A cura di SLAI COBAS – sindacato di classe – provinciale VENEZIA, ed.12-12-2006
GLI ATTI PUBBLICI SONO DELLE MASSE NON PRIVATI !

Petrolchimico: la sentenza del 15.12.2004 della corte d’appello di Venezia

 

Gli imputati  (OMISSIS) Peraltro bel noti al proletariato

 

                  FATTO E DIRITTO

 

Con sentenza in data 2/11/2001 del Tribunale di Venezia, gli imputati venivano assolti, nei termini in epigrafe riportati, in ordine ai reati ascritti in rubrica.

 

Circa il primo capo d’imputazione, ricordava il predetto giudice in premessa della sentenza che, così come già esposto dal P.M. nella sua esposizione introduttiva illustrata all'udienza del 29 maggio 1998, le indagini avevano preso avvio a seguito di un esposto presentato da Gabriele Bortolozzo componente del comitato di redazione della rivista Medicina Democratica, che segnalava la produzione presso il petrolchimico di Porto Marghera di una sostanza chimica denominata CVM riconosciuta cancerogena dalla organizzazione mondiale della sanità (OMS) e dalla Comunità Economica Europea che aveva provocato la morte per tumore di 120 lavoratori, addetti alla lavorazione nella filiera del cloro, che indicava nominativamente. Un altro esposto era stato trasmesso all'autorità giudiziaria dallo stesso Bortolozzo  in data 6/5/1985 in cui già allora denunciava il pericolo  derivante dalla esposizione al  cloruro di polivinile, ma che non aveva dato seguito a nessuna indagine e di cui era stata disposta la archiviazione.

 

Dai primi elementi raccolti e da una consulenza orientativa affidata al professor Carnevale risultava che  37  dei 120 lavoratori segnalati dal Bortolozzo erano affetti da patologie correlate alla esposizione al CVM-PVC. Si sviluppava allora un’ampia attività di indagine con acquisizione della documentazione scientifica in materia ed espletamento di specifici accertamenti, pervenendo il P.M. alla conclusione che sulla base degli esaminati studi sperimentali ed accertamenti medici effettuati  nelle industrie di lavorazione  di tali sostanze, sarebbe risultato che i primi sospetti di tossicità risalivano agli anni '40 e '50 e che  la cancerogenità era stata segnalata  per la prima volta dal dottore Gian Luigi Viola, medico di fabbrica della industria Solvay di Rosignano, nel 1969.e confermata dagli studi  sperimentali che la Montedison  affidò al professor Cesare Maltoni, noto  oncologo, i cui primi risultati furono comunicati ai committenti nel 1972 e alla comunità scientifica nel l974, quando oramai era stata data notizia della morte di lavoratori addetti alla produzione di CVM  dipendenti della società statunitense Goodrich per angiosarcoma epatico, identico tumore individuato dal professor Maltoni nei suoi esperimenti sui  ratti. Sia in America che in Italia si rivalutarono alloro le patologie tumorali di taluni lavoratori nel frattempo deceduti che vennero riclassificati come angiosarcomi epatici, rara forma tumorale che venne associata alla esposizione al c v m.

 

Tale esposizione venne altresì correlata dalla agenzia per il cancro (IARC) nelle monografie pubblicate nel 1974, 1979, 1987, ai tumori al fegato, ai polmoni, all'encefalo, e al sistema emolinfopoietico, individuando evidenze anche per  i tumori della laringe in particolare per i lavoratori addetti all'insacco del PVC che erano, insieme agli autoclavisti, i più esposti al cvm. Pur a fronte di tali evidenze, secondo il P.M., e nonostante le pressioni sindacali, protrattesi fino  al 1977, che ebbero come risultato l'indagine dell‘Istituto di Medicina del Lavoro di Padova e che invocavano una drastica riduzione della concentrazione del c v m negli ambienti di lavoro, la Montedison non operò quegli interventi sugli impianti necessari a raggiungere tale obiettivo, anche approfittando della crisi economica che indusse il sindacato alla moderazione sui temi della nocività  e della salute a fronte del ricatto occupazionale .

 

 Né le successive vicende societarie, che porteranno nel 1987 Enichem a subentrare a Montedison nella gestione degli impianti di produzione del c v m, determinarono sostanziali mutamenti . Si sosteneva in particolare che i risultati degli accertamenti disposti sui sistemi di controllo per monitorare l'ambiente di lavoro, attuati dall’azienda mediante la installazione dei gascromatografi monoterminali, avevano evidenziato la loro inadeguatezza e inaffidabilità, poiché era risultato possibile alterare i dati con assoluta facilità, sicché l'abbattimento dei valori di concentrazione che appariva dai tabulati di tali apparecchiature era da considerarsi fittizio, non essendo neppure giustificato dagli interventi effettuati sugli impianti ritenuti del tutto insufficienti e inadeguati.

E così, nel primo capo di imputazione vengono contestati i reati di lesioni e di omicidio colposo plurimi anche come conseguenza della omissione dolosa di cautele e di dispositivi diretti a prevenire il verificarsi  di eventi lesivi o di danno dei singoli lavoratori  esposti alla produzione del CVM - PVC (art. 437 co2 c p) nonché il reato di disastro innominato (art. 434 co2 e 449 c p) per la gravità, l'estensione e la diffusività del pericolo per la pubblica incolumità e, in particolare, per la vita e l'integrità fisica della collettività operaia del petrolchimico. Veniva altresì contestato il delitto di strage colposa che secondo l’accusa doveva ritenersi punito dall'articolo 449 in riferimento all'articolo 422 codice penale. Si attribuiva in particolare rilevanza unitaria a condotte protrattesi per circa trent'anni (dal 1969 al 2000), mediante la contestazione della cooperazione colposa tra gli imputati che avevano ricoperto posizioni di garanzia e altresì mediante la contestazione della continuazione.

 

L’ ipotesi accusatoria sceglieva quindi un modello unitario di qualificazione della fattispecie concorsuale nella forma colposa ex art.113 cp, ponendosi quindi l’obbiettivo di dimostrare non solo che tra gli imputati vi era piena e reciproca consapevolezza di condotte inosservanti i precetti volti a prevenire gli eventi tipici, ma altresì che gli effetti penalmente rilevanti delle proprie condotte si ricollegavano a quelli causati dalle condotte di chi precedentemente aveva rivestito un ruolo di garanzia, nel comune perseguimento di un medesimo disegno criminoso che portava alla con contestazione della continuazione (interna ed esterna) tra tutti i reati, assumendosi che “il disastro è unico e riguarda sia il primo che il secondo capo di accusa in quanto l’attività di industria ha esplicato i suoi effetti dannosi sia all’interno che all’esterno della fabbrica”, e con addebito agli imputati della previsione dell’evento ex art. 61 n°3 cp.

 

A fronte di tale generale quadro di accusa, le difese degli imputati, sempre come ricordato dal Tribunale, ponevano in rilievo che successivamente alla pubblicazione delle monografie di IARC del 1978 e del 1987 era stata pubblicata nel 1991 da Simonato e altri , sempre nell’ambito di detta Agenzia, uno studio multicentrico europeo i cui risultati epidemiologici differivano dalle precedenti indicazioni cui aveva fatto riferimento il PM e concludevano affermando che l'ipotesi relativa agli effetti cancerogeni sul polmone, sul cervello e sul sistema emolinfopoietico non risultava confermata. Precisavano ulteriormente le difese che sia l'organizzazione mondiale della sanità che la commissione europea avevano concluso che l'unico organo bersaglio del c v m è il fegato e l'unico tumore associabile all'esposizione a tale sostanza è l' angiosarcoma epatico.

 

Anche per i tumori al polmone associati ad esposizione al PVC, cui in particolare erano interessati gli insaccatori, i risultati degli studi e cui si era riferito il pubblico ministero non sarebbero stati confermati da studi successivi. Si contestava comunque che gli studi epidemiologici cui aveva fatto riferimento prevalentemente il pubblico ministero fossero sufficienti all'accertamento del nesso di causalità che necessitava di una legge di copertura scientifica universale o di elevata significatività statistica.

 

Si sosteneva infine che, allorquando ebbe a manifestarsi la cancerogenità e tossicità del CVM,  tra la fine del 1973 e gli inizi del 1974, gli impianti ebbero a subire urgenti e rilevanti  modifiche. Si concludeva affermando che proprio i risultati di tali interventi determinarono sin dal 1974 una drastica riduzione delle concentrazioni: dai 500 ppm degli anni 50- 60 sino raggiungere nel 1975 concentrazioni al di sotto del valore soglia : dapprima fissato in 50 ppm e successivamente stabilito in 3 ppm  con DPR n° 962 del 1982 .

 

Concentrazioni che risultavano documentate dai bollettini di analisi e dai tabulati dei gascromatografi installati in quell'anno (1975) la cui affidabilità era confermata anche dai  dati rilevati nei mesi precedenti mediante i misuratori personali che indicavano un trend in progressiva diminuzione. La configurazione della imputazione ha poi indotto le difese a individuarne le caratteristiche in una sorta di “massificazione delle condotte”, espresse in termini impersonali e cronologicamente indifferenziati, che “si compattano attraverso meccanismi di accumulo, concentrazione e sovrapposizione in guisa tale da far emergere non singoli, specifici comportamenti ascrivibili a questo o a quel soggetto, ma a una sorta di politica di impresa riferibile all’ente societario in quanto tale”.

 

Questi, puntualizzava il Tribunale, i temi dibattuti nel corso della lunga istruttoria dibattimentale, durante la quale, relativamente al 1° capo di imputazione, sono stati sentiti numerosi consulenti introdotti dalle parti processuali, esperti non solo in epidemiologia e in medicina legale, ma altresì in biologia, in genetica molecolare, in tossicologia, in chimica industriale, in ingegneria impiantistica; inoltre sono stati escussi numerosi testi in particolare sulle condizioni ambientali dei luoghi di lavoro, sulle modificazioni  impiantistiche  intervenute e sui risultati ottenuti.

 

Il Tribunale, nell’affrontare le problematiche poste dal primo capo di imputazione, ha ritenuto di trattare separatamente, pur a fronte di condotte casualmente orientate, il problema del nesso di condizionamento tra le condotte e gli eventi contestati e gli addebiti di colpa rimproverati, occupandosi preliminarmente dell'accertamento del nesso causale tra esposizione a CVM-PVC e l'insorgenza delle malattie e dei tumori agli organi o apparati che sono stati individuati come  " il bersaglio " di tali sostanze.

 

Si è soffermato quindi sulle caratteristiche chimiche e tossiche e cancerogene del CVM-PVC, ritenendo che, sulla scorta dell’evidenza probatoria e valutati gli studi e conoscenze scientifiche che negli anni si erano sviluppate, all'inizio della produzione industriale del PVC, mediante  la polimerizzazione del monomero, la principale preoccupazione  che si nutriva era legata alla idoneità della sostanza gassosa di causare miscele esplosive con l'aria a concentrazioni di circa 30.000 ppm; per contro era  considerato scarsamente tossico tanto che fu impiegato  come gas anestetico ed utilizzato come propellente per spray fino ai primi anni '70, e che in tale contesto di conoscenze furono condotti i primi studi sulla tossicità del cvm che ebbero attenzione agli effetti conseguenti ad esposizioni a dosi molto elevate. Analiticamente quindi si soffermava su quelle che erano le conoscenze scientifiche degli anni ‘60 – ’70, richiamando già i primi studi negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi gli studi in Europa  -Mastromatteo e altri 1960, Torkelson 1961, Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi sugli gli studi di VIOLA e MALTONI.

 

Pier Luigi Viola era un medico di fabbrica della Solvay di Rosignano, che presentò nel 1969 a Tokyo, nell'ambito di un congresso di medici del lavoro, i dati relativi ad una sperimentazione sugli animali in cui aveva individuato lesioni polmonari, emorragia addominale, lesioni al cervello, fegato ingrossato, lesioni osteolitiche e alterazioni degenerative del tessuto connettivo; lesioni di uguale  genere vennero osservate in ratti esposti a 30.000 ppm per 12 mesi in un successivo studio realizzato con il prof. Caputo dell'Istituto Regina Elena di Roma. Tali studi di Viola sugli animali erano stati provocati dalla osservazione sui lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi di casi di osteolisi e di alterazioni vascolari alle estremità, tipiche del fenomeno di Raynaud, dato emergente dal rapporto  Suciu e altri pubblicato nel 1967 dopo che già a metà degli anni sessanta erano state accertate e pubblicizzate insorgenze nelle fabbriche americane di Sindromi di Raynaud e acrosteolisi causate dal contatto con la sostanza.

 

A parte tali patologie, riteneva però il Trtibunale che detti studi ancora non acclarassero scientificamente la cancerogenità per l’uomo del cvm-PVC, cui si pervenne solo a seguito degli studi del prof. Maltoni incaricato proprio da Montedison dopo l’allarme lanciato da Viola, ed a seguito dell’accertamento, nel gennaio 1974, presso la Goodrich Company di tre casi di angiosarcomi in operai addetti alla produzione del cvm, e, nei mesi successivi, di altri casi presso altre industrie americane.

 

La valutazione degli studi e diffusione delle conoscenze scientifiche in quegli anni (1970-1974), e delle testimonianze sul punto, porta il Tribunale a ritenere:

1) che determinanti per la conoscenza della cancerogenità furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola reputati inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e nei polmoni e non già angiosarcomi);

2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60 avevano provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi di acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola era stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che sollecitò l'approfondimento affidato a Maltoni;

3) che i dati degli esperimenti di Maltoni circolarono tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu  altresì autorizzato a visitare il laboratorio di Maltoni e a controllare i protocolli sperimentali;

4) che i risultati, ancorché parziali, furono comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza  e si ridussero alla fine in una moratoria di 15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei risultati alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich evidenziasse i primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti deceduti;

5) che già si poneva al centro dell'attenzione la individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le imprese dovevano adeguarsi (Maltoni in udienza ha precisato questo aspetto, affermando che in un processo stocastico quale è la cancerogenesi teoricamente una soglia biologicamente accettabile non esiste anche se può essere ricercata una soglia socialmente accettabile).

 

Tali elementi, secondo il Tribunale, smentivano altresì la tesi del P.M. del patto di segretezza tra le industrie del settore in ordine alla diffusione della notizia della cancerogenità del cvm, patto che non avrebbe in realtà avuto la finalità di occultare i dati della ricerca, ma era piuttosto finalizzato ad un reciproco controllo tra le imprese interessate in ordine alla pubblicizzazione dei dati per evitare il rischio di essere posti fuori mercato o comunque di ritrovarsi in gravi difficoltà operative a seguito di iniziative unilaterali e non concordate.

E comunque la clausola di riservatezza  sarebbe rimasta di fatto inosservata come risulterebbe inequivocabilmente dagli avvenimenti, oltre che dalle documentate e riscontrate dichiarazioni di Maltoni, posto che lo stesso diffuse pubblicamente i risultati delle sue ricerche nel convegno di Bologna tenutosi nell'aprile del 1973 di cui furono partecipi la comunità scientifica e le pubbliche istituzioni.

 

Osserva dunque il Tribunale come dal 1974 ha inizio un’ampia revisione delle diagnosi  per decessi di lavoratori dell’industria di polimerizzazione con tumore al fegato e vengono accertati casi di angiosarcoma che per la sua rarità era anche di difficile identificazione. A tal punto resterebbe acclarato che: il cvm è oncogeno per l’uomo, onde gli interventi delle Agenzie (EPA, WHO, ACGH, IARC che classificano appunto il CVM come sostanza cancerogena per l'uomo e la inseriscono in categoria 1) e la fissazione di limiti di esposizione lavorativa richiamati in sentenza.

 

In particolare, ricorda il Tribunale come in Italia, dove i contratti collettivi di lavoro erano soliti recepire i valori indicati dalla A.C.G.I.H. (America Conference Governemental Industrial Hygienists) - che sino a tutto il 1974 mantiene un valore di 200 ppm come media giornaliera - nel contratto collettivo di data 12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in quello successivo del 31 ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi il valore di 200 ppm come valore limite di soglia riferito alla media delle concentrazioni per una giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40 ore e tale valore viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17 aprile 1976 anche se la definizione di un valore adeguato alla accertata cancerogenità per l'uomo è in corso di individuazione .

 

Solo con il contratto collettivo del 23 luglio 1979  il limite di soglia TLV-TWA viene fissato in 5 ppm . Tale valore è definito come la “concentrazione media ponderale in una normale giornata lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40 ore, a cui praticamente tutti i lavoratori possono essere ripetutamente esposti, giorno dopo giorno, senza effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro del Lavoro nell'aprile del 1974- su proposta e sollecitazione del prof Maltoni- aveva emanato una raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL come valore di riferimento tendenziale. E solo con la direttiva CEE n° 610/78  recepita con DPR n°962/82 i valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.

 

Passa quindi in rassegna il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali in materia e la loro valutazione scientifica in primo della IARC cui hanno fatto principalmente riferimento i consulenti del P.M., ma poi attestandosi sui successivi studi epidemiologici che mettevano in discussione le comclusioni di IARC 1987.Si ricorda come IARC avesse effettuato tre diverse valutazioni della cancerogenità del CVM , nel 1974, nel 1979 e nel 1987 e tale sostanza è stata oggetto anche di rapporti interni  nel 1975 e nel 1989 e le conclusioni di ques’ultimo anticipano i risultati dello studio epidemiologico multicentrico europeo del 1991 coordinato dal dott. Simionato al quale, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, è sopravvenuto l'aggiornamento curato da Ward nel 2000 e di cui ha riferito in aula il dott . Boffetta che ne è coautore.

 

La monografia del 1974 prende in esame, ai fini della valutazione del rischio  cancerogeno nell'uomo, i risultati delle sperimentazioni di Maltoni  e di Viola cui si è già fatto riferimento. Riferisce che la prima associazione tra esposizione al c v m  e lo sviluppo del cancro  è stata avanzata da Creech e Jonnshon nel 1974 che avevano osservato tre casi di angiosarcoma del fegato in operai che lavoravano a contatto con questa sostanza (si tratta dei  lavoratori dellaGoodrich).

 Riferisce  inoltre che dall'esame dei registri medici e da una analisi del materiale patologico erano stati scoperti altri dieci  angiosarcomi in lavoratori addetti alla lavorazione del c v m e il tempo intercorso tra la prima esposizione e la diagnosi del tumore andava dai 12 ai 29 anni e la durata complessiva dell'attività aveva comportato una esposizione di 18 anni (Heath e altri 1974). Precisa inoltre che nello stesso stabilimento erano stati accertati 48 casi di malattie del fegato non maligni  in esposti mediamente da oltre vent'anni e che dalla biopsia era stata riscontrata una fibrosi portale e noduli della fibrosi subcapsulare.

Altri studi  avevano accertato, tra la metà e la fine degli anni ‘60 l'insorgere di  acrosteolisi generalmente localizzata nelle falangi distali delle mani negli addetti alla pulizia delle autoclavi. Nei lavoratori addetti a tali mansioni, i più esposti alle alte concentrazioni, in uno stabilimento per la produzione di PVC in Germania, sottoposti a test di funzionalità epatica e a esame istologico dei frammenti di biopsia epatica, è stata rilevata splenomegalia , epatomegalia  e fibrosi portale ovvero fibrosi della capsula del fegato . Sulla base di tali dati - che erano quelli conosciuti alla data del 26 giugno1974 - la valutazione dell'agenzia era la seguente: “considerata l'estrema rarità dell’angiosarcoma del fegato nella popolazione comune, il riscontro di 16 casi in lavoratori esposti al c v m prova che c'è una relazione causale".

 

In conclusione la prima valutazione sulla base dei pochi dati sperimentali e della scarsa casistica di osservazione sull'uomo indicava una relazione causale tra l'esposizione al c v m e l’angiosarcoma epatico e la presenza di  fibrosi portale e subcapsulare ; infine individuava  l‘insorgere di acrosteolisi nei lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi. 

 

La successiva monografia pubblicata nel febbraio del 1979, sulla base di ulteriori ricerche sperimentali e, in particolare, di studi epidemiologici, così concludeva per quanto riguarda i risultati sperimentali in topi, ratti e criceti: " il cloruro di vinile si rivelava cancerogeno in tutte e tre le specie e produceva tumori in vari siti compreso l’angiosarcoma del fegato...... È stata dimostrata la relazione dose –risposta”. Per quanto concerne l'uomo si affermava che " i vari studi tra loro indipendenti, ma i cui  risultati  si confermavano a vicenda, hanno dimostrato che l'esposizione al cloruro di vinile comporta un aumento del rischio cancerogeno negli umani riguardante il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico". 

 

Si concludeva pertanto per la cancerogenità del c v m per l'uomo indicando quali organi preferiti il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico. Per quanto riguarda l'effetto dose-risposta si affermava che "nonostante  dai gruppi di lavoratori esposti ad alte dosi di c v m si sia avuta la prova della cancerogenità del c v m per l'uomo, tuttavia non si ha la prova del fatto che esiste un livello di esposizione al di sotto del quale non si verifichi un incremento del rischio di cancro nell'uomo". Si affermava infine che gli studi esistenti sul p v c non erano sufficienti a stabilire la cancerogenità di tale composto.

 

Con la valutazione del 1987 si afferma che in un gran numero di studi gli epidemiologici hanno comprovato il rapporto causale esistente tra il cloruro di vinile e l'angiosarcoma del fegato . Numerosi studi inoltre confermano che l'esposizione al cloruro di vinile causa altre forme di cancro e cioè il carcinoma epatocellulare, tumori al cervello, tumori al polmone e tumori del sistema linfatico- ematopoietico. Si afferma inoltre che in uno studio (Waxvejler) l'esposizione alla polvere di PVC è stata associata  all'aumento della incidenza del tumore al polmone e gli autori hanno pensato  che il responsabile fosse il c v m intrappolato. 

Peraltro l'agenzia continua a classificare il PVC nel gruppo 3 per la inadeguata evidenza di cancerogenità sia per l'uomo che per gli animali da esperimento.

 

Osserva peraltro il Tribunale come tali conclusioni di IARC 1987, alle quali i consulenti medico-legali della accusa si sarebbero principalmente riferiti ai fini di ritenere le patologie discusse correlabili o meno con l'esposizione a  c v m o PVC, siano state poste in discussione  dagli studi epidemiologici successivi. In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999).

 

Nell’analizzare tali studi il tribunale ricorda come nel primo si fosse concluso che non sussiste alcuna associazione tra esposizione a cvm e i tre organi bersaglio diversi dal fegato (polmone, cervello, sistema linfatico), mentre per il cancro del fegato l’analisi basata sulle variabili temporali ha rivelato eccessi statisticamente rilevanti nel periodo di assunzione 1945 - 1954 e 1955- 1964 mentre è stata osservata una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni ‘60 e nei primi anni '70 anche se viene precisato che il tempo di osservazione è troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente.

 

La mortalità da cancro del fegato, secondo il tipo di lavoro, distingue i lavoratori addetti all'autoclave fra i " sempre " e gli " altri " e dimostra che l'aumento del rischio è concentrato fra coloro che hanno lavorato all'autoclave in ogni momento  (" sempre"). Ma si evidenziava altresì che per i lavoratori con 15 o più anni dalla prima esposizione (15 anni di latenza) un aumento del rischio statisticamente significativo compare anche per quelli classificati come " altri ". Onde l’'analisi dei decessi da cancro del fegato basata sulla esposizione cumulativa rivela un rischio crescente con l'aumento dell'esposizione e con una consistente relazione esposizione – risposta, e per tutti i decessi da cancro al fegato la latenza varia da 16 a 33 anni con una media di 24 anni mentre la durata media dell'esposizione è di 18 anni (da 16 a 33 anni).

 

In proposito riteneva il Tribunale importante rilevare che l'anno di assunzione e' soprattutto ricompreso nell'ambito degli anni anni 50 (solo 6 negli anni 60 e 2 negli anni 40); e che veniva rilevata una tendenza verso una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni ’60 e nei primi anni ’70, sebbene si precisi che il tempo di assunzione era ancora troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente. Inoltre sono molto chiare le relazioni esposizione - risposta fra l'esposizione cumulativa al c v m e rischio di cancro del fegato e  angiosarcomi. Distinguendo, invece, l' angiosarcoma dalle altre neoplasie del fegato il rapporto di queste ultime era pressoché sovrapponibile all'atteso.

 

Questa osservazione assume, secondo il Tribunale, particolare rilievo nella controversa discussione in ordine alla associazione cvm-epatocarcinoma, e si ricorda che nelle considerazioni conclusive si afferma che i risultati dello studio confermano l'associazione fra cancro del fegato e l'esposizione al c v m: l'eccesso di mortalità-quasi il triplo con 24 osservati e 8.4 attesi (RSM 2,86)- è associato con la durata dell'impiego e con il livello delle esposizioni e i risultati sono rafforzati dalle analisi di regressione che indicano che il rischio di cancro del fegato dipende significativamente dall'esposizione cumulativa e dagli anni trascorsi dalla prima esposizione.

 

Si osserva poi come l'aggiornamento dello studio multicentrico europeo (di Ward - Boffetta e altri 2000).ha esteso per gli anni 90 l'accertamento dello stato in vita dei lavoratori di 17 delle 19 aziende incluse nello studio: l'aggiornamento della mortalità e dell'incidenza varia dall'anno 1993 all'anno 1997. ed è stata pressochè identica a quella attesa (RSM 0,99), leggermente inferiore a quella dello studio precedente.  Nessun angiosarcoma si è verificato tra gli operai assunti dopo il 1973 e non si era verificato alcun decesso per cancro del fegato prima che fossero trascorsi 15 anni dalla prima esposizione.

 

Inoltre, neppure nel predetto aggiornamento della corte europea si  è rilevata alcuna associazione tra esposizione al c v m e mortalità per cancro del polmone, sottolineandosi tuttavia che quando le analisi vengono ristrette a quei soggetti che avevano soltanto ricoperto mansioni relative all'insacco si nota un trend significativo per il cancro del polmone con l 'aumentare dell'esposizione cumulativa al cvm. Si aggiunge che lo studio non ha rilevato prove di un aumento di mortalità dovuta a tutte le malattie del sistema respiratorio (pneumoconiosi, bronchite, enfisema, asma) e  neppure alcuna indicazione di un aumento di mortalità per malattie respiratorie più specificamente tra i lavoratori addetti all' insacco o al miscelamento ancorché si precisi che tali risultati non contraddicono studi incrociati (Mastrangelo e altri) poiché è possibile che gli effetti respiratori dell'esposizione e al c v m o alla polvere di PVC non conducano alla morte.

 

Così, ancora nell’aggiornamento Ward, neppure si presenta un eccesso statisticamente significativo di cancro al cervello, ed altrettanto si conclude per i tumori del sistema emolinfopoietico.

 

Si analizzano poi gli studi della coorte USA, in particolare Wong -1991; Mundt -2000). L'aggiornamento di Mundt, più informativo, individua l'esistenza di una associazione tra esposizione a cvm e aumentata insorgenza di tumori del fegato; indica la insussistenza di una associazione tra esposizione a c v m e insorgenza di tumori del polmone.

 

Nel commentare i risultati dello studio, gli autori affermano che le cause di morte per tumore già segnalate non sono risultate in eccesso e tra di esse il tumore del polmone e i tumori emolinfopoietici e altresì le malattie respiratorie quale enfisema e pneumoconiosi. Viene inoltre precisato che l'associazione tra esposizione a cloruro di vinile e tumore del polmone  non ha trovato alcuna evidenza e pertanto non è suggerito neppure un piccolo rischio. Per il tumore al cervello si afferma che la associazione è incerta perché le elevate età al primo impiego nell'industria del c v m suggeriscono che i lavoratori potrebbero avere avuto rilevanti esposizioni ad altri cancerogeni prima dell'esposizione al cvm.

Si afferma in conclusione che lo studio ha confermato una forte associazione tra durata dell'esposizione lavorativa prima del 1974 e tumori del fegato per la gran parte dovuta  ad un grande eccesso di angiosarcomi.

 

Richiama poi il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali che hanno affrontato il problema della eventuale associazione tra esposizione a PVC e insorgenza di tumori, in particolare all'apparato respiratorio e al polmone, nei lavoratori che abbiano svolto sempre o prevalentemente la mansione di insaccattori, studi che in conclusione ritiene indichino che il  p v c ha una scarsa o assente attività biologica e la sua presenza fisica nei polmoni produce pneumoconiosi benigne.

 

Partendo dall'ipotesi che l'esposizione a polvere di PVC possa dar luogo a una aumentata insorgenza di tumori del polmone, avanzata da Waxweiler (1981) che suggeriva l'idea che l'eccesso osservato fosse da attribuire non tanto alla polvere di PVC bensì al c v m intrappolato nella polvere, il tribunale richiama i successivi non confermativi studi di Storevedt-Heldaas che riscontra un eccesso solo apparente, di Jones ( 1987) che indica un chiaro difetto per la mansione di insaccattore, di Wu (1989), che esamina la stessa corte di Waxweiler (quattro impianti di polimerizzazione in attività da almeno 15 anni in uno stabilimento di sintesi di sostanze chimiche con un totale di 3635 rispetto ai 1294 lavoratori precedentemente considerati con almeno cinque anni di esposizione e dieci anni di latenza in aree e mansioni con esposizione a c v m nel periodo 1942-1973, e che non accerta nessun eccesso escludendo ogni relazione tra esposizione a polveri di PVC e tumore del polmone; di Comba- Pirastu e Chellini in cui viene invece evidenziato un eccesso per la mansione di insaccattori, peraltro con un andamento per latenza decrescente contrario, secondo il Tribunale, ad una spiegazione di natura eziologica d’altra parte non avvalorata neppure dalle sperimentazioni.

 

Si ricorda poi che in particolare sugli insaccattori di Porto Marghera sono stati condotti  tre studi: una analisi di mortalità degli insaccattori dipendenti di Montedison Enichem, una analisi di mortalità degli insaccattori appartenenti a cooperative esterne che hanno lavorato in appalto e infine su questi lavoratori è stato condotto uno studio di prevalenza sulla morbilità  (Chellini), peraltro subito ponendosi in rilievo alcuni aspetti che hanno incontrato le maggiori critiche: da un lato la scarsa informatività di detti studi per la esiguità delle sottocoorti (208 insaccattori dipendenti e 272 appartenenti alle cooperative) e dall'altro l'inaccettabilità di una analisi congiunta delle due categorie di insaccattori stante l'assenza di omogeneità dei selezionati e per di più l'età media elevata di ingresso al lavoro degli appartenenti alle cooperative e lo svolgimento di attività plurime con possibili differenti esposizioni.

E comunque i rapporti di mortalità, presenterebbero un andamento di relazione inversa tra la durata della latenza e l'insorgenza del tumore che, come detto nei precedenti studi già commentati, depone per l'insussistenza di una associazione. Lo studio di prevalenza della dottoressa Chellini ha incontrato critiche ancor più radicali inquantoche' non era stata effettuata alcuna validazione sulla qualità dei dati anamnestici  raccolti, posto che  le patologie riportate nelle schede fanno riferimento a malattie diagnosticate nell'arco della vita, e pertanto non sono correlate alla attività svolta in qualità di insaccatori, venendo così a mancare la garanzia dell'antecedenza tra esposizione e malattia.

 

In questi studi comunque, si afferma che: per quanto riguarda il tumore epatico (sia esso angiosarcoma o epatcarcinoma) la mortalità ha superato significativamente quella attesa particolarmente fra gli addetti alle autoclavi e da questa osservazione si trae la conseguenza che sia di natura causale anche la relazione fra esposizione a cvm e epatocarcinoma: tale relazione sarebbe anche plausibile sul piano biologico e sostenuta da una considerazione di tipo analogico inquantoche' i due altri agenti conosciuti che inducono  angiosarcomi epatici (arsenico e thorotrast) causano anche essi carcinomi epatici (Popper 1978 ).

 

Per quanto riguarda la mortalità per tumore polmonare si è osservato un incremento significativo fra gli insaccattori in considerazione dell'intensità dell'esposizione a c v m , in particolare fra il 1950 e  il 1970 (non meno di 50 ppm) e tenuto conto che nell'attività dell'insacco del PVC si era in presenza di elevati livelli di polverosità (in proposito si citano gli autori di studi che hanno descritto casi di pneumoconiosi insorti in soggetti esposti a polveri di PVC e tra questi lo studio di Mastrangelo).

 

Per quanto riguarda gli altri tumori  che secondo IARC 1987 sarebbero ricollegabili all'esposizione a c v m si osserva che nella corte Montedison Enichem di Porto Marghera sono stati individuati due casi di tumore dell'encefalo (SMR 77) e 9 tumori del sistema emolinfopoietico (SMR 134): si riconosce peraltro la ignota eziologia dei tumori cerebrali che anche gli studi epidemiologici più ampi non sono stati in grado di ricollegare a specifiche esposizioni; si riconosce altresì che la categoria dei tumori del sistema emolinfopoietico comprende entità che hanno caratteristiche nosologiche assai diverse per le quali sono diversi anche i fattori di rischio ipotizzati.

Si afferma conclusivamente che i risultati relativi a questi due tipi di tumore devono essere considerati tenendo conto dell'esiguità numerica delle osservazioni e delle conoscenze disponibili sulla eziologia.

 

I suddetti dati sarebbero poi sostanzialmente confermati dalla memoria depositata dai consulenti epidemiologici del pubblico ministero contenente un aggiornamento della mortalità al 31 luglio 1999, peraltro non sottoposto al contraddittorio dibattimentale e comunque esaminata e utilizzata dal Tribunale come un approfondimento, proveniente dalla pubblica accusa, degli studi precedenti. In particolare, sulla base dell' incremento nel numero di decessi per tumore epatico primitivo accertato nella coorte di Porto Marghera alla data del luglio 1999 si ribadisce con questo ulteriore elemento la sussistenza di un eccesso di tumori epatici diversi dall' angiosarcoma, sia con riguardo ai lavoratori della coorte nel suo complesso che in maniera ancora più evidente tra coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti che notoriamente sono stati esposti alle concentrazioni più elevate. E così sarebbe stato rilevato un eccesso di tumori polmonari nell'ambito della coorte, con specifico riferimento alla mansione di insaccattore esposto alle polveri di PVC.

 

Circa i fattori di confondimento, sia rispetto ai tumori epatici che a quelli polmonari, i consulenti del pubblico ministero, facendo ricorso ad un raffronto tra i lavoratori della coorte e i lavoratori di altri settori (municipalizzata di igiene urbana e amministrazione provinciale di Venezia) per quanto riguarda la propensione a bere alcolici e individuando nei primi stime più basse dei consumi alcolici,  affermano che l'assunzione di alcol  non  poteva spiegare l'incremento di mortalità rilevato per tumori epatici diversi dall’angiosarcoma sia nella coorte complessiva e sia, a maggior ragione, nella categoria degli autoclavisti.

 

Per quanto riguarda il fumo si è fatto invece riferimento alla percentuale di fumatori nella popolazione italiana (tra il 53 e 75%)  che si stimava mediamente uguale a quella presente tra gli insaccattori e si concludeva che gli incrementi di mortalità in tali categorie per tumore del polmone non era spiegabile con l'abitudine al fumo.

 

Sempre con specifico riferimento ai lavoratori della corte di Porto Marghera, il professor Diego Martines, consulente del pubblico ministero, ha presentato uno studio caso- controllo sui lavoratori affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica, e epatopatia cronica.

 

Sulla scorta dei dati rilevati e riportati in tabella si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.

 

Per quanto riguarda gli epatocarcinomi nella tabella numero 4 il consulente rileva 13 casi nella categoria ad alta esposizione 1 caso nella categoria a media esposizione e 2 per casi nella categoria a bassa esposizione. Peraltro per tutti i 3 casi delle categorie bassa e media esposizione la riferibilità all'esposizione professionale dell'epatocarcinoma e' messa in dubbio dallo stesso consulente. I 13 casi di epatocarcinomi ad alta esposizione presentano un tempo di latenza medio dalla prima esposizione pari a 31 anni (range 22 - 42) e la prima esposizione in tutti questi pazienti si è verificata in un arco ristretto di tempo compreso tra i 1952 e il 1961. 

Due pertanto le conclusioni da trarre: tutti i casi  di angiosarcoma e di epatocarcinoma della coorte di Porto Marghera riguardano soggetti esposti ad alte esposizioni e il tempo di calendario è tra gli anni '50 e '60.

 

Nelle successive precisazioni a seguito dell’osservazione  dei consulenti della difesa secondo i quali dalle stesse suddette conclusioni emergeva la presenza di una soglia di fatto del rischio, sosteneva il consulente che l'insorgenza di angiosarcoma  anche dopo esposizioni limitate a c v m veniva ad escludere in linea generale la presenza di una soglia nell'azione del cloruro di vinile sia per la diversa suscettibilità individuale (genetico e biochimica) al c v m sia per l'azione tossica sinergica dell'alcol e del cloruro di vinile, in quanto la responsabilità del consumo di alcol e dei virus B e C  nel determinare la cirrosi epatica e l’epatocarcinoma andava valutata in uno con l’eventuale effetto aggiuntivo o primario dell'esposizione al c v m.

 

Si insisteva dunque nell’affermare che l'esposizione al c v m è in grado di stimolare la fibrogenesi conseguente al danno epatocellulare provocato dai fattori eziologici extralavorativi, quali alcool o i virus B e C , e di innescare e accelerare tutti quegli eventi che portano alla cirrosi, agendo in tal caso come fattore concausale.

 

Ricorda poi il Tribunale gli studi caso-controllo dei consulenti dell’accusa privata, professor Gennaro e professor Mastrangelo, volti all’approfondimento della relazione tra mortalità per tumore polmonare ed esposizione alle polveri di PVC.

In particolare Mastrangelo, sulla scorta dei dati analizzati e delle valutazioni peraltro analiticamente criticate dai consulenti della difesa, afferma che il fumo non rappresenta un fattore di confondimento nella associazione tra esposizioni a polveri di PVC e rischio di cancro polmonare inquantoché, pur essendo il fumo di tabacco una causa di cancro polmonare, esso non è risultato correlato con le esposizioni a polveri di PVC nella popolazione in studio, e si ribadisce il concetto della concausalità sostenendosi che,  anche se tutti i casi esaminati (eccetto uno) erano fumatori e anche se qualcuno di loro era stato esposto ad altri cancerogeni polmonari prima di lavorare come insaccatore di PVC a Porto Marghera, la responsabilità della esposizione a polvere di PVC rimane comunque per il fatto che la sostanza attiva il penultimo stadio della cancerogenesi, sicché sarebbe pur sempre un agente concausale.

Ricorda al riguardo il Tribunale come il professor Mastrangelo, nelle precisazioni che ha ritenuto di fare per iscritto rispetto alle contestazioni cui è stato sottoposto in sede di controesame dai difensori degli imputati, evidenzia il suo assunto nel modo seguente: entrambe le sostanze (c v m ePVC) sono cancerogene e la seconda può veicolare la prima; entrambe provocano la fibrosi polmonare che può indurre a un eccesso di cancro polmonare.

Si ricordano altresì le obiezioni dei consulenti della difesa: non solo il prof. Mastrangelo ha proposto proprie ipotesi non convalidate scientificamente e ha mosso critiche infondate agli studi epidemiologici che non evidenziano eccessi significativi di tumore polmonare associato a cvm/PVC, ma la sua ipotesi principale si basa su premesse destituite di ogni fondamento, in quanto si osserva che il PVC non è di per sé considerato una sostanza cancerogena , posto che lo IARC lo classifica nel gruppo 3 proprio per la inadeguata evidenza di cancerogenità per l'uomo e per l'animale da esperimento, e ancora meno è dimostrato che esso possa indurre fibrosi polmonare, sicché non può condividersi che la causa di eccessi di tumore al polmone possa essere il PVC.

 

Passando alla problematica del rischio da esposizione, il Tribunale ha ricordato come accusa pubblica e privata hanno sottoposto all’attenzione del collegio valutazioni di rischio sulla base di modelli matematici. Al riguardo si evidenzia che: l' E P A ha divulgato due diverse stime di rischio per l'esposizione a c v m: la prima nel 1994 e la seconda nel 2000 in cui il rischio è stato stimato di dieci volte più basso rispetto alla stima precedente.

Si osserva però che le valutazioni dell‘EPA non intendono stabilire il rischio effettivo o le conseguenze sulla salute per le persone, ma piuttosto sui rischi potenziali utilizzando i dati sperimentali sugli animali, ma anche opzioni di default mediante metodologie matematiche di estrapolazione lineare alle basse dosi per i cancerogeni oppure estrapolazioni non lineari (e cioè modelli matematici che ammettono una soglia) per le sostanze non genotossiche, per cui, essendo il cvm considerato genotossico  la risposta e il rischio sono nulli solo per una dose nulla; egualmente l’Unione Europea e l’Organizzazione mondiale della sanità assumono esplicitamente il principio di assenza di soglie per i cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale ha  assunto identica posizione.

 

La ragione fondamentale della assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la relazione tra formazioni di addotti e dose  di regola è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva incontri il punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole presenti. Un ulteriore argomento, basato su semplici criteri matematici, è quello che in presenza di un'esposizione di fondo a cancerogeni, una ulteriore piccola  esposizione si andrà a collocare nel tratto lineare della relazione dose- risposta.

