella relativa  tutela delle acque - le Sezioni Unite hanno stabilito alcuni  fondamentali principi.

 

 A ) Il D.P.R 915/82 regola l’intera materia dei rifiuti  , in essa si inserisce come cerchio concentrico la normativa relativa  agli scarichi , disciplinati dalla L n 319/76 e per Venezia dalla legge speciale 962/73

B) Se la sostanze è solida rileva la disciplina  di smaltimento  di cui al  D.P.R 915/82

C) Per le sostanze liquide  o a prevalente contenuto acquoso o convogliabili o convogliate  in condotta rileva la L 319/76

 D)Il quarto criterio deriva dalla disposizione del sesto comma dell’art 2 D.P.R n 915 /82 che riserva alla disciplina degli scarichi nelle acque anche  liquami e fanghi ,ivi compresi quelli derivati da cicli di lavorazione  e da processi di depurazione

E..)Ulteriore criterio è definito dalla inclusione  nel D. P. R n 915/82 di liquami e fanghi appartenenti alla classe tossico –nociva

F)Ultimo criterio discretivo  deriva dal fatto che il D.P.R. n.915/82 disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento ( conferimento ,raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio etc) dei rifiuti prodotti da terzi,siano essi solidi liquidi ,fangosi o informa di liquame  con esclusione di  quelle fasi,concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili) attinenti  allo scarico e riconducibili alla disciplina stabilita dalla legge n 319/76 o 962/73 con l’unica eccezione dei fanghi o dei liquami di verificata appartenenza alla classe dei tossico nocivi che sono regolati dal D. P .R n. 915/82.

 

Tanto premesso ritiene il T tribunale di poter escludere la applicazione della normativa di cui  al D.P.R   piu volte citato ai reflui di reparti CV per i seguenti motivi:

non si tratta di sostanze solide  rientranti per natura nella disciplina di cui al D.P.R;

si tratta di acque  di processo ,sostanze liquide convogliabili e convogliate in condotta ,direttamente immesse nel corpo ricettore senza alcuna soluzione di continuità, previo trattamento e abbattimento del carico inquinante; non si tratta di fanghi , che se tossico nocivi sarebbero disciplinati dal D.P.R 915/82; non si tratta di  acque di processo o di rifiuti liquidi veicolati e/o scaricati  in forma non canalizzata, nel qual caso sarebbe certa la definizione di rifiuto del refluo.

Nel caso in esame non consta che il collegamento tra fonte di riversamento e corpo ricettore sia in alcun momento della sequenza interrotto .

 

Al di la delle congettura sull’onere della prova si tratta di scarichi che non rientrano nell’unica eccezione prevista dall’art 2 comma 6 del D.P:R 915/82.

  Sollecitata poi alla verifica in fatto  della presenza di C. V .M nelle acque  di processo dei reparti di C. V in misura superiore ai limiti fissati dalla  delibera del comitato interministeriale del 1984  , la accusa  non è riuscita nel suo intento .

 

 L’accusa ha poi insistito sul monitoraggio in continuo  del C. V.M. nell’aria , presso  le vasche di neutralizzazione delle acque reflue (cd SG31), tale è in estrema  sintesi il ragionamento dell’accusa : non è mai stata ricercata la presenza di C. V M  nell’acqua delle vasche del reparto SG31 ma solo nell’aria sovrastante ,mediante la istallazione di gascromatografo; se si intende monitorare la presenza  del CVM nell’aria  non vi è ragione per non monitorare la presenza del  CVM anche  nell’acqua se il C VM è presente nell’aria deve essere presente anche nell’acqua delle vasche.

 Ed in tal senso il c. t dell’accusa ha orientato le sue ricerche  nell’illustrare gli esiti delle quali  lo stesso ha fatto presente che non esiste un parametro di accettabilità nella legge, per quanto riguarda il CVM , perché i  clorurati sono sussunti sotto una unica voce  e che in particolare il CVM in acqua ha una vita effimera brevissima, di nessuna durata ed è difficile reperirlo per mancanza di tempo.

 

Né nei sedimenti, né nel biota il CVM  può essere rinvenuto  perché evapora.

 Deve quindi essere ricercato nella vasche  durante il trattamento prima delle operazioni di abbattimento del carico inquinante dei reflui e delle operazioni che permettono al titolare dello scarico di perseguire l’obiettivo della loro compatibilità  con i parametri tabellari di accettabilità

  Applicando una legge termodinamica , legge di Henry, il c t dell’accusa  spiega come sia possibile determinare  la  concentrazione media del C .V .M  nelle acque di processo , partendo dalla concentrazione presente nell’aria , in 149 milligrammi /litro, e quella massima   di picco in1328 milligrammi per litro

Solo in 10 occasioni nell’arco di un decennio –dal 1984 al 1994- si rileva il superamento  del limite di 500 milligrammi /litro ( la CL di cui alle tabelle allegate alla delibera del C. I di cui si è detto)

 In tesi di accusa quindi questi 10 superi basterebbero conferire all’acqua delle vasche di neutralizzazione e cosi all’intero flusso dello scarico S.M15 e SM2 il carattere di rifiuto tossico nocivo