 

Ma l’OMS stima il rischio cancerogeno anche sulla base di dati  epidemiologici e a tal fine utilizza il parametro della rischio relativo (RR) definito come il rapporto tra il numero di casi osservato e atteso nella popolazione esposta; diversamente il centro tossicologico e ecotossilogico europeo dell'industria chimica (ECETOC 1998), nel rapporto dedicato al cloruro di vinile, nelle sue conclusioni, specifica che "sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli sicuri di esposizione per i cancerogeni genotossici, l'evidenza presentata in questo rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai livelli correnti nel rispetto del limite di 3 ppm  comporti rischi significativi per la salute "; il professor Zapponi, consulente tecnico dell'accusa privata Presidenza del Consiglio e Ministero dell'Ambiente, partendo dalla premessa che non può essere identificata una soglia per i cancerogeni genotossici non essendo possibile definire un livello senza effetto,  passa in rassegna le principali stime,  su dati epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio cancerogeno per il c v m, e nelle considerazioni conclusive trae una prima considerazione: che queste valutazioni di rischio, pur operate da autori diversi e pur considerando che le diverse stime si basano su diverse categorie di dati (epidemiologici e sperimentali), pur tuttavia pervengono a risultati molto simili.

 

L'indicazione che se ne trae è che una esposizione  lavorativa presumibilmente priva di un rischio significativo dovrebbe andarsi a collocare a livelli di frazione relativamente piccole di 1 ppm e l'uso del modello a soglia, pur in presenza di un cancerogeno genotossico, ha portato a stime di livelli di esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono valori di un ordine di grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni di rischio che assumono l'assenza di soglia;il consiglio nazionale delle ricerche degli Stati Uniti (NCR), cui è stato chiesto dal congresso americano di valutare l'operato dell' EPA per quanto attiene la valutazione del rischio, ne ha innanzitutto individuato l'ambito di applicazione, assumendo che "le stime del rischio ottenute non sono stime scientifiche del vero rischio di tumore ma sono utili ai regolatori per stabilire delle priorità di intervento": si tratta cioè di stime estremamente conservative che ricomprendono opzioni inevitabilmente politiche di protezione della salute pubblica.

Si evidenzia conseguentemente che le scelte politiche portano a opzione di default utilizzate ai fini di aggirare il problema dell'incertezza sui seguenti problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di dati scientifici che correlino in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze chimiche con i rischi per la salute; 2) divergenze di opinioni all'interno della comunità scientifica sul livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza di una conformità nel riportare i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei risultati prodotti dai modelli teorici.

 

E così, ogni qualvolta il procedimento di valutazione del rischio  si scontra con elementi in cui il livello di conoscenza scientifica può risultare incompleto, problematico, discordante, non convincente, è necessario far ricorso a congetture e semplificazioni, assumendo per l'appunto opzioni di default di cui le più importanti sono: 

1) gli animali da laboratorio sono un surrogato per gli esseri umani nella valutazione del rischio dei tumori e i risultati positivi negli esperimenti sono presi come evidenza della capacità di una sostanza chimica di causare il tumore negli uomini; 

2)  gli esseri umani sono sensibili come le più sensibili specie animali; 

3) gli agenti che risultano positivi negli esperimenti a lungo termine sugli animali e che mostrano anche evidenza di attività promovente devono essere considerati cancerogeni completi; 

4) anche una sola molecola della sostanza chimica ha associata una probabilità di indurre tumori che può essere calcolata mediante il modello linearizzato multistadio.

 

Osserva dunque il Tribunale che in realtà nella comunità scientifica e' messo in discussione soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi; ed in proposito si ricorda l’affermazione di un ricercatore di biologia molecolare (Ames) secondo la quale "vi sono sempre più prove che la scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così aumentando in tal modo il rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli studi di Swemberg secondo cui a seguito delle sperimentazioni a basse dosi effettuate "esiste la prova che bassi livelli di esposizione non sono cancerogeni né per gli uomini né per i roditori".

 

Onde nella comunità scientifica si propone una valutazione realistica del rischio che superi il postulato ritenuto estremo e irrazionale che "nessuna dose è sicura" proprio alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere affetto da angiosarcoma, così da far ritenere che  le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente protettive ( Storm-1997). 

 

In conclusione secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che stanno alla base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni di default, che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati cui è pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati a fini precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni sull’uomo.

Ad analoghe conclusioni di incertezza a livello scientifico ai fini di utilizzo nell’accertamento probatorio del nesso causale, perviene il Tribunale, dopo avere analiticamente esaminato le posizioni dei consulenti dell’accusa e della difesa e gli specifici studi della comunità scientifica internazionale, in ordine al tema dei meccanismi molecolari e della carcinogenesi, sia relativamente alla problematica della soglia che alla problematica degli organi bersaglio.

Quanto alla soglia, rimarca inoltre il Tribunale i risultati dello studio di Storm e Rozman ( 1997) che ha esaminato 80 mila lavoratori esposti ai bassi livelli dopo il 1968 negli Stati Uniti e dopo il 1972 in Europa e non ha osservato alcun angiosarcoma, e che conclude ammettendo l'esistenza di una soglia che resta avvalorata dalla considerazione delle informazioni derivanti dagli studi epidemiologici e dagli stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui risulta per l'appunto che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun angiosarcoma nei lavoratori esposti per la prima volta al c v m a partire dal 1968, pervenendo gli autori alla conclusione che la riduzione delle esposizioni entro il range e 0. 5 - 5 ppm possa ritenersi adeguatamente  protettiva.

Gli autori mettono anche in discussione l'ipotesi di default che l'uomo abbia una suscettibilità alla angiosarcoma indotto da c v m pari a quella dei ratti esposti: infatti non solo l'uomo sarebbe meno sensibile dei ratti ai cancerogeni genetici in generale a causa della durata di vita più lunga, della minore velocità del suo metabolismo basale e delle maggiori capacità di riparazione del DNA, ma anche perché dai risultati sperimentali è stata osservata un'incidenza di angiosarcomi tra i ratti almeno 100 volte superiore rispetto all'uomo esposto al c v m e nell'ambiente di lavoro.

 

Da parte del Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere compatibili con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi dell'assenza di soglia e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a quella degli animali non hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati che possono avere validità in un ambito prettamente precauzionale, ma sono smentiti dall’osservazione scientifica, potendosi concludere pertanto che i risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali proprio perché convergenti  hanno una loro rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che peraltro dagli studi analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le basse dosi vigenti successivamente alla oncogenità del c v m abbiano avuto un qualsiasi effetto su incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.

 

Comunque, sulla base delle opinioni espresse  dai consulenti delle parti e dell'ampia letteratura cui hanno fatto riferimento, il tribunale rileva come gli approdi scientifici siano ancora parziali e non sempre coerenti con le ipotesi assunte, sicchè appare difficile poter affermare che si siano raggiunti risultati di conoscenza in base ai quali poter affermare che sussiste un meccanismo specifico di azione del cvm nella causazione dei tumori.

 

Si evidenzia al riguardo che l' oncogenesi è una scienza in rapida evoluzione, come e' messo in rilievo dai risultati degli studi sperimentali o  osservazionali sopra riferiti, e non sempre i protocolli sperimentali sono basati su modelli comuni. E' ancora in discussione il modello di cancerogenesi, e cioè se si tratta di un processo multistadio in cui un numero pur limitato di alterazioni genetiche sia alla base dell'insorgenza del tumore ovvero una più ampia instabilità genetica che determinerebbe la mutazione di una gran parte dei geni a seguito di un difetto dei sistemi di riparazione del DNA che favoriscono l'instabilità del genoma: già queste due contrapposte o divergenti teorie rendono problematico stabilire la rilevanza, pur osservata, di mutazioni ai geni p53 e k-ras ai fini della causazione del tumore, affermandosi da questa ultima teoria che la loro mutazione non sarebbe che la conseguenza delle alterazioni della struttura del DNA causate dalla instabilità genetica.

 

Per quel che riguarda il cloruro di vinile la stessa esistenza di un meccanismo d'azione specifico di tale sostanza è affermato dai consulenti dell'accusa ma al tempo stesso dagli stessi viene ammesso che "i dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità specifica che permetterebbe di identificare l'azione del cloruro di vinile". E d’altra parte la stessa relazione EPA (2000) manifesta (pag 52 e seguenti) problematicità al riguardo, circostanza che non può non lasciare intendere quale sia lo stato delle conoscenze ancora incerte e passibili di falsificazioni nel loro progredire.

Peraltro ritiene il Tribunale non si possa negare il dato di fatto che il cvm è cancerogeno, anche se non si conoscono i particolari del suo percorso genotossico di cui emergono sperimentalmente in via ipotetica alcuni tratti pur significativi: il cvm si metabolizza nel metabolita reattivo "presumibilmente il CEO" che "diversi indizi indicano come genotossico in quanto interagisce direttamente con il DNA" (in tal senso il citato rapporto EPA a pagg.48-59).

E, quanto agli organi bersaglio, se ne rileva, sulla scorta degli studi esaminati che lo hanno evidenziato, maggior incidenza e specificità negli angiosarcomi di animali inalati e di lavoratori esposti a cvm. Tale maggior incidenza non è stata invece individuata in altri organi (polmone e cervello) attraverso studi metodologicamente corretti, condivisi e reiterati. Si ricorda al riguardo che le mutazioni a p53 sono state osservate sia in lavoratori esposti che non esposti pressochè in pari percentuale affetti da epatocarcinoma e comunque tali mutazioni non solo non sono specifiche ma "possono riflettere meccanismi endogeni piuttosto che essere indotte da cancerogeni esogeni"(Weihrauch).

 

Osserva poi il Tribunale come la  tesi accusatoria si sviluppi ulteriormente deducendo l’ipotesi della concausalità, a tal fine sostenendo la potenzialità dell'alcol di interagire con il cvm. Sulla scorta delle critiche dei consulenti della difesa, metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse dinamiche del processo metabolico del cvm e dell'alcol si ritiene però che non sussistano dati scientifici su cui solidamente basare l'esistenza della asserita interazione tra etanolo e cvm e, anzi, l'analisi delle reazioni metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere improbabile l'interazione suggerita dai consulenti del pubblico ministero che non hanno dimostrato come verrebbero a determinarsi gli effetti sinergici tra le due sostanze.

 

Sulla scorta dei dati e studi di cui sopra, il Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei fatti di cui in imputazione, premettendo brevi cenni sulle note teorie della causalità, che riteneva necessari perché nel processo che ci occupa vi sarebbe stata la insistita tendenza a sostituire il modello classico di causalità con la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, oltretutto senza preoccuparsi di verificare tutti gli apporti scientifici e forzando i passaggi con ipotesi di default o presunzioni o assimilazioni e, soprattutto, trascurando di verificare la effettiva incidenza della sostanza sul singolo caso. Impostazione che, secondo il Tribunale, non può trovare consenso posto che, in via di principio, la causalità generale non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l'idoneità della sostanza a causarla.

 

Si afferma infatti che tra gli stessi epidemiologi vi è largo consenso nel ritenere che i loro studi, che riguardano popolazioni generali e si propongono scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non sono in grado di spiegare la causalità specifica e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.

Anche perché gli studi epidemiologici non si basano su un censimento di casi provatamente causati dall'esposizione a sostanze tossiche (soprattutto quando la pluralità dei casi dipende da una pluralità di fattori eziologici), ma solo di differenze tra i casi osservati e i casi attesi: in tale ambito la causalità generale ha un significato ancor più circoscritto nei confini di tale scienza e indica più propriamente un eccesso di rischio senza costituire in sé una prova della idoneità della sostanza a provocare la malattia.

 

E' per questa ragione che non c'è alcuna possibilità di distinguere tra i casi esposti chi non si sarebbe ammalato in assenza di esposizione e chi invece si sarebbe ammalato egualmente. Infatti, salvo rari casi (tra cui rientra oltre che il mesotelioma da asbesto,  l'angiosarcoma per esposizione a c v m) le neoplasie professionali non hanno carattere di specificità e non sono distinguibili  neppure istologicamente sotto il profilo  morfologico da quelle extra professionali.

Si ritiene dunque che l'incertezza domina sul caso singolo proprio perché la quasi generalità dei tumori ha cause in elevatissima percentuale extraprofessionali ignote e gli scienziati non hanno ancora compreso appieno il modello molecolare nella carcinogenesi e formulano pertanto ipotesi per cui qualsiasi dichiarazione riguardo al ruolo di qualsivoglia agente in quanto cancerogeno trova un limite nella sua ipoteticità. E si richiamano concetti espressi da epidemiologici e dalla stessa EPA nonché studi soprattutto negli USA che hanno messo in rilievo che solo una piccolissima parte dei tumori è in realtà ricollegabile all'attività industriale (dall'1 al 3% secondo l'agenzia) mentre la percentuale residua è dovuta a cause diverse, cioè all'esposizione a inquinanti diffusi nell'ambiente o all'ingestione di inquinanti che passano nella catena alimentare il cui uso è normalmente consentito. Ricordandosi altresì che  gli stessi consulenti della accusa pubblica e privata hanno concordemente affermato che lo studio epidemiologico non può bastare perché suggerisce inferenze  eziologiche senza però poterle dimostrare in rapporto ai singoli individui.

 

Se dunque la causalità in epidemiologia, anche quando affermata dalle agenzie, non solo riguarda sempre e solo il livello di popolazione e non del singolo, ma può essere soddisfatta da evidenze scientifiche ancora deboli e incerte dovendo assolvere a finalità precauzionali, sarebbe errato affidarsi, ai fini di ritenere assolto ogni compito accertativo della causalità generale, alle valutazioni e alle enunciazioni delle stesse: eppure i consulenti medico legali dell'accusa pubblica e privata hanno assunto come dato indiscusso proprio le indicazioni di IARC 1987, senza neppure tenere conto degli studi successivi e in particolare degli aggiornamenti del 1991 e del 2000 illustrati in aula dai loro coautori dott.Simonato e dott.Boffetta.

Diverso invece l’approccio, in quanto, una volta chiarito il contributo che l'epidemiologia, attraverso il calcolo del rischio attribuibile, può dare alla soluzione del problema, la sussistenza del nesso causale per l’attribuzione del fatto contestato va argomentata giuridicamente considerando tutte le implicazioni e considerazioni  che vanno ben oltre quelle epidemiologiche, e decisa dal giudice sulla scorta dei principi di diritto ai quali il Tribunale si ispira enucleandoli dopo excursus anche relativo alla giurisprudenza e dottrina americana che ben metterebbero in rilievo, pur nell'ambito del processo civile, le spinte che tendono a superare il modello meccanicistico di causalità evocate dallo stesso P.M.: l'esigenza di una tutela delle vittime, dei beni della salute e della vita umana.

 

Osserva il Tribunale che seppur detti beni devono essere tenuti senz'altro in alta considerazione, e seppur queste sono le motivazioni più o meno esplicite che spingono a orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale (e si cita S.C 12/7/91 -sez 4° cui si rifà il P.M.), neppure bisogna trascurare che nell'ambito del processo penale vi sono altri beni da tutelare che sono quelli della responsabilità personale e della libertà. Ritiene dunque il Tribunale di uniformarsi ai più recenti e più rigorosi orientamenti della giurisprudenza della S.C. così potendosi enucleare i principi in diritto applicati: le esigenze di certezza e garanzia, il rispetto dei principi di legalità e personalità della responsabilità penale, di rango costituzionale, devono essere soddisfatti mediante il mantenimento di un rigoroso modello causale ove il rapporto di condizionamento sia spiegato o daleggi universali, secondo il modello nomologico-deduttivo, o da legi di copertura scientifico-statistiche, secondo il modello statistico-induttivo.

 

Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di un arelazione logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché qualificato “alto” o “elevato”. Il ricorso a tali criteri rischia infatti di introdurre nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese  di giustizia;dalle scienze e dai limiti di conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:

1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza scientifica; 

2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una "corroborazione provvisoria "; 

3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto;

4) l’incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento;

5) la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento della causalità non può essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia aumentato il rischio del verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una illegittima confusione tra il piano soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre l’attribuibilità dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;

6) gli studi epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni generali e proponendosi scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non sono assolutamente in grado di spiegare la causalità individuale e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.

Osserva peraltro il Tribunale come nella specie proprio la causalità generale da esposizione a clorulo di vinile è stata utilizzata dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della sostanza, ma altresì per indicare gli indici di rischio relativo per ciascuna  neoplasia che si è ritenuta in qualche misura, forte o debole , associata all'esposizione. E però, ritiene il Tribunale, dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività statistica, ma ciò nonostante  sempre e comunque  assunta come ineludibile presupposto della causalità individuale  anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza esplicativa che  sono stati valutati come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sè sufficienti e necessari.

 

Si osserva al proposito che le conclusioni di IARC 1987, punto di partenza per le imputazioni e di approdo per le conclusioni del PM, salvo alcuni aggiustamenti quantitativi dell'ultimo momento, che indicavano una associazione tra esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e carcinomi epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del sistema emolinfopoietico, melanomi, hanno subito rivisitazioni critiche e ampi aggiornamenti per la maggior parte incorporati nei due studi multicentrici americano ed europeo ( Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di recente (Ward 2000 e Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale. Sulla base di tali studi, considerando anche i risultati dello specifico studio sulla coorte di Porto Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non significatività dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema emolinfopoietico, del fegato diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per la cirrosi epatica e per le malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che gli stessi consulenti  epidemiologici dell’accusa(si cita l’ultima relazione presentata dai consulenti  Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque espresso dubbi e perplessità in ordine alla correlabilita' con le sostanze in considerazione quantomeno dei tumori del cervello, del sistema emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe aggiungere anche del tumore della laringe .

 

Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste patologie, sulla base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e delle più  perentorie conclusioni cui erano pervenuti gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico europeo e del successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento, può affermarsi che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a dire della idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene infatti, che l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più significativi (e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava ”non considerare l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”) individua una associazione forte tra esposizione a c v m e  angiosarcoma epatico e eccessi di rischio nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto riferimento IARC, non sono state confermate.

Ma il PM non ne avrebbe tratto le logiche e  conseguenti conclusioni, in quanto, pur avendo al termine della requisitoria presentato le schede riferite a 263 parti offese relative a 311 patologie rispetto alle 721 patologie riferite a 542 parti offese introdotte con il decreto di rinvio a giudizio e con le successive contestazioni supplettive nel corso del dibattimento, tuttavia, non ha ritenuto di fornire una spiegazione di questa modificazione della contestazione originaria, limitandosi ad affermare che i casi non ripresentati avrebbero avuto comunque un loro rilievo nell'ambito dei reati di strage e di disastro contestati.

Sono stati eliminati tutti i tumori gastrici e del pancreas che erano stati associati alla esposizione a dicloroetano, ed altresì le broncopatie  e le broncopneumopatie (87), nonchè le pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto, quest'ultime indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi epidemiologici è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che supporterebbe l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999 concludeva per "inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le altre  patologie  (neoplastiche e non ) siano state ritenute o non sussistenti a seguito della esame della documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa ovvero non correlate all'esposizione.

 

Ma, secondo il Tribunale la logica conseguenza sarebbe che essendo insussistenti o comunque non causalmente riconducibili esse non possono avere rilievo neppure nelle fattispecie più ampie di pericolo per la pubblica incolumità cui il pubblico ministero ha fatto riferimento. 

Si osserva che alla debolezza delle evidenze epidemiologiche il PM ha cercato di supplire facendo ricorso alla biologia molecolare e ai risultati ancora incerti, contraddittori e lacunosi che allo stato è in grado di offrire, in particolare sostenendo la tesi dell’azione sinergica tra i fattori di rischio noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione che in tal modo assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti lesivi: non considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso statuto epistemologico della causa con la conseguenza che se non è dimostrato che un fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste di concausa

 

Il PM nessun rilievo ha invece dato all'evidenza epidemiologica e sperimentale che indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto dose–risposta la cui considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi alle esposizioni di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad escludere la rilevanza causale delle esposizioni  successive al 1974.

 

Infatti in tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i tumori rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in coloro che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti riconducibili ad elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie degli anni '50 '60 e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità della sostanza. E si citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici Simonato, Ward, Mundt, ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può individuare un accordo uniforme e assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente processo, in ordine a tale conclusione. Pacifico, infatti, che nessun angiosarcoma del fegato (che è il tumore tipico da esposizione a c v m) si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella corte europea e successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di Porto Marghera.

 

Ulteriore conferma deriverebbe dal recente studio di Rozman e Storm (1997) dal quale emerge che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968 ", traendone la conseguenza che " la riduzione delle esposizioni entro il range di 0, 5-5 ppm sembra essere stata fino ad ora adeguatamente protettiva".

Si osserva poi che se si considera che la dose cumulativa più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma (oltretutto di tipologia non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm circa di esposizione giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già presenti nella coorte di Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni degli anni successivi, pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e in seguito imposti di 3 ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli stessi come documentato dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta esservi prova di una efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero convergenti anche gli studi tossicologici e di oncogenesi che pure individuano un rapporto dose-risposta per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata accertata  una idoneità lesiva del c v m.

 

I consulenti del pubblico ministero relativamente al problema della idoneità lesiva del cvm alle bassi dosi non hanno potuto smentire né i risultati epidemiologici né quelli sperimentali. Si sono limitati ad affermare "che non si può escludere", "che la soglia al di sotto della quale non si sono osservati tumori  non è una soglia effettiva ma una soglia apparente... perché non si possono fare degli studi che dimostrino l'inesistenza di una soglia perché bisogna andare nell'infinitamente piccolo".. (Berrino);  “attualmente una relazione tra esposizione e cancerogenità delle sostanze  genotossiche è troppo confusa per offrire linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità di uscire dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e sul rischio e  quindi accettare che non vi è una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non riesco a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire assolutamente nulla " (Martines).

Resta il fatto, e questo rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si osserva infatti che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e nei solo insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica, si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni 50 e 60 e prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate antecedenti alla conoscenza della cancerogenità del cvm.

Nessun tumore del fegato e del polmone ha interessato lavoratori della corte di Porto Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data oramai è trascorso interamente il periodo di latenza non solo medio ma approssimantesi anche alle punte medio-alte rilevate.

 

Conseguentemente si può trarre una prima incontestabile conclusione:  alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità lesiva del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi  mentre non sussiste la prova di una  efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle esistenti dal 1974 in poi.

Le incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza per ulteriori approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in ambito  processuale dove ci si deve attenere ai fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione dunque le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti  in giudizio, sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli eventi.

 

Infatti le condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974 e, quindi, a epoca precedente alla conoscenza della canceroginità del cvm. Mentre per il periodo successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte  cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.

 

Invece, si osserva, il PM compie una vera e propria traslazione dei piani temporali perché rappresenta nella imputazione “un quadro del passato” che ci riporta a condizioni lavorative (e a conseguenti addebiti di colpa) che sono quelle proprie degli anni ’50-’60, e propone all’esame dibattimentale tali situazioni come verificatesi nel successivo ampio arco temporale che va dal 1970 al 2000. In tal modo, oltrechè non selezionare, alla stregua delle risultanze epidemiologiche, le patologie correlabili, neppure il PM ha  adottato un criterio selettivo per individuare i soggetti cui fondatamente addebitare gli eventi lesivi : si è scelta invece - come è stato reiteratamente affermato dalle difese - la strategia “della massificazione degli eventi e delle condotte“: indubbiamente “fatto“ di maggior evidenza e impatto verso l’esterno , ma di nessun fondamento in “diritto”. Ma l'accusa ha obbiettato, in diritto, che all'epoca erano vigenti nel nostro ordinamento i DPR n° 547/1955 e n°303/1956- di cui si parlerà più diffusamente nella parte concernente la colpa- che ricomprendevano norme che dovevano considerarsi cautelative rispetto ai rischi che hanno determinato gli eventi.

Ma il Tribunale già osserva che allora si ignorava la pericolosità e la canceroginità sia del gas (cvm) sia delle polveri (pvc) che si diffondevano nell'ambiente di lavoro,  e quindi la rappresentazione e la prevedibità degli eventi poi verificatisi, essendo il solo rischio noto alla metà degli anni 60 la sindrome di Raynaud, evento di tipo tutt’affatto diverso, patologia che determinava disfunzioni alla circolazione delle mani e che  veniva a colpire i lavoratori che per le loro mansioni venivano a diretto contatto con la sostanza nella pulizia delle autoclavi o dei filtri o nell’insacco.

Dunque non appare condividibile l'assunto accusatorio secondo cui quelle norme richiederebbero al datore di lavoro, qualunque sia la nocività, prossima o remota  del fattore inquinante, di mettere in atto ogni strategia possibile  per eliminarlo o neutralizzarlo, assumendosi diversamente  la responsabilità di tutte le conseguenze potenziali derivanti da quella violazione ancorché in quel momento impreviste o imprevedibili.

 

Questa tesi dilata sino alla imputabilità oggettiva il concetto di responsabilità colposa poiché non si fa carico neppure di assumere come elemento essenziale non tanto la prevedibilità dell'evento tipico, ma neppure la rappresentazione dell'evento generico di un grave danno alla vita o alla salute: non si può eludere il problema della conoscenza o conoscibilità della nocività, e ancor più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso particolare del cvm) in un determinato momento storico sia in ambito scientifico che in quello industriale secondo il modello del c.d. agente modello.

Ma soprattutto, osserva il Tribunale, ancor meno è legittimo confondere il piano soggettivo con quello oggettivo deducendo dalla inosservanza di quelle norme di cautela generica la attribuibilità dell'evento lesivo "con alta probabilità riconducibile proprio all'inalazione delle polveri o del gas", così ritenendo decisivo per l'accertamento della causalità il solo fatto che la condotta omissiva abbia astrattamente aumentato il rischio del verificarsi dell'evento.

 

 La dottrina e la giurisprudenza prevalenti escludono che nell'ambito dell'accertamento del nesso causale possa farsi ricorso alla teoria dell'aumento del rischio, "non essendo possibili ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo" poichè dalla problematica oggettiva del nesso di causalità devono rimanere escluse tutte le questioni afferenti la prevedibilità che attengono propriamente all'elemento psicologico"( Cass 17/12/93-Ianieri-).

 

Ma pur seguendo il P.M. su tale piano ci si dovrebbe interrogare, secondo il Tribunale, su quale sia stata nel 1974 la condotta antidoverosa e quale avrebbe dovuto essere per contro la condotta  corretta che, se posta in essere, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento. Secondo l'ipotesi d'accusa i comportamenti antidoverosi sarebbero stati principalmente sia l'omessa fermata degli impianti - o comunque un adeguato e tempestivo intervento sugli stessi per ridurre l'esposizione nociva e cancerogena - sia l'omesso allontanamento dai reparti o dalle lavorazioni a rischio dei lavoratori maggiormente esposti ( in particolare autoclavisti e insaccatori).

 

Ammesso per pura ipotesi che tali condotte omissive si siano verificate pur in presenza della conoscenza del rischio tossico e oncogeno , si tratta di verificare se  avrebbe potuto il comportamento alternativo che si esige evitare il verificarsi dei tumori epatici e polmonari in quei lavoratori che erano stati esposti, come risulta dalle consulenze epidemiologiche e dalle schede personali prodotte nel corso degli esami medico-legali, alle elevate concentrazioni degli anni 50 e 60 . I dati di conoscenza scientifica ci dicono: a) che il cvm è una sostanza che agisce secondo un rapporto dose risposta e che le esposizioni cumulative più elevate sia per quantità sia per durata sono quelle maggiormente responsabili degli effetti oncogeni; b) che secondo il modello carcinogenetico multistadio il cvm sarebbe un cancerogeno iniziante e cioè inducente una mutazione tendenzialmente irreversibile nei primi stadi del processo tumorale ; c ) che il periodo di esposizione lavorativa e di latenza, anche sottratto il periodo di "lag"( che è il periodo intercorrente tra la presumibile epoca della induzione a seguito di esposizione alla sostanza cancerogena e la manifestazione del tumore calcolato in circa 15 anni sulla base della letteratura esistente), sarebbe rispettato per tutti  i lavoratori che hanno contratto i tumori così da poter ragionevolmente ritenere che le esposizioni rilevanti a determinare i tumori siano quelle degli anni  50-60. Ne consegue che all'epoca in cui i comportamenti doverosi erano concretamente esigibili essi non avrebbero potuto evitare gli eventi verificatisi o, se si vuole, non sussiste una prova  dimostrativa avente elevata probabilità che il comportamento alternativo avrebbe impedito o ritardato il verificarsi dei tumori.

 

Ma il Tribunale, ha intrapreso una diversa soluzione della problematica attinente la causalità: tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente, non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio.

 

A tali fini il Tribunale ritiene di effettuare, con specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, un esame più dettagliato e una valutazione critica dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare nonché di approfondire le caratteristiche nosologiche e morfologiche delle neoplasie alla luce dei contributi  dei consulenti medico-legali e anatomo patologi. E conclude ritenendo non individuati fattori di rischio professionale, né ipotizzabile un ruolo concausale dell’esposizione lavorativa proprio perché non provata la causalità del fattore professionale, per i tumori del laringe, del sistema linfatico e omopoietico, del cervello, per i melanomi, ma anche per i tumori del polmone, e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma.

Circa il tumore al polmone il tribunale ha ritenuto non sussistere l'evidenza epidemiologica e neppure la plausibilità biologica e ha accertato perdipiù la presenza in 11 dei 12 casi di un rilevante fattore di rischio extraprofessionale per elevato tabagismo.

Con riferimento all’epatocarcinoma, il Tribunale, pur prendendo atto dei risultati degli studi epidemiologici che individuano eccessi statisticamente significativi esclusivamente nei lavoratori alto esposti che hanno svolto mansioni di autoclavisti, e pur prendendo atto anche dei risultati degli studi sperimentali citati e altresì delle osservazioni cliniche e istologiche sui casi in letteratura dibattuti che individuirebbero carcinomi epatocellulari in esposti a c v m, ritiene che non possa dirsi raggiunta la prova dell'attribuzione causale di tale tumore all'esposizione al c v m.

 

E ciò, non solo perché gli studi epidemiologici riguardano ancora un piccolo numero di persone sia nella corte europea (10 soggetti ) sia in quella di Porto Marghera (4 autoclavisti) con problematiche ancora aperte sulla precisione della stima e con andamenti di rischio non particolarmente elevati se si tiene conto della eziologia variegata e dell’alta incidenza dei plurimi fattori di rischio, ma soprattutto perché in tutti i casi esaminati mediante indagine autoptica e discussi in dibattimento non sono state evidenziate le tipiche lesioni indotte dal c v m, e per contro sono state invece individuate le lesioni riferibili ad accertati fattori noti di induzione di tale tumore presenti in tutti i casi di Porto Marghera (epatiti virali b e c, elevato consumo di alcol, cirrosi) che proponevano giustificate soluzioni alternative.

 

Alla logica della falsificazione si sono richiamati gli stessi consulenti dell’accusa, allorquando hanno affrontato il problema se sia possibile pervenire dal dato epidemiologico a livello di popolazione a quello individuale, e la risposta è stata cautamente affermativa, ma ristretta sostanzialmente ai casi in cui  non si è in grado di fornire una spiegazione alternativa, cioè solo se si è in grado di affermare che il singolo soggetto esposto a cvm non era esposto ad altro fattore eziologico che giustifichi la insorgenza della patologia indipendentemente dal cvm.

 

Analogamente si ritiene non provato il nesso causale per la cirrosi, osservandosi che tutti i casi di cirrosi osservati nella casistica di Porto Marghera per i quali era disponibile l'istologia hanno mostrato evidenza di processi necroinfiammatori e in tutti i casi l'esame istologico ha consentito anche di identificare l'agente eziologico coincidente con uno dei noti fattori di rischio (infezione virale b o c, consumo di alcool).

Proprio la presenza di tali fattori di rischio ha indotto i consulenti del pubblico ministero  a ipotizzare comunque solo un ruolo concausale del c v m. Ma, osserva il Tribunale, l'esame istologico non ha evidenziato in nessun caso di cirrosi lesioni tipiche  dell'esposizione a c v m: in particolare nei casi riguardanti i lavoratori Zecchinato e Simonetto che, secondo i consulenti del PM, avrebbero sviluppato in sequenza prima cirrosi e successivamente angiosarcoma epatico, così da avvalorare la associazione tra tale malattia epatica e esposizione a c v m , tale processo patologico non ha trovato conferma. Infatti, l' esame istologico di Zecchinato dimostra fibrosi epatica congenita e angiosarcoma ma non evidenza di cirrosi e quello di Simonetto dimostra epatocarcinoma in cirrosi con emocromatosi e non angiosarcoma: nel primo caso la cirrosi è esclusa, nel secondo caso la cirrosi ha origine in una malattia metabolica congenita e evolve in epatocarcinoma.

Analoghe, ancora, le conclusioni per le epatopatie non caratterizzate da tipiche lesioni da cvm, relativamente alle quali la letteratura esaminata evidenzia associazione non già all’esposizione a cvm, bensì a consumo alcoloico o a epatiti virali.

 

In conclusione, osserva il Tribunale che all’osservazione epidemiologica gli eccessi significativi che hanno evidenziato un associazione forte riguardano i tumori epatici, angiosarcoma e epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico organo bersaglio del cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori esposti ad elevate concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60, perlopiù svolgenti le mansioni di addetti alle autoclavi. Precisa tuttavia che le evidenze epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa incidenza dei due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di fattori confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’ epatocarcinoma, rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo una relazione dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di conferme per soddisfare il criterio di riproducibilità del dato.

 

Altresì per quest’ultimo si pone un problema di plausibilità biologica inquantochè non è noto neppure a grandi linee il meccanismo di induzione di tale tumore, che interessa le cellule epiteliali, da parte del cvm che, invece, tipicamente viene a colpire le cellule endoteliali : si dovrebbe dare una spiegazione plausibile della circostanza che una medesima sostanza produce neoplasie nettamente diverse sul piano morfologico ancorché interessanti lo stesso organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta neppure a livello sperimentale.

 

Eguali considerazioni merita l’ipotesi del cvm come fattore concausale che interverrebbe cioè a interagire con i noti fattori di rischio (alcool, epatite b e c, cirrosi): lo stato delle conoscenze  non consente di pervenire a nessuna conclusione in ordine alla sussistenza di tali meccanismi sinergici.

Il ricorso alla concausalità non può essere neppure un espediente per sfuggire alla prova della efficienza causale esclusiva  del fattore professionale posto che il nostro ordinamento (art 41 c p) non autorizza l’assunzione di un “modello debole “di causalità e lo statuto epistemologico della concausa impone che anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di copertura. 

Pertanto trovano spiegazione causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm  solo gli angiosarcomi  (otto) e, tra le patologie non neoplastiche, le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine, le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).

 

Tanto ritenuto in ordine alla problematica del rapporto eziologico tra esposizione a cvm e a polveri di PVC ed eventi contestati, si addentra poi il Tribunale nella disamina degli impianti e sistemi di lavorazione del cvm, PVC e DCE in Porto Marghera ponendoli in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità di dette tali sostanze, procedendo quindi alla valutazione delle condotte contestate, per verificarne la sussistenza in relazione altresì agli specifici addebiti contravvenzionali, e per desumerne o meno la configurabilità della colpa nell’analisi altresì delle singole e specifiche posizioni degli imputati.

 

In diritto, peraltro, previamente esclude la configurabilità nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage colposa secondo l’accusa da ritenersi punita "dall'articolo 449 in riferimento all' articolo 422 c p". Ricordato che appunto secondo l’accusa, sulla scia di parte della dottrina, l’accento andrebbe posto sull’articolo 449 cp che consentirebbe di ricostruire un autonoma fattispecie aperta di disastro innominato che si riempie via via di contenuto attraverso il rinvio che tale norma fa ai disastri nominati di cui al capo primo e alle altre figure di disastro indicate nel capoverso dell'articolo 449 cp, ritiene invece il Tribunale di seguire il diverso orientamento che esclude la sussistenza della strage colposa. Si osserva infatti, richiamandosi al riguardo le ritenute fondate critiche della difesa, che il dato testuale dell'articolo 449 c p, nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un richiamo selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo, individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione di genere " disastro". Ha individuato nominativamente l'incendio perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione delle norme relative ai "disastri" e costituisce anche il limite iniziale della serie delle disposizioni richiamate.

 

Ritiene invece il Tribunale corretta la prospettata configurabilità del delitto di disastro innominato colposo, disattendendo, quanto a tale reato, le critiche della difesa. Premesso che in punto di fatto il pubblico ministero, come ha chiarito anche nel corso della sua requisitoria, è ricorso a tale fattispecie per utilizzarla come "trait d'union" tra i due capi di imputazione e, anzi, per configurare un unico disastro in quanto " l'attività di industria e di impresa ha esplicato i suoi negativi influssi ed effetti sia all'interno che all'esterno della fabbrica " e cioè provocando lesioni personali e morte ai lavoratori esposti alla sostanza oncogena e altresì determinando un grave inquinamento dei sedimenti e delle acque nei canali industriali e nelle acque di falda sottostanti le discariche con tutte le conseguenze che ne sono derivate anche alla ittiofauna, si è infatti rilevato dalla difesa che, riferendo il disastro anche ad eventi interni allo stabilimento, riuscirebbe difficile tracciare il limite rispetto al disastro correlato all'articolo 437 comma secondo c p e che, inoltre, richiamando l'inquinamento delle falde e dell'ittiofauna vi sarebbe una sovrapposizione rispetto  ai contestati reati di avvelenamento e di adulterazione colposa di acque e di sostanze alimentari, e si è sostenuto che ad integrare la fattispecie non è sufficiente un qualsiasi pericolo, ma esclusivamente un pericolo che deriva da una atto diretto a cagionare un disastro (comma primo) o integrato dalla verificazione dell'evento disastroso (comma secondo).

 

Ma ritiene il Tribunale che una siffatta ricostruzione della fattispecie non sia condividibile laddove nel reato di disastro innominato si ritengano, quali elementi necessari alla sua definizione, una sia pure relativa contestualità degli eventi e la loro determinazione da causa violenta. Elementi, questi, specificativi e non costitutivi, tali essendo invece la gravità e la diffusività degli eventi nell'ambito di una comunità estesa, così da essere idonei a concretamente porre in pericolo la pubblica incolumità, eventi determinati da condotte anche protratte nel tempo che hanno, ciascuna con efficienza causale, realizzato con attività predisponente o aggravante la situazione di rischio. L’evento può verificarsi solo quando si siano determinate un complesso di condizioni: in tal caso è irrilevante verificare se i fattori causali di quel complesso di apporti sia prossimo, remoto o concomitante rispetto alla verificazione dell'evento poiché anche in tal caso ricorre il principio di equivalenza delle cause diacronicamente succedutesi ( art.41cp).

 

E nel caso che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati , le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci sindromi di Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle mansioni più a rischio. Idoneità lesiva venuta meno con la drastica riduzione delle esposizioni sin dal 1974.

Il Tribunale esclude infatti completamente la configurabilità dei delitti contestati in relazione alle condotte successive al 1973, osservandosi che, per come emerso dall’istruttoria dibattimentale, l’accertata drastica riduzione delle esposizioni a partire appunto dal 1974, avrebbe fatto venir meno l’idoneità lesiva della sostanza ed ogni situazione di rischio per l’incolumità pubblica. A sostegno di tale conclusione il Tribunale si dilunga nell’analisi delle risultanze processuali in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità del cvm, ai processi produttivi nei singoli reparti, agli interventi di manutenzione e di modifica degli impianti, volti a limitare le esposizioni dei lavoratori, alle misure di prevenzione personale predisposte, in particolare per la tutela degli insaccatori ed autoclavisti.

 

Ne consegue che il predetto reato si ritiene causalmente riferibile a quegli imputati che ricoprivano nell'epoca in considerazione (1969-1973) posizioni di garanzia e, in tale ambito temporale rimane circoscritto, perché per il periodo successivo viene meno anche l'efficienza causale della sostanza e, quindi, la situazione di rischio.

Peraltro la riferibilità causale di tale reato, così come dei reati di omicidio e di lesioni colpose per gli angiosarcomi e per le epatopatie correlate, agli imputati che nell'epoca considerata, ricoprendo posizioni di garanzia, avevano la gestione del rischio relativo all'esposizione alla sostanza tossica e oncogena, non è accompagnata anche dalla imputabilità degli eventi a titolo di colpa (tranne che per i reati di lesioni colpose per i casi di Raynaud in ordine ai quali il proscioglimento degli imputati specificamente interessati in relazione al predetto periodo di causazione, consegue alla prescrizione).

 

Il principio ispiratore, quanto appunto alla componente psicologica del reato, è che nei delitti colposi, la prevedibilità dell’evento deve essere riconosciuta, in particolare per quanto riguarda l’esercizio di attività pericolose, sulla base del criterio della migliore scienza ed esperienza presenti in un determinato settore ed in un preciso momento storico, costituito dall’epoca in cui viene iniziata la condotta. La prevedibilità dell’evento può essere affermata solo quando sussistano leggi scientifiche di copertura, le quali permettano di stabilire che da una certa condotta possono conseguire determinati effetti. La responsabilità dell’imputato può essere affermata solo quando l’evento verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che la regola cautelare intende prevenire.

 

E nella specie, all'epoca non era noto sulla base di esaurienti conoscenze scientifiche fondate su affidabili verifiche sperimentali il rischio oncogeno sull'uomo (angiosarcomi), e le lesioni epatiche indotte da cvm non avevano manifestato segni patologici inequivoci, anche perché, quando sono stati rilevati segni di sofferenza epatica, i lavoratori sono stati allontanati dall'esposizione, in tal modo osservando l'obbligo precauzionale di una adeguata sorveglianza sanitaria.