 Ne consegue che l’intero flusso del SM15 dovrebbe rientrare nella eccezione prevista dal comma 6 art 2 D.P.R 915/82

 

Non ritiene invece il Tribunale che il superamento dei limiti di concentrazione  in solo 10 casi giustifichi le conseguenze che ne ha tratto l’accusa

 Comunque la stima del C.T risulta errata in eccesso  in quanto, secondo  una corretta applicazione della legge di Henry – segue una dettagliata esposizione delle ragioni  per cui ilo calcolo effettuato dal consulente dell’accusa non sarebbe corretto bensì affetto da errori esiziali -  la concentrazione del C. V. M  in acqua risulta  ,a parità di concentrazione nell’aria, 40.000 volte inferiore  rispetto a quella che  risulta  in base alla relazione erroneamente utilizzata nella consulenza tecnica  della accusa .

 Comunque, rileva il consulente  .tecnico della difesa ,che, anche accettando l’erronea concentrazione calcolata dal consulente tecnico  della  accusa,  mai si arriverebbe a concentrazioni di C .V M  tali da superare la concentrazione limite di 500 mg/kg fissata dal DCI 27-7-1984 in quanto il valore calcolato dall’accusa è circa 20 volte inferiore alla C .L

 A questo punto  il consulente tecnico dell’accusa introduce un fattore correttivo, giudicato dalla controparte del tutto arbitrario , e che  comunque, quand’anche lo si volesse applicare,  non comporterebbe il superamento di limiti di concentrazione massima stabiliti dal DCI dell’84in materia di rifiuti: si otterrebbe  infatti circa 0,03 mg/kg contro i 500 mg/kg della CL

 

 Le valutazioni del consulente Cocheo non sono  pertanto attendibili

Il consulente delle difesa ha invece  verificato che nel periodo dal 1990 al 1994  risultano:

102 casi di presenza di C. V.M.  nell’aria  sovrastante le vasche in1360 giorni

una durata totale di 338 ore di presenza di C. V .M nell’aria su un periodo  di 32640 or pari quindi all’1 % del tempo

La presenza del CVM nelle vasche risulta comunque essere fatto del tutto eccezionale  e ciò  invero trova una ragionevole spiegazione oltre che nelle esame delle tabelle fatta dal consulente .tecnico . della difesa anche in altre circostanze

In particolare risulta che non vi era alcun collegamento permanente tra la fognatura dei reparti  di produzione CVM/PVC e le vasche di neutralizzazione

 

Ed invero i dati analitici confermano la assenza di CVM nell’ acqua  delle vasche , e dimostrano la inutilità di un controllo di questo parametro nelle acque di scarico ,considerata la bassa solubilità del CVM  ed infatti le vigenti normative non pongono limiti di concentrazione in acqua perché la concreta assenza del CVM in acqua  e intrinsecamente assicurata dalle sue proprietà fisiche , in particolare dalla sua bassissima solubilità.

 

 Conclusivamente risulta che normalmente il CVM nelle acque di processo , provenienti degli impianti di  produzione del CVM, era  assente ,quando era presente lo era in una percentuale ampiamente al di sotto delle C L ,di cui alla delibera attuativa  della disciplina normativa dei rifiuti

  Circa la ragione della presenza del gascromatografo in prossimità delle vasche va invece rilevato come esso servisse alla misurazione di altri gas oltre il CVM.

 

 Nelle vasche di neutralizzazione  infatti  doveva essere abbattuto il carico inquinante dei reflui e ciò avveniva mediante degli agitatori  che favorivano la evaporazione dei gas non solubili  , come il CVM  ; rilevava a questo punto evidenziare che le vasche sono chiuse  e munite di una cappa di aspirazione  che porta ad un camino di altezza di 46 metri  che è stato autorizzato e della cui funzione  legata anche alla  possibile presenza del CVM è stato dato atto

 

Il consulente . tecnico  della difesa ha anche evidenziato come le correnti del reparto CV 24 andassero all’impianto biologico solo dopo lo strippaggio , mentre le correnti dei reparti CV22 e CV 23 recapitavano nelle vasche solo e solo in occasione di eventi eccezionali ,che portavano a straordinari superamenti di livelli o disfunzioni altrettanto rare.

 

 Comunque la tesi di accusa risulta essere irrilevante ,posto che l’assenza certa ed  incontroversa tra le parti del CVM. nel biota nei sedimenti e/o nelle acque del corpo ricettore- laguna – rende irrilevante  l’ipotesi della presenza di CVM negli scarichi idrici  a monte

Oggetto della imputazione non è infatti ,né lo potrebbe essere, perché a contatto con l’acqua evapora    immediatamente , la presenza o meno del CV M nell’acqua della laguna.

 

Le tesi di accusa sulla supposta e in dimostrata presenza del cloruro di vinile nei reflui di provenienza dagli impianti CV, presenza che comporterebbe la necessità di un loro trattamento secondo la normativa relativa ai rifiuti,anziché secondo la normativa relativa agli scarichi  delle acque, oltre che essere infondata e priva di rilevanza, atteso che nessun evento di danno  risulta essere correlato nella ipotesi accusatoria a tale presunta violazione , perchè in  nessun modo viene sostenuto che l’inquinamento della laguna possa essere ricondotto al CVM. sversato

Conclusivamente la tesi accusatoria è infondata ed irrilevante.

 

4.11  Il caso particolare della contaminazione del sedimento del canale  Lusore –Brentelle, antico corpo recettore degli scarichi nelle acque di provenienza  dal Petrolchimico  e delle sue immediate adiacenza

I rilievi fatti con riferimento alla ipotesi accusatoria, secondo cui gli imputati sarebbero  responsabili dell’inquinamento causato da altri per omessa bonifica dei luoghi contaminati vale, sia per le discariche come per il catabolismo delle acque e dei sedimenti del corpo ricettore  e si ribadisce che la scelta di  un modello unitario di qualificazione della fattispecie concorsuale richiede comunque  che tra la condotta del concorrente e l’evento sussista un nesso di condizionamento , mentre non si può rispondere di disastro innominato colposo per il solo fatto di essere consapevoli dell’inquinamento  pregresso .

 

 Il ricorso alla schema concorsuale –113 c.p-. non esime dalla accertamento del nesso causale , mentre l’accusa ,rifiutando questa impostazione, e rimanendo ancorata allo schema della cooperazione per omesso  disinquinamento  della contaminazione preesistente , rifiuta qualsiasi indagine diretta  ad accertare il riferimento ad una base –line della  contaminazione, a partire dalla quale  ricostruire e valutare l’apporto dei singoli imputati

 E fonda la prova del disastro esclusivamente sul gradiente di concentrazione  tra il sedimento dei canali dell’area industriale  e delle aree non interessate ad impatto ambientale  nonché  sulla   in verificata tipicità della impronta di congenere delle diossine  , come indice della loro derivazione dalla filiera del cloro e perciò  dal Petrolchimico

 Esclude dalla ricerca l’andamento della contaminazione nel tempo, le conseguenze del catabolismo industriale nel tempo, la datazione in ogni caso della contaminazione  e ciò anche con riferimento  a quei siti ,come il Canale Lusore –Brentelle  e le sue immediate adiacenze che risultano essere  stati sicuramente inquinati dal catabolismo del Petrolchimico

 

 Si imponeva invece la necessità di accertare se ci fosse stato un aggravamento della contaminazione preesistente  per effetto delle condotta degli imputati, essendo certamente  la contaminazione preesistente ai tempi storici  interessati dalla imputazione .

La nozione di causa penalmente rilevante ,intesa come condizione necessaria  in un contesto complesso ,comporta che ,se un evento si produce solo quando un determinato  insieme di condizioni si verifica, rimane poi privo di significato accertare se uno dei fattori causali appartenenti a quel complesso ,sia prossimo o remoto rispetto al verificarsi dell’evento

L’apporto causale ben potrebbe configurarsi anche solo come aggravamento di un evento dannoso già prodottosi.

L’apporto causale di ogni singolo imputato comunque ,entro la cornice concorsuale di riferimento,  e fermo restando il principio di equivalenza delle condizioni, deve essere  sempre provato

 

Nelle precedenti pagine della motivazione sono state indicate le ragioni per cui non può addebitarsi al Petrolchimico   la matrice della contaminazione della prima zona industriale

Sono state anche esposte le ragioni per cui non sia facile  stabilire in che limiti il catabolismo del Petrolchimico . possa avere causato l’inquinamento del sedimento dei canali della seconda zona industriale , considerato  l’apporto dei preesistenti   scarichi nelle acque e gli apporti recati da altre matrici di contaminazione : imbonimento dell’area della seconda zona industriale  con enormi masse di rifiuti provenienti dalla  prima  zona industriale , erosione delle sponde dell’antico sito di discarica  dell’isola Tresse

 

Rimane comunque indiscusso che dal Petrolchimico  siano derivati nel tempo apporti significativi in termini di evento di danno ambientale

 Certo il catabolismo del Petrolchimico ha avuto un apporto significativo in termini di contaminazione delle sue immediate adiacenze  , perché è incontroverso che il sedimento del canale Lusore – Bretelle – corpo ricettore degli scarichi del vecchio Petrolchimico, dall’atto della sua fondazione fino a tutto il ciclo di ristrutturazione della prima meta degli anni 70, sia stato gravemente compromesso dal catabolismo di quegli impianti

Si tratta però di tempi storici, che  trascendono quelli dell’imputazione  

L’inquinamento del canale Lusore –Brentelle , è certamente riconducibile  al catabolismo del Petrolchimico.dagli anni della sua fondazione fino alla ristrutturazione risalente alla prima metà degli anni 70.