 

Obbligo non osservato, invece , relativamente ai casi accertati di Raynaud/acrosteolisi , trattandosi di patologia nota sin dalla metà degli anni '60 e regrediente con l'allontanamento dalle alte esposizioni cui era associata e perlopiù riguardante mansioni che implicavano un contatto diretto con la sostanza che doveva essere evitato con idonee misure protettive realizzate tardivamente.

Dunque secondo il Tribunale, nella fattispecie l’impresa, e per essa gli odierni imputati, risulta essersi mossa tempestivamente, sotto il profilo della modifica delle procedure e degli interventi sia immediati che a medio termiune sugli impianti e sulle apparecchiature, non appena il problema della canceroginità del cvm ebbe ad appalesarsi con un consistente fondamento scientifico. Le opere eseguite, comprovate documentalmente e confermate dai testi escussi, avrebbero, a parere del Tribunale, permesso di ottenere in breve termine una drastica riduzione dei precedenti livelli di esposizione, concretamente evidenziata soprattutto a partire dalla seconda metà dell’anno1974 e per tutto l’anno 1975, con successivi netti sviluppi di riduzione nei conseguenti anni 1976-1997 a valori ampiamente ricompresi nei limiti prudenziali e rispettosi delle soglie all’epoca individuate e successivamente stabilite dalla normativa.

 

Si ritiene dunque infondato l’addebito ascritto agli imputati sotto il profilo della responsabilità colposa, sia generica che specifica.

Né tantomeno, ed a maggior ragione, è ipotizzabile l’elemento soggettivo del dolo, integrante l’ipotesi di reato di cui all’art. 437 c.p., pure contestato dal P.M. Sotto quest’ultimo profilo, va rilevato che l’accusa, sotto la qualificazione dell’ipotesi di cui all’art. 437 c.p., ascrive l’omessa collocazione “di sistemi ed apparecchi di sicurezza destinati ed idonei a prevenire l’insorgenza di tumori e di malattie anche gravissime”.

 

Osserva al riguardo il Tribunale che tale tipologia di contestazione non contiene, nella fattispecie concreta, l’indicazione di fatti specifici, in particolare per quanto riguarda la natura degli apparecchi che avrebbero dovuto essere collocati, per cui si deve ritenere che il P.M. abbia fatto riferimento a tutte le asserite violazioni integranti gli addebiti di colpa ascritti.

Peraltro il Tribunale, nell’analisi della suddetta norma, precisa che: la previsione normativa di cui all’art. 437 c.p. configura la più severa sanzione,  predisposta per le violazioni più gravi del dovere di sicurezza, in quanto è caratterizzata sul piano soggettivo dalla necessarietà del dolo e sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà;

la fattispecie in  esame non descrive specificamente in quali situazioni sorga il dovere di attivazione, per cui deve ritenersi, secondo i principi generali concernenti la responsabilità per omissione, che la condotta di omessa collocazione possa essere correlata soltanto a quei sistemi o quegli apparecchi la cui collocazione sia obbligatoria sulla base di una specifica norma di prevenzione di disastri o d’infortuni;in sostanza, la previsione di cui all’art. 437 c.p. costituisce una fattispecie avente riguardo non già ad una qualunque violazione del generico dovere di sicurezza, ma soltanto alla violazione dolosa di precise disposizioni della statuizione normativa speciale, che di per sé siano sanzionate come contravvenzioni e che prescrivano specifici doveri di collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri od infortuni sul lavoro.

 

Dunque sorgono in considerazione, nella fattispecie, le asserite violazioni di cui ai DPR n. 547/55 e  n. 303/56; sotto il profilo oggettivo, la definizione di “impianti” individua delle installazioni caratterizzate da stabilità, così come il concetto di “apparecchi” qualifica delle attrezzature aventi una certa complessità tecnica, diretta specificamente alla prevenzione summenzionata; del resto, correlativamente, il termine “collocazione” corrisponde ad un’attività avente ad oggetto una cosa dotata di stabilità strutturale; dunque, si possono fondatamente escludere dal novero di tale previsione normativa i dispositivi di protezione individuale, nonché le cautele relative all’adozione di particolari procedure di lavoro o di organizzazione del sistema, in quanto non possiedono i requisiti suindicati. Neppure le parti d’impianto funzionali al ciclo produttivo rientrano nell’ambito dei dispositivi suddetti, poiché indubbiamente la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. si riferisce a strumenti aventi specificamente ed unicamente la destinazione  alla sicurezza.

 

E in forza di tali premesse ritiene che: gli addebiti di omesso blocco degli impianti e di omesso risanamento dei medesimi, di mancata manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, di mancata adozione delle misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, di mancata emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione (con la relazione del marzo 1977) dell’Istituto di Medicina del Lavoro, sono tutti al di fuori della previsione normativa succitata, sia per la genericità dell’oggetto, sia per la palese non correlabilità alle nozioni di collocazione di apparecchi specifici con finalità antinfortunistica o comunque di prevenzione; la contestazione d’insufficiente manutenzione degli impianti, con riferimento alla sostituzione degli organi di tenuta (valvole, rubinetti), non concerne ugualmente l’ambito applicativo della norma di cui all’art. 437 c.p. ; infatti, tali organi costituiscono parti degli impianti produttivi normalmente funzionanti e non integrano invece specifici e distinti strumenti con finalità preventiva; gli addebiti di omessa sorveglianza sanitaria, di omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti procedure, di omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di omessa separazione delle lavorazioni insalubri, sono ugualmente tutti estranei all’ambito della fattispecie normativa di cui all’art. 437 c.p., sempre per le motivazioni suesposte in ordine alla circostanza che trattasi di addebiti relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed antinfortunistica.

 

Secondo il Tribunale anche la contestazione di omessa collocazione di adeguati strumenti di monitoraggio non appare rientrare nel novero degli strumenti anzidetti. In ogni caso, anche a ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi tra le apparecchiature summenzionate, si è ampiamente evidenziato che i medesimi sono stati effettivamente collocati nel contesto dei singoli reparti, in termini di certa tempestività e con efficacia sicuramente appropriata a controllare le singole zone di lavoro.

E analogamente inconsistenti, alla luce delle installazioni e delle modifiche impiantistiche adottate con le commesse analiticamete ricordate dal Tribunale, si ritengono gli addebiti relativi alla mancanza di cappe d’aspirazione.

 

Ulteriormente precisa poi il Tribunale che l’infondatezza sul piano oggettivo dell’ipotesi di reato di cui all’art. 437 c.p. trova riscontro sotto il profilo soggettivo, in quanto è del tutto inesistente una consapevole volontà, negli imputati di cui al presente giudizio, di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi. La consapevolezza della condizione di rischio correlata all’esposizione  degli operatori risulta essere stata invece adeguatamente affrontata dall’impresa, e per essa dagli odierni imputati, mediante l’adozione di tutte le iniziative idonee, sia per quanto riguarda la modifica delle procedure che per quanto concerne l’adozione degli elementi tecnologicamente più avanzati e la modifica e ristrutturazione degli impianti.

In conclusione sarebbe rimasta provato che solo per quanto riguarda gli operatori sui quali è stato riscontrato il fenomeno di Raynaud i valori espositivi erano superiori ai limiti di cui alla normativa vigente, cioè 500 ppm, nell’arco temporale sino al 1974. Trattasi in particolare dei lavoratori autoclavisti e degli operatori all’insacco ed all’essiccamento, sopra specificamente individuati con riferimento all’ipotesi della malattia di Raynaud ed all’acroosteolisi, per i quali indubbiamente è emerso che, fino al momento dell’adozione delle diverse procedure ed alla modifica ed all’aggiornamento degli elementi delle apparecchiature, cioè fino all’epoca decorrente dall’anno 1974, non sono state adottate le misure cautelari idonee ad evitare l’eccessivo contatto diretto tra le mani ed il CVM.

 

Ma sulla scorta di tutte le considerazioni svolte, ribadisce il Tribunale che non può però ravvisarsi alcuna forma di continuità o di correlazione tra le predette patologie e quelle tumorali od epatiche, assolutamente distinte quanto a tipologia e formazione e quindi integranti un tipo di evento diverso e non prevedibile, le quali sono state oggetto di acquisizioni scientifiche sufficienti soltanto a partire all’anno 1974, come evidenziato da tutte le organizzazioni internazionali che si occupavano della sostanza in esame. Del resto, si ricorda, tutte le patologie anzidette, integranti eventi di tipo diverso, trovano origine nelle elevatissime esposizioni degli anni cinquanta e sessanta, le quali rimangono al di fuori della contestazione del P.M. e quindi del presente giudizio.

Conclusivamente quindi il Tribunale individua gli imputati cui riferire i ritenuti fatti-reato solo sotto il profilo causale (angiosarcomi e epatopatie) e talune patologie sia sotto il profilo causale che colposo (Raynaud/ acrosteolisi), lesioni colpose ormai estinte per intervenuta prescrizione, specificando dunque, per tutte le ipotesi di reato ricomprese nel primo capo d’imputazione le conseguenti formule di assoluzione o proscioglimento.

Non si esime infine il Tribunale da valutazione e conclusione di sintesi in ordine all’accusa prospettata, osservando che il processo ha sofferto della fuorviante impostazione accusatoria, un procedere senza distinzioni in cui sono mancate le coordinate spazio temporali necessarie per orientare nella individuazione delle condotte e dei soggetti ai quali fossero imputabili.

 

Si ricorda che nel 1° capo di imputazione si addebitano tumori e malattie (721 patologie – di cui 228 neoplasie-relative a 542 parti offese, ridotte nelle conclusioni a 311 patologie – di cui 164 neoplasie - relative a 263 parti offese) riferite a condotte omissive che si sarebbero estese in uno spazio temporale ininterrotto e non concluso di 30 anni (il PM ha contestato la permanenza in atto).

Addebiti di colpa infondati in fatto e eventi suggestivamente massificati configuranti i reati di disastro colposo e di strage colposa  (inesistente nel nostro ordinamento giuridico) di grande impatto e forza evocativa.

Eventi che, nei limiti in cui siano imputabili all’esposizione a CVM-PVC, devono essere ricollocati nel loro tempo reale, un "quadro del passato" che ci  riporta alle condizioni di lavoro incidenti sullo stato di salute dei lavoratori che sono quelle degli anni ‘50 – ‘60 e non  alla fase temporale successiva (1969-2000) che è stata proposta all'esame dibattimentale.

 

Questa sfasatura temporale, secondo il Tribunale, ha percorso tutto il processo e ne ha determinato gli esiti: perché era reale la rappresentazione dei fatti se riferita al tempo passato e, invece, inattuale e contraria al vero se riferita agli anni successivi.

Dunque necessaria una contestualizzazione storica per uscire dalla confusione e dalla sovrapposizione dei piani temporali.

Ricorda al riguardo il Tribunale che allorquando nei primi anni ‘50 presso il petrolchimico di Porto Marghera iniziò la produzione del cloruro di vinile e del polivinile  le condizioni di lavoro erano estremamente pesanti, usuranti e nocive e non subiranno cambiamenti fino alla fine degli anni ‘60, primi anni '70.

 

Da tale periodo iniziano a determinarsi alcuni non irrilevanti mutamenti sulla scorta delle rivendicazioni sindacali e della presa di coscienza dei diritti degli operai.

Vi concorrono le prime conoscenze sulla sospetta cancerogenità del c v m che gli esperimenti sugli animali portati avanti da Maltoni evidenziano.

La definitiva conferma, nel gennaio 1974, della cancerogenità della sostanza determinerà una accelerazione degli interventi sulle procedure di esercizio degli impianti di polimerizzazione, sugli interventi di manutenzione e sulle modificazioni ai processi e agli impianti.

L’incalzare del sindacato, da un lato, la responsabile disponibilità della controparte, dall’altro,  progressivamente e in uno spazio temporale relativamente breve,  ridurranno le esposizioni drasticamente: dai 500 ppm (e oltre) degli anni '50 '60 e dai 200 ppm dei primi anni '70  si passerà rapidamente a esposizioni di 25 ppm e già nel 1975 oscillanti tra 5 e 3 ppm, per portarsi poi negli anni successivi al di sotto di 1 ppm.

 

A esposizioni, cioè, non solo consentite sulla base del parametro di 50 ppm provvisoriamente raccomandato nell'aprile del 1974 dal Ministero della Sanità (che è quello stesso fissato in Germania  e nel Regno Unito), ma ampiamente al di sotto dei nuovi parametri allorquando la normativa di recepimento della direttiva CEE fisserà con DPR n° 962 del 1982 il limite di 3 ppm come esposizione media di lungo periodo.

Nei reparti di polimerizzazione, e quindi in quelli con i valori di esposizione più elevati e maggiormente a rischio (CV6, CV16, CV14, CV24), nel periodo intercorrente tra l'aprile del 1974 e la fine del 1975 sono state eseguite 5351 determinazioni mediante "pipettone": i valori medi mensili di concentrazione del c v m sono inferiori a 50 ppm in tutti i periodi di tale arco temporale e tendono a una progressiva diminuzione tanto da raggiungere nei primi mesi del 1975 valori medi inferiori a 5 ppm.

I valori espressi dalle rilevazioni dei gascromatografi entrati in funzione nel marzo 1975 vengono confrontati anche con i campionatori personali indossati su turni di 8 ore di operai dedicati a varie mansioni di lavoro e la correlazione è confermata : negli anni 1976-1977 il 75% delle determinazioni è risultato inferiore a 1 ppm, il 14% è risultato compreso fra 1 e 2 ppm, il 5% compreso fra 2 e 3 ppm, il 4% compreso fra 3 e 5 ppm e lo 0, 7% superiore a 5 ppm. A novembre del 1975 i valori medi mensili sono inferiori a 1 ppm.

Tale crollo delle esposizioni fu la conseguenza incontestabile di modifiche delle procedure, di interventi sugli impianti, documentata in atti e confermata dalle prove testimoniali.

Dunque, i tumori e le patologie che il pubblico ministero ha ritenuto riferibili all'esposizione al cvm sono tutti, pacificamente e incontrovertibilmente, come hanno detto unanimamente i consulenti della accusa e della difesa, attribuibili alle condizioni di lavoro e alle alte esposizioni degli anni '50 -'60.

 

Questa è l'epoca in cui sicuramente si ignorava la oncogenità del c v m: in tutti paesi in cui si produceva questa sostanza, in tutti gli stabilimenti in cui si sono compiuti i numerosi e approfonditi studi epidemiologici, aggiornati fino ai tempi nostri, la produzione del polivinile è avvenuta nelle medesime condizioni lavorative, con gli stessi elevati livelli di esposizione e con gli stessi sistemi produttivi  esistenti a quell'epoca a Marghera.

Per propria scelta quindi il pubblico ministero non ha agito nei confronti degli amministratori e dei dirigenti di quell'epoca perchè ha ritenuto che gli eventi verificatisi non potevano essere loro addebitati per mancanza di colpa derivante dall'ignoranza degli effetti oncogeni. Il pubblico ministero ha deciso invece di agire nei confronti dei loro successori.

Per portare comunque a compimento il suo proposito il PM è stato costretto a trasferire l’epoca della causalità a quella della colpa: ha collocato cioè la causa degli eventi, risalenti alla prima era degli anni '50 '60,  nella seconda era degli anni '70-2000 allorquando "si sapeva”, muovendosi su tre direttrici.

 

La prima tende, nei limiti in cui è possibile, a sovrapporre la prima e la seconda "era": la conoscenza della oncogenità del c v m è fatta risalire al 1969, e cioè ai primi esperimenti del dottor Viola che individua sui ratti esposti ad elevatissime concentrazioni di c v m (30 mila ppm) dei tumori sottocutanei, ancorchè tali esperimenti siano stati ritenuti non significativi e non estrapolabili da animale a uomo oltre che dalla comunità scientifica anche dallo stesso autore.

Si pretende cioè dal PM un adeguamento immediato ai risultati degli esperimenti di Viola comunicati nel 1970, ancorché lo stesso autore sia cauto sul significato degli stessi e ritenga sia necessario un  loro approfondimento.

Tutta la comunità scientifica e gli organismi internazionali (OMS) rimasero in attesa di conferme e di sviluppi della ricerca che era impostata su modelli sperimentali ritenuti inadeguati (alte concentrazioni, numero e specie di animali insufficiente..) e comunque non estrapolabili dall’animale all’uomo.

 

E’ stata Montedison ad assumere la tempestiva  iniziativa di uno studio basato su modelli sperimentali che saranno unanimamente apprezzati, incaricando sul finire del 1970 il professor  Maltoni di condurre un esperimento secondo metodologie adeguate, "meno pionieristiche", che produrrà i primi risultati, individuando i primi angiosarcomi al fegato in ratti, topi, criceti nel 1972, risultati che l’oncologo comunicherà al committente nel novembre e, ancorché parziali, alla comunità scientifica già nell’aprile dell'anno successivo.

 

Suggestivamente il PM insinua, ma non prova, che le industrie sapessero e che avessero sino allora taciuto perchè avvinte da un patto di segretezza svelato dalle prime morti per angiosarcoma accertate su tre lavoratori della società americana Goodrich nel gennaio del 74. In proposito anche il consulente dell'accusa prof. Carnevale, che pure si è occupato di complotti dell'industria, ha affermato che vi furono sospetti, ma che nulla risulta in letteratura. Sotto il profilo più propriamente probatorio, dagli atti acquisiti nel corso della rogatoria negli USA effettuata dal PM è emerso piuttosto che le industrie europee e americane si vincolarono ad un patto di riservatezza sino alla conclusione degli esperimenti di Maltoni con il proposito di garantirsi da fughe di notizie e strumentalizzazioni che potessero avvantaggiare gli uni e pregiudicare gli altri, patto che non ebbe alcuna esecuzione per le perplessità delle industrie americane e per le notizie preoccupanti sui primi risultati sperimentali comunicati da Maltoni.

Gli esperimenti di Viola possono essere considerati un campanello d’allarme sulla possibile oncogenità della sostanza e sono stati assunti da Montedison, cui si sono associate le altre industrie europee, come un impegno ad approfondire gli studi sperimentali per fare chiarezza e per pervenire a risultati probanti ai fini di adottare le conseguenti decisioni.

Ma nel frattempo Montedison non rimase inerte perché avviò commesse ed eseguì interventi già nel 1973 che riducevano l’esposizione negli impianti di polimerizzazione (il degasaggio e lo scarico delle autoclavi, la loro bonifica e  pulizia).

 

E successivamente, come si è detto, quando la cancerogenità fu confermata sull’uomo dai casi di angiosarcoma su tre lavoratori della industria statunitense Goodrich accertati nel gennaio 1974, intraprese quelle modifiche agli impianti, cui si è fatto diffusamente riferimento nella parte motiva, che ridussero drasticamente le esposizioni ai fini di prevenire tali eventi avversi.

Nel corso degli anni successivi l’attività di risanamento ha intrapreso ulteriori iniziative da cui è  conseguito il raggiungimento di valori ampiamente al di sotto della soglia stabilita.

Il pubblico ministero intraprende la seconda direttrice.

 

Contesta l'affidabilità delle misurazioni da parte dei gascromatografi installati nei vari reparti : ma la comparazione con i rilevamenti effettuati con “i pipettoni” e con i campionatori personali smentiscono tale assunto perché viene evidenziata una situazione espositiva sostanzialmente corrispondente con diversi sistemi di rilevazione. Anche gli accertamenti effettuati dal consulente dell’accusa privata su pretese violazioni di procedure nell’esercizio dei gascromatografi  risultano del tutto inidonei a infirmare la validità e la correttezza del loro funzionamento e, comunque, anche a voler ammettere l’esattezza dei rilievi, le divergenze cui si perviene sono del tutto trascurabili.

 

Contesta ancor più radicalmente il PM l’introduzione nel 1975 di un sistema di monitoraggio sequenziale multiterminale che determinerebbe una diluizione delle concentrazioni. Ma tale sistema è conforme alla direttiva CEE e al DPR n° 962/1982, è stato quello prescelto anche dalla componente maggioritaria del sindacato, perché più idoneo a rilevare l’effettiva esposizione dei lavoratori nelle zone di lavoro: comunque dai raffronti eseguiti nei reparti CV6,CV14,CV16 è risultato che i valori medi ottenuti dal sistema monoterminale erano sovrapponibili a quelli acquisiti col sistema pluriterminale.

La pubblica accusa nell’intento di infirmare i valori espositivi, ampiamente al di sotto di quelli stabiliti dalla normativa, intraprende la terza direttrice e si attesta su una posizione di assoluta intransigenza, negando che vi possa essere una qualsivoglia soglia di sicurezza per gli oncogeni : "non si può escludere". Si tratta di una posizione cautelativa condivisibile sotto l'aspetto sociale, ma la valutazione del legislatore è stata diversa perché non ha vietato la produzione del cvm, ma ha semplicemente imposto dei limiti di esposizione che ritiene possano essere cautelativi rispetto al rischio oncogeno.

 

Gli studi tossicologici e di oncogenesi ampiamente esaminati e discussi nella parte motiva sono convergenti, secondo il Tribunale, nell’individuare un rapporto dose-risposta per il c v m, individuando una dose cumulativa di non effetto a 10 ppm (Maltoni, Weinrauch, Swemberg).

Ricorda d’altra parte il Tribunale come gli studi epidemiologici hanno individuato un caso di angiosarcoma ad una esposizione cumulativa per dieci anni di 288 ppm, la più bassa che ha provocato tale tumore, equivalente a 25 - 28 ppm di esposizione cumulativa annua.

E che l'osservazione ha messo in evidenza che nessun angiosarcoma del fegato si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella coorte europea e successivamente al 1967 nella coorte statunitense e in quella di Porto Marghera. Ed ancora si ricorda il recente studio (Rozman e Storm-1997-) con il quale viene confermato che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968, traendone la conseguenza che la riduzione dell'esposizione entro il range di 0,5- 5 ppm sembra essere stata sino ad ora adeguatamente protettiva".

 

Si osserva infine che il principio di precauzione è divenuto patrimonio della cultura scientifica, industriale e legislativa solo in tempi recenti e per quanto riguarda il CVM la sua produzione iniziale del cvm, risalente agli anni 30, non fu sottoposta a sperimentazioni precauzionali se non per quanto riguarda il rischio di esplosione e fu usato negli spray e come anestetico fino ai primi anni '70. Solo, dopo la scoperta della sua oncogenità e purtroppo delle morti causate, i numerosi studi sperimentali e epidemiologici hanno dato delle indicazioni in base alle quali il legislatore ha posto dei limiti cautelativi che appaiono adeguatamente protettivi.

 

E se tali limiti sono rispettati (si intende i limiti cumulativi medi e non gli sforamenti occasionali che pur possono tutt'ora esserci per disfunzioni o per "incidenti rilevanti" in occasione dei quali vengono tuttavie attivate le procedure di emergenza) e se sinora non si sono verificati effetti avversi nonostante che sia trascorso un periodo temporale che oltrepassa il periodo medio di latenza dei tumori indotti, che è di 28-30 anni, l’ultimo fronte su cui si attesta  il pubblico ministero -secondo cui "nessuna dose è sicura"- non ha nessuna valenza giuridica e nessun fondamento in fatto.  Così come infondata si sarebbe dimostrata la tesi dell'effetto sinergico anche a basse dosi tra c v m, alcol ed epatiti virali b e c.  Si ricorda ancora, infatti, che in presenza di tali fattori di rischio, che da soli possono offrire una spiegazione causale o alla patologia o alla neoplasia (in particolare alle epatopatie, alle cirrosi, all'epatocarcinoma), il supposto contributo del cvm non ha trovato convincenti conferme nelle ricerche sperimentali.

 

Queste le ragioni in base alle quali il tribunale ha ritenuto di non poter accogliere l'impostazione accusatoria che contesta i reati in oggetto a 31 amministratori e dirigenti che avevano governato e gestito il petrolchimico per trent'anni ai più alti livelli, ognuno accusato di essere consapevole della responsabilità del predecessore, ognuno partecipe  del medesimo disegno criminoso, tutti responsabili dei medesimi addebiti di colpa come se la situazione all'interno dello stabilimento fosse rimasta immodificata non solo negli ultimi trent'anni, ma fosse rimasta quella degli anni ’50-’60.

 

Conclude infine il Tribunale ribadendo ancora che in questa traslazione dei piani temporali si annida il vizio d’origine della imputazione, in un quadro del passato riportato al presente, in una artificiosa forzatura che non consente di individuare negli imputati condotti a giudizio i responsabili di eventi che hanno la loro causa  in un'altra epoca, cui si accompagna la rappresentazione di un quadro accusatorio che risente dell’enfasi della formulazione “a grappolo” delle fattispecie di reato in cui è inserito un ingiustificato accumulo di eventi.

Avverso tale sentenza proponeva appello il P.M., nonché, ex art. 576 cpp, le costituite Parti Civili.

In particolare, il P.M. proponeva impugnazione e chiedeva la riforma della sentenza relativamente alla intestazione dell’imputazione, nonché relativamente a tutti i punti del dispositivo che fanno riferimento al primo e al secondo capo d' imputazione  e per tutte le fattispecie di reato contestate agli imputati (fatta eccezione per quella di cui agli art. 422-449 c.p.) risultanti sia dal decreto di rinvio a giudizio, sia dalle contestazioni ex art. 517c.p.p. di cui alle udienze dell' 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000.

 

Il P.M. chiede, quindi, che venga dichiarata la penale  responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati e per i periodi di competenza rispettivamente loro contestati fin dall’udienza preliminare, nonchè  che i medesimi vengano condannati alla pena della reclusione specificatamente per ognuno di essi richiesta all'esito della requisitoria di primo grado.

Non viene presentato appello relativamente al terzo capo d’accusa (parte C), perché il reato è ormai prescritto, e in relazione all’ipotesi di reato di cui agli artt. 422-429 (rectius 449) c.p., affermandosi essere ipotesi del tutto residuale.

Sostanzialmente e sinteticamente, i motivi che determinano l’appello  per entrambi i capi d’imputazione (A e B) vengono enunciati nei seguenti:

- omessa lettura ed omessa considerazione di tutto il materiale probatorio fornito da Pubblico Ministero e dalle parti civili;

- omissione dei fatti, storici e processuali, indicati dal Pubblico Ministero e dalle parti civili, a sostegno delle proprie rispettive richieste finali;

- travisamento dei fatti;

- omessa considerazione di tutti i fatti e i dati riferiti dai consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili;

- travisamento ed errata interpretazione delle valutazioni di cui consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili.

- incompletezza e contraddittorietà della motivazione;- omessa considerazione e omessa applicazione di norme di legge, poste a tutela sia dei lavoratori che dell’ambiente, norme di legge vigenti da decenni rispetto all’epoca (1974) considerata dal Tribunale come rilevante in questo processo;

- errata interpretazione delle norme del codice penale e delle leggi speciali penali contestate agli imputati; errata interpretazione ed errata applicazione delle norme processuali penali relative al rigetto di richieste istruttorie dibattimentali sia del P.M. che delle parti civili.

 

Si lamenta quindi preliminarmente la NON CORRETTA INTESTAZIONE DELLA SENTENZA e l’ERRONEA RICOSTRUZIONE DELLE ACCUSE DEL P.M. evidenziandosi che il Tribunale ha omesso di riportare l'integrale capo d'accusa, e in particolare, ha omesso di riportare le contestazioni formulate ex art. 517 c.p.p. nel corso delle udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000.

 

Già per tale motivo, si chiede innanzitutto una riforma totale della sentenza di primo grado.

Quanto al merito, relativamente al primo capo d’imputazione, esordisce il P.M. con la disamina delle ACCUSE DI CUI AGLI ARTT. 437-589-590 C.P., lamentando superficiale ed erronea valutazione da parte del Tribunale, osservandosi che  in più punti della motivazione, ma in particolare alle pagine 462 e 463, la sentenza riconosce per " l'arco temporale fino al 1974 "che i livelli di esposizione al CVM per autoclavisti, insaccatori ed  essiccatori erano " nettamente superiori " ai limiti della normativa vigente, che il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi riscontrati e confermati anche dal Tribunale in queste categorie di operai erano dovuti al loro lavoro, per il quale fino al 1974 " non sono state adottate le misure cautelari idonee ".

 

In conclusione, riconosciuto il nesso causale, il Tribunale -a causa dell'eccessivo decorso del tempo- dichiarava la prescrizione per le lesioni colpose in questione e, contrariamente a quanto ci si poteva e doveva attendere, dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437 (omissione dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per condotte tenute in un'epoca successiva al 1973 ".

Il Tribunale si sarebbe dunque dimenticato del periodo precedente -che di dice sicuramente contestato dal Pubblico Ministero- mentre altrettanto sicuramente, stando alle sue stesse motivazioni, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare per l'articolo 437 c.p. la penale responsabilità quanto meno degli imputati per i quali lo stesso Tribunale aveva dichiarato la prescrizione del reato di lesioni colpose (CEFIS, BARTALINI, CALVI, GRANDI, GATTI, D’ARMINIO MONFORTE e SEBASTIANI), anche perché l'ultimo fenomeno RAYNAUD riconosciuto e ammesso dal Tribunale ( quello di Gabriele BORTOLOZZO) era stato diagnosticato nel 1995 e, quindi, non era prescritto (neanche come lesione) il 2 novembre 2001 (come, peraltro, non erano prescritte le lesioni diagnosticate dopo il 1995 per Terrin Ferruccio e per Guerrin Pietro, posizioni che il Tribunale non ha nemmeno considerato, pur trattandosi di parti civili ancora costituite).

 

Ciò già imporrebbe la modifica della sentenza di primo grado e del dispositivo "in parte qua". Ma comunque, secondo l’appellante, relativamente all'accusa di cui all'art. 437 codice penale, nella sentenza si rinvengono ulteriori e più ampi vizi, in fatto e in diritto, per i motivi che seguono, che hanno attinenza sia alla interpretazione giuridica delle norme, sia alle contestazioni specifiche risultanti dal primo capo d'imputazione, sia agli studi e alle conoscenze  storiche  sulla tossicità e sulla cancerogenicità del CVM, sia alle proprietà nocive, tossiche e cancerogene del CVM e del PVC.

Si sostiene, in particolare, che il Tribunale ha gravemente errato nella scelta di affidarsi totalmente ed esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati, omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale probatorio acquisito, che riguarda:

- le conoscenze storiche sulla tossicità del CVM (che si dice risalire alla fine degli anni quaranta e non ai primi anni settanta);

- i particolari organi colpiti dal CVM .

Si aggiunge altresì che, altrettanto inspiegabilmente,  il Tribunale ha negato l'esistenza e comunque l'applicazione di norme a tutela della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970, norme sicuramente vigenti quanto meno dall’epoca dei D.P.R. nr. 547/55 e nr. 303/56.

 

Quanto all’INTERPRETAZIONE GIURIDICA DELL’ART. 437 CP, per l’appellante fulcro e punto centrale di riferimento relativamente al primo capo d’imputazione, considerato come la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole imputazioni, premesso che il Tribunale avrebbe dedicato a tale norma poche, carenti, contraddittorie e generiche osservazioni liquidando come insussistente il fatto ascritto agli imputati, si precisa che nel presente procedimento tutte le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p. sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura: sono riferite cioè a tutte le disposizioni normative espressamente previste nello stesso capo d’imputazione.

 

E rispetto alle condotte individuate sarebbero stati esattamente individuati e provati i fatti specifici ascritti agli imputati, affermandosi che questi fatti hanno costituito violazione dei doveri di sicurezza in materia di lavoro; commessi consapevolmente, sono fatti la cui volontarietà ha concretizzato il reato dell’art. 437 1° comma c.p. determinando, nella verificazione dei molteplici eventi costituenti malattie e il disastro colposo, l’aggravamento della richiesta della pena come previsto dal 2° comma dello stesso articolo.

 

Si sostiene preliminarmente in ordine alla natura oggettiva e soggettiva di tale reato, che la motivazione dell’impugnata sentenza dimostra un’evidente incongruenza che inficia già dall’inizio l’intero impianto logico su cui è costruita. Ed infatti si fa osservare che mentre inizialmente essa nega la configurazione del reato dal punto di vista oggettivo, soffermandosi sulla natura e sulla nozione dei concetti di “impianti”, “apparecchi” “segnali”, sulla locuzione “destinati a”, sull’interpretazione del termine “collocati”, successivamente sostiene, in contraddizione con quanto poco prima affermato, che non vi è stata alcuna consapevole volontà da parte degli imputati di omettere quelle stesse condotte che tuttavia aveva negato essere esistenti sul piano oggettivo (“di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi”).

 

Circa l’ASSERITA INSUSSISTENZA DEL REATO EX ART. 437 C.P. SUL PIANO OGGETTIVO, ci si lamenta che il Tribunale abbia fornito a più riprese una interpretazione capziosamente rigorosissima - quanto assolutamente priva di seguito sia in dottrina che in giurisprudenza - della previsione normativa e della sua applicabilità in concreto. Interpretazione che, se si dovesse seguire la tesi del Collegio giudicante, verrebbe a vanificare l’applicabilità della fattispecie astratta ogni qual volta un Giudice si dovesse trovare di fronte all’imputazione per il reato di cui all’art. 437 c.p.. Infatti esordisce il Collegio con l’affermazione “…la previsione normativa di cui all’art. 437 c.p.……è caratterizzata sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà” (pag. 459).

 

E facendo tesoro di quest’ultima gratuita asserzione, la sentenza nega la sussistenza del reato sotto l’aspetto oggettivo sostenendo con puntiglioso vigore che le condotte omissive attribuite agli imputati sarebbero estranee alle nozioni espresse dalla  norma penale  in questione. Si osserva invece da parte dell’appellante che l’art. 437 c.p.  trova il suo primo, insopprimibile e fondamentale punto di riferimento negli articoli 32 1° comma e 41 della Costituzione che sanciscono il diritto della salute dell’individuo anchge nelle nelle sue formazioni collettive. Dunque è dalla Carta  costituzionale che derivano, concretizzandone i principi fondamentali, le disposizioni della normativa speciale che in questo processo sono  state enucleate e circoscritte,  quanto al  primo capo  d’imputazione, nei  D.P.R.  547/55,  303/56, nonché nell’art. 2087 c.c., oltre che  nelle  norme  derivanti dai contratti lavoro.

 

Tali norme speciali, che il Tribunale avrebbe decisamente ignorato, contengono tutte secondo l’appellante che così vuole risalire alla ratio dell’art. 437 cp, una disposizione di carattere generale, dalla quale non si può prescindere, che costituisce il “cappello” al rispettivo testo legislativo.Si tratta dell’art. 4 del D.P.R. 547/55 e dell’art. 4 del D.P.R. 303/56, norme che sono l’una lo specchio dell’altra: esse contengono il principio imprescindibile che impone l’obbligo per il datore di lavoro di attuare ogni misura diretta ad evitare che la sicurezza e la salute del prestatore di lavoro possano essere poste in pericolo e/o danneggiate. E’ il bene dell’integrità dei lavoratori l’oggetto centrale della tutela posta dall’art. 437 c.p., che interviene con al sanzione ogni qualvolta vi sia una volontaria violazione degli obblighi imposti a tali fini dalle norme speciali.

La norma di cui all’art. 437 c.p. è dunque diretta ad  anticipare  – reprimendo la condotta omissiva (o commissiva) – la soglia di tutela  rispetto all’effettiva lesione del bene  protetto,  imponendo che vengano adottate tutte le misure cautelari per evitare ingiustificati innalzamenti del rischio nell’esercizio di qualunque attività economica.

Il Tribunale invece, ne ha inopinatamente, ingiustificatamente, illegittimamente e arbitrariamente voluto restringere l’operatività, procedendo, sulla base di una elencazione fondata sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma penale, ad escludere dal novero della previsione normativa dell’art. 437 c.p., e quindi dalla possibilità di attribuzione del reato agli imputati sotto il profilo oggettivo:

a)tutti quegli strumenti o dispositivi (non collocati per effetto delle condotte omissive addebitate dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non rientranti nel concetto di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel concetto di apparecchi (“caratterizzati dalla complessità tecnica”)(pag. 460);

b)tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene o generiche per mancata individuazione dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi antinfortunistici (pag. 460-461);

c)tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità operative” e non ad attività di natura preventiva ed antinfortunistica (pag. 461).

 

In realtà, secondo l’appellante, la stessa dottrina più accreditata in materia e la costante giurisprudenza sostengono unanimemente il principio di carattere generale secondo cui l’interprete non è autorizzato, sia dal dato testuale della norma sia dalla ratio complessiva, ad introdurre elementi restrittivi tali da costituire insidiosi svuotamenti della norma. Richiedendosi solo, secondo citati pronunciati della Suprema Corte, “che il comportamento dell’agente si concreti nella omissione, rimozione o danneggiamento di apparecchiature che risultino necessarie per la prevenzione di infortuni in relazione ad una collettività lavorativa la cui entità pone essa stessa le condizioni della diffusibilità del pericolo” (Cass. sez. I 2.3.1983).

 

Quanto dunque al primo assunto (a), il Tribunale, per negare l’attribuibilità delle condotte specificamente contestate agli imputati, concentra l’attenzione sulla nozione “destinati a”, senza avvedersi che proprio quelle condotte che sono state contestate in questo giudizio hanno tutte un comune denominatore, costituito dall’essere state dirette a vanificare la sicurezza dei prestatori di lavoro nell’esercizio dell’attività in termini prevenzionistici e antinfortunistici. “Destinati a” dice l’art. 437 c.p., e dunque deve trattarsi di un qualunque congegno di qualsiasi rilievo a funzione prevenzionistica. Dunque anche i mezzi di protezione personale che costituiscono fondamentale strumento per il corretto esercizio di una doverosa attività di cautela e di prevenzione ai fini della sicrezza sul luogo di lavoro, cautela che nello stabilimento Petrolchimico non sarebbe stata adottata, per come riconosciuto dallo stesso Tribunale almeno fino al 1974.

 

Quanto al secondo assunto (b), gli addebiti liquidati dal Collegio come “generici” o “non correlabili” (le condotte omissive relative al blocco degli impianti, al risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in ordine alla sostituzione degli organi di tenuta) non solo trovano nell’istruttoria dibattimentale svolta la loro concretezza in situazioni di luogo e di tempo, ma è la loro stessa individuazione nell’imputazione a trovare corrispondenza nella fattispecie astratta descritta dalle norme speciali. Gli addebiti mossi sarebbero infatti immediatamente riconducibili alle disposizioni che nel capo d’imputazione identificano la condotta tenuta (ovvero, non tenuta) dagli imputati: in primis alle norme più sopra citate (gli articoli 4 dei due D.P.R. in tema di sicurezza e salute) che fanno parte del corpo normativo della legislazione speciale, costituendone i principi introduttivi che fondano le condotte doverose; a seguire le singole disposizioni citate; in chiusura l’art. 2087 c.c.

Quanto al terzo assunto ( c ) in forza del quale il Tribunale vorrebbe escludere l’operatività dell’art. 437 c.p. in  relazione a quelle condotte contestate che ritiene costituire soltanto “modalità operative”, diverse quindi dalla omissione di cautele (omessa sorveglianza sanitaria, omessa informazione ai dipendenti, omessa adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o differenti procedure, omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, omessa separazione delle lavorazioni insalubri), si sostiene contrariamente che le condotte omissive ora enunciate  trovano nelle disposizioni speciali la loro esatta e puntuale collocazione, laddove esse impongono che tali attività preventive siano svolte nel rispetto della sicurezza e della salute dei prestatori di lavoro nell’esercizio dell’attività imprenditoriale.

 

Passando alla questione relativa al PROFILO SOGGETTIVO DEL REATO EX ART. 437 C.P., si osserva come essa sia sorprendentemente esposta dal Tribunale in termini del tutto riduttivi, concludendo nel senso che gli imputati, nella consapevolezza della condizione di rischio correlata all’esposizione degli operatori, affrontarono adeguatamente la situazione adottando tutte le iniziative idonee. Lamenta al riguardo l’appellante che della grandissima parte degli elementi probatori emersi nel corso del dibattimento di primo grado la motivazione o non ha tenuto conto, o ne ha estrapolato solo alcune parti per fondare le proprie motivazioni, tralasciandone altre di uguale e contraria portata, o, infine, ne ha evitato la doverosa opera di confutazione.

 

Contrariamente il P.M. appellante, premesso in diritto sul tema del dolo nel reato di cui all’art. 437 c.p. che la condotta dolosa addebitata ai sensi dell’art. 437, I° comma c.p. agli imputati di questo processo è quella di avere omesso, con coscienza e volontà, tutte le doverose cautele indicate dal capo d’imputazione, con la consapevolezza che tali cautele avevano lo scopo di prevenire il disastro, sostiene che tali elementi, comprovati dall’istruttoria dibattimentale, mettono in luce prima di tutto che gli imputati, tutti, dovevano conoscere e conoscevano le specifiche e inderogabili prescrizioni contenute nelle norme dei D.P.R. 547/55 e 303/56 che il capo d’imputazione ha dettagliamente descritto. Dovevano conoscere e conoscevano il dovere di diligenza e di perizia dettato dall’art. 2087 c.c.: dovere qualificato, perché posto in capo a datore di lavoro.

 

Dovere di diligenza che significa anche dovere d’informazione, anche in relazione a tutto ciò che attiene le conoscenze scientifiche e tecniche, e che imponeva agli imputati di adottare precisi comportamenti e di apprestare tutti i mezzi per la concreta tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.