 

 Dal catabolismo delle acque in epoca più recente  deve invece escludersi che sia potuto derivare alcun apporto,in termini di aumento  dello stato di inquinamento preesistente , in quanto ,quando le allegazioni della accusa hanno consentito di operare verifiche è venuto in rilievo il contrario

 Nel canale Lusore –Brentelle anche attualmente recapita l’SM2 ,scarico che risulta essere di sicura ininfluenza  in termini  di impatto ambientale  ,attestandosi il suo scarico inquinante su valori di gran lunga inferiori ai limiti del consentito  ex lege o in base alle prescrizioni accessorie al titolo autorizzativo pertinente ( sporadici accertati superamenti puntuali devono ritenersi irrilevanti in termini di impatto ambientale).

 

 Dalla ricostruzione del consulente tecnico dell’accusa relativa gli apporti ritenuti influenti , in relazione al verificarsi della situazione ,risulta oltre alla conferma del fatto che nel canale Lusore Brentelle  scaricavano senza alcun trattamento  le acque di processo del vecchio petrolchimico  quali  erano degli impianti del vecchio  petrolchimico  che sono andati scaricando nel canale Lusore – Brentelle: gli impianti cloro-soda avviati nel 1951 fermati nel 1972,che utilizzavano catodi di mercurio e anodi di grafite- ( con conseguente  inquinamento da mercurio  e da PCDD/F)

 gli impianti di produzione  del C. V .M . a partire dall’acetilene  e cioè il CV1 chiuso intorno al 1970

 gli impianti di produzione CV 10 chiusi nel 1981 –che utilizzavano un catalizzatore  a base di cloruro di mercurio, altri impianti attivi fino alla realizzazione dell’impianto chimico -fisico – biologico SG.31- avvenuta nel 1978- ad esempio l’impianto di produzione di acetilene da metano (ACI) con conseguente sversamento nel canale  di acque con presenza  di inquinanti ,tra cui IPA, altri impianti  fonti di inquinamento da PCDD/F,che scaricavano nel canale fino alla avviamento dell’impianto di strippaggio dei clorurati, il  CS 30, e cioè  fino al 1980.

 

 Viene  a questo punto ricordato  dal Collegio che solo a cominciare dal 1-3- 1980 diventano operativi i  parametri di accettabilità degli scarichi, essendo stata la normativa –legislazione speciale per la salvaguardia di Venezia  - prorogata fino a quella data  e che gli scarichi di provenienza del P erano da quella data muniti di impianti di trattamento operativi

Gli interventi  per il miglioramento delle condizioni ambientali  e di sicurezza di Porto Marghera furono effettuati  dopo il 72 tra il 73 ed il 75  e sono documentati da commesse di lavoro e da verbali di collaudo.

 In particolare ,dalla testimonianza  Mason, risulta che la vasca baricentrica  pertinente all’impianto di trattamento biologico delle acque reflue fu realizzata nel 1976- e non come sostenuto dall’accusa a meta degli anni 80.

 Dal 73 all’80 si realizza l’adeguamento di Montedison alla costruzione degli impianti di depurazione  richiesti dalla legge di Venezia.

Quanto ai risultati  ottenuti mediante l’impianto di trattamento biologico in un periodo antecedente   l’entrata in vigore delle tabelle del d. p .r 962/73 , non risulta,nè l’accusa lo prova che  se ne  potessero  ottenere di migliori

Con atto 2-5-1983 il Magistrato alle Acque attesta che le acque di scarico  provenienti dal gruppo Montedison risultano essere a norma delle prescrizioni del D.P.R n 962/73

 

 Sostiene l’accusa che il depuratore biologico poteva gia essere fatto negli anni cinquanta

 Consta che Montedison .verificò la tecnologia esistente in Italia e che  non trovando impianti biologici industriali  per grosse dimensioni e  si  rivolse  all’estero ,in Germania

 Nella motivazione delle sentenza segue a questo punto un elenco dettagliato degli interventi eseguiti, commessa per commessa, con indicazione  per ciascuno  della data di realizzazione o di collaudo  o di messa in esercizio

 

  Il caso particolare della gestione del catabolismo del mercurio

 È certamente presente tale tipo di inquinamento  nel canale Lusore –Brentelle,  non c’è però, come per gli altri inquinanti, informazione adeguata sull’andamento delle contaminazione nel tempo.

 Risulta invece che  la Montedison realizzava tra il 1973 ed il 1981 in adempimento agli obblighi della legge speciale l’impianto di demercurizzazione entrato in esercizio nell’anno 1976 e collaudato nel 1982. La contestazione riguarda la scelta della Montedison . di realizzare negli anni dal 1971 in poi un impianto di cloro soda a celle di mercurio

 Consta pero che all’epoca dei fatti le solo tipologie di celle applicate industrialmente nella produzione del cloro e della soda erano a diaframma e a catodo di mercurio , mentre impianti  con celle a membrana- meno inquinanti  non erano ancora  stati realizzati ed erano invece  a livello progettuale , fino al 1978 in corso di perfezionamento , mentre nel 1981 ci sono  impianti sperimentali.

 

 Risulta conclusivamente provato che la nuova tecnologia delle celle a membrana si dovette perfezionare nel corso dei primi anni ottanta .

Negli Usa il primo impianto per la produzione del cloro con celle a membrana è del 1983.

Gli impianti di cui si controverte entrarono in funzione nel 1971.

Anche negli anni 80 la maggior parte degli impianti utilizzava celle a mercurio o diaframma a base di amianto.

 La realizzazione dell’impianto di demercurizzazione  ha consentito di ridurre le immissione di mercurio  in laguna  ad un microgrammo litro 0,001mg/l nei limiti della  legge speciale.

 

 La data di costruzione dell’impianto predetto collaudato solo nell’82 , risulta con certezza essere quella di molto antecedente,e cioè del 1974, e la sua entrata in funzione risale al 1976

 Ne consegue la infondatezza di tutti  i relativi addebiti  di colpa pertinenti all’uso del mercurio e alla realizzazione tardiva dell’impianto.

 Rileva il collegio come non venga individuata dall’accusa ,quando vengono sollevate critiche alla condotta di gestione del catabolismo nella acque ,la norma agendi che  sarebbe stata violata .

 Quando gli addebiti di colpa si specificano prendendo forma in proposizioni  verificabili viene in considerazione la loro infondatezza.

 

 Il generico riferimento alla migliore tecnologia possibile  da parte dell’accusa , non specifica mai che cosa concretamente gli imputati avrebbero dovuto fare , nelle condizioni rilevanti all’epoca di assunzione del potere di gestione da parte loro, per prevenire   il supposto evento di danno e quando l’addebito si specifica  risulta infondato.

Dirimente al di al della chiara infondatezza degli addebiti è comunque la inverificabilità di una relazione tra la condotta degli imputati ed un eventuale aggravamento dello stato di contaminazione  preesistente alla loro entrata in scena.

 Va ancora rilevato come secondo la tesi della accusa il disastro innominato  che presuppone un pericolo per la incolumità pubblica  deriverebbe dall’inquinamento del biota in quanto l’inquinamento dei sedimenti dei canali non sarebbe pericoloso se non lo fossero gli asseriti effetti –in termini di avvelenamento e adulterazione dell’ittiofauna su di essi vivente.

 

 Ed accertata la infondatezza delle accuse di avvelenamento e adulterazione  di acque e sostanze destinate alla alimentazione  viene di conseguenza esclusa anche la fondatezza della imputazione di disastro , che si caratterizza come matrice degli insussistenti pericoli alimentari

 La prova negativa della pericolosità della ittiofauna e cioè della fonte immediata del supposto pericolo per la salute pubblica ,costituisce prova che nessun pericolo  per la incolumità pubblica può   essere ricollegato   alle cause mediate ( stato dei sedimenti e della acque) .

 

II parte -appello del P.M.

Capitolo 3.8

Critica alla selezione dei dati di fatto da parte del Tribunale

( Capitoli n 3 e 4 della sentenza )

Le consulenze tecniche del P.M.

L’accertamento del laboratorio M. P. U. di Berlino

3.8.1 Rapporto tra la prima  e la seconda zona industriale 

 

 La tesi difensiva fatta propria dal Tribunale secondo cui l’inquinamento dei canali industriali sarebbe la conseguenza  dell’utilizzo  dei rifiuti provenenti dalla prima zona industriale per l’imbonimento della seconda  zona ,in cui vennero poi realizzati gli impianti del PETROLCHIMICO,risulta fondata sulla diversità delle impronte della diossina  cosiddette “vecchie”(  relative alla prima zona industriale , con OCDF in quantità maggiore  dei OCDD , ma con percentuali rispettive di 50 /60 % per OCDF e 10-20% per OCDD ) rispetto a quelle  “recenti” del Petrolchimico ( prevalenza assoluta di OCDF = 80-90%).

Si è contestata in aula da parte della accusa  la ricostruzione cronologica delle carote , rilevando che entrambe le impronte venivano prodotte  nei diversi impianti relativi al ciclo del cloro ,e  rilevando  altresì che anche  i rifiuti,  prodotti nella seconda zona industriale, sono rimasti in questa zona sotto forma di discarica, circostanza questa che dimostrava la inconsistenza della tesi difensiva , basata sulla analisi dei campioni ( da E1 a E6) ,raccolti ai bordi della seconda zona  industriale, che avrebbero dimostrato trattarsi di fanghi rossi vecchi inquinati da diossina  ,  mentre invece si trattava  di campioni misti e molto spesso di rifiuti anche della seconda zona industriale

 L’accusa evidenzia anche che gli stessi rifiuti erano stati spostati, dalla seconda alla prima zona, quando erano stati scavati i canali Brentelle , Industriale nord e Industriale ovest con camion  ,dato che solo una parte poteva essere bruciata nel termocombustore, e che  inoltre i rifiuti erano stati continuamente rimaneggiati dalle maree.