E sostiene l’appellante che nella specie gli imputati di questo processo si sono esattamente rappresentati la situazione di grave rischio lavorativo che incombeva sui dipendenti nel lavorare sostanze conosciute da decenni come tossiche e poi come cancerogene e si sono conseguentemente rappresentati gli strumenti necessari ad evitare o a contenere le dinamiche offensive, ma pur in tale consapevolezza e conoscenza non hanno ottemperato ai loro doveri.

Secondo il P.M. infatti il processo di primo grado ha provato che il CVM è conosciuto sin dagli anni ’40 come sostanza tossica per il fegato e per gli arti, produttrice di malattie quali il morbo di Raynaud, l’acroosteolisi, varie forme di epatopatia; ha provato che ben prima del 1974 le aziende chimiche produttrici della sostanza e dei suoi derivati avevano saputo quali erano stati i risultati delle indagini scientifiche svolte a livello mondiale sulla cancerogenicità del CVM-PVC; l’istruttoria ha provato che ne erano venute a conoscenza per prime, suggellando con il noto patto di segretezza tra europei ed americani la volontà di mantenere occulta la notizia.

A fronte di questa conoscenza gli imputati avrebbero dovuto attivarsi usando le tecnologie esistenti al fine di predisporre i mezzi di tutela e di prevenzione che la legge loro imponeva; eliminando tutte le situazioni lesive determinate da impianti irrecuperabili o bisognosi di manutenzione, fonti di rischio continuo per chi vi lavorava; predisponendo mezzi e sistemi di protezione, prevenzione e controllo come quelli di cui dà ampia descrizione l’imputazione ad essi ascritta. Tutto questo non è stato fatto –secondo il P.M.- perché non è stato voluto, Dunque neppure può escludersi la sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

Al riguardo il P.M. appellante, riaffermati i concetti in ordine al dovere di sicurezza che incombe sul datore di lavoro in forza delle previsioni di cui all’art. 2087 C.C. ed ai DD.P.R. 547/55 e 303/56, ripercorre la cronologia delle conoscenze sulla nocività del CVM-PVC facendole appunto risalire agli anni ’40, e sugli studi sugli animali e sull’uomo che portarono alla conoscenza fin dagli anni ’60 anche della cancerogenità, tenuta nascosta dalle industrie chimiche europee ed americane in forza di un patto di segretezza che si sostiene provato anche documentalmente.

Lamenta dunque che il Tribunale non ha tenuto in conto i fondamentali e cogenti obblighi imposti al datore di lavoro dall’art. 2087 C.C., ma neppure ha dato rilevanza alle conoscenze sulla tossicità del cvm-PVC, facendo anche confusione continua tra i concetti di tossicità e cancerogenicità, trattandoli alla stessa maniera, come se fossero la stessa cosa. Precisa invece l’appellante che il rischio tossico del CVM da parte delle aziende non era e non poteva essere ignorato negli anni sessanta: non era ignoto, era volutamente ignorato. Cosa diversa il rischio oncogeno, che anche temporalmente è emerso dopo il rischio tossico, ma comunque non nel 1974 come sostiene il Tribunale, ma già nel corso degli anni sessanta, anche se si è avuta consapevolezza certa di ciò, a livello mondiale, solo con il prof. Viola nel 1969, dopo una serie di studi, citati e documentati, che dai primi anni sessanta avevano confermato i sospetti in tal senso, ed il tutto era ben noto a Montedison.

Il Tribunale dunque avrebbe errato di fatto lì dove ha detto che il CVM deve ritenersi cancerogeno solo dal 1974 e che, quindi, soltanto  dal 1974 incombevano sul datore di lavoro gli obblighi normativamente previsti.

In realtà, osserva il P.M., dopo la presentazione del lavoro di Viola a Tokyo, c’è stato l’intervento di maggio a Houston. Però, contemporaneamente, nel maggio del 1970, era stato pubblicato su Medicina del Lavoro un approfondimento del dottor Viola  sulla situazione del cloruro di vinile. Questo studio del dottor Viola, oltre che essere pubblicato su “La Medicina del Lavoro”, quindi su una rivista italiana ben nota e ben considerata, è stato trovato anche negli Stati Uniti tra la documentazione delle varie società industriali,  a conferma del clamore creato dall’ingresso del prof. Viola sulla scena mondiale. Viola dice che, pur parlando di animali, il suo obiettivo rimane pur sempre l’uomo.

E dice anche che le lesioni ossee dei tessuti connettivali sono simili  a quelle osservate nell’uomo. Pertanto, conclude confermando le raccomandazioni espresse al sedicesimo congresso internazionale di Medicina del Lavoro di Tokyo nel 1969: “vorrei che venissero prese alcune precauzioni negli stabilimenti di produzione, quali la riduzione del valore limite di soglia del monomero e la sostituzione della pulitura manuale delle autoclavi con mezzi automatici”: e il direttore-proprietario della rivista “La Medicina del Lavoro” era Enrico Vigliani, direttore della clinica del lavoro di Milano e autorevole consulente di Montedison, sia personalmente che attraverso il suo allievo prof. Ghetti, anche per i problemi connessi ai tumori professionali. L’attenzione alla problematica lanciata da Viola da parte delle industrie del settore a livello internazionale, sarebbe d’altra parte provata documentalmente, così come peraltro sarebbe documentalmente provato che la risposta fu quella dell’occultamento della notizia attraverso il c.d. patto di segretezza.

 

Nello specifico, il P.M., lamenta poi che il Tribunale nell’attribuire al CVM solo l'angiosarcoma epatico, il fenomeno di RAYNAUD, l’acroosteolisi e pochi rari casi di epatopatia, escludendo qualsiasi altra patologia, in maniera estremamente contraddittoria, ha chiuso completamente gli occhi di fronte ad un dato storico e processuale incontestabile e cioè che il CVM sia, innanzi tutto, un epatotossico generale ed ha di fatto negato l'esistenza di studi e di pronunciamenti anche di organismi internazionali sulla natura tossica del CVM e del PVC per il fegato e per i polmoni: natura tossica innanzitutto e poi anche cancerogena.

 

L’impostazione del Tribunale sarebbe sbagliata in fatto, in quanto tutti i maggiori organismi e organizzazioni internazionali e nazionali (quelli di indiscutibile serietà e prestigio) hanno confermato tale natura tossica del CVM-PVC, ed hanno ritenuto pure la cancerogenicità del CVM. E  persino gli organismi d’origine industriale, statunitense ed europea, non hanno avuto mai dubbi sulla tossicità del CVM e poi sulla sua cancerogenicità tanto da descriverlo come un cancerogeno totipotente, fin dal 1974.

La natura tossica del CVM-PVC risulterebbe d’altra parte pure da specifiche schede cosiddette di sicurezza di origine aziendale, che costituiscono una sorta di confessione extra-giudiziale, e consapevolezza sulla tossicità da parte degli imputati emergerebbe altresì dai loro acquisiti  interrogatori in sede di indagine preliminare, e dalle indicazioni sul punto dello stesso sanitario Montedison di Porto Marghera,  dottor Salvatore Giudice, che  in un documento agli atti del 1971 espressamente parlava delle “tecnopatie” causate dal CVM  e che in aula ha detto tranquillamente che, giunto a Porto Marghera, nel 1969, sapeva già che il CVM era un epatotossico.

 

Procede poi il P.M., con citazione di specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi della situazione degli impianti CVM-PVC di Porto Marghera che ritiene vetusti, obsoleti e inadeguati alle sostanze tossiche e cancerogene trattate, e sostenendo che la sentenza assolutoria del Tribunale deve essere radicalmente riformata per i seguenti principali motivi:

- omessa valutazione di fatti e dati offerti all’esame del Tribunale, così come emergenti dalla documentazione acquisita presso Enichem e Montedison;

- omessa valutazione degli stessi dati, così come esposti e provati dalla disamina dei consulenti del P.M. e delle parti civili;

- incomprensibile e comunque immotivato appiattimento sulle posizioni dei consulenti tecnici di Enichem e Montedison, dei quali sono riportati pari pari in sentenza interi brani tratti dalle loro relazione tecniche, senza alcuna considerazione, né alcuna critica (nemmeno negativa) di quanto sostenuto e provato in senso contrario dal P.M., dalle parti civili e dai loro consulenti;

- deformazione e travisamento delle dichiarazioni dei testimoni assunti in dibattimento;

utilizzazione di dati di fatto completamente sbagliati, ma tratti pari pari dalle memorie della difesa.

 

Lamenta il P.M. che l’assunto indimostrato da cui parte (e a cui, poi, arriva inevitabilmente) il Tribunale è quello relativo al fatto che MONTEDISON, quando nel 1974 sarebbe divenuta consapevole del pericolo cancerogeno costituito dal CVM, avrebbe fatto immediatamente di tutto per garantire la sicurezza degli operai. Una tale asserzione del Tribunale è stata fatta in relazione sia all'accusa di cui all'art. 437 c.p., sia a quella di disastro innominato colposo, sia a quella di lesioni e morti colpose. E però una tale asserzione sarebbe profondamente errata per tutta una serie di considerazioni, soprattutto di fatto.

 

Primo e gravissimo errore del Tribunale sarebbe stato quello di “cancellare” dal suo esame e dalle sue valutazioni il fattore “tossicità” e trattare solo quello relativo alla cancerogenicità.

Infatti, la tossicità del CVM è emersa fin dagli anni cinquanta e da quell’epoca gli impianti dovevano adeguarsi alla normativa e tutelare la salute dei lavoratori. A ciò va aggiunto il fatto che anche il rischio cancerogeno è emerso durante gli anni sessanta, comunque ben prima del 1974 e quantomeno dal 1969 con gli studi del prof. Viola.

Inoltre, non corrisponderebbe assolutamente al vero quanto detto ancora dal Tribunale e cioè che gli impianti ed i reparti del CVM-PVC di Porto Marghera fossero dotati delle migliori tecnologie disponibili. Ciò non era vero all'epoca della messa in funzione dei primi impianti negli anni cinquanta e sessanta e tanto meno vero si dimostrò mano a mano che giungevano dagli studiosi e dai ricercatori le conferme della tossicità e poi della cancerogenicità del CVM.

Al riguardo, sostiene il P.M. che nel citare i lavori compiuti dall'azienda per adeguare gli impianti alle “emergenze cancerogene” (sempre dimenticando i problemi della tossicità), i giudici di primo grado sono incorsi in affermazioni, gratificanti per le aziende, che però non hanno assolutamente alcun riscontro con la realtà dei fatti.

Il Tribunale per sostenere la sua tesi ha ripetutamente fatto riferimento a limiti di esposizione al CVM per gli operai dei vari reparti, che dopo il 1973 sarebbero stati bassissimi e comunque senza effetto per la salute dei medesimi. Ma sostiene l’appellante che i dati  documentali agli atti del fascicolo processuale vanno in tutt'altra direzione e parlano di esposizioni elevate e molto elevate ancora per tutti gli anni settanta e, in alcuni casi, anche oltre. E cita al riguardo i bollettini d’origine aziendale che andrebbero ben oltre il 1973.

Inoltre, si sostiene nell’appello la totale inaffidabilità dei controlli ambientali sul CVM-PVC disposti in fabbrica a Porto Marghera (tra l'altro e in ogni caso, con grave e colpevole ritardo), per tutto l'arco temporale contestato ai vari imputati.

 

Lamenta poi il P.M. la generalizzata assoluzione degli imputati dalle contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro  (DPR 547/55, DPR 303/56, DPR 10/9/82 n. 962). Assoluzione che peraltro, pur indistintamente e generalmente pronunciata dal Collegio, non risulta motivata né con riferimento alle singole contravvenzioni contestate in imputazione, né con riferimento alle prove fornite dal dibattimento che, per come analiticamente nei motivi precedenti ricostruite, dimostrano senza ombra di dubbio non solo l’inefficienza e la non adeguatezza del sistema di monitoraggio ad oggi utilizzato all’interno dello stabilimento ma, soprattutto, la sua non conformità nè ai dettami prescritti dagli artt. 21 e 21 del DPR 303/88 nè alle regole tecniche imposte dal DPR 962/82 abrogato dall’art. 13 del D. Leg.vo 25/2/2000, n. 66 che ha ricondotto tutta la materia in precedenza disciplinata dal citato DPR nell’ambito della generale disciplina dettata dal D. leg.vo 626/94 e successive modifiche, recuperando, in particolare, quanto alle tecniche di monitoraggio, i sistemi di controllo ambientale previsti negli allegati al D. Leg.vo 277/91.

Osserva il P.M. che proprio tale modifica normativa dimostra che la materia è tuttora penalmente sanzionata sulla base delle norme incriminatrici contenute sia nel D. leg.vo 277/91 che nel D. Leg.vo 626/94: non vi è stata, pertanto, “abolitio criminis” ma soltanto successione delle leggi penali nel tempo. Il Tribunale avrebbe conseguentemente dovuto affrontare il problema della norma penale applicabile sulla base dei noti criteri contenuti nell’art. 2 del cod. penale.

Non lo ha fatto perché ha ritenuto -trascurando del tutto di considerare gli elementi di fatto illustrati dai CC.TT. dell’accusa e le relative implicazioni giuridiche prospettate nel corso della discussione- che il sistema di monitoraggio fosse rispettoso di tutti i dettati normativi e fosse davvero in grado di misurare la reale concentrazione del gas negli ambienti di lavoro.

Lamenta l’appellante che una tale valutazione è però errata sia in fatto che in diritto. Il Tribunale, infatti, non ha tenuto in alcun conto la denunciata insufficienza ed inadeguatezza del numero e della collocazione dei punti di prelievo (campanelle) nel reparto CV 24.

La sproporzione evidente tra il volume d’aria destinata ad essere campionato dalle campanelle a piano terra rispetto a quelle collocate sopra le autoclavi, ad esempio (700 mc per le prime contro 340 mc per le seconde), dimostra tale inadeguatezza e consente di fondare la censura della violazione dell’art. 4, I. C. DPR 962/82.

Ma le censure più gravi sono quelle relative all’imposizione di soglie massime di misurazione al gascromatografo. Esse sono inferiori addirittura alla soglia di allarme prevista dalla direttiva europea e dal DPR che ne ha dato attuazione: di qui la violazione dell’art. 5 di detto DPR 962/82.

Violazione che sussiste anche in relazione all’installazione ed al funzionamento dell’interruttore ON/OFF, dal momento che si è dimostrato come lo stesso abbia significativamente alterato gli automatismi su cui il legislatore contava proprio per impedire ogni possibilità di interventi correttivi nella rilevazione del gas.

 

Ma un tal genere di genere di monitoraggio è anche contrario agli obblighi affermati, ad esempio, dall’art. 20 del DPR 303/56. Da tale norma, infatti, scaturiscono sia il dovere di eliminazione e/o di progressiva riduzione all’infinito della possibilità di sviluppo e/o della diffusione del gas tossico sia il dovere di eliminare immediatamente, in caso di fuga, il gas nello stesso punto in cui lo stesso è stato prodotto.Di qui, conseguentemente, l’obbligo di aspirare il gas nei punti critici che dovranno, pertanto, essere verificati e controllati da un sistema di misurazione puntiforme capace di controllare, in ognuno di essi, il verificarsi  di una fuga e di consentire i tempestivi interventi di contenimento e di bonifica.Tutto questo avrebbe dovuto essere considerato dal Tribunale.

L’assoluzione dalle contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal C.T. prof. Nardelli.

 

Procede poi il P.M., con la consueta tecnica di citazione di specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi delle singole condotte omissive contestate agli imputati, erroneamente, si sostiene, non ritenute dal Tribunale.

 

Si precisa in particolare l’indicazione e l’illustrazione dei fatti che concretamente si contestano agli imputati, ognuno per il periodo di rispettiva competenza, sostenendosi che:

1.VENIVA OMESSO QUALSIASI INTERVENTO DI BLOCCO (definitivo o anche solo temporaneo) DEGLI  IMPIANTI, in particolare di quelli più obsoleti ed irrecuperabili, ad esempio il CV6, come evidenziato e richiesto dalle piattaforme e dai documenti sindacali (del 1975 e del 1977), nonché dalla mozione n. 4 presentata al Consiglio regionale Veneto il 4 agosto del 1975, mozione cui il Presidente della Montedison Eugenio CEFIS rispondeva in data 19 agosto 1975.

2. VENIVA OMESSO DI PREDISPORRE E COLLOCARE (o far collocare) SISTEMI E APPARECCHI DI SICUREZZA DESTINATI ED IDONEI A PREVENIRE LA INSORGENZA NEI DIPENDENTI DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA, NONCHE’ NEI DIPENDENTI DELLE VARIE COOPERATIVE D’APPALTO, DI TUMORI E MALATTIE (ANCHE GRAVISSIME), a causa del contatto con il CVM-PVC (e relativi componenti/additivi di polimerizzazione e lavorazione).

3. VENIVA OMESSO IL SEGNALATO RICHIESTO “INTERVENTO GLOBALE DI RISANAMENTO DEGLI IMPIANTI DA UN LATO E MISURE CHE GARANTISCANO PER IL FUTURO IL MONITORAGGIO CONTINUO DELL’AMBIENTE E DEGLI OPERAI”(relazione FULC e Università di Padova del 12.3.1977)

4. ANCORA PIU’ IN PARTICOLARE, LA COLPA (progressiva nel tempo) E’ CONSISTITA IN IMPRUDENZA, NEGLIGENZA, IMPERIZIA ED ESPRESSA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 2087 C.C. – ARTT 236 CO.1 E 4, 244 LETT. A, 246, 354 CO. 1 E 2, 374, 375, 377, 383, 387, 389, 391 D.P.R. 27 APRILE 1955 N. 547 – ARTT. 3, 4, 17, 19, 20,21, 25, 58, 59 DEL D.P.R. 19 MARZO 1956 N. 303, PER NON AVER – PUR IN PRESENZA DELLE CONOSCENZE MEDICHE E SCIENTIFICHE DI CUI SOPRA – ADOTTATO NELL’ESERCIZIO DELL’IMPRESA TUTTE E IMMEDIATAMENTE LE MISURE NECESSARIE PER LA TUTELA DELLA SALUTE DEI LAVORATORI.

5. PER AVER INSERITO (o fatto inserire) NEI PROGRAMMI E NEI BUDGETS ANNUALI (o poliennali) DI INVESTIMENTO E DI MANUTENZIONE CAPITOLI DI SPESA RELATIVI, IN MANIERA SPECIFICA, AGLI IMPIANTI DEL CVM-PVC, DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLA NECESSITA’ DI ELIMINARE TOTALMENTE ED IMMEDIATAMENTE LE FUGHE DI GAS CVM, DI 1,2 DICLOROETANO E LE LORO IMPUREZZE DI REAZIONE NELL’AMBIENTE DI LAVORO (reparti) E NELL’AMBIENTE ESTERNO (a partire, in particolare, dal programma di investimenti 1973-75, datato novembre 1973, acquisito c/o la Prefettura di Venezia).

6. PER NON AVER CURATO CHE I LAVORATORI USASSERO TUTTI I MEZZI NECESSARI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE (in particolare quelli addetti alla pulizia delle autoclavi, dei serbatoi di CVM, slurry, cicloesanone, delle colonne di strippaggio, degli essicatori e filtri, dei gasometri del CVM di recupero, nonché all’essiccamento e all’insacco) E GLI APPARECCHI RESPIRATORI IDONEI AD EVITARE L’ASPIRAZIONE DEI GAS.

7. PER NON AVER PREDISPOSTO MISURE DI SICUREZZA PER TUTTE LE FASI DEL CICLO PRODUTTIVO (comprese quelle di essicamento, stoccaggio, immagazzinamento, trasporto, carico, insaccamento, ecc.) E PER TUTTI GLI AMBIENTI DI LAVORO, COMPRESO IL LABORATORIO.

8. PER NON AVER SEPARATO LE LAVORAZIONI INSALUBRI, PONENDO IN PARTICOLARE ALL’ESTERNO DEI LOCALI LE PARTI DEGLI IMPIANTI POTENZIALMENTE SOGGETTE A PERDITE ANCHE STRAORDINARIE DEI GAS.

9. PER NON AVER DISPOSTO (o almeno richiesto) LO SPOSTAMENTO DAGLI AMBIENTI A RISCHIO CVM DEI LAVORATORI DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE, il cui spostamento era stato indicato come inevitabile nella relazione del marzo 1977 dell’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Padova.

10. PER NON AVER REAGITO IN ALCUNA MANIERA O COMUNQUE IN MANIERA INSUFFICIENTE, ALLE SEGNALAZIONI CONTENUTE IN DETTA RELAZIONE DEL MARZO 1977, in cui si parlava di “situazione sanitaria complessiva grave e tale da richiedere un intervento globale di risanamento degli impianti da un lato e misure che garantiscano per il futuro il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai”.

11. PER AVER CREATO, ORGANIZZATO E MANTENUTO UN’INFERMERIA, UNA STRUTTURA SANITARIA E UN SERVIZIO MEDICO-SANITARIO ALL’INTERNO DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLE NECESSITA’ DI PREVENZIONE E DI CONTROLLO DELLA SITUAZIONE SANITARIA GENERALE E PARTICOLARE DELLE MIGLIAIA DI DIPENDENTI DELL’INTERO STABILIMENTO PETROLCHIMICO e, in particolare, delle varie centinaia di dipendenti addetti alla lavorazione e trattazione in qualsiasi maniera del CVM-PVC, nonché dei dipendenti delle società cooperative che lavoravano in appalto all’interno dello stabilimento, entrando in contatto con il CVM-PVC.

12. PER NON AVER FORNITO INFORMAZIONI DETTAGLIATE E TEMPESTIVE AI PROPRI DIPENDENTI DI PORTO MARGHERA E AI DIPENDENTI DELLE DITTE CHE LAVORAVANO IN APPALTO IN ORDINE ALLA NOCIVITA’ E PERICOLOSITA’ DEL CVM-PVC (fin dal 1970) E DEL DICLOROETANO (fin dal 1977), ALLA REALTA’ IMPIANTISTICA E ALLE QUANTITA’DI EMISSIONE IN ARIA (sia all’interno che all’esterno dei singoli reparti), SE NON A SEGUITO DI PRESSANTI RICHIESTE SINDACALI (reiterate in particolare fino al 1977 e al 1980) generate dalle conoscenze acquisite “aliunde” dai lavoratori e dai loro rappresentanti di fabbrica e sindacali.

13. PER NON AVER MUNITO DI CAPPE DI ASPIRAZIONE E DI SISTEMI DI CAPTAZIONE DEGLI INQUINANTI IDONEI I LUOGHI IN CUI VENIVANO EFFETTUATE OPERAZIONI CHE PER MODALITA’ DI ESECUZIONE ESPONEVANO GLI OPERAI ADDETTI AD INALAZIONE DEI VAPORI, DI GAS E DELLE POLVERI SUINDICATI (tutte le fasi di lavorazione del PVC, tra cui le fasi di prelievo del lattice, pesatura e successiva analisi fisica, pulizia dei filtri, insaccamento del polivinilcloruro.

14. PER NON AVER REALIZZATO SUFFICIENTI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE E MANUTENZIONE DEGLI ELEMENTI DEGLI IMPIANTI PIU’ SOGGETTI A DETERIORAMENTO E DEI QUALI ANDAVA GARANTITA LA PERFETTA TENUTA, ONDE EVITARE IL RISCHIO DI DISPERSIONE E FUGHE DI GAS IN AREE DI LAVORO (quali valvole, flange, premistoppa e compressori CVM.

15. PER NON AVER TEMPESTIVAMENTE INSTALLATO GASCROMATOGRAFI O ALTRI STRUMENTI DI RILEVAZIONE IN CONTINUO, PREDISPOSTI ANCHE PER SEGNALARE IMMEDIATAMENTE IN TUTTI I REPARTI LE FUGHE (ordinarie e straordinarie) DI GAS CVM (quantomeno dal 1972) E DI DICLOROETANO ( quantomeno dal 1978) NELL’ARIA DEI LUOGHI E DEI SINGOLI POSTI DI LAVORO.

16. PER AVER COMUNQUE INSTALLATO NEL 1975 E SUCCESSIVAMENTE CONTINUATO AD UTILIZZARE GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO DEL TUTTO INIDONEI A GARANTIRE LA TEMPESTIVA RILEVAZIONE DELLE FUGHE, L’ESATTA INDIVIDUAZIONE DEL PUNTO DI FUGA, NONCHE’ LA CONCENTRAZIONE DEL CVM NEI SINGOLI POSTI DI LAVORO, GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO PER DI PIÙ MALFUNZIONANTI E COMUNQUE IN CONTRASTO PURE CON LE PREVISIONI DELLA NORMATIVA C.E.E. – DIRETTIVA N. 78/610 – E CON IL D.P.R. 10 SETTEMBRE 1982 N. 962, NONCHE’ INSUFFICIENTI NUMERICAMENTE, con particolare riferimento al fatto che presso il reparto CV24, quantomeno fino al 1989, era necessario, ad esempio, interrompere il monitoraggio del CVM sull’intera linea in occasione delle ispezioni delle autoclavi (sprovviste di sistemi di monitoraggio autonomo) ad opera del personale addetto al controllo ed alla pulizia, ad ogni ciclo e quindi dopo ogni bonifica.

 

Ripropone poi il P.M. l’elenco dei lavoratori del Petrolchimico più a rischio, e cioè quelli addetti alle autoclavi, all’insacco e all’essiccamento del PVC, colpiti da diversificate patologie. Elenchi che durante la requisitoria erano stati proiettati sullo schermo e che, secondo l’appellante, anche visivamente venivano a confermare questa sorta di singolare epidemia che aveva colpito (e continua a colpire) gli operai in questione.

Ci si lamenta al riguardo che il Tribunale non ha considerato minimamente questi elenchi nel loro insieme, che specificavano – tra l’altro – anche i casi dei lavoratori assunti dopo il 1970. Pur avendo dovuto riconoscere l’esistenza di tali particolari mansioni a rischio, il Tribunale non ne avrebbe tratto – illogicamente e immotivamente – le conseguenze, non avendo valutando la massa imponente di dati storici ed oggettivi attestanti il pericolo corso da questi e da altri operai, pericoloso concretizzatosi con numerosi casi di malattia e di morte.

 

A sostegno di tale motivo l’appellante richiama l’argomento relativo alle mansioni degli autoclavisti e alle asserite modifiche portate alle autoclavi che sarebbe uno dei più emblematici e rappresentativi dell’intera sentenza impugnata in tema di mistificazione della realtà processuale. Sostiene infatti il P.M. che in questa parte della motivazione, più che in ogni altra, si rinviene una sbalorditiva concentrazione di errori, di contraddizioni in punto di fatto, di omissioni evidenti, di vere e proprie distorsioni ed alterazioni della realtà processuale emersa nel corso del dibattimento di primo grado. Al riguardo si evidenzia che in questa, come nelle altre parti della sentenza relative alle modifiche e agli interventi eseguiti sugli impianti dello stabilimento Petrolchimico, la motivazione accoglie in toto, considerandole come valido ed unico elemento di prova, le risultanze documentali provenienti dall’azienda. In particolare le già note “commesse”. Si ignorerebbero invece le prove documentali e testimoniali fornite dall’accusa, distorcendone altre per renderle favorevoli alla tesi sostenuta.

 

Secondo il P.M., così facendo, la sentenza si concentra sui dati forniti dalle “commesse” discusse dai CC.TT delle aziende, elevandoli ad elementi certi di una asserita ma non dimostrata modifica delle procedure e delle apparecchiature. E però, nel far questo, da un lato la sentenza cade in continua contraddizione persino con se stessa , dall’altro costruisce l’intero impianto logico su di un errore di fondo insuperabile: errore di fondo che consiste nel ritenere eseguiti gli interventi su impianti e procedure solo perché progettati dalle singole commesse.

Ma gli interventi o non sono mai stati realizzati o, anche se avviati, sono stati successivamente interrotti e abbandonati per l’inefficacia delle strumentazioni acquistate a seguito delle commesse. Commesse, dunque, che, elevate ad unico elemento probatorio dal Giudice di primo grado, dimostrano in pieno la totale fallacia e inaffidabilità.

 

Si citano dunque nell’atto di appello i passi della sentenza che trattano l’argomento con evidenziazione degli asseriti errori e contraddizioni e indicazione delle fonti probatorie che deporrebbero il contrario, rimarcando come il Tribunale omette ogni citazione testimoniale quando si tratta di deposizioni che rilevano l’inefficienza degli impianti; quando sceglie un teste estrapola solo le dichiarazioni concordanti con la tesi accolta dell’efficienza degli impianti.

Dunque secondo il P.M., i discordanti riferimenti testimoniali citati, le omissioni evidenti e le contraddizioni contenute nella stessa motivazione dimostrano ancora una volta l’erroneità della sentenza impugnata, che deve essere quindi radicalmente riformata.

Per analoghi motivi ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere totalmente riformata anche in relazione alle posizioni riguardanti tutti i lavoratori addetti all’insacco.

Al riguardo ripercorre le quattro principali contestazioni d’accusa mosse agli imputati che fanno riferimento alla categoria degli operai addetti all’insacco.

 

1. Con particolare riferimento agli insaccatori soci delle cooperative in appalto, osserva l’appellante come il Tribunale, dopo aver escluso la sussistenza di una relazione causale (o concausale)  tra le  patologie respiratorie che hanno colpito tale categoria di lavoratori e l’ esposizione dei lavoratori  alla polvere di PVC, riconosce comunque  che vi è stato, da parte di Montedison, l’omissione del controllo dell’uso della maschera antipolvere nei confronti dei soci - lavoratori delle cooperative. In tal modo il Tribunale, fra  le condotte contestate nel capo di imputazione, ritiene fondata tale specifica omissione che trova espresso  riferimento normativo  nell’obbligo del datore di lavoro   “di disporre ed esigere che i lavoratori usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione …”, obbligo previsto  dall’ art. 4 lett. c del DPR 27 aprile 1955 n. 547 e art 4 DPR 303/56 che va messo in relazione, per quanto concerne il lavoro di insacco che espone il lavoratore al contatto con le polveri, con l’art. 387 del medesimo DPR 547 che fa obbligo “l’uso di maschere respiratorie a lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas, polveri o fumi nocivi”.

 

E così il Tribunale, mentre:

- da un lato riconosce  l’applicabilità degli obblighi di cui alla citata normativa antinfortunistica in capo ai dirigenti di Montedison e a tutela  dei soci lavoratori delle cooperative – in evidente applicazione  degli artt. 3, 2 comma letta a) del DPR 547 e art. 3 DPR 303/56,  nonché del principio della cosiddetta “ingerenza” della ditta committente, che determina la responsabilità della ditta  committente – Montedison -  per eventi di malattia o morte che colpiscono i soci delle cooperative in appalto;- e, conseguentemente,  riconosce che questa categoria  di lavoratori  (ma non diversamente si può desumere anche per gli insaccatori dipendenti di Montedison) era soggetta a “specifici rischi di inalazioni pericolose” e  che  la polvere di PVC era a tutti gli effetti “nociva;

si pone poi in evidente contrasto   – con conseguente   vizio della sentenza sotto tale  profilo – con quanto dallo stesso assunto in altre parti della decisione   laddove ritiene la “non pericolosità”  della polvere di PVC e l’ insussistenza di situazione di alta polverosità degli ambienti di insacco (che, se insussistente,  avrebbe esentato i lavoratori dall’obbligo dell’uso delle maschere)  ed anzi assume  che Montedison ed Enichem  avrebbero  predisposto   tutti gli accorgimenti e gli interventi idonei ad evitarla.

 

Tanto, nonché l’omessa valutazione delle ulteriori specifiche contestazioni rende viziata, secondo l’appellante, la decisione. Ritenuta, infatti, la nocività del PVC  – sia in quanto “polvere” in sé (cfr art. 21, 1 comma, DPR303/56) sia in quanto polvere “pericolosa” (cfr il riferimento, seppur implicito, all’art. 387 ) - non si poteva non  rilevare la palese violazione  degli  altri obblighi   contestati nel capo di imputazione.

2.           Palese poi, secondo l’appellante, la violazione dell’obbligo di “rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui erano esposti…” (cfr art. 4 lett b DPR 547/55e art. 4 e  5 DPR 303/56), violazione contestata all’ultima riga di pag. 6 del capo di imputazione (“per non aver fornito informazioni dettagliate … ai dipendenti delle ditte..”).

 

Al riguardo sostiene l’appellante che intanto sicuramente esistente, in forza delle evidenze processuali fondate sulle relazioni dei consulenti tecnici che si richiamano in ordine al punto specifico, era il rischio, quantomeno della nocività del PVC per l’apparato respiratorio dei lavoratori addetti all’insacco, e sicura la sua conoscenza in capo ai dirigenti Montedison che emergerebbe dai seguenti elementi probatori:

- dalla doverosa   conoscenza della normativa vigente (il DPR 303/56, art 21 , impone, ad esempio,  al datore di lavoro di evitare il contatto  e/o di ridurre la dispersione delle “poveri in genere” mentre  l’articolo 33 e la tabella richiamata prevede l’obbligo di effettuare visite trimestrali nei confronti di lavoratori addetti all’impiego del cloro e dei suoi composti);

- dalla conoscenza certa sin dagli anni cinquanta e sessanta che all’interno del polimero, in particolare nel PVC in sospensione,  erano inglobate molecole di CVM, come è confermato anche indirettamente dal fatto che l’impresa avrebbe negli anni ‘76 e ‘77, a suo dire, introdotto il sistema di strippaggio proprio per prelevare queste molecole di CVM;

- dai rilievi svolti dai singoli operatori che accertavano, contrariamente alle rilevazioni  dell’impresa, che la presenza di CVM nei locali addetti all’insacco  era particolarmente consistente;

- dalla scheda della Montedipe numero 336 del 05/07/85 in cui il PVC viene definito “tossico acuto per inalazione” e che - si dice- “induce alterazione al sistema respiratorio”;

- dalla consegna ai lavoratori (solo quelli dipendenti) del dentifricio NOVO SATURNO da usare prima dei pasti, per evitare l’ingestione delle polveri e dei vapori depositati nel cavo orale da parte dei lavoratori del CVM-PVC;

dal fatto che nel 1967 vennero pubblicati, come detto, sulla Tribuna del CEBEDEAU (Liegi) i risultati delle indagini sui granuli del PVC svolte da Montedison.

 

Di converso la contestata violazione dell’obbligo di informazione sarebbe invece dimostrata, dai seguenti elementi:

- dai contratti di appalto  con le varie Cooperative, dove non vi è cenno alcuno al rischio specifico per i lavoratori derivante dalla polvere di PVC e dal CVM nella stessa contenuto come monomero residuo;

- dalla lettera  del maggio del 1984 con la quale il dott. Clini  chiedeva a Montedison, Montepolimeri, a Riveda e alla Cooperativa Facchini Tessera, i motivi per i quali non sono stati comunicati al suo servizio i nominativi dei lavoratori delle cooperative per la tutela sanitaria;

-  dalle testimonianza  dei testi Barina, insaccatore dal ‘76 all’80, che ricorda   che ai corsi per la prevenzione non vi erano i lavoratori delle cooperative; Battaggia che esclude nel modo assoluto di essere stato informato della pericolosità del PVC  e del CVM in esso contenuto come monomero residuo; Pezzato, che ha lavorato dall’80 all’86, ma non ricorda che gli sia stata mai comunicata tale pericolosità; De Catto che non è mai stato avvertito da nessuno, ma lo è venuto a sapere  indirettamente dai dipendenti; Giacomello, che dichiara pure lui saperlo soltanto dagli anni 80; ed anche il teste della difesa Gasparini, che è il principale teste, dice che i capi delle cooperative erano messi a conoscenza della pericolosità del CVM, ma non del PVC.

Connesso al predetto obbligo sarebbe poi quello del committente di accertarsi che l’appaltatore a cui affida l’opera sia soggetto non soltanto munito di titoli di idoneità previsti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale in relazione al tipo di lavoro che gli è stato affidato. E anche in riferimento a questo obbligo  vi è, secondo l’appellante, il fondato dubbio che, nel caso in esame, vi sia stata una violazione di legge.

3.  Risulta, ancora,  provata la violazione dell’obbligo  del datore di lavoro e  committente dei lavori in appalto di “adottare intereventi volti ad impedire o a ridurre lo sviluppo o la diffusione della polvere”   (art. 21 comma 1 DPR 303/56 ) e  di “ove non sia possibile sostituire il materiale di lavorazione polveroso, di adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri…”  “…vicino al luogo di lavoro …”, ..”comunque impedendo alle polveri di rientrare nell’ambiente di lavoro “ (art 21 comma 3,4,5 e 7 DPR), norme richiamate nel capo d’imputazione con specifica contestazione.

Al riguardo, ricordate le tecniche di produzione del PVC (con polimerizzazione del CVM in “emulsione”, adottata presso l’impianto CV6, e con polimerizzazione in “sospensione” adottata presso gli impianti CV14, CV16, CV24/CV25), contesta il P.M. l’assunto del Tribunale secondo il quale la polverosità dell’ambiente conseguente alla polimerizzazione in sospensione sarebbe migliorata dopo i primi anni settanta, affermandosi invece che tale miglioramento e adeguamento impiantistico sarebbe sconfessato da ben 7 testi, e perché gli interventi tecnici realizzati sarebbero comunque o tardivi o inutili, onde la valutazione del Tribunale sarebbe oltre che erronea frutto di travisamento dei fatti emergenti dalle dichiarazioni testimoniali, e ricorda l’appellante le testimonianze non considerate dal Tribunale e quelle asseritamente travisate.

E così fondata sarebbe  l’accusa di “aver omesso le misure quali  …. il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai…”  e “di non aver tempestivamente installati gascromatografi o altri strumenti di rilevazione in continuo” negli ambienti di insacco.

 

Sarebbe infatti dato indiscutibile che gli ambienti dove veniva svolto l’insacco  non sono mai stati   ricompresi tra le “zone sorvegliate”, fatto confermato da tutti i testi escussi, mentre sul punto nulla dice il tribunale che anzi lo ritiene irrilevante perché  la presenza di CVM residuo nel PVC in emulsione sarebbe stato inferiore od eguale ad 1 PPM. Ma le cose, secondo il P.M., non starebbero così in quanto nell’apice  del reparto CV6 , dopo il degasaggio , rimane ancora presente  una notevole quantità di CVM residuo, CVM  che si libera in ambiente dagli sfiati dei serbatoi di stoccaggio dell’apice e dalle successive apparecchiature. E sottolinea l’appellante come il Tribunale dimentichi  che i  bollettini di analisi – a campione - che avvalorano tale dato sono del periodo  1987 - 1989 e quindi assai recenti  ( nulla ci dicono della presenza del CVM in epoca anteriore)   e che  il  teste Perazzolo ha riferito che il quantitativo di CVM che si riscontrava con gli  apparecchi di rilevazione  presso il magazzino PVC o CV7 era  “di  base” pari a non meno di 10 PPM. Ragione questa che doveva imporre il monitoraggio continuo in tali ambienti.

 

4) E’ Fondata,  ancora, per il P.M.,  la contestazione “di aver creato organizzato e mantenuto all’interno dello stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, un servizio sanitario del tutto insufficiente rispetto alle necessità di prevenzione e di controllo della situazione generale e in particolare dei dipendenti delle cooperative che entravano in contatto con CVM e PVC”.

Lamenta l’appellante che sul punto il Tribunale  nulla assume,  nonostante fosse pacifico che  i soci delle cooperative, dalle misure sanitarie praticate agli altri lavoratori, periodicità dei controlli normativamente previsti per gli addetti a produzioni nocive e ai lavoratori del ciclo del cloro (cfr art. 33 DPR 303/56), sono sempre stati i grandi esclusi, fatto comprovato in atti testimonialmente.

Analoghe censure muove poi l’appellante in merito ai lavoratori addetti alla manutenzione, in ordine ai quali nulla avrebbe riferito il Giudicante di primo grado.

 

Secondo il P.M. i dati certi che si traggono dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale e disattesi dal Giudicante di primo grado, sono due.

Innanzitutto, i testi sono concordi nell’affermare che mentre la manutenzione straordinaria, eseguita episodicamente a cura delle officine centrali, veniva normalmente svolta previa fermata degli impianti, la manutenzione ordinaria, eseguita anche quotidianamente e posta in essere dalle officine di zona e dalle squadre di reparto, veniva comunque fatta con gli impianti in esercizio e ciò con conseguente esposizione dei lavoratori addetti alle sostanze ivi lavorate.

In secondo luogo, i lavoratori sono concordi nel riferire che gli addetti alla manutenzione intervenivano sempre qualora si verificassero fughe di gas nei reparti senza, tuttavia, previa bonifica degli stessi e conseguente diretta esposizione ai gas tossici fuoriusciti.

Sul punto poi si ricorda ancora la mancata predisposizione ed il mancato controllo sull’utilizzo anche da parte dei manutentori dei mezzi di prevenzione personale, richiamando testimonianze al riguardo.

 

Ne deriverebbe come inevitabile conclusione l’esposizione a CVM ed a PVC dei lavoratori addetti alla manutenzione. Secondo il P.M. infatti, trattandosi di personale adibito agli interventi manutentivi all'interno di tutti i reparti, ivi compresi anche quelli ritenuti ad alto rischio espositivo dallo stesso Giudicante di primo grado, senza adeguati mezzi di prevenzione, senza previa sospensione degli impianti e senza infine previa bonifica in caso di intervento a seguito di fughe, è incontestabile l'esposizione di detti lavoratori a tutte le sostanze nocive prodotte nei singoli reparti.