 

A supporto dell’’accusa vi sono i seguenti documenti:

1)mappe che dimostrano come negli anni 40 e 50 gran parte della  seconda zona  industriale fosse stata gia bonificata con ampi spazi agricoli

2) foto di discariche all’interno della seconda zona industriale  formatasi  prima del 1970 fino alla fine degli anni 80

3) dragaggio del canale Brentella e del canale industriale nord  attorno al 1960 ciò che comporta la deposizione dei fanghi inquinati in un periodo successivo

4) le barene campionate a S Erasmo e a Fusina  hanno la concentrazione massima della asserita impronta della prima zona industriale in strati, che la stessa difesa dice corrispondere agli anni 60-80 e questo vuol dire che erano emissioni della seconda zona industriale,  che possono essere arrivate là solo attraverso l’atmosfera; non è infatti possibile che rifiuti solidi come quelli che sarebbero stati prodotti con quella impronta prima del 1940,si siano potuti ridistribuire sulle barene a quella distanze. 

5) anche attualmente il ciclo di lavorazione DCE – PVC - CVM  produce non uno solo ma almeno due se non più,diversi tipi  di impronta  e ciò a confutazione della teoria delle due impronte diverse, prodotte in tempi diversi come emerge dalle seguenti risultanze  :

 esiste un data base di analisi interne  di acqua ,camini  e fanghi con impronte diverse  tra loro ,tra cui quella cosiddetta vecchia ; la bibliografia di Carroll  presenta entrambe le impronte da dati di produzione del CVM/CDE; i dati delle esposizioni atmosferiche ,che hanno entrambe le impronte in campioni raccolti in tempi recenti  ,in particolare  nella stazione di Dogaletto a 4 km SW   del Petrolchimico ; sia i suoli che le barene hanno tutti e due i tipi di impronta ;

 

3.8.2 peci clorurate  (prodotte dai vari impianti ) fanghi rossi e pirite  -supposte fonti della contaminazione da diossine

Il collegio sposa la tesi secondo cui dal 1972 le peci clorurate  furono tutte inviate  a trattamento nell’impianto CS 28 ed invece il CS 28 bruciava solo peci liquide  e peraltro era insufficiente .

Le peci solide hanno invece continuato ad essere smaltite fuori dello stabilimento  nelle tuttora esistenti discariche Dogaletto ,Moranzani  e Macchinon

 Il documento del magistrato alle acque conferma la possibilità di scarico con camion e bettoline delle peci clorurate, nonché la possibilità che –riscaldate- le peci  perdano i clorurati e quindi sia possibile trovare diossine senza i clorurati.

 Le difese degli imputati sostengono invece che contenevano diossine anche le produzioni della prima zona industriale  quali: quelle del magnesio ,della decuprazione di ceneri di pirite e dei fanghi rossi.

 Ma la affermazione si basa su dati contraddittori :alcuni dei campioni sono stati raccolti dai consulenti tecnici della difesa  dove gia nel 1944 esistevano campi coltivati;la correlazione diossina /AS (ceneri di pirite) e diossina /AI (fanghi rossi)viene smentita dai dati e dalle osservazioni che seguono; l’ Haglund, richiamato a sostegno dai consulenti tecnici degli imputati ,non produce  invece diossina

 

3.8.3 superamento dei livelli C e compromissione ambientale della laguna

Dal documento Mav -Aut- Portuale (1999) risulta che complessivamente il 35% dei campioni è superiore al livello C e il 43% si situa tra il livello B e il livello C.

 Per le diossine ,da tale documento risulta che oltre il 65% dei campioni è eguale o superiore al limite C.

Il confronto dei valori con linee guida internazionali  dimostra la possibilità di effetti avversi su organismi marini

 

 3.8.4 Dati e audizioni del dr VIGHI CT ENICHEM

La critica principale riguarda il fatto che il consulente  delle difesa  non spiega come ha eseguito la PCA(analisi componenti principali)  e seleziona dei dati ,senza spiegare i criteri di selezione ,  e seleziona anche figure , facendone veder alcune  e  non altre che dimostrerebbero il contrario

 Passando ad una analisi piu specifica osserva il P.M, con riferimento a quanto indicato nella sentenza a pagina 516 e 517 - dove si dice che i canali  Industriale sud e canale Malamocco  Marghera  sono stati scavati nella massa di materiali di riporto e cioè dei rifiuti provenienti dalla  prima zona- che dalle foto aeree si vede che in  tuta la parte Ovest di quella che sarà la seconda zona industriale   c’erano gia nel 1944 campi coltivati e che anche la parte sud era gia colmata , quindi nessuna di queste aree poteva  essere  colmata con rifiuti industriali,    vi poteva essere scavato il Canale industriale Sud ,che è invece stato per la maggior parte scavato in terreno gi agricolo.

Le uniche zone di conseguenza che possono essere state bonificate anche con rifiuti industriali della prima zona sono quelle  ancora arenicole nel 1955  e cioè la parte più orientale dell’area attualmente  compresa tra il  Canale industriale ovest e il Canale Industriale Sud.