Conclusioni che sarebbero conformi a quanto risultante dalle matrici mansione-esposizione pubblicate dai dott. Comba e  Pirastu e altri (“La mortalità dei produttori di cloruro di vinile in Italia in Med. Lav. 1991) sulla base di dati forniti dall’azienda. E conformi altresì alle risultanze d’origine aziendale della “Legenda dei reparti con esposizione diretta e/o indiretta degli addetti ai cancerogeni CVM, DCE, PVC, nonché ad altri agenti tossico nocivi presso il Petrolchimico di Porto Marghera”, egualmente agli atti del procedimento, legenda secondo la quale i lavoratori addetti a interventi manutentivi su impianti e macchinari nonchè negli ambienti di lavoro relativi a tutte le lavorazioni del CVM e PVC sono soggetti all’esposizione  di tutti gli agenti tossico nocivi presenti nei reparti frequentati. Ed altresì conformi alle indicazioni fornite dall’azienda che, conglobando i detti lavoratori nel cd. “Gruppo H” comprendente i laboratori di controllo, il parco serbatoi, le manutenzioni ed il controllo cromatografi (come risultante della lettera datata 12.6.1979 a firma dott. Giudice ed inviata al dott. Bartalini, discussa all’udienza 5.4.2000), risulta classificare i lavoratori addetti tra gli esposti. Lamenta poi l’appellante  un’altra grave omissione addebitabile al Tribunale, al quale era stato rappresentato, chiaramente e documentalmente, che dal 1970 in poi erano stati assunti ed erano stati assegnati ai reparti CVM –PVC decine di nuovi operai. Per costoro, quindi, l’esposizione al CVM-PVC iniziava dopo il 1969 e per tredici di loro persino dopo il 1973.

 

 Rilievo, questo, che si assume importante in quanto:

- secondo l’accusa, la  cancerogenicità  del CVM venne segnalata ufficialmente al mondo intero in occasione del Congresso internazionale di Medicina del Lavoro di Tokyo del settembre 1969, a seguito delle vicende  del Prof. Viola;

- secondo il Tribunale, l’epoca scriminante relativamente alla conoscenza della cancerogenicità del CVM è la fine dell’anno 1973, che coincide con la vicenda “Goodrich”.

Ciò significa che, dal punto di vista della conoscenza sulla  cancerogenicità, prendendo per buono l’assunto del Tribunale sull’inizio dei consequenziali obblighi per l’imprenditore, andavano in ogni caso, esaminate ed approfondite accuratamente le posizioni dei lavoratori:

- con inizio esposizione successiva al 1969 (accettando l’impostazione del P.M.);

- con inizio esposizione successiva al 1973 (accettando   l’impostazione del Tribunale).

Ma i Giudici di primo grado non hanno fatto né una cosa né l’altra.

 

Per contro, nel riproporre i relativi elenchi, sostiene il P.M. che meritavano una analisi particolareggiata quei lavoratori colpiti da patologie per le quali lo stesso Tribunale aveva riconosciuto un nesso causale (malattia di Raynaud ed epatopatie).

E meritava un’analisi, anche semplice, quel gruppo di lavoratori (21) che avevano iniziato ad essere esposti dopo il 1973, in un periodo in cui – secondo il Tribunale – ormai tutti i precedenti gravi problemi di esposizione al CVM-PVC sarebbero stati risolti.

In particolare, si cita il caso di Carlo Bolzonella, deceduto per epatocarcinoma, assunto nel 1981 ed andato in cassa integrazione nel 1989 (come già ricordato): morto dopo aver lavorato per MONTEDISON, per ENICHEM e per ENIMONT.

Ma nemmeno lui, rimarca l’appellante, ha meritato un commento per il Tribunale, nemmeno una riga sulla sua particolare situazione.

 

Anche per questi motivi, ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere radicalmente riformata.

Rimarca poi ancora l’appellante la doglianza secondo la quale il Tribunale avrebbe operato, con USO  DISTORTO  DELLE  DICHIARAZIONI  TESTIMONIALI, una errata ricostruzione dei fatti storici oggetto della presente vicenda processuale estrapolando, dalle deposizioni dei numerosissimi testi assunti nel corso del dibattimento, solamente alcune affermazioni ed alcune circostanze, mirate alla decisione di cui al dispositivo, senza mai dare alcun conto dei criteri di selezione, scelta e valutazione adottati.

E cita al riguardo, a titolo esemplificativo, le testimonianze di GASPARINI Danilo, GIUDICE Salvatore, ALONGI Vittorio, BACCHETTA Enzo che porterebbero a diversa valutazione rispetto a quella avvalorata dal Tribunale.

 

Circa i reati di cui agli ARTT. 589 - 590 C.P. ed alla problematica della CASUALITA’, il P.M. appellante, premesse alcune considerazioni che troverebbero giustificazione a seguito della sentenza n. 30328 del 10.7/11.9..2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sostiene che anche su questa parte, che può considerarsi il pilastro dell’intera vicenda processuale che ci riguarda la sentenza impugnata commette gravissimi errori di interpretazione del nesso causale: errori che riguardano sia l’interpretazione data dai Giudici di primo grado dell’istruttoria dibattimentale del presente processo penale, sia la stessa interpretazione giuridica del nesso causale in relazione alle condotte ascritte agli imputati e agli eventi di reato che ne sono conseguiti.

Osserva in particolare: che la sentenza delle SS.UU. della Suprema Corte, dirimente un contrasto interpretativo sorto in seno alla sezione IV dello stesso giudice di legittimità, pur riguardando un caso di responsabilità per attività medico-chirurgica, è riferibile – come la stessa pronuncia afferma espressamente – anche ai settori delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto.

 

Nello specifico settore delle malattie professionali si ritiene che essa si attagli precipuamente al caso oggetto della presente vicenda processuale.

L’imprescindibile riferimento ad essa consente, inoltre, di affermare la valenza della tesi sostenuta dall’accusa, in particolare di quanto questo Ufficio ebbe ad esporre in sede di replica della propria requisitoria all’udienza del 10 ottobre 2001 sulla questione giuridica del nesso causale.

Nel contempo, la pronuncia citata permette di evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza impugnata.

Premette al riguardo che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – per usare le stesse parole della Corte - sono state chiamate a dirimere un conflitto interpretativo che non riguarda lo statuto condizionalistico e nomologico del rapporto di causalità, riguardando invece il contrasto giurisprudenziale a causa del quale è stato chiesto l’intervento delle Sezioni Unite la concreta verificabilità processuale di quello statuto, ovvero la individuazione dei criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale.

 

E rivendica il P.M. che già in sede di replica nel giudizio di primo grado, seguendo un ragionamento logico analogo a quello che oggi si ritrova nella sentenza delle SS.UU., dopo aver fatto riferimento alle varie e diversificate pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di causa penalmente rilevante, si era soffermato sulla necessità di definire e precisare meglio il concetto di grado di probabilità. Aveva fatto riferimento a questo proposito alla sentenza 12.7.1991 della sez. IV, che riteneva sufficiente un grado di probabilità pari al 30% per ritenere sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento lesivo. Ma solo come riferimento di minima, come si potrebbe chiamarlo, e solo per considerare che lo stesso concetto veniva ripreso da una sentenza di 10 anni dopo, il 17.9.2001, a ridosso della conclusione del primo grado di questo processo, sentenza che era in contrasto con le tre sentenze della stessa quarta sezione (estensore Battisti), che accoglievano un criterio più rigido di probabilità.

 

Errerebbe quindi la sentenza impugnata laddove, inspiegabilmente, addossa al Pubblico Ministero affermazioni di stretto diritto che non ha mai espresso, attribuendogli del tutto arbitrariamente “orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale”. Ma soprattutto erra nelle conclusioni cui giunge in tema di spiegazione del nesso causale.

Al riguardo, ricorda l’appellante che il Tribunale afferma che “il modello causale compatibile con il nostro ordinamento è quello idoneo ad includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza (la copertura data dalla legge universale), ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca l’approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e l’analisi di tutti i fattori presenti e interagenti: in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero in grado di spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione logico-probabilistica” (pag. 145).

 

E questo modello – continua – è quello assunto dagli orientamenti giurisprudenziali più recenti.

Questo è il modello, secondo il Tribunale, che consente di spiegare l’indagine causale nell’ambito delle scienze cui si è fatto ricorso nel processo che ci riguarda (epidemiologia, biologia molecolare, tossicologia, medicina legale).Continua, ancora, il Tribunale sostenendo che il ragionamento del medico-legale è tipicamente induttivo: muove da un fatto concreto (l’evento) per risalire al fenomeno che lo ha determinato (la causa) e questo ragionamento, anche se fondato su osservazioni di valore statistico-probabilistico, può fornire apprezzabili e rigorosi risultati (pag. 146).

E precisa ancora che il rigore metodologico e epistemologico con cui le scienze conducono le loro indagini, la potenza dei risultati raggiunti per l’ampiezza di uno studio, il grado di consenso ricevuto nella comunità scientifica, la coerenza dei risultati raggiunti nelle diverse scienze, sono tutti elementi necessari a propendere verso la certezza dei nessi sia nella causalità generale che nella causalità individuale (pagg. 146-147).

 

Può accadere tuttavia, prosegue il Tribunale, che nonostante siano le scienze e il loro metodo scientifico a consentire di spiegare le inferenze causali, nonostante ci sia validazione degli stessi risultati scientifici sulla base dell’accettazione generale da parte della comunità scientifica e delle verifica empirica mediante il controllo dell’ipotesi attraverso la confutazione, nonostante vi sia  coerenza complessiva del risultato raggiunto attraverso il confronto con altre discipline e la verifica delle conclusioni raggiunte nel loro progressivo evolversi, nonostante tutto ciò può accadere che rimanga l’incertezza scientifica.

A questo punto, di fronte all’incertezza scientifica non resta che ricorrere – conclude il Tribunale – alla regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata oltre il ragionevole dubbio, “regola di giudizio che ormai fa parte del nostro ordinamento” (pag. 148).

Conclusioni, queste del Tribunale, ribadisce l’appellante, erronee che non possano essere accettate. Ciò prima di tutto e proprio alla luce del criterio offerto dalle SSUU della Corte di Cassazione, dal quale ogni giudice di merito da oggi in poi non può prescindere.

Sostiene infatti il P.M. che le Sezioni Unite non assumono affatto il modello causale invocato dal Tribunale di Venezia. Al contrario, esse aprono la via per chiarire in questa sede come nel processo che ci riguarda il Tribunale sia caduto in un errore fondamentale e irrimediabile.

 

E così ritiene di schematizzare il P.M. il ragionamento seguito dalla Suprema Corte:

il processo penale, passaggio cruciale e obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, è sorretto da ragionamenti probatori di tipo inferenziale induttivo che partono dal fatto storico, rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, essendo dipendenti da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse;

1)     lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche non può, d’altra parte, spiegare in via deduttiva la causalità, perché è impossibile per il giudice conoscere tutti gli antecedenti causali e tutte le leggi pertinenti;

2)     il giudice ricorre, invece, nella premessa minore del ragionamento ad una serie di “assunzioni tacite”, presupponendo come presenti determinate “condizioni iniziali” e “di contorno” non conosciute o solo congetturate sulla base delle quali mantiene validità l’impiego della legge stessa;

3) non potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il suo effetto, né potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale;

4) ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica “certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari;

5)tutto ciò significa che il giudice è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza processuale” conducenti ad un giudizio di responsabilità enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica” o “probabilità prossima alla – confinante con la – certezza”.

 

A questo punto si può già rilevare, secondo il P.M., il netto distacco tra la tesi sostenuta dal Tribunale (viziata da gravi errori di interpretazione) e i principi espressi dalle Sezioni Unite del Giudice di legittimità.

 

“….Non è sostenibile – afferma la C.S. – che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”.

E qui, si sostiene, il punto cruciale: “E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento. (pag.15)

 

Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale, pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’”attendibilità” in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile.

 

Ecco allora, secondo il P.M. appellante, il distacco del Tribunale di Venezia dal principio enunciato dalle Sezioni Unite. Si osserva infatti che la sentenza impugnata sostiene che l’incertezza scientifica va provata oltre il ragionevole dubbio, ma così facendo si ferma ad un passaggio precedente, che priva il suo ragionamento proprio di quella natura rigorosa che voleva attribuirgli, e non è in grado di arrivare alla conclusione decisiva che le Sezioni Unite raccomandano: quella per cui è l’incertezza del riscontro probatorio che va provata oltre il ragionevole dubbio.

Il Tribunale si è fermato al riscontro scientifico (peraltro, in maniera del tutto incompleta e contraddittoria, come si è visto e come si vedrà) e non ha valutato il riscontro probatorio dell’istruttoria dibattimentale, mancando comunque di verificare i dati delle scienze con i riscontri probatori del processo.

 

Sostiene il P.M. che mentre per il Tribunale il giudizio finale di probabilità causale in presenza di una legge statistica con coefficiente medio-basso deve essere risolto secondo la regola dell’oltre il ragionevole dubbio, per le Sezioni Unite una legge statistica con coefficiente medio-basso può costituire legge di copertura se corroborata dal positivo riscontro probatorio.

Nel caso di specie, lamenta l’appellante, il Tribunale ha trascurato completamente tutte le evidenze processuali, ha persino svolto un’operazione inaccettabile che è stata quella di valutare separatamente i contributi offerti dalle discipline e dalle scienze che hanno avuto ingresso in dibattimento. Partendo dall’epidemiologia ha operato una scarto progressivo di ciascuna scienza, considerandola isolatamente, ed evitando di fatto quel raffronto tra discipline, che pure esso stesso aveva invocato per il conseguimento di un modello ideale di causalità. Raffronto che avrebbe, invece, consentito il raggiungimento di un primo fondamentale risultato nella scala dei criteri da utilizzare per la spiegazione causale dell’evento: il convincimento che attraverso l’ausilio di quelle scienze, tra loro raffrontate e verificate nei loro concreti risultati, il dibattimento ha permesso di raggiungere un livello di rilevanza causale prossimo alla certezza per quanto riguarda molti degli aspetti considerati.
Si sostiene dunque conclusivamente in diritto sul punto che la tesi sostenuta dall’accusa in relazione alla questione della causalità combacia e coincide proprio con i criteri enunciati dalle Sezioni Unite, dei quali si chiede quindi una corretta e limpida applicazione, mentre, scegliendo il metodo inaccettabile della riduzione dell’accertamento in termini causali alla sola considerazione che vi è incertezza scientifica, il Tribunale ha abdicato al proprio ruolo di “Giudice”, avendo totalmente tralasciato e ignorato l’aspetto centrale del metodo di accertamento, quello relativo allo svolgimento del processo dibattimentale, ignorando che l’accusa aveva corroborato le lamentate (dalla difesa) carenze scientifiche con gli elementi e i riscontri probatori che sono stati forniti nel corso del dibattimento.
Lamenta poi il P.M. che neppure il Tribunale  affronta nè risolve in termini giuridicamente corretti  il problema del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di alcune patologie (in particolare il tumore al fegato ed il tumore al polmone) che, invece, l’accusa aveva puntualmente posto nel corso del dibattimento di primo grado. Sbrigativamente, infatti, la motivazione si limita ad affermare che ciò che non è causa non è idoneo ad assumere il ruolo di concausa di un evento: poichè il Giudice di primo grado ha ritenuto di poter escludere persino l’idoneità astratta dell’esposizione a CVM a cagionare un certo genere di patologie, ne ha tratto l’erronea convinzione che ciò solo bastasse ad escludere, automaticamente, anche l’eventualità che detta esposizione potesse svolgere  un ruolo concausale nell’insorgenza delle stesse, ove fosse associata ad altri fattori quali fumo ed alcool.

Sostiene il P.M. che la tesi sarebbe erronea sotto  molteplici punti di vista.

Innanzitutto è quantomeno illogica  - oltre che contraria al dettato normativo - l’affermazione apodittica secondo cui “ciò che non è causa non può essere concausa”, dal momento che si risolve in una confusione di concetti.

 

E’ evidente, infatti, che l’art. 41 del codice penale, nel disciplinare il cd. concorso di cause, ha per oggetto (al primo comma) distinti fattori ciascuno dei quali - per definizione - è, da solo, privo dell’efficacia causale che si determina, invece, proprio per effetto del concorso di tutti.

Di norma, infatti, secondo il P.M. che richiama sul punto dottrina e giurispridenza, il fenomeno delle concause si verifica con riferimento a fattori che sono, da soli, privi della capacità di determinare un evento il quale, invece, si produce necessariamente grazie al contributo sinergico di due o più fattori concausali (la sentenza citata, Cass., sez. IV, n. 7617 del 31/10/1973, parla di situazione di interdipendenza tra due fattori che, da soli, sarebbero privi di efficacia causale “non potendo nessuna di esse, disgiunta dall’altra, causare l’evento”).

 

Tale pronuncia evidenzierebbe secondo il P.M. proprio il fenomeno trascurato dal giudice di primo grado: l’interdipendenza tra esposizione a CVM ed altri fattori (per la verità spesso preesistenti e/o concomitanti), quali il consumo di alcool e di sigarette da parte degli operai deceduti per tumore al fegato ed al polmone.

 

Sostiene il P.M. che nessuno potrebbe dire che, nel procedimento penale in questione, sia stata davvero fornita la prova certa che i tumori al fegato erano stati cagionati esclusivamente dal consumo di alcool, così come che quelli al polmone erano stati cagionati esclusivamente dal fumo di sigaretta, o che i lavoratori deceduti avessero contratto dette malattie a causa di un consumo di alcool e di sigarette avvenuto successivamente alla loro esposizione al CVM. Dunque, in nessuno dei casi esaminati dal Tribunale fumo ed alcool avrebbero potuto essere considerati, ai fini della corretta applicazione della legge penale, concausa sopravvenuta degli eventi. Eppure,  nonostante tale indiscutibile evidenza probatoria, il Tribunale si sarebbe ritenuto dispensato dal dover  svolgere quell’accertamento  sul  tema della rilevanza concausale dell’esposizione a CVM che l’accusa aveva prospettato,  avendo postulato quell’apodittica ed erronea affermazione di ordine generale secondo cui  la mancanza dell’idoneità causale rende, per ciò solo, il fattore inidoneo ad essere concausa di un evento. Ed in tal modo sono state ignorate circostanze provate dall’accusa che avrebbero potuto e dovuto essere valutate con attenzione in siffatta ottica di approfondimento del tema.

 

In particolare, erano stati dimostrati i ritardi e le omissioni in relazione agli spostamenti dei lavoratori, fumatori o bevitori, che, in passato, erano stati esposti ad alte concentrazioni di CVM.

In casi del genere, l’esposizione a CVM oltre che ad essere determinante sotto il profilo concausale avrebbe potuto e dovuto essere considerata dal Collegio anche in relazione agli effetti di accelerazione dell’insorgenza della malattia, così come i Consulenti tencici di parte dell’accusa (in particolare i medici  Bracci, Rodriguez, Bartolucci e sopratutto Martinez) avevano puntualmente, ma inutilmente, evidenziato.

 

Al riguardo osserva il P.M. che il tema dell’accelerazione della malattia derivante dal prolungamento dell’esposizione  è ben noto alla giurisprudenza, avendo di regola costituito tema di approfondimento specifico nelle più importanti vicende di malattie professionali. E sul punto rinvia alle considerazioni, ad esempio,  svolte dal Tribunale di  Casale Monferrato 30/10/1993, in cui si legge (sia pure in tema di malattie professionali da amianto, ma -per il P.M.- non vi è alcuna ragione – né logica, né scientifica, né normativa- per sostenere – come fa il Tribunale – che i criteri di valutazione del nesso causale per le patologie derivanti da esposizione da amianto dovrebbero essere diversi da quelli da seguirsi nella presente vicenda processuale):“Con riferimento ai tumori professionali si è rilevato in giurisprudenza che, allorchè la prosecuzione dell’attività lavorativa dopo l’innesco biologico di una malattia professionale costituisce causa certa di aggravamento, deve affermarsi il rapporto di causalità fra tale prosecuzione e l’evento delle lesioni o dell’omicidio colposo del lavoratore”.

 

Il P.M. conclude dunque sul punto sostenendo che il grave errore giuridico compiuto dal Giudice di primo grado a proposito della ricostruzione del nesso causale ha, così, irrimediabilmente condizionato la sua valutazione, allorquando si è trattato di considerare profili specifici e particolari della causalità come, per l’appunto, il descritto tema del contributo concausale del CVM (insieme ad altri fattori quale alcool e fumo) in relazione sia all’insorgenza che allo sviluppo ed all’accelerazione delle patologie tumorali (tumori al fegato ed al polmone), in ordine alle quali è stata pronunciata l’assoluzione degli imputati per insussistenza del fatto. Inoltre, a questo grave errore giuridico sia è aggiunta un'altra grave omissione, di fatto: quella di non aver per nulla considerato nè trattato le relazioni tecniche depositate e le dichiarazioni in aula dei CC.TT. del P.M. (Prof. Vineis - Comba - Pirastu), proprio sulle interazioni CVM-alcol e CVM-fumo.

 

Infine, sostiene il P.M., il Tribunale si è completamente dimenticato della distinzione tra patologie monocausali e patologie policausali, distinzione ribadita ampiamente dal P.M. in sede di replica, distinzione ben nota anche ai consulenti tecnici di Montedison, prof. Fornari e prof. Colombo. Il primo, infatti, aveva parlato espressamente in aula di tumori policausali e il secondo aveva definito in aula la concausa come “la contemporanea presenza di due fattori noti e documentati per dare malattia epatica” e “mutatis mutandis” malattia dell’apparato respiratorio.

E non vi può essere dubbio che affezioni epatiche e affezioni polmonari possano essere causate sia dal CVM-PVC, sia da fumo/alcol.

 

Anche in forza di tali argomenti e doglianze, dunque, l’appellata sentenza andrebbe riformata.

L’appellante peraltro, nel contesto dei motivi relativi alla problematica della causalità lamenta altresì che il Tribunale abbia prospettato una tesi, ancora una volta sbagliata, sia dal punto di vista fattuale che da quello giuridico, portando a paragone i meccanismi di azione del cloruro di vinile e dell’amianto, che ritiene non  assimilabili, onde  se per quanto riguarda l’amianto “…il verificarsi del mesotelioma piuttosto che dell'asbestosi, può correttamente ricomprendersi nell'evento pur dall'agente non rappresentatosi tipicamente ma prevedibile come conseguenza dannosa dell'inosservanza di norme cautelari comuni”, per quanto riguarda invece il cloruro di vinile, “…non è accettabile un’applicazione di tale orientamento per estrapolazione dall'amianto al CVM-PVC, non essendovi alcuna correlazione o progressione tra la patologia nota (Raynaud) e la neoplasia (angiosarcoma) causata dal CVM”.

 

Le argomentazioni e conclusioni del Tribunale sarebbero per il P.M. appellante arbitrarie, sostenendosi invece, previo excursus sul meccanismo cancerogeno dell’amianto con richiamo e citazione di letteratura, che il mesotelioma non va ritenuto complicanza dell’asbestosi e che non è vero che i meccanismi d’azione dell’amianto sarebbero noti, onde se non è posto in dubbio, neppure dal Tribunale, che l’amianto provochi il mesotelioma pleurico, non si vedrebbe perché questo discorso non debba valere anche per il CVM-PVC e perché non sia possibile sostenere, come per l’amianto, che la mancata conoscenza certa di tutti i meccanismi d’azione (che possono essere plurimi) del CVM-PVC nel cagionare ad esempio il tumore del polmone non può e non deve incidere sulla attribuibilità  al CVM-PVC pure di questa forma tumorale, risultando peraltro evidente il parallelismo con i diversi, ed intercorrelati, meccanismi di cancerogenesi dell’amianto.

 

Ne conseguerebbe, secondo il P.M., che, sia alle malattie professionali da amianto che a quelle CVM-PVC, va applicata la medesima normativa (a partire dalle leggi speciali a tutela dei lavoratori in vigore dagli anni cinquanta), così come per entrambe le patologie vanno applicate le medesime categorie interpretative, a partire da ogni discussione in materia di nesso causale.

Passa quindi il P.M. ad analisi dettagliata dei presupposti che per l’appellante fanno ritenere sussistente il nesso di causalità in questione, per la gran parte negato dal Tribunale, e lo fa seguendo passo passo, pagina per pagina, come dallo stesso preavvertito, la motivazione della sentenza di primo grado, avvertendo altresì che, in ogni caso, la base giuridica di questo appello è costituita dalla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte, di cui si è discusso poco fa, mentre i presupposti di fatto, storici e scientifici per giungere ad affermare la penale responsabilità degli imputati consistono nella disamina delle seguenti parti:

- epidemiologia e studi epidemiologici;

- metodologia epidemiologica;

- studi epidemiologici sul CVM;

- gli studi epidemiologici a Porto Marghera;

- la causalità;

 - la causalità generale da esposizione a cloruro di vinile;

- l’effetto lavoratore sano rilevato nella coorte di Porto   Marghera;

- cancerogenesi;

- l’influenza delle esposizioni a basse dosi;

- cancerogenesi e organismi internazionali;          

-  le patologie riscontrate a Porto Marghera: il fegato, il polmone, gli altri organi.

 

Circa il primo punto, si pone il P.M. l’obiettivo di evidenziare il modo sbagliato del Tribunale di trattare il nesso causale intercorrente fra  esposizione a cloruro di vinile e insorgenza in particolare dei tumori epatici (angiosarcoma e carcinoma epatocellulare), della cirrosi epatica e dei tumori polmonari, attraverso la trattazione di tre questioni di fondo delle quali lamenta un mancato apprezzamento  da parte del Tribunale: a) la distinzione che è necessario fare tra le valutazioni dell’insieme dell’evidenza di cancerogenicità  di una sostanza fatta  da organismi internazionali e i risultati di singoli studi,  come anche il diverso significato da attribuire  ai due; b) i fattori che sono alla base e che garantiscono  una elevata qualità degli studi epidemiologici; c) tentativi di ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM.

 

Quanto alla prima questione sostiene l’appellante che le valutazioni dell’evidenza complessiva  ad opera di organismi nazionali e/o internazionali sono  il risultato di un processo di ricerca del consenso nell’ambito di un gruppo di esperti che si raggiunge attraverso procedure standardizzate ed esplicitate, che hanno come oggetto l’esame delle conoscenze scientifiche disponibili al momento della formulazione della valutazione… ed i risultati di singoli studi non mettono in discussione le suddette valutazioni; bensì essi contribuiscono all’insieme delle conoscenze in modo commisurato alla loro qualità. Onde non sarebbe corrispondente a realta’ (Pg. 27) l’affermazione generale che: “Le conclusioni cui era pervenuta IARC nel 1987……… sono state poste in discussione  dagli studi epidemiologici successivi . In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999)”.

 

Sarebbe infatti assurdo e fuori dalla realtà sostenere, come ha fatto ripetutamente il Tribunale (pag.148-158-159), che le valutazioni di un organismo scientifico internazionale, che gode della massima stima e del massimo prestigio, come IARC (o EPA), sarebbero superate. IARC infatti a partire dal 1975 non sarebbe mai tornata sui suoi passi né avrebbe delegato l’uno o l’altro studioso a compiere autonomi accertamenti, ed i nuovi studi, per quanto ampi, sarebbero una parte del tutto che si inseriscono nell’alveo di quelli precedenti e di per sé non portano a modifica della precedente valutazione, essendo necessario tutto un meccanismo di approfondimento ai fini della classificazione (o riclassificazione) di una sostanza.

 

Quanto alla seconda questione, sostiene il P.M. che la sentenza sarebbe gravemente viziata per non avere dato contezza delle manchevolezze dello studio Mundt 2000 fondato su carente database del “filone principale” U.S.A., nonostante che in dibattimento i vari consulenti tecnici del P.M. (Berrino, Comba, Pirastu, Mastrangelo) si siano ampiamente soffermati su tale problematica.

Quanto alla terza questione sostiene il P.M. che i tentativi di ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM presenti nella letteratura scientifica sarebbero conseguenza del ruolo svolto dall’industria nella diffusione delle conoscenze sulla cancerogenicità del CVM, nello specifico quella statunitense, ma anche Enichem, con il supporto di noti e ben pagati epidemiologi stranieri, tra cui Richard Doll, al quale Enichem ha dato mandato di sostenere che l’angiosarcoma epatico e’ l’unico tumore causalmente associato con l’esposizione a CVM.

 

Passa quindi il P.M., nell’affrontare le altre parti di cui sopra, all’esame degli specifici punti della sentenza ritenuti errati in fatto o frutto di una contraddittoria valutazione. E così, riguardo alla metodologia epidemiologica, sostiene l’erroneo utilizzo da parte del Tribunale, in uno stesso studio di livelli di confidenza diversi per diverse cause di morte, e non sarebbe accettabile in assoluto nemmeno l’ulteriore affermazione e decisione del Tribunale,  che esclude sempre e per partito preso le situazioni con limitata significatività statistica: a questo proposito richiama ancora l’appellante la recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (nr.27 del 2002: pag.15), dove viene scritto che  “coefficienti medio bassi di pericolosità …. impongono verifiche attente e puntuali …. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia  medico-legale …. possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Riscontro probatorio secondo il P.M. per il caso dei tumori professionali possono essere le evidenze sperimentali sugli animali e su altri modelli di laboratorio.

Lamenta poi il P.M. errori ed errate valutazioni da parte del Tribunale in merito alle conclusioni assunte relativamente ai tumori diversi dall’angiosarcoma con riferimento agli studi epidemiologici sul CVM, sia di corte europea coordinato da IARC (Ward 2001), sia USA (Mundt 2000), ritenendosi invece che una esatta proposizione dei dati stessi porterebbe a diversa conclusione, in particolare relativamente al carcinoma epatocellulare, al tumore al polmone ed alla cirrosi.

 

Richiamando poi il P.M. gli studi epidemiologici a Porto Marghera, lamenta che il Tribunale, pur citando una serie di dati prodotti dai Consulenti Tecnici del PM, che dimostrano come nella coorte di Porto Marghera, oltre all’eccesso degli angiosarcomi epatici,  vi sia stato un significativo eccesso di altri tumori epatici, in particolare per gli autoclavisti, nonché, come emergerebbe dall’aggiornamento 1999, un significativo eccesso di tumori polmonari per i lavoratori che avevano svolto mansioni di insaccatori, su tali risultati chiarissimi (che emergerebbero da due tabelle riproposte), ha evitato di fare commenti e valutazioni, pur dando atto della pericolosità particolare delle mansioni rispettivamente di autoclavista e di insaccatore.

 

Anche per tali omissioni, si chiede la riforma della sentenza.

Riaffrontando nello specifico la parte relativa alla causalità, il P.M. innanzitutto lamenta  che il Tribunale non ha assolutamente seguito i criteri che egli stesso aveva richiamato e indicato come i criteri-guida per ogni decisione. Ne deriverebbe quindi contraddittorietà della motivazione.

Si citano quindi i quattro criteri fatti propri dal Tribunale nei seguenti:

“1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza scientifica; 

2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una "corroborazione provvisoria "; 

3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto ; 

3)     la incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento”.

 

E si sostiene da parte dall’appellante, in tema di causalità generale da esposizione a cloruro di vinile, che, alla luce di quanto scritto, e sopra accennato, in merito agli studi epidemiologici sul CVM, non è assolutamente condivisibile l’affermazione del Tribunale relativa  “all'assenza della prova allo stato delle conoscenze scientifiche della idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone , il carcinoma  epatocellulare e la cirrosi riconoscendo solo la sua associazione causale con l'angiosarcoma , con tipiche epatopatie e con la sindrome di Raynaud”. Lamenta il P.M., che per affermare ciò, il Tribunale avrebbe dovuto prima di tutto affrontare e criticare quanto esposto dall’accusa in senso contrario, esaminando le relazioni finali depositate dal P.M., criticandone l’eventuale metodologia, la logica e le conclusioni. Il Tribunale non avrebbe fatto nemmeno questo, essendosi affidato in maniera del tutto acritica alle relazioni dei consulenti degli imputati, riportandone pari pari le osservazioni e tralasciando le specifiche repliche dei CC.TT del P.M.

 

Analogamente, sarebbe del tutto arbitraria l’affermazione del Tribunale secondo la quale “tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente,  non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra CVM-PVC e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio”.

Nello specifico delle singole patologie, sostiene l’appellante, richiamando in particolare gli studi dei propri consulenti, che, quanto al tumore al polmone, “nelle coorti che hanno condotto un'analisi specifica per gli insaccattori, definiti come "solo addetti all'insacco" e " addetti all'insacco " si sono identificati incrementi di mortalità. Pertanto la persuasività scientifica della relazione causale fra l'attività lavorativa che comporta esposizione a polveri di PVC è elevata”.

 

Richiamando poi ancora i dati in materia, rileva che:

a) Il trend positivo con l’esposizione a CVM nella coorte europea (Ward 2001);

b) L’incremento della mortalità nella coorte degli insaccatori Montedison-Enichem, che contrasta con il deficit di mortalità per queste cause osservato nella coorte complessiva;

c) L’assenza di elementi per suggerire un ruolo confondente del fumo di sigaretta: è ovvio che i casi di cancro polmonare occorsi tra gli insaccatori siano fumatori (come la quasi totalità dei casi di cancro polmonare in qualunque categoria professionale); il fatto è che nella coorte degli insaccatori nel suo complesso non ci sono evidenze di un abnorme consumo di tabacco. Al Tribunale sfugge la distinzione fra “le cause dei casi” e “le cause dell’incidenza”, così come sfugge la distinzione fra “individui malati” e “popolazioni malate” … In assenza di questi essenziali riferimenti scientifici e culturali, il paragrafo “L’epidemiologia: un primo approccio” (motivazioni, pp. 29-37) appare del tutto inadeguato a sostenere le successive valutazioni del Tribunale in campo epidemiologico.

 

Ed alla luce delle considerazioni di cui ai tre precedenti rilievi, ritiene il P.M. che i quattro criteri di cui a pag. 142 delle motivazioni, sopra citati, siano adeguatamente verificati e, quindi, va affermata l’esistenza del nesso causale anche in questo caso.

Quanto ai tumori del fegato –angiosarcoma a bassa  esposizione sostiene l’appellante che neppure avrebbe ben compreso il Tribunale i dati emergenti dallo studio europeo WARD 2001, che pur ritiene fondamentale, dati dai quali, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, emergerebbe un rischio di angiosarcoma anche a bassa esposizione, non avendo d’altra parte il Tribunale considerato che era stato discusso dal P.M. un caso di angiosarcoma per un operaio assunto dopo il 1973 (Dalla Verità Domenico, assunto nell’aprile del 1974), ed avendo pure rigettato la richiesta del P.M. di acquisire della documentazione attestante un’altra morte per angiosarcoma a causa del CVM, verificatasi negli USA, per bassissime esposizioni: di tale ordinanza,  del tutto immotivata, si chiede la nullità e la conseguente rituale acquisizione della documentazione tramite rinnovazione del dibattimento.

 

Quanto al carcinoma epatocellulare si richiamano ancora gli studi e conclusioni dei propri consulenti che suggeriscono che “l’esposizione a   CVM può essere associata anche con questo tumore”. Si ricorda inoltre che valutazioni dell’associazione causale intercorrente fra esposizione a CVM e carcinoma epatocellulare sono state formulate, oltre che da IARC, anche da EPA. Onde anche nel caso secondo il P.M. i criteri di causalità esposti dal Tribunale a pag. 42 siano stati adeguatamente verificati e, quindi, anche in questo caso va affermata la sussistenza del nesso causale.

E così per la cirrosi relativamente alla quale se è vero che nella coorte generale di Porto Marghera la mortalità per tale patologia è inferiore all’attesa, va peraltro rilevato che essa è superiore all’attesa fra gli autoclavisti.

 

Osserva poi il P.M. che nelle motivazioni della sentenza viene in più punti affermato che la coorte dei lavoratori di Porto Marghera è costituita da soggetti in buono stato di salute, come mostrato dalla diminuita mortalità per tutte le cause, quando la coorte viene confrontata con la popolazione residente nel Veneto. Tale richiamo del Tribunale non avrebbe però portato il Tribunale stesso a valutarne adeguatamente il significato e le implicazioni. I soggetti assunti al lavoro non sono un campione casuale della popolazione generale, ma costituiscono un campione di soggetti in buono stato di salute che desiderano un lavoro. Il gruppo dei soggetti assunti è perciò un campione selezionato, non rappresentativo della popolazione generale. Quando si confronta l’esperienza di mortalità dei lavoratori con quella della popolazione generale residente in Veneto da cui provengono, si riscontra perciò un rischio di morte. Questa differenza è chiamata “effetto lavoratore sano” ed è una distorsione di cui tener conto in fase di analisi, proprio perché potrebbe mascherare (in generale) l’effetto di importanti agenti tossici e nocivi a cui i lavoratori vengono esposti nella loro vita professionale. Tale distorsione ha portato erroneamente ad attribuire l’osservata diminuita mortalità dopo il 1974 a diminuite esposizioni ad agenti tossici, mentre questa è una osservazione spuria: una volta rimosso l’effetto distorcente della selezione all’assunzione, la diminuzione, non più statisticamente significativa, è di entità assai modesta.

 

Per il P.M., contrariamente a quanto immotivatamente ritenuto dal Tribunale, ciò renderebbe possibile rilevare che:

a) non c’è alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a partire dal 1974, tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione;

b) gli assunti in anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza” necessaria perché si manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a quelle patologie per le quali il periodo di latenza può essere molto lungo);

c) non vi è alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni precedenti;

d) i soggetti esposti nelle mansioni a rischio (autoclavisti e insaccatori) manifestano una mortalità per tutte le cause aumentata e questo rischio appare crescente al crescere della durata di impiego nella mansione a rischio;

vi è evidenza notevole   di   due   particolari    rischi   specifici, il tumore polmonare per gli insaccatori e l’epatocarcinoma per gli autoclavisti, oltre che una evidenza molto elevata anche  per la cirrosi epatica.

 

Nell’esame delle parti ritenute importanti nell’argomentazione dei motivi d’appello, affronta poi il P.M. le questioni relative alla “CARCINOGENESI”, pure affrontate dal Tribunale che però, subito osserva l’appellante, non ne avrebbe compreso il significato.

 

Il Tribunale si sarebbe sbarazzato in fretta della questione, con due parole, non motivate (a pag.101) dicendo che il problema è ancora “incerto e dibattuto”, così abbandonando la stessa linea tracciata dal  prof. Harry BUSCH, presidente di un centro di ricerche sul cancro negli USA indicato dalla difesa, il quale sull’origine del cancro aveva chiaramente confermato l’impostazione dei consulenti del P.M., parlando di stabilità genetica e precisando (controesame del 20.4.99 pag. 88) che “il genoma umano è estremamente stabile”: a conferma della necessità di alcune alterazioni genetiche affinché una cellula diventi maligna.

 

E oltre a “non considerare” il prof. BUSCH il Tribunale avrebbe citato i consulenti del P.M. soltanto per le parti che servono a sostenere la tesi assolutoria. Ma le questioni fondamentali trattate dai CC.TT. del P.M. non sono state né affrontate né eliminate e, quindi, alle relazioni dei professori Berrino e Colombati si deve fare integrale rinvio, con particolare riferimento ai numerosi lavori scientifici presentati (e discussi dal P.M. in requisitoria) a sostegno della origine professionale dei tumori da CVM non solo del fegato, ma anche degli altri tre organi bersaglio (polmone “in primis”).

Ripropone poi il P.M. concetti di genetica molecolare per sostenere altresì che molte delle disquisizioni della sentenza (da pag 106 a pag 126) sembrano poco rilevanti e poco appropriata appare l'interpretazione di molti dei lavori scientifici citati. Fatto essenziale, riconosciuto dalla stessa sentenza, è che il CVM è cancerogeno. In questo, osserva ol P.M.,  non vi è contrasto di opinioni ed è stata precisamente identificata la modifica chimica in un gene causata dal CVM, o meglio da un suo derivato.

 

E prosegue l’appellante osservando che, chiarito questo, che è il punto centrale per stabilire le responsabilità di chi ha esposto gli operai del Petrolchimico al CVM, si può passare ad esaminare la questione della presenza o meno di una " soglia di sicurezza" per il CVM  e anche per altre sostanze.  Al riguardo richiama quanto detto in aula, e riportato nell’atto d’appello, dal prof. Maltoni,  portato, osserva l’appellante,  sul palmo della mano dal Tribunale su tutto, meno che per la sua affermazione relativa alla inesistenza di una soglia biologicamente sicura per il CVM. E riporta, altresì, un concetto di cinetica degli enzimi: la velocità di qualsiasi reazione enzimatica (e quelle in  cui il CVM partecipa come substrato non fanno eccezione) dipende in modo asintotico dalla concentrazione del substrato. A concentrazione molto bassa del substrato, inferiore al valore della costante di Michaelis (Km), la velocità di reazione è pressochè lineare in funzione della concentrazione del substrato ( nel nostro caso, il CVM).

 

Dunque per il P.M. parlare di soglia è, teoricamente, un assurdo:  si può dire, tutt'al più, che ci possono essere concentrazioni del “veleno” tanto basse da rendere la reazione iniziale, e le successive, molto lente, e lo sviluppo del tumore molto improbabile: ma mai impossibile. Il fatto che sia difficile rilevare l'insorgenza di tumori per piccole dose di mutageni dipende dal metodo di misura e dai limiti della sua sensibilità, come è stato rilevato nel corso del processo.  Il problema, a questo punto è  giuridico (oltre che morale): è lecito esporre consapevolmente persone ad una probabilità sia pur piccola di tumore? E quando, poi, questo tumore si verifica, che succede?

Per quanto riguarda le mutazioni del gene p53 nei lavoratori esposti a cloruro di vinile, è stata pubblicata recentemente un’estensione dello studio sui lavoratori di Taiwan (Wong e altri, Cancer Epidemiology Biomarkers and Prevention 2002; 11: 475-82), di cui si chiede l’acquisizione, previa rinnovazione del dibattimento, che rafforza le conclusioni della precedente indagine. Infatti, i soggetti maggiormente esposti a VCM avevano una sovraespressione della p53 due volte più spesso dei soggetti con livelli più bassi di esposizione, e la sovraespressione era modulata da polimorfismi metabolici (CYP2E1, uno dei geni maggiormente coinvolti nel metabolismo del VCM) e di riparazione del DNA (XRCC1). In altre parole, danni al gene p53 si manifestavano già a dosi molto basse ed erano più frequenti nei soggetti con mutazioni (polimorfismi) dei geni coinvolti direttamente nel metabolismo del cloruro di vinile e nella riparazione dei danni da esso provocati al DNA.

Questo ulteriore studio rafforza quanto riportato in precedenza dagli stessi autori. Nello studio condotto a Taiwan, su 251 lavoratori esposti  a CVM il 13% presentava una sovraespressione del gene p53, contro il 5.6 % di 36 soggetti non-esposti. Mutazioni (identificate con un metodo immunologico) erano presenti nel 10% e nel 2.8% rispettivamente; le differenze erano statisticamente significative (p=0.032)(Luo et al, 1999). L’aspetto interessante al fini processuali è che le mutazioni erano presenti anche nei lavoratori che avevano subito una modesta esposizione cumulativa (meno di 40 ppm-anno): e ciò conferma anche il rischio di angiosarcoma a basse dosi, illustrato dal dr. Simonato, dal dr. Boffetta e da WARD 2001.

 

Ma anche il tema relativo alla influenza delle basse dosi sarebbe stato trattato in maniera generica e superficiale dal Tribunale, il quale – anche in questo caso – si è  completamente dimenticato della esistenza di una relazione tecnica del prof. Franco Berrino (direttore dell’Unità Operativa di Epidemiologia dell’Istituto Tumori di Milano), pur arrivando ad affermare in motivazione il presunto vuoto accusatorio sul punto. Ed elenca l’appellante tutta una serie di elementi, in fatto e tecnici, che non sarebbero stati considerati dal tribunale e che confermerebbero invece quanto sostenuto dall’accusa, lamentandosi in conclusione un appiattimento totale del Tribunale sulle posizioni della difesa, con oblio totale delle relazioni tecniche e delle posizioni dell’accusa.

 

Richiama infine sul punto il P.M. quanto segnalato e motivato dal professor Giovanni Zapponi, le cui valutazioni il Tribunale ha frainteso o non compreso, in relazione alla valutazione del rischio cancerogeno da CVM secondo organismi internazionali (e non) come l’O.M.S., l’Unione Europea e l’EPA,  con particolare riferimento alle basse dosi di esposizione.

 

Quanto alle patologie riscontrate a Porto Marghera, ricorda ancora il P.M., contrariamente alle diverse conclusioni del Tribunale, che secondo vari organismi e organizzazioni internazionali, tra cui IARC ed EPA in primo luogo, devono essere considerati come principali organi – bersaglio del CVM il fegato, il polmone, il cervello, il sistema emolinfopoietico. Inoltre, sulla base di singoli studi, devono essere attribuite all’azione del CVM alcune altre patologie, come il tumore del laringe, nonché – come ampiamente illustrato anche nel capitolo 2.3 – il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi. Ancora lamenta il P.M. da parte del Tribunale, che ha ritenuto di riconoscere come conseguenti all’esposizione a CVM solo l’angiosarcoma, il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi ed alcune epatopie, omissioni nell’esame del materiale probatorio fornito dall’accusa e, in molti casi, anche fraintendimenti del contenuto degli atti esaminati e soprattutto delle esposizioni e dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M., con conseguente grave vizio della motivazione della sentenza, la quale dovrebbe dunque essere completamente riformata.

 

Nello specifico, con la consueta tecnica argomentativa di richiamare determinati passi della sentenza che si ritengono contenere osservazioni, valutazioni o conclusioni errate (per lo più, secondo il P.M., preconcette, frutto di appiattimento sulle posizioni della difesa, funzionali ad originario disegno assolutorio), si sottopongono già a critica alcune affermazioni del Tribunale relative anche all’angiosarcomo, pur riconosciuto come conseguente all’esposizione a CVM, ma che nella loro erroneità producono influssi negativi su altri punti fondamentali della decisione, quali ad esempio quelli relativi alla carcinogenesi, all’influenza delle basse dosi (magari successive ad alte dosi) e al concorso di cause (fumo ed alcool); e quali l’esclusione della presenza dell’angiosarcoma epatico per Simonetto Ennio su asserito unanime giudizio di tutti i consulenti, quando invece tra i consulenti vi era contrasto sul punto, potendosi citare a favore della diagnosi di angiosarcoma ed epatocarcinoma, la diagnosi iniziale del Prof. Maltoni che include il paziente fra i casi di angiosarcoma della coorte dell’Istituto Superiore di Sanità e la conferma della diagnosi che il maggior esperto in questo campo ne fa in aula nel corso del processo, la diagnosi del Prof. Rugge che descrive la lesione con “fenotipo” compatibile con la diagnosi di angiosarcoma, la registrazione di Simonetto Ennio nel registro mondiale degli angiosarcomi.

 

Sostiene poi il P.M., sempre a tale riguardo, che il Tribunale senza alcuna motivazione reale avrebbe rifiutato non solo l’ipotesi di approfondire il tema delle morti per angiosarcoma a bassa esposizione nella popolazione, ma ne avrebbe aprioristicamente negato la rilevanza, scrivendo ad esempio che per i casi proposti al suo esame “manca la certezza diagnostica” o che “i tempi di latenza non sono osservati” (pag.212), mentre al contrario in atti esistono addirittura atti d’autopsia e precise indicazioni sulle esposizioni.

Quanto all’epatocarcinoma, l’appellante, dopo citazione di osservazioni sul punto dei vari consulenti e critica ancora di specifiche affermazioni e conclusioni del Tribunale che non trascura di apostrofare come arrampicate sugli specchi, lamentando travisamenti ed erronei apprezzamenti dei contributi scientifici, e dopo aver ancora ribadito la tesi, sostenuta dai propri consulenti, dell’azione sinergica del CVM con gli abusi di alcol e le infezioni  da virus B e C, sostiene che in forza degli atti del processo il carcinoma epatocellulare può essere ascritto all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:

                                                              i.     Dati epidemiologici ormai derivanti da coorti assai numerose provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.

                                                            ii.     Una forte evidenza (p<0,002)  in favore di una relazione dose-risposta

                                                          iii.      I casi occorsi in Germania in lavoratori nei  quali erano stati esclusi tutti i fattori extralavorativi

                                                           iv.     Cinque lavoratori di Porto Marghera, Fusaro Vittorio, Cividale Luigi,  Favaretto Emilio, Mazzucco Giovanni, Monetti Cesare, che non presentavano fattori di rischio extralavorativi. In due casi di epatocarcinoma   (Bonigolo e Mazzucco) i consulenti della difesa ammettono la responsabilità dell’esposizione a CVM.

                                                             v.     Una evidente anomala distribuzione dell’eziologia  (50% alcolica e solo il 19 % virale) che è stata dimostrata nei lavoratori di Porto Marghera che non ha riscontro in casistiche finora pubblicate, provenienti da aree come quella della regione veneta con un’alta incidenza di infezioni da virus epatitici.

                                                           vi.     I casi di pazienti descritti in letteratura  nei quali nello stesso fegato sono stati trovati noduli di angiosarcoma ed  epatocarcinoma (Simonetto Ennio è uno di questi casi)

                                                         vii.     I riscontri sperimentali che dimostrano che l’esposizione a CVM nei ratti può determinare l’insorgenza di diversi tipi di tumori fra i quali l’angiosarcoma e l’epatocarcinoma.

                                                       viii.     L’analogia con l’esposizione al  Thorotrast che è ormai accettato che possa indurre nell’uomo non solo l’angiosarcoma ma anche l’epatocarcinoma.

 

Analogamente, anche relativamente alla cirrosi epatica contesta il P.M. come già accennato, le conclusioni del Tribunale, ritenendole non basate sulla realtà dei dati e sulle logiche considerazioni che  ne sarebbero dovute scaturire, il tutto ampiamente presentato in dibattimento, anche in sede di requisitoria e di replica finali. E previa elencazione dei principali aspetti della questione, sulle quali il Tribunale sarebbe incorso in madornali sviste e/o errori di valutazione, con il supporto di copiosa citazione di dati e passi dei consulenti, e riproposizione di casi, sostiene che, se ci si  attiene agli atti del processo, la cirrosi epatica, può essere ascritta all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:

- Dati epidemiologici derivanti dall’aggiornamento della coorte europea (Ward et al, Epidemiology, 2001) con un RR di 9,24 nella classe di soggetti esposti fra  524 e 998 ppm.anni.

- Evidenza in favore di una relazione dose-risposta analoga a quella riscontrata per l’angiosarcoma e per il carcinoma epatocellulare, con una tendenza della curva di dose risposta intermedia tra i due.

- L’associazione tra cirrosi epatica e angiosarcoma, che secondo il Tribunale potrebbe avvalorare la tesi dell’associazione tra “tale malattia epatica (la cirrosi) ed esposizione a CVM è stata riscontrata in tre (su sette) lavoratori di Porto Marghera con angiosarcoma (Simonetto Ennio, Zecchinato Gianfranco, Pistolato Primo.

- In letteratura sono stati descritti altri casi  di pazienti con cirrosi ed angiosarcoma.

-  La plausibilità biologica confermata dalla spiccata attività fibrogenetica del CVM che in presenza di un abuso di alcol o di una infezione cronica virale causa un’amplificazione notevole delle conseguenze in termini di tossicità e di potenziale profibrogenico.

 

Sempre con riferimento all’organo bersaglio fegato, sostiene infine il P.M. che trattando delle epatopatie riscontrate nei lavoratori del PCV-CVM di Porto Marghera, il Tribunale continua a far confusione tra tossicità e cancerogenicità del CVM. Infatti, ancora a pag.246 della sentenza, citando fuori luogo l’audizione del consulente del P.M. prof. Berrino, il Tribunale continua a mescolare senza ragione IARC 1987, “oncogenità del CVM”, epatopatie e bronchiti. Sostiene dunque l’appellante, dopo richiamo alla già ricordata differenza concettuale e sostanziale tra tossicità e cancerogenicità, e dopo riproposizione dei casi dei lavoratori le cui epatopie sono state escluse dal Tribunale come causate dall’esposizione a CVM, che al riguardo la sentenza ha ripetutamente invocato (fin da pag.9) l’elevato consumo di alcol come “giustificata soluzione alternativa” all’eccesso di tumori del fegato, di cirrosi e di epatopatie.

 

Ma, sostiene l’appellante, l’eccesso osservato negli operai di Porto Marghera è troppo elevato per poter essere spiegato da un eccessivo consumo di alcol. Infatti, gli operai di Porto Marghera avrebbero dovuto fare un consumo di alcolici doppio rispetto alla popolazione generale maschile della stessa età, un comportamento che sarebbe difficilmente compatibile con una regolare attività lavorativa e di cui non vi è alcuna prova in atti. Anzi, vi sono diverse prove in senso contrario, a partire dalla relazione FULC del 1975, alle indagini effettuate dalla ULSS e dalla ASL di Mestre anche negli anni novanta: in proposito si indicano le dichiarazioni rese in aula dai testi dr. Magarotto e dr. Munarin.

 

Di tutto ciò i  giudici di primo grado si sarebbero completamente dimenticati, ed anche sul punto il Tribunale avrebbe scritto circostanze e fatti sbagliati in sentenza e avrebbe gravemente omesso di vagliare e di valutare il materiale probatorio offerto dall’accusa, affidandosi alle dichiarazioni in aula dei consulenti di Montedison Colombo e Lotti. Il primo, però, all’udienza del 18 maggio 1999 ha ripetutamente detto: “chiedete a Lotti” (pag. 70 e 71) e quest’ultimo sempre su questo tema ha detto: “io non sono molto esperto di questi studi di cancerogenesi” (pag.71): e il Tribunale si è ripetutamente affidato e fidato di entrambi! Al contrario, di passaggi fondamentali per la ricostruzione dei fatti e per la valutazione degli eventi non vi sarebbe traccia in motivazione.

 

Lamenta altresì il P.M. che il Tribunale abbia assolto gli imputati amministratori Montedison del periodo 1969 – 1973, non meglio individuati, perché il fatto non costituisce reato, dai cinque casi di epatopatia (Poppi Antonio, Bartolomiello Ilario, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe e Sicchiero Roberto) riconosciuti come causati dal CVM. Non convincenti secondo l’appellante le motivazioni per l’esclusione dell’elemento soggettivo, atteso che il CVM era un noto epatotossico (lo si sapeva dagli anni cinquanta-sessanta e lo si insegnava all’università). Ed a questo proposito e in relazione all’art.437 c.p. (malattie derivate da omissioni del “datore di lavoro”) nulla ha risposto il Tribunale.

Ciò dovrebbe portare a una totale riforma della sentenza, con conseguente declaratoria di penale responsabilità di tutti gli imputati per tutti gli specifici reati loro rispettivamente contestati (artt. 437,589,590 c.p.).

Prosegue poi il P.M. sostenendo che le critiche svolte nei confronti della sentenza per la parte concernente le patologie epatiche dovranno sostanzialmente essere svolte anche per le altre patologie, "in primis" quelle polmonari.

Si lamentano, infatti, ripetute omissioni in fatto rilevate in motivazione; incompletezza grave nell'esame di tutti gli elementi probatori sottoposti dall'accusa all'esame del Tribunale; distorsione di quanto scritto e segnalato dai consulenti tecnici dell'accusa; accettazione acritica e totalmente immotivata delle tesi della difesa degli imputati.

Anche in questa  parte dell'atto d'appello, si richiamano e si citano, oltre ai passi della sentenza sottoposti a critica, concetti e informazioni espresse in varie relazioni tecniche oppure in vari lavori scientifici presentati al Tribunale, in particolare lo studio caso-controllo del professor Mastrangelo sul rischio di cancro polmonare nei lavoratori del cloruro di vinile, concludendo il P.M., sulla scorta degli stessi, da un lato per una lacunosità della motivazione della sentenza che avrebbe trascurato una parte sostanziale della elaborazione del prof. Mastrangelo (e del prof. Pinzani e del prof. Vineis, eccetera, e dall’altro per la non accettabilità delle conclusioni della sentenza riguardo alla problematica attinente la causalità del cancro polmonare, osservandosi che se è vero che tutto il lavoro scientifico è suscettibile di essere ribaltato o modificato dalle conoscenze future, ciò non ci conferisce la libertà ignorare la conoscenza già accumulata.

 

Conclude, infine, sul punto il P.M. contestando altresì l’esclusione delle patologie degli altri "altri organi" bersaglio del CVM-PVC (laringe - sistema emolinfopoietico -encefalo). Anche al riguardo, ci si lamenta che le motivazioni della sentenza sono del tutto insufficienti e non affrontano nemmeno ("more solito") tutti i dati, gli studi scientifici, le relazioni tecniche e le dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili offerti all'esame e alla valutazione del Tribunale.

 

E una situazione analoga si presenterebbe anche per i melanomi, per i quali sono emersi "eccessi", nonché relativamente alla sindrome di Raynaud per la quale il Tribunale oltre a fornire dati numerici sbagliati rispetto ai casi introdotti dal P.M. nel processo, fa poi confusione sul numero dei casi da lui stesso ammessi, si è completamente dimenticato di Terrin, non ha considerato che il certificato di diagnosi di RAYNAUD per Gabriele Bortolozzo è del 1995, ed inoltre, si è dimenticato dell’accusa di cui all’art. 437c.p..

 

In questa situazione di carente motivazione, per di più contraddittoria nei pochi punti trattati, sostiene il P.M. che la sentenza dei giudici di primo grado debba essere riformata "in toto", facendo esplicito richiamo alle fonti di prova d'accusa indicate nell’atto di appello e che già erano state sintetizzate durante la requisitoria all’esito del giudizio di primo grado.

 

Conclude quindi il P.M. i propri motivi di appello relativamente alle statuizioni sul primo capo d’imputazione, sostenendo ancora la sussistenza del disastro innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437 c.p., della cooperazione colposa ex art. 113 c.p. tra tutti gli imputati, e della continuazione fra tutti i reati colposi contestati, nonché l’insussistenza della prescrizione.

 

Quanto al disastro innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437 c.p., ricordato che il Tribunale ha pronunciato assoluzione dal reato di disastro innominato colposo contestato al primo capo di imputazione, in quanto il fatto non costituisce reato per condotte tenute sino al 1973 e per insussistenza del fatto per condotte successive al 1973, avendo appunto i giudici di primo grado individuato nel 1973  l'anno a partire dal quale sarebbe cessata l'efficienza lesiva del C.V.M. a seguito degli interventi per la riduzione delle esposizioni, il P.M., ferme restando le critiche in fatto su tale epoca sopra ricordate, censura comunque la pronuncia assolutoria alla quale il Tribunale sarebbe pervenuto sulla base di una interpretazione non corretta della fattispecie contestata. Sostiene infatti l’appellante che il Tribunale, secondo il quale  il reato di disastro andrebbe inteso "come evento di danno caratterizzato nel suo manifestarsi dalla gravità, complessità, estensione e diffusività", ha operato una indebita sovrapposizione tra l'evento di  pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli eventi di danno a quel pericolo conseguiti. assumendoli quali elementi costitutivi della fattispecie colposa; mentre avrebbe dovuto configurarli come condizione di punibilità dell'ipotesi aggravata di disastro considerata al comma secondo dell' art. 434 cp. Necessario e sufficiente, sostiene il P.M., la mera  insorgenza di  uno stato di fatto che  renda possibile il danno.

Dunque i giudici di primo grado avrebbero dovuto chiedersi se, in un momento anteriore al  giudizio, il bene protetto -incolumità pubblica-  fosse effettivamente  "caduto in crisi", formulando un giudizio prognostico sugli eventi futuri. Orbene, il Tribunale ha affermato che il rischio costituito dall'esposizione a CVM ha avuto idoneità lesiva dell'integrità fisica ed efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori  esposti, in quanto lo dimostrano i tumori e le malattie che la sostanza  ha causato. Se ne doveva trarre la conseguenza che il bene protetto era stato messo in pericolo, quel pericolo che la constatazione degli eventi lesivi  implica e che perciò stesso era stato cagionato un disastro causalmente riferibile ed imputabile alla condotta colposa degli imputati che, rivestendo posizioni di garanzia, avevano la gestione del rischio relativo all'esposizione ad una sostanza tossica ed oncogena.

 

Quanto al rapporto esistente tra la fattispecie di disastro innominato colposo e la fattispecie di cui all’art.437 c.p., ritiene il P.M. di sistemarlo dogmaticamente (e cita Cass. pen. Sez. IV, 16.7/8.11.1993, Arienti ed altri – caso Mec Navi; prodotta) nel senso che il capoverso dell’art.437 c.p. costituisce un reato complesso in cui l’evento disastroso (l’altro disastro o infortunio) concreta appunto un disastro innominato colposo, che viene dunque assorbito nel reato di “omessa collocazione” seguita dal disastro. Ciò viene precisato in ossequio al principio del “favor rei”, in relazione alla eventuale determinazione della pena da infliggere all’imputato.

 

Quanto alla cooperazione colposa, contestata nell'imputazione, la stessa secondo il P.M. pare del tutto provata, oltre che giuridicamente configurabile. Sostiene l’appellante che in contrario, non giova sostenere che mancherebbero i supposti requisiti della "reciprocità" e "contestualità" della rappresentazione dell'altrui condotta colposa, nei partecipi di questa "anomala" forma di partecipazione al reato; e che proprio la dimensione diacronica enorme, che connota questa vicenda, nonché la autonomia dei due "centri decisionali organizzati" che hanno determinato le decisioni di politica d'impresa sub iudice escludono già "logicamente" la possibilità di concepire una cooperazione colposa. Viceversa, né nella lettera né nella ratio di disciplina dell'istituto, si rinviene una siffatta restrizione o possibilità di esclusione del suo ambito di operatività, essendo anzi vero il contrario.

 

Nel citare dottrina e giurisprudenza che avallerebbero una interpretazione che riconosce autonoma capacità "incriminatrice" all'art. 113 c.p., che estende anche a casi non altrimenti punibili la responsabilità penale, in quanto la pericolosità di determinate condotte (di per sé atipiche) può diventare attuale solo incontrando la condotta pericolosa altrui, sostiene il P.M. che il legame di "cooperazione" su cui si fonda detta estensione di punibilità, non implica affatto un atteggiamento psicologico reale e contestuale di "consapevolezza reciproca" delle rispettive azioni, essendo sufficiente, in conformità con i requisiti della colpa, la «prevedibilità della condotta altrui, concorrente con la propria» (Severino di Benedetto, La cooperazione, cit., 103; Cognetta, La cooperazione, cit., 87); e, si deve, aggiungere: realizzatrice (o "concretizzatrice") proprio del tipo di rischio che la norma precauzionale violata mirava ad evitare (cfr. Grasso, Comm. sist. cod. pen., II, Milano, 198), con l'avvertenza che detta norma cautelare —rilevante per la imputazione a titolo di cooperazione colposa — potrebbe essere anche semplicemente quella volta a prevenire non direttamente l'evento lesivo in sé, bensì la condotta colposa altrui che poi lo ha effettivamente causato (Cognetta, La cooperazione, cit., 88).

 

Nel caso di specie, l'aspetto più importante dei fatti contestati, in cui rileva tale forma di responsabilità concorsuale colposa, sarebbe  manifestamente quello che riguarda il subentro di fatto e la successione anche "informale" in posizioni di controllo e gestione dell'impresa o di singoli reparti ed impianti. Sarebbe infatti evidente e documentale la piena consapevolezza, più che mera "conoscibilità", da parte di ENI-ENICHEM e dei suoi responsabili e dirigenti, ai vari livelli di competenza oggi imputati, sia delle condizioni degli impianti, sia delle problematiche di sicurezza e rischio della produzione e delle sostanze, sia dell'adibizione degli operai alle varie mansioni ed attività, con ampia partecipazione alla piena responsabilità nel «dimensionare il personale degli impianti e dei servizi, di intesa con ENI, in relazione ai costi concordati prima del closing». Ed è dunque fondata su prove sicure, oltre che logica, al di là dell'ampia dimensione temporale della vicenda, l'estensione di responsabilità ai diversi imputati ENI-ENICHEM accanto ed in cooperazione colposa con quelli Montedison, nella causazione delle malattie professionali e dei disastri contestati.

 

Quanto alla configurabilità della continuazione ex art. 81, comma 2, c.p., fra i delitti colposi contestati, in specie: lesioni personali, disastri e strage colposi, nonché reati ambientali vari, contesta il P.M. la tesi difensiva secondo la quale tale istituto sarebbe incompatibile con i reati colposi relativamente ai quali non ci potrebbe essere  l'identità del disegno criminoso. Sostiene contrariamente che non solo qualche isolata ed "originale" voce dottrinale sostiene la piena compatibilità della continuazione con i delitti e i reati colposi, ma neppure la giurisprudenza sarebbe in posizione così monoliticamente negativa. Al di là della sentenza (già citata Cass., sez. I, 24 maggio 1985, Sicchiero, in Cass. Pen., 1987, pag. 742 s., m. 536, con nota di richiami, che fa espresso riferimento alla possibilità di continuazione nei reati colposi, allorché vi sia - come nel caso di specie! – l'aggravante di aver agito nonostante la previsione dell'evento: e non si riscontrano invece precedenti in senso contrario, specifici su tale ipotesi), ve ne è quantomeno un'altra, assai significativa e riportata nei repertori e codici commentati, che riconosce la possibilità di ravvisare la continuazione anche quando si abbia la cosiddetta "colpa impropria", che come noto implica un reale contenuto psicologico a base della condotta dell'agente, pur se l'imputazione sia poi a titolo di colpa e non di dolo (Cass., sez. I, 10 marzo 1983, Avena, in Cass. Pen., 1985, pag. 1112 s., m. 672, con nota di richiami e motivazione).

 

Dunque non vi sarebbe certo impossibilità di diversa interpretazione ed applicazione dell'art. 81, comma 2, c.p.. Anzi: proprio di fronte alla oggi acquisita maggior rilevanza e frequenza di applicazione delle fattispecie colpose, in ambiti soprattutto qual è quello in questione, di attività economiche di per sé non illecite, se rispettose delle regole cautelari volute dall'ordinamento, si è affermata la piena consapevolezza dogmatica che la colpa è senz'altro interna e compatibile con la volontà e consapevolezza dell'agire economico, delle scelte d'impresa. Sarebbe dunque senz'altro compatibile, con il rimprovero di colpa, tanto più se "cosciente", la presenza di un unico "disegno criminoso", realizzato dalle diverse condotte esecutive, attive od omissive, in sé finalistiche, anche se non tecnicamente "dolose" rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo intergrano, non dovendo d’altra parte fare riferimento all’intera serie di elementi che costituiscono i reati, ma solo alle mere “azioni od omissioni”. In ogni caso rileva il P.M. che il Tribunale, nel contestare la sussistenza della cooperazione colposa e la sussistenza della continuazione (ex art.81 c.p.), abbia completamente dimenticato che in questi processo si parla anche di un grave reato di natura dolosa (art.437).

 

Quanto infine alla insussistenza della prescrizione, ricorda il P.M. coma abbia già contestato supra la tesi che l’esposizione sia cessata nel 1974 e si è sostenuto che l’esposizione è perdurata fino agli anni ’90: è allora sufficiente applicare i principi affermati in sentenza  in tema di disastro innominato colposo per escludere che ricorra detta causa di estinzione. Secondo la sentenza è infatti “irrilevante verificare se le condotte quali fattori causali siano state concomitanti, prossime o addirittura remote rispetto al venire in essere dell’evento” (pag. 268), cioè della malattia o del decesso.

Fermo che si debba dunque rispondere per un evento avvenuto anche trent’anni dopo la tenuta della condotta colposa, non può evidentemente fare alcuna differenza che gli eventi siano uno, due o molteplici; si tratta di reato che può venire qualificato come eventualmente progressivo ed  il “dies a quo” decorre dalla consumazione, quindi dall’ultimo evento. E dalle schede prodotte dall’avv. Zaffalon, difensore di parte civile (ud. 15.6.01) e ricostruite sulla base dei dati forniti in aula dalla Guardia di Finanza, oltre che dai CC.TT. degli imputati, schede in cui  è stato ricostruito il disastro innominato colposo specificamente attribuibile a ciascun imputato (cioè con la specificazione delle lesioni e degli omicidi colposi a ciascuno addebitabili), emerge che per ciascuno e per tutti gli imputati l’ultimo evento è avvenuto nel 2000: è dunque da questa data che decorre il termine prescrizionale, termine allo stato evidentemente non ancora maturato.

Nello specifico, quanto al rapporto fra disastro innominato colposo (artt. 449-434 c.p.) ed omessa collocazione di impianti antinfortunistici, ribadito che  il capoverso dell’art. 437 c.p. costituisce un reato complesso in cui l’evento disastroso (l’altro disastro od infortunio) concreta appunto un  disastro innominato colposo, che viene dunque assorbito nel reato di omessa collocazione seguita dal disastro, osserva il P.M. che ai fini dei termini prescrizionali non cambia nulla, in quanto il citato reato complesso si consuma al verificarsi degli eventi e quindi la decorrenza si ha dall’ultimo evento. Ed anche i reati di omicidio o lesioni colposi, la maggior parte apparentemente estinti essendo molto datati, possono andare esenti da prescrizione in quanto vincolati da continuazione con l’omessa collocazione di impianti antinfortunistici, reato che, attesa la contestazione dell’aggravante di avere agito con la previsione dell’evento, può costituire la base del reato continuato comprendente le lesioni e gli omicidi colposi, onde ancora nel 2000 andrebbe individuato il dies a quo.

 

Per tutti i predetti motivi insiste dunque il P.M. per l’accoglimento delle avanzate richieste in merito al primo capo d’imputazione, e cioè: rinnovazione del dibattimento,  al fine di acquisire le prove, specificate nell’atto d’appello che qui s’intendono trascritte, previo annullamento, ove necessario,  delle ordinanze della 1a Sezione Penale del Tribunale Ordinario di Venezia;e quindi dichiarazione di penale responsabilità degli imputati:  CEFIS Eugenio,  GRANDI Alberto,  PORTA Giorgio; GATTI Pier Giorgio,  BARTALINI Emilio,  LUPO  Mario, D’ARMINIO MONFORTE Giovanni, CALVI Renato, TRAPASSO Italo, DIAZ Gianluigi, MORRIONE Paolo, REICHENBACH  Giancarlo, SEBASTIANI Angelo, FEDATO Lucian, GAIBA Sauro, FABBRI Gaetano, SMAI Franco, PISANI Lucio, ZERBO Federico, PRESOTTO Cirillo, BURRAI Alberto, BELLONI Antonio, GRITTI BOTTACCO Carlo Massimiliano, MARZOLLO Dino, PALMIERI Domenico, NECCI Lorenzo, PARILLO Giovanni, PATRON Luigi,, con la conseguente condanna degli imputati alla pena già richiesta in sede di conclusione del giudizio di primo grado (ed indicata in  epigrafe) o, comunque, alla pena che sarà ritenuta equa, con ulteriore  condanna alle spese di giustizia e ai risarcimenti dei danni che saranno richiesti dalle Parti Civili costituite.

 

Quanto alle impugnazioni delle Parti Civili, le stesse ripercorrono e ripropongono, in ordine alle statuizioni del Tribunale relative al primo capo di imputazione, le doglianze stesse più ampiamente sviluppate dal P.M. e di cui sopra.

In particolare, l’Avvocato dello Stato, in qualità di difensore ex lege del Presidente del Consiglio dei Ministri  e del Ministero dell’Ambiente e della tutela del Territorio, proponeva impugnazione e chiedeva la riforma della sentenza nella parte in cui, in relazione al primo capo, ha assolto, tra gli altri, Porta Giorgio (relativamente alle condotte tenute quale Presidente della società Enichem spa dal gennaio 1991 al giugno 1993), Trapasso Italo (relativamente alle condotte tenute quale Direttore della programmazione della società ENI dal 1/1/1980 al 31/12/1981nonchè  di Vice Presidente ed Amministratore delegato della società ENOXY dal 1/1/1982 al maggio 1983, di Presidente della stessa società dal maggio 1983 al settembre 1983, di Vice presidente vicario ed amministratore delegato della società Enichimica da maggio 1983 al 31/12/1984)  , Smai Franco, Pisani Lucio, Zerbo Federico, Presotto Cirillo, Burrai Alberto,  Necci Lorenzo dai reati di <lesioni personali colpose> e di <omicidio colposo>  riferiti alle ulteriori persone offese nonché dai reati di <omissione dolosa di cautele>, di <strage colposa> e di <disastro innominato colposo> per condotte tenute in epoca successiva all’anno 1973 perché il fatto non sussiste.

Al riguardo, premesso da parte dell’appellante che tutte le osservazioni e le censure mosse ai provvedimenti impugnati vanno intese e sono riferite alle sole posizioni degli imputati e dei responsabili civili nei cui confronti continua ad essere coltivata l’azione civile con la proposizione dei motivi d’appello, in quanto all’esito del dibattimento di primo grado lo Stato ha definito transattivamente la lite proposta con la dichiarazione di costituzione di parte civile nel presente procedimenti nei (soli) confronti del responsabile civile  Montedison spa  e del responsabile civile Montedipe spa  e degli imputati agli stessi collegati limitatamente alle condotte di gestione degli impianti del petrolchimico di Porto Marghera  attuate dalle predette società e di cui le stesse debbano, a qualsiasi titolo, rispondere, onde si anticipa che nel corso del giudizio d’appello si procederà a revocare (così come in effetti si revocherà) la dichiarazione delle costituzione di parte civile nei confronti di singoli  imputati  rispetto ai quali, per effetto dell’intervenuta transazione, è divenuta improcedibile - in tutto o in parte, nei limiti che saranno precisati per ciascun imputato -  l’azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno, si indicano nei seguenti gli specifici motivi di doglianza relativi al primo capo d’imputazione:

1) In relazione all’affermata esclusione del nesso causale tra esposizione a CVM e tutte le restanti patologie diverse da angiosarcoma epatico, epatopatie e morbo di Reinaud.

 In generale si sostiene che la sentenza  perviene a tali conclusioni sulla base di ripetuti gravi  errori giuridici, che riguardano tutta una serie di profili concernenti tanto gli elementi oggettivi quanto quelli soggettivi dei reati contestati, di contraddizioni logiche e di incomprensibili  travisamento dei fatti, sottovalutazione di precisi elementi probatori, alcuni dei quali addirittura del tutto trascurati benchè fossero stati oggetto di particolare attenzione dibattimentale. E nello specifico:

1a) In relazione alla pretesa esclusione della colpa specifica da violazione delle norme in materia di igiene del lavoro per la mancanza  conoscenza scientifica delle correlazione tra le singole patologie e l’esposizione a CVM (con particolare riferimento all’affermata inapplicabilità - in mancanza di detta conoscenza - di norme di  igiene del lavoro quali gli art.. 20-21 DPR 19/3/56 n. 303).

Sul punto si lamenta che il Tribunale avrebbe compiuto almeno tre gravi errori, di diritto e nell’apprezzamento del fatto.

 

Innanzitutto ha inserito la categoria della prevedibilità dell’evento nella struttura della colpa per violazione di legge, ignorando  del tutto l’antico e  costante insegnamento del Supremo Collegio (valido a maggior ragione  in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, atteso il carattere assoluto ed oggettivo del dovere di sicurezza) secondo cui:

 “In  tema di colpa specifica per violazione di determinate disposizioni di leggi, regolamenti, discipline etc decisivo, ai fini di una prognosi sulla responsabilità penale, deve ritenersi, in positivo, l’accertamento in ordine alla regola trasgredita, nessuna influenza  potendo esplicare il criterio della prevedibilità; di guisa che, accertata la violazione, sorge la responsabilità, dovendosi considerare che l’inosservanza delle norme predette sostanzia quella imprudenza e negligenza che costituisce il dato saliente della responsabilità per colpa” (Cass. Sez. IV sent. nr. 14202 del 25/10/1989 RV 182332).

 

Del resto dovrebbe essere dato ormai acquisito dalla cultura giuridica italiana  (trattandosi di  principio  affermato significativamente  ancora negli anni ’60, con le prime applicazioni della normativa in riferimento) che “le norme per la prevenzione degli infortuni  sono state dettate per evitare i pericoli, anche non facilmente prevedibili, che sono connessi a particolari condizioni di lavoro” (Così Cass. Sez. V, sent. nr. 806 del 17/6/1969, RV 111908).

Dunque è sufficiente che vi sia una norma di legge che detta misure di prevenzione a tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro affinchè il datore di lavoro venga gravato dell’osservanza degli obblighi in essa descritti, a nulla potendo rilevare la rappresentazione (e la prevedibilità) di eventi  ritenuti conseguenza della sua  eventuale inosservanza.

 

In secondo luogo, e conseguentemente, il Tribunale ha completamente ignorato che era comunque  nota, a livello scientifico, la conoscenza di rischi per la salute,  ancora non mortali (ma non per questo giuridicamente irrilevanti) derivanti dall’esposizione del lavoratore a concentrazioni  non elevate di CVM (dell’ordine di decine di p.p.m.),  quali quelli ben illustrati sin dagli studi di TORKELSON e SOCIN, e che tale conoscenza avrebbe dovuto indurre il datore di lavoro Enichem spa (ed anche negli anni ‘90) , secondo la nitida previsione dell’art. 20 cit.,  innanzitutto ad impedire   del tutto lo sviluppo e la diffusione del gas tossico (quale il CVM era noto che fosse) nell’ambiente di lavoro o, in caso di assoluta impossibilità tecnica, a ridurre sempre più, progressivamente e tendenzialmente a zero, nei limiti consentiti dal progresso tecnologico e con l’utilizzo delle migliori tecnologie di volta in volta disponibili, la presenza del gas in detto ambiente. (Sul pregnante e complesso contenuto del dovere di sicurezza risultante dall’art. 20 DPR 303/56, che non si limita a prevedere impianti di aspirazione localizzati il più vicino alle fonti di produzione egli agenti nocivi ma che impone anche misure organizzative del lavoro allorquando tali misure di difesa risultino insufficienti cfr. Cass. Sez. IV sent. nr. 10730 del 25/10/1991, RV 188570).

Che ciò non si sia affatto verificato (e per quel che interessa la prospettiva di questa parte civile neppure nelle epoche più recenti,  per tutta  la fase di gestione  ENICHEM  degli impianti)  sarà oggetto di altre considerazioni specificamente sviluppate in seguito in diverso motivo di appello (infra sub 1b)

Infine ha omesso di considerare che il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro in forza del  sistema giuridico costruito sui principi dettati dall’art. 41 cpv. Cost. (e quindi art. 2087 cc. nonché normativa speciale in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro e di igiene del lavoro) ha contenuto oggettivo. L’ambiente di lavoro deve risultare “oggettivamente” sicuro, a prescindere dall’affidamento che si può fare sulle capacità dei soggetti che in esso vi operano di prevenire i rischi ed i pericoli sulla base delle istruzioni eventualmente ricevute o in forza delle loro articolari abilità. Da sempre il principio è stato affermato dal Supremo Collegio: ad esempio Cass. Sez. IV sent. nr. 8082 del 6/10/79, imp. Vigano ha espressamente statuito che “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, le persone preposte alla organizzazione imprenditoriale hanno il dovere di garantire la  sicurezza oggettiva degli impianti e non possono delegare ad altri tali doveri”.

 

Più recentemente il contenuto oggettivo del dovere di sicurezza (riferito alla oggettiva sicurezza dell’ambiente di lavoro in quanto tale) è stato ribadito  da Cass.  Sez. IV sent. 8261 del 28/9/1982, imp. Tizza, Cass. Sez. III sent. nr. 7936 del 3/10/84, imp. Barni; Cass. Sez. III sent. nr. 7893 del 10/9/85, imp. Donvito; Cass. Sez. IV sent. 6686 del 7/7/93 imp. Moresco).

Dunque non sarebbe, in alcun caso, giuridicamente proponibile la tesi seguita dal Collegio, dal momento che la semplice esistenza (che il datore di lavoro ha l’obbligo giuridico di conoscere e di valutare)  di una condizione di rischio, anche minimo, per la salute del lavoratore  comporta, ex se, in capo al datore di lavoro l’obbligo giuridico di eliminazione del rischio in modo tale che, oggettivamente, l’ambiente di lavoro risulti sicuro.

 

I gravi errori descritti che, in serie, sono  stati commessi nella ricostruzione della colpa e, in particolare,  nell’esclusione  dei profili di colpa specifica derivanti dalla violazione della normativa in materia di igiene e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, hanno poi condizionato il decisum del Tribunale anche per quanto concerne la tematica della ricostruzione delle effettive concentrazioni di gas (CVM in particolare) cui i lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera sono stati esposti non solo immediatamente dopo il 1973 ma anche in epoche molto più recenti, appunto durante la gestione ENICHEM (i dati probatori più significativi si riferiscono  al periodo 1990-1993).

 

La valutazione del Tribunale, sul punto, ha, infatti, pesantemente risentito degli effetti derivanti dall’esclusione della colpa per le ragioni suddette, dato che tale argomentazione giuridica (usata dal giudice di I° grado soprattutto per escludere la colpa in epoca antecedente alla conoscenza della cancerogenicità della sostanza) è stata subito accompagnata da un giudizio di adeguatezza delle misure adottate dopo tale conoscenza che non solo non può essere condiviso nel merito (per le ragioni di cui si dirà a proposito dell’effettiva esposizione dei lavoratori a CVM) ma anche perché non è minimamente rispettoso  di quello che è il reale contenuto del dovere di sicurezza del datore di lavoro quale, invece, risulta dalle indicazioni fornite dal Supremo Collegio alle quali si è fatto più sopra riferimento.

 

1b1) Errori, sottovalutazioni e travisamenti nella ricostruzione della reale ed effettiva concentrazione del CVM cui sono stati  e sono tuttora esposti i lavoratori (con particolare riferimento alle esposizioni registrate dal gascromatografo nel periodo 1990 - 1993).