 

 Con riferimento a quanto indicato o a pagina 556 dove si sostiene che le pratiche di smaltimento dei rifiuti sono state poste in essere nel rispetto della normativa vigente D.P.R. 915/1982 ed a quanto indicato a  pagina 547, dove si sostiene che l’accusa non ha considerato l’apporto inquinante dei rifiuti della prima zona industriale usati per l’imbonimento della seconda zona , ribadisce il P.M che ,a parte ogni riserva circa la pretesa assenza di normative  in materia di gestione dei rifiuti prima del 1982 , come risulta dalla cartografia,  gia nel 1944 buona parte di quella che diventerà poi la seconda  zona  industriale  era coltivata , e questo vuol dire che quelle aree non sono state  bonificate  con i rifiuti della prima zona industriale  essendo state  bonificate molti anni prima .

 Sono quindi i residui della seconda zona industriale ad avere formato le discariche  dentro alla stessa  e sono i residui della seconda zona industriale ,che sono stati campionati nelle varie consulenza tecniche  del PM

 

 Ne consegue il rovesciamento di tutte le conseguenze ambientali e della cronologia dell’inquinamento della laguna.

Con riferimento a quanto indicato a pagina 581 e 594 – laddove si critica la scelta da parte del consulente tecnico della difesa di S Erasmo come luogo di confronto - si ritiene invece che sia  corretta la scelta del  consulente del PM. di utilizzare S Erasmo ,come luogo di confronto, trattandosi  di un punto non privo di antropizzazione,  bensì di luogo con impatto antropico continuo ma a bassissimo impatto industriale .

 Ne consegue che   tutti i confronti fatti tra sedimento e pescato della zona industriale con S.Erasmo sono corretti.

 Con riferimento a quanto indicato a pagina  602 –laddove si addebita  alla accusa di non avere fatto alcuna indagine per verificare  i tempi a cui far risalire l’inquinamento per accertarne eventuale peggioramenti nei  periodi di gestione degli imputati – si rileva come al  contrario sia  sempre l’accusa, che cerca di ristabilire una cronologia reale ,contestando ad esempio al consulente della difesa proprio il fatto che nella carota C11, unica carota per cui esisterebbe una buona cronologia, gli ultimi tre campioni (quelli  piu vicini alla superficie ,corrispondenti  all’incirca al periodo 1995-1998) mostrano un aumento di OCDF caratterizzati  dalla impronta che anche la difesa ascrive  alle produzioni di CVM.

Circostanza questa che dimostra in modo inequivoco l’aggravamento dello stato di contaminazione preesistente .

 

Con riferimento a quanto indicato a pagina  607 e 608- laddove si commentano i dati della relazione del dott. Raccanelli rileva  l’accusa come si  tralasci volutamente da parte dei consulenti della difesa  la PCA( analisi statistica delle componenti principali) e ci si  limiti a commentare il confronto dei profili tramite gli istogrammi .

Dopo avere fatto il confronto visivo il consulente  dell’accusa invece presenta e una analisi statistica  delle componenti principali - detta PCA- relative ai sedimenti superficiali dei canali industriali, lagunari della città  di Venezia , dei fanghi, dei pozzetti Enichem  , degli scarichi dei depuratori civili.

 

 La PCA viene presentata con i dati acquisiti dal 92 al 99 e viene evidenziato che i primi 3 fattori spiegano il 76% della variabilità , e dimostrano  che i campioni dei canali industriali,dei pozzetti e di letteratura relativi alla produzione del cloro sono accomunati dalla medesima  impronta .

 Al contrario i campioni dei sedimenti dei canali di Venezia , della laguna distanti dalla zona industriale sono differenziati e vicini alla impronta degli scarichi civili

Anche con i dati forniti dalla difesa i primi 3 fattori spiegano il 77% della variabilità

 Anche in questo caso risulta evidente l’impronta del cloro che accomuna i dati dei pozzetti Enichem e dei sedimenti lagunari nelle vicinanze del PETROLCHIMICO, mentre gli altri campioni di sedimenti lontani dalla zona industriale sono differenziati e vicini alla impronta degli scarichi civili

 In conclusione l’analisi statistica dimostra la correlazione tra l’impronta reale  esistente  all’interno del Petrolchimico  e le impronte rilevate nei canali industriali attorno al Petrolchimico  e nei sedimenti superficiali lagunari nelle vicinanze dello stesso

 L’impronta è reale  ed è dovuta alle diverse produzioni del ciclo del cloro

 

 Con riferimento a quando indicato a pag.609 –laddove  si  attribuisce alla accusa di avere affermato che la matrice della contaminazione di tutta l’area industriale deve essere individuata nel catabolismo del  Petrolchimico – si osserva come  l’accusa non ha mai sostenuto una tale tesi.

L’accusa non sostiene che la matrice delle contaminazione sia solo il catabolismo del petrolchimico, ma che la fonte prevalente della contaminazione, per quanto riguarda le diossine, è sicuramente il Petrolchimico e in particolare gli impianti contestati nei capi di accusa con rifiuti (gas aria acqua) che sono caratterizzati da impronte molto simili ,anche se non del tutto eguali con il passare del tempo.

 Queste impronte definite impronte del cloro presentano evidentissime differenze rispetto alle impronte di altra origine  (depuratori ,deieizioni umane eccettera ) e per questo, quelle rilevate a seguito di analisi  chimiche effettuate dai consulenti  si fanno risalire alla lavorazione del cloro.