 

Si sostiene sul punto che le evidenze probatorie, e si citano testimonianze e documentazione oltre che le valutazioni dei consulenti tecnici, farebbero cadere il pilastro su cui la sentenza appellata ha fondato – in fatto – l’esclusione del nesso causale per molte delle patologie prese in considerazione. Ciò in quanto le esposizioni reali dei lavoratori impegnati nei reparti di produzione e/o di utilizzazione del CVM erano e sono sempre state (anche nei tempi più recenti tra quelli presi in considerazione dall’imputazione) enormemente più alte di quelle (trascurabili) mediamente indicate dai monitoraggi aziendali, eseguiti in modo non conforme a quanto richiesto dalla normativa vigente, privi dell’indispensabile completezza delle misure, con strumenti inefficienti e, comunque, utilizzati in più occasioni con vistose correzioni apportate dagli operatori e finalizzate ad ottenere risultati ben più favorevoli al datore di lavoro di quelli altrimenti  fornite dal funzionamento automatico del sistema. Ed i dati che certificavano tali più alte concentrazioni di CVM in ambienti di lavoro (quali, ad esempio, le annotazioni sul registro per il  passaggio di consegne, in cui erano talvolta annotate le concentrazioni reali misurate  con le sonde in occasione di fughe) sono stati ignorati dal Tribunale benchè attestassero (sia istantaneamente che cumulativamente intesi) un  superamento di gran lunga della soglia di idoneità lesiva che lo stesso Tribunale ha ritenuto debba consistere  in 10 ppm  cumulativi (pagg. 116 – 121)  e persino delle soglie più basse di esposizione cumulativa riscontrate, in letteratura, per alcuni tipi di tumore (288 ppm. per l’angiosarcoma).

 

E si sostiene altresì che la predetta censura esplica efficacia anche sotto il profilo della critica al  disconoscimento del disastro innominato  in relazione alle condotte successive tenute dal 1973, doglianza, pertanto, che espressamente si propone a codesta On.le Corte d’Appello sulla scorta sia dei dati sin qui illustrati in ordine alla reali concentrazioni del CVM negli ambienti di lavoro sia in relazione al riconoscimento del nesso causale tra esposizione e le patologie per le quali esso è stato, invece, erroneamente escluso, alla luce delle considerazioni sviluppate nei seguenti motivi d’appello.

 

1b2) In relazione alla generalizzata assoluzione di tutti gli imputati da tutte le contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro (con riferimento a quelle previste dal DPR 547/55, dal DPR 303/56 nonchè dal DPR 10/9/82 n. 962).

 

Si sostiene sul punto che le assoluzioni dalle contravvenzioni, pur indistintamente e generalmente pronunciate dal Collegio, non risultano motivate nè con riferimento alle singole contravvenzioni contestate in imputazione nè con riferimento alle prove fornite dal dibattimento, che, nell’evidenziare le elevate esposizioni di cui sopra, dimostrerebbero non solo l’inefficienza e la non adeguatezza del sistema di monitoraggio ad oggi utilizzato all’interno dello stabilimento ma, soprattutto, la sua non conformità nè ai dettami prescritti dagli artt. 21 e 21 del DPR 303/88 nè alle regole tecniche imposte dal DPR 962/82 abrogato dall’art. 13 del D. Leg.vo 25/2/2000, n. 66 che ha ricondotto tutta la materia in precedenza disciplinata dal citato DPR nell’ambito della generale disciplina dettata dal D. leg.vo 626/94 e successive modifiche, recuperando, in particolare, quanto alle tecniche di monitoraggio, i sistemi di controllo ambientale previsti negli allegati al D. Leg.vo 277/91.

 

Proprio tale modifica normativa dimostra che la materia è tuttora penalmente sanzionata sulla base delle norme incriminatrici contenute sia nel D. leg.vo 277/91 che nel D. Leg.vo 626/94: non vi è stata, pertanto, abolitio criminis ma soltanto successione delle leggi penali nel tempo. Il Tribunale avrebbe conseguentemente dovuto affrontare il problema della norma penale applicabile sulla base dei noti criteri contenuti nell’art. 2 del cod. penale.

Non lo ha fatto perchè ha ritenuto - trascurando del tutto di considerare gli elementi di fatto illustrati dal Prof. Nardelli e le implicazioni giuridiche che questa difesa aveva prospettato nel corso della discussione - che il sistema di monitoraggio fosse rispettoso di tutti i dettati normativi e fosse davvero in grado di misurare la reale concentrazione del gas negli ambienti di lavoro. La valutazione, tuttavia, è errata sia in fatto che in diritto.

 

Il Tribunale, infatti, non ha tenuto in alcun conto la denunciata insufficienza ed inadeguatezza del numero e della collocazione dei punti di prelievo (campanelle) nel reparto CV 24.

La sproporzione evidente tra il volume d’aria destinata ad essere campionato dalle campanelle a piano terra rispetto a quelle collocate sopra le autoclavi, ad esempio, (700 mc per le prime contro 340 mc per le seconde) dimostra tale inadeguatezza e consente di fondare la censura della violazione dell’art. 4, I. C. DPR 962/82 con riferimento al punto 1C2 dell’Allegato I.

 

Ma le censure più gravi sono quelle relative all’imposizione di soglie massime di misurazione al gascromatografo.

Esse ( si ricorda: soltanto 25 ppm!) sono inferiori addirittura alla soglia di allarme prevista dalla direttiva europea e dal DPR che ne ha dato attuazione: di qui la violazione dell’art. 5 di detto DPR 962/82. Violazione che sussiste anche in relazione all’installazione ed al funzionamento dell’interruttore ON/OFF, dal momento che si è dimostrato come lo stesso abbia significativamente alterato gli automatismi su cui il legislatore contava proprio per impedire ogni possibilità di interventi correttivi nella rilevazione del gas.

Ma un tal genere di genere di monitoraggio è anche contrario agli obblighi affermati, ad esempio, dall’art. 20 del DPR 303/56.

Da tale norma, infatti, scaturiscono sia il dovere di eliminazione e/o di progressivariduzione all’infinito della possibilità di sviluppo e/o della diffusione del gas tossico sia il dovere di eliminare immediatamente, in caso di fuga, il gas nello stesso punto in cui lo stesso è stato prodotto.

Di qui, conseguentemente, l’obbligo di aspirare il gas nei punti critici che dovranno, pertanto, essere verificati e controllati da un sistema di misurazione puntiforme capace di controllare, in ognuno di essi, il verificarsi  di una fuga e di consentire i tempestivi interventi di contenimento e di bonifica.

Tutto questo avrebbe dovuto essere considerato dal Tribunale, specie alla luce dei dati e delle informazioni di cui si è trattato nel precedente motivo.

 

L’assoluzione dalle contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal prof. Nardelli.

1c) Errore e travisamento dei fatti in generale nella ricostruzione del nesso causale tra le malattie contestate e l’esposizione a CVM, in particolare per le seguenti ragioni:

1c1) Difetto di motivazione, errore e contraddittorietà nella considerazione di ciò che, per il diritto penale, deve essere inteso come malattia.

 

Sul punto rileva l’appellante come il Tribunale abbia del tutto ignorato la necessità di considerare, come malattie in relazione alle quali porsi il problema della riconducibilità causale all’esposizione al CVM ed alle altre sostanze tossiche indicate in imputazione , qualsiasi modificazione della condizione di benessere fisiopsichico dei lavoratori cui fosse associata una anche solo temporanea modificazione delle funzioni  organiche (secondo il noto insegnamento del Supremo Collegio: per tutte Cass sentenza nr. 714 del 19/1/1999 che statuisce:” Il  concetto clinico di malattia richiede  il  concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di  funzionalita',  a cui puo' anche non corrispondere una lesione anatomica, e  di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso  un  esito che potra' essere la guarigione perfetta, l'adattamento a nuove condizioni  di vita oppure la morte. Ne deriva che non costituiscono malattia e  quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le alterazioni anatomiche,  a cui non si accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalita'”). 

 

Il Tribunale ha dunque omesso di fare chiarezza sulla stessa nozione di malattia penalmente rilevante, così come definita dal Supremo Collegio  e si è adagiato acriticamente sul concetto (clinico) di malattia  che  era stato fornito da alcuni consulenti di parte della difesa.

Ciò nonostante questa difesa avesse dimostrato – in sede di controesame di detti consulenti di parte, e se ne riportano nell’atto di appello i passi – quale fosse il limite vistoso derivante dall’assenza della nozione di malattia così come descritta dalla Suprema Corte.

 

Ed il Tribunale non solo non si è accorto del grave problema – che l’accusa aveva prontamente evidenziato – ma, in nome del primato della scienza, ha ritenuto che la nozione clinica (e dunque riduttiva) della malattia dovesse prevalere sul concetto che di essa è ricavabile dal sistema penale.

Il problema non è stato minimamente affrontato dal Collegio e la circostanza – invece – pacifica avrebbe potuto svolgere – a tacer d’altro – un ruolo importante nella configurazione di una dichiaranda responsabilità penale per i delitti di disastro innominato di cui all’art. 434 cp. nonché per quello di cui all’art. 437 cp. in relazione ai quali il verificarsi della malattia-infortunio costituisce circostanza aggravante.

 

1.c2)  Errore nel ritenere che il nesso causale sussista soltanto quando sia possibile dimostrare l’esistenza di una legge scientifica di copertura capace di dare la spiegazione scientifica dell’evento, limitando  così la certezza processuale  ai soli casi in cui la scienza sia giunta a dare, in termini certi, la spiegazione dei meccanismi che ingenerano la patologia e del loro modo di agire.

Proprio su tale punto, sostiene l’appellante, la sentenza avrebbe compiuto l’errore più grave, allorquando ha escluso il nesso causale tra esposizione a CVM e la quasi totalità delle patologie  che erano state oggetto di contestazione sulla base di una concezione giuridicamente errata dei criteri di ricostruzione del nesso causale, criteri significativamente disattesi persino dal recente pronunciamento sul punto delle Sezioni Unite del supremo Collegio ( cfr. Cass. Sezioni Unite penali ,  sentenza nr. 30328 del 10/7 – 11/972002, Pres. Marvulli, rel. Canzio,)

 

L’idea che fosse necessaria la precisa dimostrazione scientifica del meccanismo causale di ogni patologia in generale e per ciascun lavoratore (ovviamente impossibile da dare) è stata ritenuta sufficiente dal Giudice di primo grado  per escludere in assoluto la rilevanza penale dei fatti sulla base di una asserita mancata dimostrazione del nesso causale.

Sono stati, in tal senso, enfatizzati dal Collegio i limiti degli studi epidemiologici, quasi che solo una  certezza delle ricerche in quel settore della scienza (per la verità avente ben altri obiettivi rispetto a quelli che caratterizzano la ricostruzione del nesso causale nel diritto penale!) potesse fungere da parametro obiettivo per discriminare le patologie riconducibili al cloruro di vinile.

 

In realtà  non solo tale postulato si fonda sull’erronea rappresentazione del valore da assegnare allo studio epidemiologico all’interno del processo penale (in assenza del quale, pertanto, dovrebbe – stando al criterio applicato dal Tribunale – negarsi ogni possibilità di accertamento di responsabilità penali: una vera e propria delega della giurisdizione all’epidemiologia, con buona pace dei sacri principi sul ruolo della giurisdizione in uno stato democratico proclamati più volte dallo stesso Tribunale!) ma anche risulta obiettivamente in contrasto con le finalità dichiarate dagli epidemiologi stessi.

Più volte, nel corso del dibattimento, si è avuto modo di far loro precisare che  la mancanza di  significatività della correlazione accertata tra l’esposizione ad una sostanza ed una patologia non significa affatto che deve essere esclusa la possibilità che la correlazione esista e che operi pienamente sul piano causale. Significa, invece, limitarsi ad affermare che la scienza, in quel caso, non è in grado di affermare che essa opera con regolarità nella totalità dei casi, come invece si potrebbe affermare nel caso in cui lo studio epidemiologico avesse raggiunto la dimostrazione di altri, e più elevati, livelli di correlabilità .

 

In ogni caso – come insegna il Supremo Collegio – la valutazione del Giudice in ordine al nesso causale non può ridursi ad un mero calcolo di probabilità (anche perché nessuno ci può dare il limite di probabilità oltre al quale l’evento viene considerato effetto cagionato dal quel tipo di fattore causale) ma deve essere effettuata sulla scorta di un prudente apprezzamento di tutti i fattori tecnici del singolo caso, fattori la cui presenza viene abitualmente rilevata dall’utilizzazione di quella “criteriologia medico-legale” sistemata dal Cazzaniga ancora negli anni ’50 e, ancora una volta, del tutto ignorata dal Collegio, che pure avrebbe ignorato il contributo specifico di due consulenti medico-legali indotti dalla parte civile (il prof. Rodriguez ed il dr. Bartolucci), i quali avevano analiticamente illustrato al Collegio i singoli casi  di operai affetti da patologie che avrebbero dovuto essere ricondotte con certezza  scientifica all’esposizione a  CVM,  sulla scorta dei più consolidati criteri di valutazione medico-legale.

 

Il tema sarebbe stato ignorato, secondo l’appellante, proprio a causa della scelta “ideologica” compiuta dal Collegio in materia, tutta condizionata dall’ovvia impossibilità di fornire una legge scientifica di copertura per ogni singolo evento.

Si dovrebbe operare invece, sostiene l’appellante, una valutazione sempre ed insuperabilmente probabilistica, in cui la certezza processuale si raggiunge (come sempre in materia di apprezzamento della prova, del resto) sulla base di un convincimento logico del Giudice che pone alla base del suo giudizio una valutazione altamente probabilistica e criticamente vagliata del meccanismo causale quale ricostruito, nella sua complessità, alla luce di tutti i fattori conosciuti.

 

Alla luce di detti principi, allora, ben altra valutazione avrebbe dovuto essere compiuta dal Collegio in ordine alle singole patologie attribuibili all’esposizione a CVM non solo, genericamente,  nei periodi successivi al 1973 ma anche, più specificamente, in relazione ai periodi di gestione ENICHEM spa di cui, pertanto,  possono essere chiamati a rispondere gli imputati  nei confronti dei quali questa parte civile coltiva l’azione civile nel giudizio d’appello.

 

1.c3) Erronea applicazione del regime delle concause di cui al’art. 41 cp ed omessa e/o erronea valutazione del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di patologie, con particolare riferimento al tumore al fegato ed al polmone.

Si sostiene che Tribunale non affronta nè risolve in termini giuridicamente corretti  il problema del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di alcune patologie (in particolare il tumore al fegato ed il tumore al polmone) che, invece, l’accusa aveva puntualmente posto nel corso del dibattimento di primo grado

 

Si critica l’affermazione del Tribunale secondo il quale  ciò che non è causa non è idoneo ad assumere il ruolo di concausa di un evento, sostenendosi invece, con sostanziale riproposizione delle argomentazioni pure svolte dal P.M. e sopra ricordate, e con richiamo delle singole specifiche vicende dei lavoratori interessati, che in tutti i casi descritti sarebbe stata possibile un’affermazione di responsabilità degli imputati se solo il Tribunale avesse utilizzato i proposti diversi (e corretti) criteri di valutazione e di giudizio.

2) In relazione all’erronea esclusione della configurabilità giuridica, in astratto, di alcuni dei delitti contestati agli imputati (449 con riferimento all’art. 422 cp) e della sussistenza, in concreto degli estremi obiettivi di altri delitti (437 cp).

2.a) Sull’esclusione della responsabilità in ordine al  reato di cui all’art. 437 cp. per condotte successive al 1973.

2 a1) Asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p.- in generale.

2a2) In ordine all’asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano oggettivo. La ratio dell’art. 437 c.p.

2a3) Asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano soggettivo.

Sostiene l’appellante che la sentenza appellata commette due gravi errori di diritto dal momento che esclude la stessa configurabilità in astratto del delitto di disastro colposo di cui agli artt. 422 – 449 cp. e, in concreto, esclude la sussistenza del delitto di cui all’art. 437 cp. per condotte successive all’anno 1973.

 

Quanto a quest’ultima fattispecie, premesso che, come affermato dal P.M., viene considerata come la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole imputazioni per i reati indicati dal decreto che dispone il giudizio, ci si lamenta che il Giudice di I° grado - del tutto superficialmente, ma soprattutto in netto contrasto con i molteplici e concordanti riscontri istruttori, documentali e testimoniali, resi in dibattimento – liquida come insussistente la relativa imputazione, dedicando peraltro a questa norma poche, carenti, contraddittorie e generiche osservazioni sugli aspetti oggettivo e soggettivo del reato in questione, argomentando in modo assolutamente insufficiente, illogico e contraddittorio.

 

Sostiene al contrario l’appellante, così come sostenuto anche nel proprio appello dal P.M. ed in forza di sostanziali analoghe argomentazioni sia sulle preliminari nozioni in ordine agli elementi costitutivi  oggettivi e soggettivi del reato di cui all’art. 437 c.p., sia nell’analisi dettagliata delle singole condotte rilevanti ai sensi del delitto in esame, che se si pone mente al fatto che nel presente procedimento tutte le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p. sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura, la responsabilità avrebbe dovuto essere dichiarata in relazione a tutte le condotte  omissive attribuite agli imputati, atteso il  riscontro probatorio che le stesse hanno ottenuto nel corso del dibattimento di primo grado.

 

2b) In ordine alla ritenuta impossibilità giuridica di configurare il delitto di disastro colposo di cui agli artt. 449 – 422 cp. Erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione.

Si sofferma l’appellante su tale ulteriore profilo di doglianza (non avanzato dal P.M.) sostenendo che la motivazione in proposito fornita dal Tribunale  appare troppo sintetica. Si rinnova, quindi, la richiesta relativa all’applicazione della fattispecie risultante dal combinato disposto di cui agli artt. 449 e 422 c.p., delitto colposo la cui esistenza all’interno dell’ordinamento vigente dev’essere affermata in forza delle argomentazioni già svolte in primo grado e che si riprendono nell’atto di appello.

 

Si sostiene al riguardo che la configurabilità di tale fattispecie emergerebbe sia da una interpretazione letterale, atteso il riferimento testuale contenuto nell’art. 449 c.p. ai “disastri” di cui al capo primo, onde resterebbe infirmata l’interpretazione del Tribunale che ricollega il riferimento al solo incendio e disastri previsti successivamente all’art. 423 c.p., sia dalla volontà del legislatore che, quasi interpretazione autentica, laddove successivamente ha voluto escludere una particolare previsione lo ha fatto in modo esplicito come per la ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 423bis c.p., sia da una interpretazione sistematica che farebbe venir meno anche le argomentazioni del Tribunale in ordine ad assunta inconciliabilità tra tale riferibilità del rinvio di cui all’art. 449 cp anche all’art. 422 cp, e l’elemento soggettivo (dolo specifico) del reato di strage. In proposito si richiama dottrina che sostiene che il rinvio operato dall’art. 449 cp deve intendersi esclusivamente per gli elementi materiali delle varie fattispecie, con totale estromissione di ogni riferimento all’elemento soggettivo, dovendo fare riferimento all’art. 42, comma 2, c.p. che consente in via generale la punibilità a titolo di colpa di condotte già punite a titolo di dolo senza alcuna limitazione rispetto al dolo generico piuttosto che a quello specifico, e rinvenendosi nell’ordinamento altre ipotesi di reati colposi che già sono previsti anche nella forma dolosa con dolo specifico, quali la contravvenzione di cui all’art. 712 cp rispetto al delitto di cui all’art. 648 cp.

Ed anche successivamente all’art. 423 (Incendio) si riscontrano “disastri” puniti  ordinariamente a titolo di dolo specifico, i quali, e ciò seguendo proprio la tesi restrittiva del rinvio selettivo, dovrebbero comunque rientrare nel sopradescritto meccanismo generatore (cfr., ad esempio, artt. 424, 427, 429, 431 c.p.).

 

Secondo l’appellante allora è coerente concludere per la ragionevolezza e la coerenza di un’interpretazione che, in aderenza alla legalità stretta del dato testuale, ipotizzi la chiara configurabilità di un “disastro” ex artt. 422 e 449 c.p., disastro che certo strage non è, proprio perché la definizione legislativa di strage è riservata al delitto doloso e, per così dire “puro”, di cui all’art. 422 c.p.. Si tratterebbe di diversa ipotesi che “strage” in senso tecnico non è, e che viene punita a titolo di colpa per espresso rinvio legislativo.

Analogamente troverebbe smentita sul piano sistematico anche l’obiezione relativa alle distorsioni che si verificherebbero sul piano sanzionatorio laddove si ammettesse la configurabilità di un delitto colposo ex artt. 449 e 422 c.p. Sostiene infatti l’appellante che le asserite incongruità nel regime sanzionatorio sono frutto non già dell’originale disegno codicistico, quanto, piuttosto, delle modifiche settoriali di volta in volta apportate.

 

Al riguardo si consideri, ad esempio, il  sopravvenuto (e non ancora ricomposto) discrimine tra le fattispecie “interne” alla disposizione dell’art. 422, commi 1 e 2, dopo la soppressione della pena di morte (ex d.l. lgt. del 10 agosto 1944) e la sostituzione alla stessa dell’ergastolo.

A seguito di tale modifica si è operata una parificazione del trattamento sanzionatorio di fatti diversi: invero, se dal reato derivi la morte di una o, invece, di più persone diverse risulta essere circostanza del tutto indifferente ai fini della pena, essendo in ogni caso applicabile soltanto la pena di un unico ergastolo.

 

L’incongruenza diventa poi ancora più evidente ove si considerino gli effetti della predetta modifica in relazione al trattamento sanzionatorio dell’omicidio volontario plurimo aggravato.

Mentre la sanzione prevista nel caso in cui molteplici eventi di morte conseguano alla situazione di pericolo di cui all’art. 422 c.p. è l’ergastolo, il trattamento punitivo previsto, invece, per l’omicidio aggravato plurimo (art. 577, comma 1, n.2) risulta consistere in una serie di ergastoli, con conseguenze giuridiche  tutt’altro che indifferenti per il reo.

 

Pertanto, se incongruenze sanzionatorie sono allora ipotizzabili anche con riferimento all’ipotesi dolosa della strage (frutto di una riforma non sufficientemente attenta a tutte le sue implicazioni), non si potrà certo far leva su tale circostanza per contestare la configurabilità della fattispecie colposa di cui al delitto ex artt. 422 e 449 c.p., trattandosi – in ipotesi - di incongruenza che non consegue all’originaria concezione del Codice Penale, ma soltanto ad alcune sue modifiche.

Ma al riguardo richiama l’appellante anche un’ulteriore sviluppo interpretativo, che sarebbe idoneo in quanto tale a risolvere ogni argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio.

In particolare ci si riferisce alla tesi, in dottrina, in ordine alla possibile qualificazione degli eventi mortali di cui al delitto ex artt. 449 – 422 c.p. come “condizioni di maggiore punibilità”, che porterebbe a concludere per un concorso tra l’omicidio colposo plurimo e la realizzazione colposa di una “strage” sviluppatasi in più eventi.

 

Lamenta ancora sul punto l’appellante che nella sentenza impugnata non trovano espressa menzione  due ulteriori considerazioni generali, avanzate da questa difesa per illustrare e “contestualizzare” la discussione circa l’esistenza del delitto ex artt. 449 – 422 c.p.

La prima attiene all’attuale configurazione del bene “incolumità pubblica” di cui all’art. 422 c.p, evidenziandosi da parte dell’appellante che il caso di cui si discute in questa sede ben si concilia con lo sviluppo non solo  interpretativo ma anche normativo che il bene incolumità pubblica ha conosciuto nel corso del tempo, potendosi oggi ritenere che tale nozione sia idonea ad abbracciare interessi rilevanti e strettamente connessi quali la salubrità ambientale e la salute pubblica, soprattutto laddove, come nel caso di specie, “atti tali da porre in pericolo” (ex art. 422) gli interessi suddetti si accumulino nel corso del tempo in un progressivo acutizzarsi dei profili offensivi ed in un conclusivo materializzarsi, accanto ad un evento di pericolo ed al corrispondente disvalore, di un evento di danno (morte di una o più persone, più eventi di morte).

 

Dunque, secondo l’appellante, nella fattispecie ex artt. 422 e 449 c.p. trovano adeguata collocazione molteplici elementi emersi nell’analisi fattuale: la tutela dell’ambiente, le ripercussioni delle alterazioni dello stesso e dei pericoli indotti sull’incolumità di una cerchia potenzialmente indeterminata di persone, le morti di più persone, la violazione colposa di discipline poste a tutela dei medesimi interessi, la pervasività e la diffusività del pericolo e/o del danno.

 

La seconda importante considerazione “sistematica” favorevole alla configurabilità del delitto ex artt. 449 – 422 c.p., troverebbe poi fondamento nella consolidata definizione giurisprudenziale del “disastro”, la cui ampiezza si rivela del tutto conciliabile con le caratteristiche della nuova fattispecie colposa generata dalla combinazione delle suddette norme (cfr. la sentenza del 16/07/1965, n.949, della Sezione IV della Corte di Cassazione, a giudizio della quale la nozione di disastro, in relazione ai delitti contro l’incolumità pubblica, implica un evento grave e complesso, che colpisca le persone e le cose, e sia altresì suscettibile non solo di mettere in pericolo e realizzare il danno di un certo numero di persone e di una certa quantità di cose, ma anche di diffondere un esteso senso di commozione e di allarme; ma cfr. anche: Cass. pen., sez. I, sentenza del 10/12/1964, n.1291; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 28/02/1970, n.2630; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 17 marzo 1981; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 23/07/81, n.7387; Cass. pen., Sez. V, sentenza del 17/08/1990, n.11486; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 19/05/2000, n.5820).

 

Concludendo sul punto sostiene l’appellante che l’esclusione della configurazione del delitto colposo di cui al combinato disposto degli artt. 449 – 422 cp è, pertanto, erronea, insufficientemente motivata in relazione alle argomentazioni già prospettate dall’accusa nel corso del dibattimento di primo grado oltre che nel corso della stessa udienza preliminare.

3) Impugnazione dell’ordinanza dibattimentale del 7/4/1998.

Osserva infine l’appellante come la  stessa valutazione negativa del Tribunale in ordine alla struttura del reato che si è esaminato avesse caratterizzato anche l’ordinanza del 7/4/1998 con la quale in Collegio, pronunciando sulle eccezioni difensive, aveva tracciato il solco dei c.d. “periodi di pertinenza”.

 

Tale indicazione, secondo l’appellante, è da criticare nella parte in cui dimostra di non aver inteso il valore dell’imputazione del delitto di cui agli artt. 449 – 422 cp. così come ricostruito nel presente motivo d’appello. Si lamenta infatti che l’ordinanza impugnata, al pari della sentenza, considera atomisticamente le morti dei singoli lavoratori , quasi  che le stesse fossero slegate da quel contesto generale di disastro all’interno del quale, invece, le aveva correttamente poste l’imputazione formulata dal P.M.

Contesto generale ed unitario, fortemente strutturato intorno a tutti i reati contro l’incolumità pubblica  contestati (e, dunque, oltre al delitto di cui agli artt. 449-422 cp anche il delitto di disastro innominato, quello di cui all’art. 437  cp nonché quelli di avvelenamento e di adulterazione di cui si dirà in seguito) ma che vedeva proprio nel delitto di cui agli artt. 449-422 cp il contenitore naturale di condotte tutte singolarmente pericolose per la pubblica incolumità, stratificate nel tempo, dalle quali (o dal concorso delle quali) si erano poi verificati quegli eventi-morte che, nella struttura del reato, costituiscono condizioni di punibilità (o, al massimo, circostanze aggravanti).

Dunque anche sul punto si chiede la riforma dell’impugnata sentenza, tanto nella decisione assolutoria tanto nell’ordinanza che ne costituiva il fondamento logico giuridico.

 

Conclusivamente lamenta la suddetta parte civile il carattere parziale e limitato della decisione di primo grado, quale risulta da una motivazione solo apparentemente ricca e completa ma rivelatasi, in realtà, incredibilmente carente sotto numerosi punti di vista. Prove decisive ignorate,  assoluzioni con la formula più radicale (“perchè il fatto non sussiste”) del tutto rimaste prive della benchè minima spiegazione, diritti dell’accusa privata in più occasioni violati, norme penali erroneamente applicate, travisamento del significato di numerose consulenze tecniche. Una sentenza ingiusta, dunque, prima ancora che sbagliata, frutto di un grave “pre-giudizio” nei confronti dell’accusa, e tutta l’impostazione che è stata data al percorso argomentativo seguito dalla motivazione manifesta una scelta aperta del Collegio a favore di valori  di garanzia incondizionata verso i diritti dell’imputato. Scelta sacrosanta e condivisibile pienamente, ma, osserva l’appellante, tale  rispetto avrebbe dovuto, tuttavia, essere dimostrato anche nei confronti delle parti offese più deboli.

Quanto alle restanti parti civili appellanti, per lo più ripropongono, alla lettera, i motivi di doglianza, tesi ed argomentazioni del P.M., ripresi, come visto anche dall’Avvocato dello Stato, sui temi in oggetto (sussistenza dei reati, in special modo di quello ex art. 437 cp, causalità, natura cancerogena del cvm e conoscenze in merito alla stessa, colpa, ecc.), con limitate specificazioni in ordine alle vicende personali di alcune delle parti offese appellanti, concludendo quindi tutti per la riforma della sentenza con affermazione, ai fini civilistici, della responsabilità degli imputati in ordine agli addebiti di cui al primo capo d’imputazione.

 

Circa il secondo capo d’imputazione, le argomentazioni del Tribunale a sostegno del deciso, si sviluppano sostanzialmente in tre parti, cui si contrappongono le specifiche censure degli appellanti.

 

I parte - sentenza

L’ipotesi  accusatoria formulata col secondo capo di imputazione

Considerazioni generali

 

IL Tribunale dopo avere premesso che, anche per questo secondo capo di  imputazione, il PM ha ritenuto necessario, in relazione alla molteplicità  e complessità dei fatti  ed alla estensione dei danni, utilizzare per correttamente  inquadrare le  fattispecie concrete , lo schema dei delitti contro l’incolumità pubblica  ,in particolare  quello del disastro innominato -per i danni  all’ambiente e all’ecosistema  nel suo complesso- e quello dell’avvelenamento e della adulterazione delle acque o di sostanze alimentari – per quanto riguarda il biota vivente sul sedimento contaminato dei canali dell’area industriale e le falde acquifere sottostanti le aree di discarica  interne ed esterne al Petrolchimico- e ricordato che in data 13 –12 2000 è stata variata l’imputazione, rileva che  la accusa  ha proposto una lettura dei fatti basata su soluzioni in diritto controverse,e che all’esito del processo non sono state ritenute fondate in fatto le tesi della accusa, ,né condivisibili in diritto le ipotesi  interpretative sottostanti.

 

 Viene quindi puntualizzata l’ipotesi  accusatoria   con cui viene contestato ad un primo gruppo di imputati  di avere realizzato e gestito discariche abusive  di rifiuti tossico nocivi– gli allegati B e C ne contengono l’elenco  di 26 siti di smaltimento- all’interno e all’esterno del Petrolchimico dal 1970 al 1988.

 

Ad una seconda serie di imputati, parzialmente coincidente con la prima – ritenuti consapevoli  degli illeciti dei propri antecessori  e dello stato di degrado ambientale preesistente -viene invece contestato: di avere abbandonato rifiuti tossico nocivi in violazione dell’art 9 D.P.R n 915/82;di avere stoccato senza autorizzazione rifiuti tossico  nocivi nelle discariche  di cui sopra  senza la  autorizzazione  richiesta ai sensi dell’art 16 D.P.R. 915/82; di avere effettuato  scarichi nelle acque  di fanghi di derivazione da catalizzatori esausti ,cosi come di altri sottoprodotti di risulta dei  processi effettuati presso gli impianti produttivi – relativi alla produzione del cloro e dei suoi derivati – in particolare gli scarichi SM2 e SM15 con il superamento dei limiti , per quel che riguarda clorurati e nitrati, di cui alle tabelle allegate al D.P.R n .962 /73 –di avere consentito la dispersione  nel sottosuolo  e nelle acque sottostanti il suolo  di residui tossico nocivi  e di acque di rifiuto non trattate – si tratterrebbe delle sostanze indicate negli elenchi  I e II allegati al D .Lvo n132/1992  riguardante la protezione delle acque sotterranee ,il cui inquinamento deriverebbe dalla trasmigrazione passiva della   pregressa contaminazione; di avere omesso  l’adozione delle misure necessarie  al fine  evitare il deterioramento della situazione  sanitaria igienico ambientale ,dei siti contaminati, delle falde  acquifere sottostanti e delle acque finitime; di avere omesso di informare l’autorità pubblica,  preposta al controllo,  delle attività di  discarica e smaltimento  di rifiuti tossico nocivi; di avere omesso le necessarie opere di bonifica dei siti contaminati, iniziando un parziale interevento limitato a due zone, solo con la richiesta di autorizzazione presentata alla Provincia di Venezia nell’agosto del 1995.

A  tutti gli imputati viene  quindi contestato di avere, attraverso le condotte di cui ai capi a )e  b) sopradescritte, causato eventi di  danno  qualificati come disastro c. d. innominato – previsto  punito dall’art 434 c.p - richiamato nella imputazione- e dall’art 449 c.p- non espressamente richiamato  ma da intendersi sottinteso . data la contestazione  a titolo di colpa.

L’evento di danno consisterebbe nella contaminazione dei diversi comparti ambientali e nella alterazione dell’ecosistema.

Vengono in  considerazione innanzitutto a tal fine  la contaminazione delle acque di falda  sottostanti la zona di Porto Marghera   , dei sedimenti  dei canali e delle acque  prospicienti Porto Marghera  dovuta alla elevata concentrazione di diossine e di altre famiglie di composti tossici, secondo quanto accertato dalla consulenza espletata  dal C. T del P.M. depositata il 3-9-1996.

Viene poi in considerazione la compromissione del suolo  e del sottosuolo come conseguenza della illegittima gestione delle discariche . e come conseguenza di tutte le  condotte di cui sopra viene quindi addebitato  a tutti gli imputati   l’avvelenamento delle acque di falda , utilizzate anche per uso domestico e agricolo tramite i pozzi , l’avvelenamento (452 e 439 c p)  e l’adulterazione (452 e 440 c.p)  delle risorse alimentari  costituite dalla ittiofauna e dai  molluschi  , contaminazione avvenuta  a seguito dell’inquinamento  del biota ,  a sua volta inquinato  dai sedimenti contaminati dagli scarichi. e dalle percolazioni delle discariche.

 

Il pericolo  derivante dalla condotte contestate sarebbe attuale  e vi sarebbe di conseguenza la permanenza in  atto,  benché invero  il capo di imputazione ,cosi come modificato all’udienza del  13 –12 2000 limiti i fatti all’autunno del 1995.

Il Tribunale richiama quindi le ordinanze con cui  sono state rigettate alcune eccezioni della difesa  relative alla incoerenza o /e vaghezza della imputazione  che  si sono basate sui principi generali, relativi  alla rilevanza causale di qualsiasi condotta , che costituisca un antecedente necessario, anche nella sola forma dell’aggravamento, dell’evento, senza che rilevi  la  sua maggiore o minore importanza, la distanza temporale  rispetto al momento in cui si verificato l’evento, evidenziando però che con quelle ordinanze è anche stato ribadito che in relazione alla funzione  del diritto penale,  che è quella di accertare  responsabilità individuali, la rilevanza causale dell’apporto del singolo imputato deve essere rigorosamente provata.

 

Altro problema che viene esaminato è quello costituito dal richiamo allo schema concettuale della cooperazione nel delitto colposo.

L’ipotesi  dell’accusa non si presenta come un concorso di cause tra loro indipendenti  ma richiama condotte caratterizzate dalla prevedibilità del comportamento altrui  e dalla consapevolezza  di ciascuno di aderire  con la propria condotta  alla condotta altrui, per cui sarebbe una reciproca consapevolezza di condotte inosservanti da cui  deriva un unico evento disastroso.

In ogni caso lo schema sostenuto dalla accusa ,della cooperazione colposa, piuttosto che quello del concorso  di cause , schema  ritenuto astrattamente possibile dal Tribunale, non consente comunque di eludere il problema causale in quanto ,anche  nello schema della cooperazione colposa, condotta penalmente  rilevante è quella che , insieme alle altre ,costituisce conditio sine qua non dell’evento o, quantomeno, può dirsi efficiente in relazione alla condotta altrui, causalmente rilevante nella produzione dell’evento ,anche nella forma  di aggravamento dell’evento preesistente.

 

Non potrebbe configurarsi  poi la cooperazione per il solo fatto di essere consapevoli dello stato di inquinamento pregresso se  manca un apporto  quantomeno nella forma   dell’aggravamento.

Non è pertanto condivisibile la tesi dell’accusa , secondo cui tutte le condotte sarebbero unificate  in un addebito di cooperazione colposa, in cui ,ciascun cooperante assume corresponsabilità per l’insieme delle conseguenza prodotte dal catabolismo del plesso industriale.

 

La cooperazione si ritiene configurabile solo tra coloro che agiscono in epoca coeva ,non tra persone che agiscono in epoche diverse, in contesti organizzativi mutati e indistinti contesti societari.

Diverso è poi il problema di  una  successione nella posizione di garanzia, ma  comunque sia, non potrà mai, secondo i principi generali, essere eluso il problema delle rilevanza causale della condotta del singolo imputato, tramite lo schema della fattispecie concorsuale nella forma colposa. Ciascun imputato potrà essere chiamato a rispondere solo di fatti-anteriori, concomitanti  o successivi causati da altri,solo se vi un rapporto con la sua sfera di attività , se vi è una relazione  con la garanzia dovuta, se sussiste la prova di un nesso di causa tra la sua propria condotta -non quella dell’azienda- e l’evento.

 

La imputazione in tema  di disastro innominato,  ancor prima di essere infondata in fatto lo è in diritto perchè comporta accuse indifferenziate non compatibili con il principio della personalità della responsabilità penale.

Centrale nell’ipotesi accusatoria è la figura del reato di disastro innominato - disastro ecologico permanente - che si concretizza nella mancata bonifica di siti contaminati da altri in antica data.

Secondo il Tribunale invece  si può parlare di reato permanente solo quando l’offesa al bene giuridico si protrae fino all’attualità per effetto della  persitente  condotta del soggetto.

Secondo l’accusa è causale anche la condotta inattiva di chi subentra nella titolarità dei siti  inquinati, condotta che si concretizza in una serie di omissioni,intese come violazioni dell’obbligo di attivarsi per la bonifica di quanto contaminato da terzi antecessori in antica data.

 

Ed in questa prospettiva l’accusa trascura di verificare  l’epoca della contaminazione e l’apporto che ciascuno  degli imputati vi avrebbe avuto in termini  quanto meno di aggravamento.

Il Tribunale ritiene invece che perché una condotta omissiva sia penalmente rilevante  debba individuarsi  in capo  al soggetto quell’ obbligo ,il  cui adempimento è stato omesso  , obbligo che  non sussiste, nella fattispecie , nei confronti di chi succede  nella disponibilità di un sito contaminato da terzi.

 

Non esisteva infatti nel nostro ordinamento , prima del D Lvo n22 /1997, un obbligo generale di bonifica  di siti contaminati da terzi  in antica data a carico del successore nel potere di impresa o nella titolarità del diritto o nel potere di fatto su un sito già precedentemente  inquinato.

Rileva anche il Tribunale come nel testo della imputazione  vi siano una pluralità di riferimenti normativi relativi a violazioni costituenti titolo contravvenzionale , che assumono rilevanza con  riferimento alle principali imputazioni , come  titolo di colpa specifica .

 

Ed ancora  viene rilevato come, secondo la interpretazione autentica da parte dello stesso organo dell’accusa, il reato di disastro innominato sia unico , riguardando sia il primo come il secondo capo di accusa, in quanto l’attività di industria ha esplicato i suoi effetti negativi,sia all’interno come  all’esterno della fabbrica, con la conseguente continuazione tra tutti delitti contestati  nel primo  e nel secondo capo d’accusa  e la continuazio0ne interna tra i reati ipotizzati in ciascun capo di accusa.

Ma il  Tribunale non ritiene essere compatibile la continuazione con l’elemento soggettivo della colpa.

Della ritenuta compatibilità della fattispecie di disastro innominato colposo con il principio costituzionale di stretta legalità.

Viene quindi osservato come le fattispecie  richiamate dagli art 449 e 450 c.p contengano entrambe il riferimento al termine disastro -termine generico- soprattutto nella ipotesi di cui  all’art 449 e 434 c.p., in cui viene usato il predetto termine ,senza alcuna ulteriore specificazione  sul fatto costituente la fonte del pericolo.

E sulla indeterminatezza  della fattispecie la difesa ha fondato la eccezione di costituzionalità che è stata  ritenuta manifestamente infondata dal Tribunale  con le argomentazioni che sinteticamente si ricordano. 

 

Evidenzia  il giudice di primo grado che nell’ipotesi di cui all’art 449 c.p. il disastro, anche quello innominato, come evento di danno grave complesso ed esteso ai singoli comparti ambientali e all’ecosistema nel suo insieme ,deve sussistere e come  in entrambe le fattispecie  per definizione deve sussistere  una situazione di messa in pericolo  della pubblica incolumità; che nei reati di danno è però necessario anche che sia accertata una serie cospicua di eventi di  danno alle cose, mentre  invece nei reati di pericolo  basta la probabilità del verificarsi dell’evento di danno alle cose; che la sussistenza del  reato  comunque non può prescindere dall’accertamento della intrinseca idoneità del danno ,cagionato alle cose,  a porre in pericolo, in modo serio ,reale la incolumità delle persone.