 

Segue quindi nell’atto d’appello la riproduzione grafica delle tabelle relative alle analisi delle componenti principali (pagine 1301 e 1302).

Con riferimento a quanto indicato a-pagina 625- laddove si ritiene che i prelievi effettuati nei pozzetti dal consulente della accusa non siano rappresentativi, non essendo transitate nei pozzetti  acque  reflue di processo diverse da quelle di lavaggio, anche quando gli impianti erano in funzione, si osserva come il tribunale, condivida  una  tesi difensiva, che non può essere vera , perchè , se cosi fosse, non si giustificherebbe la alta concentrazione di PCDD/F trovata nei fanghi depositati all’interno dei pozzetti.

 Evidentemente nelle acque fognarie e non solo nel canale Lusore Brentelle scaricavano direttamente le acque di processo, senza trattamento, attraverso i vari scarichi  a cui  erano collegate.

 Con riferimento a quanto indicato a pagina- 629 - laddove si sostiene che le impronte di diossine rilevate  nei pozzetti non avrebbero  una caratteristica loro propria ,essendo costituite da mescolanze eterogenee -si osserva come  è la stessa accusa a sostenere  la parziale  diversità delle impronte,  dovute alle diverse produzioni  di clorurati  e ai diversi cicli utilizzati  pur nella costanza del rapporto tra PCDD/F.

 

 Sbaglia la difesa anche quando sostiene la diversità delle impronte della prima zona industriale rispetto a quella della seconda zona , mentre invece la eterogeneità  dipende dall’insieme di diverse produzioni ,che hanno portato alla formazione della impronta che si rileva nei canali industriali attorno al petrolchimico  e nei sedimenti lagunari limitrofi.

 Mediando le impronte dei fanghi dei pozzetti prelevati da Arpav(PP) Enichem( PE) Chelab(PC)  si ottiene l’impronta che è perfettamente sovrapponibile  a quella dei fanghi rossi .

 Con riferimento a quando indicato a pag-631-  laddove si sostiene che i composti organo alogenati che si trovano  nel canale Lusore –Brentelle sono stati trovati in tutti i pozzetti esaminati ,  mentre diversamente nel Canale Bretella (prima zona industriale)  non risulta che tali sostanze  siano state rilevate  in quantità significative . risulta utile, con riferimento  a questi rilievi, piu di ogni altro commento, seguire la descrizione del processo  relativo alle peci.

 

Tra il materiale agli atti raccolto dal Consorzio Venezia Nuova, relativamente  alle produzioni di solidi e semisolidi , la scheda n 40( pagina 95 del documento)  riporta  dati relativi al reparti di produzione del dicloroetano ( impianto DL2 )

 In particolare risulta che le peci venivano stoccate in serbatoi  Kettle e trasferite in fusti e quindi al forno speciale  o che altrimenti solidificavano nei fusti .

Ed è proprio a causa del riscaldamento  nei Kettle che i composti clorurati volatili –(cioè con temperatura di ebollizione relativamente bassa)   sono evaporati dalle peci e si sono dispersi nella atmosfera.

Ed è questa la ragione per cui nel canale Brentella si trovano solo le diossine  e non gli altri composti clorurati.

I livelli di concentrazione delle diossine  nel canale Brentella   corrispondono a quelli attualmente  giacenti all’interno dei serbatoi del Petrolchimico  , trattasi di quei materiali che oggi vengono inceneriti nei forni e che ,nel passato, sono stati disseminati in laguna compreso il canale Bretella caratterizzando con tale impronta della diossina i sedimenti dell’area industriale.

 

Esame dai dati forniti dal dr Vighi

 Con riferimento al grafico riportato a pagina 638  della sentenza ed alla motivazione relativa  ai criteri seguiti dalla difesa sul punto ,osserva il P .M come non sia possibile controllare la elaborazione del dr Vighi , perché non è spiegato quali siano in congeneri utilizzati, né il perché della esclusione di alcuni campioni e come in ogni caso la spiegazione fornita non sia adeguata potendosi utilizzare anche i campioni esclusi.

 Nella  sentenza  si afferma  ancora  a pagina 639-640 che i campioni raccolti  nei canali della prima zona industriale sono diversi da quelli raccolti nella seconda zona , ma su tale circostanza  l’accusa non ha alcuna obiezione da fare  perché la circostanza è evidente, si contesta però che tale differenza  voglia significare diversa origine temporale  e industriale  della diossina .

 

Con una figura riportata a pagina  640 della sentenza e a pagina 1310  dell’atto d’appello  il dr Vighi mette in evidenza le differenze ,interpretando però i dati inspiegabilmente , secondo  un piano  obliquo,  e non secondo, come si dovrebbe fare, quello degli assi della ascisse e delle ordinate

Il P M riporta quindi nella pagina successiva una figura appartenente all’elaborato dello stesso consulente, ma che il medesimo non ha mostrato ,perché altrimenti diverse  ed in senso contrario avrebbero dovuto essere le sue conclusioni .