Capitolo terzo

Dalla destinazione a discarica delle ventisei aree nominate in imputazione  , alla  contaminazione  da sostanze  tossiche del suolo e sottosuolo  rilevante in termini di disastro colposo

Dalla contaminazione  del suolo  e sottosuolo a quella delle falde acquifere e delle acque dei pozzi  che ad esse attingono  rilevante in termini  di loro avvelenamento o adulterazione

 

3.1 premesse

Preliminarmente nella sentenza vengono richiamati gli addebiti rivolti specificatamente al primo gruppo di imputati e  quindi viene  premesso  che ,nel  trattare gli effetti del catabolismo degli impianti  sul suolo, sottosuolo  e quindi sulla falde acquifere, l’accusa ha considerato  in modo distinto le discariche interne da quelle esterne all’area di insediamento del Petrolchimico  e che secondo lo stessa schema accusatorio verranno dal Tribunale valutate  le risultanze probatorie

Dagli esiti delle prove assunte risulta  quanto alle discariche interne : che le acque di falda- oggetto dell’indagine processuale sono le acque della prima e  della seconda falda- attinte  dal percolato di discarica verticale sono in suscettibili di qualsiasi utilizzo per la loro modestissima portata. che l’inquinamento delle acque di falda, sottostanti il plesso industriale , non ha potuto attingere, seguendo processi  di trasferimento orizzontale , acque  e sedimenti dei canali lagunari confinanti con l’area industriale, perché il flusso del primo acquifero verso la laguna è privo di significato- tali falde sono pressoché stagnanti- né i pozzi verso l’entroterra, perché il terreno scende  in direzione opposta verso la laguna .

 

In sintesi la alta concentrazione di inquinanti che caratterizzano le discariche interne sono contenute nelle zone sottostanti  e non si sono verificati  significativi spostamenti

Per le falde acquifere  sottostanti le discariche esterne l’inquinamento orizzontale è escluso per mancanza di dati .

Solo in tre casi –tre discariche-la prima falda acquifera risulta contaminata  , non vi è però prova del trasferimento orizzontale  della contaminazione  dall’ambito sottostante le aree  di discarica a quello da cui  attingono i pozzi.

Ne conseguente la  infondatezza delle accuse che derivano dall’ipotesi di avvelenamento delle falde acquifere del suolo e sottosuolo

 

Dopo avere evidenziato  con le predette argomentazioni che non vi è prova di una situazione di pericolo per la incolumità pubblica, relativamente alla situazione delle discariche viene osservato che non vi è alcuna prova in ordine alla realizzazione –gestione-utilizzo delle discariche senza titolo o in violazione  delle norme di protezione ambientale vigenti   all’epoca del loro esercizio .

Innanzitutto viene  quindi  premesso che la prima disciplina normativa è stata introdotta con il D.P.R 915 /82 e che  il Tribunale ha ritenuto   non sussistesse dopo l’entrata in vigore della citata normativa l’ obbligo di chi succedeva nella gestione  del plesso di attivarsi per la bonifica di siti contaminati da terzi.

Viene poi evidenziato che , per il periodo antecedente l’82, l’accusa  non indica quale norma generica o meglio regola o cautela avrebbe dovuto essere adottata e non risulta esserlo stata, né  fornisce alcuna prova di un aggravamento dello stato di contaminazione preesistente.

 

Capitolo 3.2

Dalla contaminazione da sostanze tossiche del suolo e sottosuolo nell’ambito dell’area di insediamento   del plesso industriale, in  relazione  allo stato delle c. d discariche interne (rilevante in termini di disastro innominato colposo) alla contaminazione delle falde acquifere  e delle acque dei pozzi che ad esse attingono (rilevante in termini di avvelenamento o adulterazione).

 

Della efficienza di un processo di trasferimento orizzontale  della contaminazione dalla falde sottostanti l’area di insediamento del plesso  industriale  verso i pozzi siti a monte e verso i canali lagunari finitimi

Viene fatta innanzitutto una  descrizione della zona in cui insiste il plesso industriale in questione  ed evidenziato come sia incontroverso che ,all’interno dell’area di insediamento del plesso industriale, esistano antiche discariche di rifiuti

Richiamate  le risultanze precedenti  per quanto riguarda il rispetto delle normative in vigore viene  quindi ulteriormente evidenziato come la gestione della massima parte dei  siti di discarica  nominati  in imputazione  sia andata materialmente esaurendosi  prima della entrata in vigore della disciplina transitoria  di cui al DPR  n.915/82.

Su tale circostanza sono state raccolte le deposizioni testimoniali di Spoladori –Pavanato   Gavagnin e Chiozzotto.

 

E prima dell’entrata in vigore del DPR 915/82  la attività di gestione dei rifiuti  trovava la sua disciplina nell’art 216 T. U .L. S e nelle vigenti previsioni di   piano  Norme Tecniche di attuazione del Piano Regolatore Generale di Venezia  del 1956 che fornivano all’art 15  la seguente indicazione “ nella zona industriale troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono   nell’aria fumo , polvere  o esalazioni dannose alla vita umana ,che scaricano sostanze velenose ,che producono vibrazioni e rumori .

Varianti al piano regolatore sono state adottate  dal Comune di Venezia solo nel marzo del 1990.

Riprendendo la descrizione del luogo in cui   è stato realizzato il Petrolchimico  viene ricordato che l’area di sedime, in cui è insediato il complesso industriale , è stata in gran parte realizzata mediante ’imbonimento delle zone di barena, attuato mediante la utilizzazione di materiale dragato e rifiuti e residui di lavorazioni industriali fino agli anni 70 e fino al raggiungimento di spessori medi di riporto di 2,5-3 metri  sopra il livello del mare

 

E tale origine  del Petrolchimico risulta ampiamente documentata  in particolare  dalla cosiddetta convenzione Levi intervenuta con la Regia amministrazione  che prevedeva .  appunto l’utilizzo dei rifiuti industriale  per imbonire le zone arenose .

Più della meta della superficie oggetto della convenzione risulta essere oggi occupata dall’area   di insediamento del Petrolchimico. 

ED in tale ambito –molti anni dopo - sono stati scavati il canale industriale sud , il canale industriale ovest ed il canale Malamocco-Marghera  e dove le sponde non sono protette  o dove la protezione è permeabile o danneggiata  i materiali vengono sistematicamente  erosi ,entrando in soluzione nelle acque lagunari o disperdendosi sul fondo dei canali stessi.

 

Dopo aver ricordato lo schema giuridico utilizzato dall’accusa  incentrato sulla figura del disastro  ecologico – art 434 c.p - e della cooperazione colposa,  tramite omissione,  assumendo la rilevanza di una permanenza in atto delle condotte di reato (come omessa bonifica della contaminazione preesistente) e la permanenza dei suoi effetti , osserva il collegio come l’ipotesi sopradelineata  finisca per trascurare la prospettiva della rilevanza causale delle condotte dei singoli imputati, cui viene riferito l’evento contaminazione – e quindi si allontani da  una schema concettuale accettabile , quale un evento di danno  alla cose causato per accumulo di differenti apporti nel tempo,

Non potendosi accettare la configurazione di cui sopra sarebbe stato  necessario accertare se i singoli imputati avessero potuto recare  tramite  la loro condotta – di gestione della discarica attiva od omissiva – un ulteriore apporto  rilevante in termini di aggravamento.

 

Non rileva  invece secondo l’ipotesi accusatoria accertare se ci sia stato o meno un apporto causale della condotta di ciascuno ,trovando fondamento la responsabilità di tutti gli imputati nella consapevolezza della esistenza dell’inquinamento e  nella violazione dell’obbligo di  bonifica.

Rimane cosi estraneo al programma della pubblica accusa la verifica dell’apporto di ciascuno, durante  la gestione della discarica , all’aggravamento dello stato di contaminazione preesistente.

 

Le tesi dell’ accusa sono comunque non solo non condivisibili  in  diritto ma anche infondate in fatto

Vengono quindi ripetute le ragioni per cui risulta irrilevante l’inquinamento delle falde - sottostanti il sedime  delle discariche sia interne come esterne  e cioè sostanzialmente la  loro inutilizzabilità per qualsiasi  uso antropico e  riportate le considerazioni tecniche  su cui si basano le conclusioni di cui sopra  ,mediante una descrizione dettagliata delle condizioni del suolo e del sottosuolo e della struttura stratigrafica-  dati tecnici questi su cui  concordano tutti gli esperti delle parti.Da atto poi il tribunale di come si sia  accertato che la contaminazione , partendo dal piano di posa dei rifiuti, attinge  le falde acquifere sottostanti lo strato di  caranto , fino  a raggiungere il secondo acquifero,ad una  profondità  superiore ai venti metri .

 

Ed, essendo  accertato il passaggio dell’inquinamento del sedime al primo e secondo acquifero,  tanto basterebbe secondo la accusa  a provare l’avvelenamento delle acque – come risorsa alimentare - essendo irrilevante ai fini  del reato di cui all’art 439 c.p la non attualità della loro destinazione alla alimentazione , bastando quella potenziale , che potrebbe rendersi necessaria ad esempio  in particolari condizioni di siccità–

Tale tesi ,condivisibile secondo il Tribunale in linea di principio , non lo è in concreto  perché  le acque della prima e  della seconda falda sono assolutamente  inutilizzabili per qualunque uso industriale o antropico, attesa la loro bassa portata- praticamente stagnanti  e le loro originarie caratteristiche.

 

Anche pensando insussistente lo stato di inquinamento , le falde sottostanti l’area del  Petrolchimico  sarebbero inutilizzabili per qualsivoglia uso.

Le prove raccolte consentono conclusivamente di ritenere  con certezza che,  nell’area di Porto Marghera, l’utilizzo delle falde entro i primi 30 metri di profondità non è in alcun modo ipotizzabile

Quanto alla tesi accusatoria del trasferimento orizzontale - sia verso i pozzi a monte e verso i canali lagunari finitimi - del percolato di discarica  attraverso l’acqua di falda inquinata,  osserva il Tribunale come l’inquinamento derivante  dal sottosuolo attraverso le falde non attinga  le acque e i sedimenti dei canali lagunari in termini realmente efficienti  la loro contaminazione ,perché il flusso del primo acquifero( il solo che comunichi con i canali  non essendoci possibilità di comunicazione per il secondo acquifero perché piu profondo del fondo della laguna  ) verso la laguna  è insignificante ( si tratta di quattro litri/secondo lungo tutto il perimetro  dell’area di insediamento  del plesso industriale  7-8 Km).

 

Al lento movimento delle falde- cui è attribuibile una velocità di deflusso dell’ordine di grandezza del metro /anno - va poi aggiunto per gli inquinanti il cosiddetto”coefficiente di ritardo”,  dovuto  al rallentamento che la presenza di sostanza organica  attua nei confronti dei contaminanti , che tendono  a fermarsi  aderendo ai granuli di terreno, per cui  la velocità di movimento dell’inquinante è  sempre inferiore  a quella della falda anche di qualche decina di volte.

Su tali dati concordano i tecnici di entrambe le parti  che  indicano un valore approssimativo della portata della prima falda  lungo tutto l’area del Petrolchimico dell’ordine  di  4 litri/ secondo ed un  tale  modesto apporto  risulta ininfluente in termini di rilevanza causale.

 

Alle conclusioni di irrilevanza della contaminazione derivante dal percolato di discarica attraverso le falde  acquifere, con riferimento alla inquinamento dei sedimenti e delle acque, dei canali lagunari finitimi al plesso industriale  , fa seguire il Tribunale una sintesi dei risultati degli esami analitici eseguiti , che hanno dimostrato  la presenza di un inquinamento in misura  che va diminuendo, man mano che si passa dalle acque  di impregnazione negli strati superficiali alle  acque della prima  e della seconda falda ed inoltre viene aggiunto che l’eventuale moto di trasferimento orizzontale della contaminazione  risulta ostacolato  dall’ingressione dell ‘acqua marina ,  che determina una consistente diluizione degli inquinanti

Altro dato certo risulta poi  essere quello della insussistenza di un trasferimento orizzontale della contaminazione dal sottosuolo, cioè dagli acquiferi situati sotto l’area di insediamento  del plesso industriale , verso monte   essendo dato un gradiente che declina nettamente a scendere verso la laguna  e peraltro  non sono stati trovati inquinanti di origine industriale nei pozzi oggetto di campionamento.

 

Viene esaminata  anche la deposizione sul punto del teste Chiozzotto valorizzata dalla difesa e contrastante con le diverse ma tra  loro concordi valutazioni dei tecnici di entrambe le parti , che viene ritenuta dal Tribunale  non rilevante  perché non aggiunge né toglie  nulla al quadro probatorio gia esaminato e risulta  inoltre contraddetta dalle valutazione dei tecnici di entrambe le parti .

 

3.3 Dalla contaminazione da sostanze tossiche del suolo e del sottosuolo in aree diverse da quella di insediamento del plesso industriale  in relazione alle cosiddette discariche esterne ( rilevante in termini di disastro innominato  colposo) alla contaminazione delle falde acquifere e della acque dei pozzi  che ad esse attingono,rilevante in termini di avvelenamento ( o adulterazione )

Anche per le discariche esterne, la cui esistenza è incontroversa, valgono innanzitutto  le considerazione gia fatte per quelle interne ,  sia per quanto riguarda tempi  e modi  della loro gestione, sia per quanto riguarda  le loro caratteristiche tecniche nonché   l’inquinamento delle falde  sottostanti.

 

Osserva anche il tribunale ,quanto ai dati probatori acquisiti che per 13 discariche esterne  mancano completamente  i dati , e  che mancano per tutte, al di fuori di tre, i dati relativi  allo stato delle falde, risultando inquinate solo le acque di impregnazione , cioè quelle immediatamente sottostanti lo strato di rifiuti  e sovrastanti la linea del caranto.

Nei tre casi in cui risulta inquinata l’acqua della prima falda non vi è però alcuna prova di trasferimento orizzontale, così come non risultano mai prove di contaminazione da processi di lavorazione industriale nelle acque dei pozzi oggetto di campionamento né vi è prova che l’inquinamento del suolo e sottosuolo sia riferibile a fatti di  gestione di rifiuti in discarica , attuati dagli imputati che avrebbero gestito le discariche in conformità delle regole vigenti .

 

 3.4

Della mancanza di fondamento giuridico della accusa di concorso nel reato di disastro avvelenamento o adulterazione mediante omessa bonifica o messa in sicurezza di siti contaminati  da terzi antecessori in epoche  pregresse

Della carenza probatoria in punto di fatto degli addebiti di ritardo nella bonifica mossi agli imputati di appartenenza Enichem

Della carenza probatoria pertinente agli addebiti di colpa riferiti agli imputati di appartenenza Montedison.

 

 Conclusioni pertinenti alle accuse fin qui considerate 

Premesso che non risultano provate  ,all’esito dell’istruttoria dibattimentale , condotte connotate da antigiuridicità  nella gestione dei rifiuti in discarica da parte degli imputati di  appartenenza Enichem esercenti potere d’impresa dopo il 1983, rileva il Collegio come  nei reati casualmente orientati , quali il disastro innominato  sia l’evento  a svolgere la necessaria funzione tipizzatrice  nel senso  che devono essere provate non solo le  condotte contrarie alle  regole generiche o specifiche , finalizzate ad impedire il verificarsi dell’evento dannoso, ma anche il verificarsi  dell’evento ,  in quanto il carattere colposo della condotta  non può prescindere dalla esistenza di un nesso di causalità definito.

 

 L’accusa invece assume unicamente come dato rilevante  la esistenza delle antiche discariche attive non oltre  la fine degli anni 70 ,quando l’azione di smaltimento dei rifiuti  nelle forme praticate  dagli imputati  era quella adeguata alle valutazioni normative ,tecniche e di disciplina vigenti

La costruzione accusatoria , da cui deriva la responsabilità e  prima  la riferibilità giuridica a ciascun imputato  della contaminazione , si basa sulla esistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento, come conseguenza della posizione di garanzia rivestita dagli imputati , per il non verificarsi  dell’evento disastro  o avvelenamento o adulterazione , e con  una sostanziale equivalenza della azione  all’omissione sotto il profilo causale.

È infatti in questo quadro che si svolgono le contestazioni  relative a  tutte le  condotte omissive contestate , per cui  viene ritenuto sufficiente accertare  che non  sia stato  impedito l’inquinamento, omettendo nelle fattispecie  la bonifica degli antichi siti di discarica, a cui per la posizione di garanzia  gli imputati erano  tenuti.

 

Centrale nella tesi accusatoria è infatti  la esistenza e quindi la esigibilità dell’obbligo di bonifica delle discariche realizzate e gestite in passato da altri  secondo l’art 25 D.P.R.915/82 .

Ma invero tale tesi  dell’accusa è  in contraddizione con l’indirizzo giurisprudenziale  ,confermato  dalla sentenza delle Sezioni .unite C. C 5-10-1994, che ha affermato come diversa sia la  realizzazione e la gestione della discarica  ,condotte che possono assumere entrambe la forma del reato permanente , dal mero mantenere nell’area i rifiuti scaricati quando la discarica  sia stata chiusa , condotta questa non riconducibile alla gestione delle discarica in senso proprio .

 L’accusa  a sostegno della propria tesi  richiama altre sentenze della C .C del  4-11- 1994 e 29-4-1997  che però riguardano fattispecie diverse , in cui si discute di condotte contestuali alla  gestione  delle discariche.

 

Conforme a quanto affermato dalle Sezioni unite è invece  anche la successiva sentenza della C.C 2-7-1997 che afferma analogo principio ,  anche dopo l’entrata in vigore del D l vo 22/1997 ,che ha abrogato l’art 25 del D. P R. 915/82  sostituendolo con l’art  51 comma 3

E sulla base della giurisprudenza citata il reato è permanente , solo però per il tempo in cui l’organizzazione  è presente e attiva

La norma incriminatrice ha riguardo solo alla fattispecie  commissiva ,  e l’equivalenza del non  impedire al causare presuppone la esistenza della giuridicità dell’obbligo di impedire, obbligo che non può derivare dalla  pura  semplice disponibilità della discarica .

 

Ribadita la necessità di una norma agendi specifica , quale fonte dell’obbligo di impedire l’evento  osserva il Collegio che le norme –altre dall’art 25 D .P R N n.915 /82- richiamate  dall’accusa  come fonte dell’obbligo giuridico di attivarsi per la bonifica dei siti contaminati da altri antecessori in nessun modo possono essere ritenute tali.

Alcune hanno contenuto analogo  a quella del D.P.R., quale l’art 10 L.  5-3- 1963 n. 366, l’art   9 L 16-4 -1973  n. 171  l’art 3 D.P.R. 20-9-1973 n 962   gli  art 1 e 3 L .R. 23 –4 -1990 n.28

Richiamate tali norme ritiene l’accusa che pure il semplice mantenere  discariche contribuisca alla dispersione di sostanze inquinanti mediante trasmigrazione  passiva.

 

Il mantener discariche – osserva invece il Collegio- concreta quella condotta omissiva che la C .C esclude possa integrare il reato di discarica abusiva , per la ribadita  inesistenza di un obbligo di  attivarsi per la bonifica di siti contaminati da terzi antecessori e per la  necessità di individuare una norma  su cui fondare o da cui derivare l’esistenza di un obbligo di fare , con la conseguenza che il non fare viene ad integrare una  fattispecie criminosa.

Non  contengono obblighi di disinquinare neppure  le altre  norme generiche citate dal P. M .quali l’art 1 L.16-4-1973 n171 , l’art 28 L 5-3 1963 n366 ,art 217 T. U. L .S del 1934.

 

Trattasi in tutti i casi di norme che non prevedono un obbligo generale di attivarsi per la bonifica , bensì conferiscono poteri di intervento alla P.A.,  che può imporre determinati obblighi  di ripristino in presenza di particolari situazioni.

Tra le norme richiamate vi sarebbe anche l’art 14 2° comma D .L. vo .n132/92  -disciplina  transitoria  della legge concernente la protezione delle acque sotterranee- che riguarda i termini entro cui presentare la  domanda  per una nuova autorizzazione ad effettuare operazioni di eliminazione o di deposito di rifiuti, che comportino scarichi indiretti ,gia autorizzati dal  d p r n915/82.

Tale norma secondo l’accusa consentirebbe di ritenere che, anche il solo deposito di rifiuti in discariche chiuse ,avrebbe bisogno di autorizzazione  ai sensi del d.p.r 915/82  ciò che non è riguardando la disciplina del citato D.P.R solo le attività di gestione dei rifiuti e non situazioni di discariche gia esaurite

Altra fonte dell’obbligo di bonifica sarebbe stata individuata nella Delibera del comitato interministeriale  del 27-7-1984  al punto 7, che invece risulta chiaramente avere contenuto diverso riferendosi ad impianti preesistenti, trasferiti o modificati, ma ancora attivi e gestiti al momento delle entrata in vigore della nuova normativa e non  discariche o impianti cessati prima della sua entrata in vigore .

 

Viene quindi ribadito che l’omissione è in realtà inconcepibile senza pensare alla norma impositiva dell’agire  , non tutte le omissioni rilevano ma solo quelle violative di un dovere giuridico di fare .

Conferma  ulteriore delle inesistenza di un obbligo di bonifica  viene dall’art 17 D L. vo n22 /97 – decreto Ronchi- che per la prima volta prevede l’obbligo di bonificare e ripristinare le aree inquinate nel caso di superamento di determinati limiti di accettabilità  della contaminazione.

Il silenzio della disciplina previgente porta invece  ad escludere che sussistesse un obbligo generale di bonifica.

Anche alla stregua della disciplina vigente sembra comunque escluso un obbligo generale di bonifica del sito contaminato  al di fuori della ipotesi di cooperazione colposa

 L’ipotesi accusatoria rimane comunque  anche in fatto priva di fondamento risultando, dalle prove acquisite e dalla  valutazione in concreto dei tempi e dei modi di adempimento agli obblighi di disinquinamento, la legittimità  della condotta degli imputati ,che avrebbero rispettato le norme tenendo conto del momento  della loro  entrata in vigore ,della estensione del sito inquinato della complessità degli interventi – vedi confronto con altre analoghe esperienze e relazione  Francani e Alberti  in data 20-4-2001.

 

In particolare non risulta giustificata la contestazione specifica circa la intempestività degli interventi  relativi alle discariche  di cui  alle zone 31 e 32 in quanto nessuna prova adeguata è stata fornita da chi ne aveva l’onere circa  ritardi od omissioni nella esecuzione di interventi di disinquinamento.

Prima della entrata in vigore della normativa di cui al D. L vo n 22/1997 ,a livello locale,  era stato raggiunto un accordo di programma, per la chimica di  Porto Marghera e successivamente  un accordo integrativo  ,per meglio definire le procedure di approvazione dei progetti e degli interventi, che  risulta essere stato osservato da Enichem.Il Tribunale ribadisce quindi e sintetizza i  principi generali, già  prima esposti. ribadendo la necessità che venga individuata la norma giuridica, di cui si addebita la omissione, ed inoltre , trattandosi di reati di evento, che tra la ipotizzate omissione e l’evento  dannoso,risulti accertata la esistenza del  nesso di causalità materiale .

 

Ciò che non è stato fatto né per gli imputati della Montedison che gestirono rifiuti  in discarica quando tale pratica era abituale e non regolata , né per gli imputati Enichem che ,dopo l’entrata in vigore della disciplina  autorizzatoria, non risulta abbiano  commesso alcuna violazione  delle normative in vigore

Dopo avere quindi riaffermato che, prima dell’82, non esisteva una disciplina normativa relativamente allo smaltimento dei rifiuti, evidenzia il Tribunale che una “norma agendi”, intesa come comportamento, che  avrebbe dovuto essere tenuto e che non lo è stato ,non risulta neppure enunciata o addebitata nell’ipotesi accusatoria, e che il Tribunale ha comunque verificato che, le modalità di gestione dello smaltimento dei rifiuti da parte degli imputati ,sono state conformi a quelle seguite da chi svolgeva analoghe attività ,  e che  nessuna cautela o modalità  diversa risulta adottata da un agente modello, a cui confrontare la condotta dell’agente reale .

 

Sul punto la enunciazione della accusa non si concretizza mai ,rimanendo ferma ad un livello di indeterminatezza ,che interessa tanto l’epoca precedente quanto l’epoca successiva all’entrata in vigore del D.P.R 1982/915,mentre una “ norma agendi” a cui confrontare la condotta degli imputati, un parametro di diligenza esigibile dagli imputati usciti di scena prima del D.P.R.915/82   avrebbe dovuto essere  comunque determinata.

Prima dell’entrata in vigore della suddetta  normativa ,nessuna delle norme indicate dall’accusa  e relative  alla salvaguardia di Venezia conteneva una disciplina relativa al catabolismo nel suolo , in particolare anche la norma di cui all’art 9 d.p.r n 962/73 aveva un contenuto del tutto generico, che  non consentiva nè al privato nè alla P. A di individuare le regole o le prescrizioni da adottarsi.

È  solo nel periodo compreso tra il 1970 ed il 1982 che prendono forma le prime iniziative di gestione dei rifiuti secondo le tecniche allora conosciute e  la Montedison, vigendo valutazioni tecniche e di disciplina che rendevano problematica la scelta, si affidò all’unica impresa che produceva impianti di incenerimento in Europa, commissionandole il primo impianto di incenerimento di sottoprodotti clorurati organici   nel 1972.

 

Il funzionamento dell’inceneritore è stato poi oggetto di valutazione tecnica,nel contraddittorio delle parti,a causa  del rilevato pericolo di provocare lo sviluppo di diossine .

Ma sul punto rileva il Tribunale  come l’accusa non sia riuscita a dimostrare che gli imputati potevano, in base alle conoscenze tecniche dell’epoca , riconoscere le condizioni iniziali rilevanti, proprie della formazione di diossine.

In ogni caso sul punto risulta dalla deposizione dei testi che le temperature erano elevate e quindi il rischio di formazione delle diossine ridotto e che le analisi fatte dall’università  non avevano rilevato tracce di diossine.

Come poi si vedrà , la questione relativa allo smaltimento delle peci clorurate ha assunto nel processo un particolare valore , atteso che, secondo l’ipotesi accusatoria formulata, in base alla consulenza Ferrari ,  tali rifiuti sarebbero stati smaltiti tramite autobotti e bettoline fuori dal plesso del Petrolchimico, nel canale  Nord e nel canale Bretella

L’ipotesi è rimasta però priva di riscontri ed al contrario  proprio l’esistenza dell’inceneritore proverebbe il contrario, considerato anche  che, prima  di usare l’inceneritore, Montedison usava stoccare i rifiuti in fusti,nelle immediate vicinanze  dei reparti interessati, per poi interrarli in discarica.

 Le  deposizioni testimoniali consentono di ritenere provato che tutti i rifiuti erano stati depositati  nelle discariche prima del 1982  e che successivamente  lo smaltimento dei rifiuti era avvenuto solo nei luoghi autorizzati e con modalità conformi a quelle previste dalla prescrizioni accessorie alle autorizzazioni e comunque, quando le deposizioni testimoniali non sono sufficienti, non risulta  provato   il contrario.

 In particolare  risulta dai documenti prodotti dallo stesso P. M che la discarica Dogaletto,era stata chiusa nell’estate 1971 , mentre  la  discarica interna, sita in area 31-32 c .d Katanga , considerata particolarmente rilevante per la sua estensione  e per il suo prolungato uso, risulta da precise deposizioni testimoniali , che era stata esaurita e chiusa prima del 1983 – vedi la  deposizione del teste Spoladori e dei testi Gavagnin e Mason - dalle quali risulta che la discarica predetta  era stata aperta nel 1976 ed esaurita nel 1982.-

 

 Non consta  quindi  che siano state gestite dopo il 1983 discariche senza titolo o violando le prescrizioni accessorie ;

una tale ipotesi non viene peraltro neppure esaminata dalla accusa che  basa le sue richieste sulla  equivalenza ,della mancata bonifica delle discariche  definitivamente cessate in epoca pregressa all’assunzione del potere di impresa da  parte del singolo imputato, alla gestione senza titolo.

 Di fatto risulta comunque che nel 1988 venne iniziata la bonifica della discarica  Dogaletto e che successivamente  venne dato allo stesso ingegner Gavagnin l’incarico di mettere in sicurezza la discarica in sito Malaga e di studiare la cauterizzazione necessaria per la bonifica della  area 31-32  e dei sedimenti de canale Lusore- Bretelle , antico corpo recettore degli scarichi di provenienza del Petrolchimico.

 

Sintetizzando nell’ultima parte  del capitolo le motivazioni prima esposte  osserva conclusivamente il Tribunale  come sia infondata  l’ipotesi accusatoria  per quanto riguarda la contaminazione del suolo e del sottosuolo, rilevante in termini di disastro colposo  e per quanto riguarda altresì l’accusa di avvelenamento o adulterazione delle acque delle falde sottostanti ai siti di discarica

( Le pagine della sentenza  da numero 575 a 578 contengono una sintesi della motivazione sopra esposta  e contenuta nelle pagine da 477 a  574 ).

 

I parte -appello del P.M

Parte terza

Capo di imputazione n 2 Parte ambientale

 

Capitolo 3.1

La deformazione della accusa operata dal Tribunale

Il disastro innominato e l’art 437 c.p.

 3.1 Il P. M evidenzia  nelle premesse dell’appello la deformazione dell’accusa operata dal Tribunale. Secondo il P.M, il Tribunale, pur dando atto in questa seconda  parte della motivazione  della sentenza, della modifica dell’imputazione intervenuta all’udienza del 13-12 2000, ha come nella prima parte  della decisione deformato  le accuse del PM  ed  erroneamente ritenuto che l’accusa avesse  formulato delle contestazioni generiche  e generalizzate.

 

A)    Esempi della deformazione.

Mentre risulta dal capo di imputazione, che i fatti sono stati contestati in modo specifico, indicando i luoghi in cui l’inquinamento delle acque e dei sedimenti viene ricondotto alla attività del Petrolchimico e addebitandone la causa  a ciascuno degli imputati, che  avrebbe contribuito a darvi origine  o ad incrementarlo,  in modo  altrettanto preciso e, con riferimento  ai periodi in cui ciascuno aveva svolto il proprio incarico all’interno della azienda,il Tribunale ha invece parlato  di zona industriale nel suo complesso ,di decenni di catabolismo  industriale ,di decenni di gestione del plesso produttivo , usando termini che l’accusa mai aveva impiegato.  

 Al contrario di quanto affermato sono  invece ben individuati nella imputazione i luoghi  inquinati :  i siti delle discariche, le acque di falda, i sedimenti e le acque dei canali  e specchi lagunari prospicienti  Porto Marghera, dal cui inquinamento sarebbe  derivato  l’avvelenamento o l’adulterazione   della ittiofauna e  dei molluschi   a causa della gestione degli impianti  appartenenti al ciclo del cloro.

 

B) Non è poi  vero che sia stato contestato il disastro innominato  permanente. ma solo la permanenza in atti degli effetti,mentre le condotte risultano nel capo d’accusa chiaramente e temporalmente ben delimitate, e di tanto invero ne aveva dato atto lo stesso Tribunale con l’ordinanza del 2-2-2001 di rigetto  delle eccezioni di  indeterminatezza delle imputazioni  sollevate dalla difesa.

 

C) Prima di passare ad una  rassegna critica  dei vari punti della sentenza  premette quindi il P.M come siano condivisibili i principi generali  enunciati dal Tribunale e sviluppati nella pagine  482 e 483- in materia di rapporto di causalità,– art 40c.p. - secondo cui il rapporto di causa si identifica con quello  di un  fattore e necessario,rispetto al verificarsi dell’evento per cui , una volta accertatane l’esistenza ,rimane privo di rilievo,  ai fini del giudizio penale, valutarne l’intensità dell’apporto  e – in materia di concorso di cause – art 41 c. p-  secondo  cui in presenza di piu fattori  causali ,addebitabili a più persone, succedutesi nel tempo, è   irrilevante stabilire quale sia  più prossimo e quale piu remoto.

 

È  infatti in base a questi principi che sono state respinte  tutte le eccezioni di nullità sollevate dalle difese con riferimento a profili di in coerenza interna o di vaghezza  della imputazione.

Non sono invece affatto condivisibili  le successive deformazioni  delle tesi dell’accusa , operate dal Tribunale e che derivano dalla premessa  ,secondo cui , avrebbero dovuto assumere rilevanza  nelle indagini  le condotte che avevano determinato  condizioni di aggravamento dell’evento gia verificatosi;

 aveva infatti  sempre  l’accusa  parlato nel capo di imputazione di contributi dei singoli imputati alla causazione e /o all’incremento dei diversificati inquinamenti ,individuandone altresì la fonte  negli impianti del ciclo del cloro dettagliatamente indicati nel capo di imputazione.

E questi danni sono diversi da quelli generici e  generali cui fa riferimento la difesa ed il Tribunale.

 

D) Non contesta poi  il P.M , ed ancora una volta l’accusa viene deformata, che ciascuno debba rispondere per come ha adempito alla garanzia  da lui dovuta e nei limiti dell’apporto recato, non potendo mai l’imputato rispondere di fatti che non siano casualmente  riconducibili alla sua condotta, ma risultino causati da altri.

Mai il P.M. ha preteso di addebitare  a ciascun imputato, condotte diverse da quelle sue proprie ,nè conseguenze che alle predette condotte non siano riconducibili in base  al nesso di causalità

Non risulta inoltre  che il tribunale abbia  preso in considerazione il disastro contestato ai sensi dell’art 437 c.p.

Viene quindi avanzata la prima richiesta  di riforma totale della sentenza di primo grado.

 

Capitolo 3.2

Le norme esistenti prima del 1970

Il divieto di scarico dei rifiuti industriali

 

Presentazione della tesi fatta propria dal Tribunale

Osserva poi  il PM come i primi giudici,  abbiano escluso l’esistenza , in materia di gestione dei rifiuti industriali, di norme agendi prima del  D.P.R.915/82;

abbiano ritenuto la conformità  delle modalità di gestione dei predetti rifiuti da parte  degli imputati a quelle utilizzate da chi svolgeva attività simili;

abbiano affermato che la gestione dei rifiuti prima dell’82  trovava  la sua disciplina nell’art 216 TULS. e nell’art 15 del P. R .G del 1956   che destinavano la zona industriale agli impianti inquinanti  .

Contrariamente  a quanto sopra affermato  e che viene punto per punto contestato vi erano invece  delle norme di riferimento in materia di rifiuti ed  a queste norme  gli imputati avrebbero dovuto attenersi .

Innanzitutto va  rilevato che agli imputati non viene contestata solo la illegittima  gestione delle discariche ma anche la loro illegittima creazione e che  comunque, anche prima dell’82, il deposito e la realizzazione delle discariche era oggetto di limiti e divieti .

 

In primo luogo vi era la legge regionale del Veneto  6-6-1980 n.85 che cosi statuiva “  divieto di abbandonare e depositare rifiuti di qualsiasi genere su aree pubbliche e private nonché scaricare o gettare  rifiuti nei corsi d’acqua,canali, laghi, lagune o in  mare .

Su tale divieto nessuna motivazione si rinviene nella sentenza del Tribunale

Altra norma indicata nel capo di imputazione ,che vietava condotte idonee a produrre inquinamento era l’art 10 legge 5-3-1963 n.366 che non consentiva lo scarico  di  rifiuti o sostanze che potessero inquinare le acque della laguna , nonché  l’esercizio di industrie che refluissero in laguna  rifiuti atti ad  inquinare  o intossicare le acque .

Vi era poi la L n.366/ 41, che è stata abolita  solo dal Dl vo 5-2-1997 n.22 e che  si occupava invero dei rifiuti solidi urbani , in particolare rilevava   l’art 17- che  vietando in modo assoluto il gettito di rifiuti ed il loro temporaneo deposito nelle pubbliche vie ,piazze ,terreni pubblici e privati- e utilizzando  il termine rifiuti in modo del tutto generico , dimostrava cosi  che la volontà del  legislatore era quella di porre dei divieti per qualsiasi rifiuto ,senza distinzione in ordine alla sua natura o provenienza .

 

Ed una diversa interpretazione invero  porterebbe all’assurdo risultato di ritenere esistente dei divieti per i rifiuti , provenienti dalla abitazioni,e non invece  per i   rifiuti provenienti dalle industrie.

  Limiti e regole relativamente al deposito dei rifiuti sono poi contenute anche nel regolamento comunale di igiene  del Comune di Mira  pubblicato nel 1954–nel cui ambito risultano esserci cinque discariche  tra quelle di cui all’imputazione – che vietava ,all’art 36, di accumulare sul suolo qualunque  materiale di rifiuto lurido o nocivo ,all’art 50 ,di  depositare  prodotti chimici al di fuori  dei luoghi indicati  dall’autorità comunale ,all’art 199  imponeva di costruire i luoghi destinati a discariche  con materiale impermeabile per evitare qualsiasi inquinamento del  sottosuolo, e nel regolamento comunale  di igiene  del Comune di Venezia – art 6  -art 74- art 78.

 

Tutte le violazioni delle norme in esame comportavano la applicazione delle sanzioni e delle pene previste dal T.U. leggi sanitarie  ,dal regolamento stesso,nonché  di quelle previste dal CP.

 Esisteva quindi una regolamentazione locale che vietava l’esercizio di determinate attività  ritenute pericolose od insalubri e comunque subordinava ad un provvedimento della P.A. l’esecuzione dello smaltimento dei rifiuti industriali

 Esistevano poi altre due norme –art 9 e art 36 R D n 1064 del 8-10-1931-  che  vietavano lo scarico di rifiuti industriali nella acque pubbliche  : norme specifiche a tutela delle acque da pesca rispetto ai rifiuti industriali.

 

Esistevano conclusivamente delle norme che dovevano essere rispettate e che non  lo sono invece state , e non essendo state in alcun modo le discariche autorizzate . ne consegue che quelle  realizzate ,violando le predette normative, devono ritenersi contra legem.

 

Quanto all’art 15 del N. T. A  del  P. R. G  del  56 richiamata dal Tribunale rileva il P.M. che  è norma di natura esclusivamente urbanistica,che non riguarda la possibilità di creare delle zone di rilascio, scarico ,gestione incontrollata dei rifiuti ed che  è comunque superata dall’art 10 L1963/366, norma di rango superiore alla previsione regolamentare e di chiaro contenuto precettivo  .

 Inoltre, in atti normativi successivi al 1956, che prevedevano l’ampliamento della zona industriale di Porto Marghera, si prevedeva che il completamento dei cicli produttivi dovesse essere attuato, seguendo il criterio connesso alle esigenze  di sicurezza , igiene  pubblica ed incolumità degli abitanti (art 8 lett d) L397-02-03 63

 Errata  risulta quindi la conclusione dei giudici laddove ritengono che prima del 1982 non ci fosse alcuna normativa relativa alla gestione dei rifiuti delle produzioni industriali .

 

Capitolo 3.3

Rifiuti tossico nocivi e scarichi idrici

3.3.1 Illecito scarico di rifiuti anche dopo l’entrata in vigore del D.P.R 915/82

Ricorda innanzitutto il P.M. come, secondo il tribunale, le discariche sarebbero state realizzate  per la maggior parte prima dell’82 e, per quelle successive, le norme in vigore sarebbero state sempre rispettate o comunque non risulta che siano state realizzate senza titolo autorizzativo o con modalità incompatibili con le prescrizioni accessorie  pertinenti alle autorizzazioni rese”

Ne conseguirebbe che gli imputati sotto questo profilo non avrebbero commesso alcuna violazione delle disposizioni in materia di gestione dei rifiuti .

Ritiene invece l’accusa che non sia  vero che le discariche siano state realizzate  per la massima parte prima dell’entrata in vigore del D.P.R.915/82 ed evidenzia come valgano a smentire la affermazione del Tribunale sul punto la deposizione dell’ispettore  Spoladori del 20-9-2000 e dello stesso Gavagnin all’udienza  del 16-3 2001 ,nonché la elaborazione scritta dello Spoladori del 13-12 2000.

  possono  essere ritenute decisive  sul punto le deposizioni del teste Gavagnin che ha solo riferito di una razionalizzazione del sistema dei rifiuti dopo il 1983 ,  aggiungendo che ,di conseguenza ,solo la serie di fenomeni macroscopici in precedenza verificatisi,non sarebbero piu avvenuti; il teste predetto ha anche precisato che le sue convinzioni erano basate non  su una conoscenza diretta dei fatti bensì sul fatto che da quell’anno  responsabile del servizio Pas era divenuto il perito Ceolin.

Né dirimente poteva ritenersi la deposizione  del teste Pavanato,  che aveva   precisato di non essere in grado di escludere che il fenomeno delle discariche abusive fosse cessato dopo il 1982.

 Il Tribunale ha poi affermato ,senza indicare le fonti di prova di queste affermazioni ,che dopo il 1982  le discariche erano  autorizzate e gestite secondo le prescrizioni contenute nelle relative autorizzazioni  ma l’affermazione del Tribunale con cui si ritiene  che la normativa di riferimento per i conferimenti  a discarica successivi al 1982 risulti osservata è del tutto generica.

 

Capitolo 3.4

L’obbligo di attivarsi in relazione ai siti inquinati da terzi antecessori

1) la posizione del Tribunale sul punto

 Esamina quindi il P .M  la decisone del Tribunale, secondo cui non rientrerebbe nel concetto di gestione della discarica penalmente rilevante il solo mantenere nell’area rifiuti scaricati da altri quando ormai la discarica era chiusa ,  decisione fondata   sulla sentenza della C.C Sezioni  Unite   del 5-10-1994

 La questione riguarda la imputabilità dei dirigenti ed amministratori indicati nel capo di imputazione  per la gestione di discarica abusiva di rifiuti  e smaltimento non autorizzato, in violazione rispettivamente degli art  25 e 26 cpv DPR n915/82 , poi sostituiti dall’art 51 D.Lgs n22/1997 ,nell’ambito della contestazione  del reato di disastro innominato colposo.

Osserva quindi il P .M  come la questione  sia stata effettivamente  affrontata e decisa con la  nota sentenza della Cassazione Sezioni Unite , a cui  ha aderito il Tribunale, ma  come successivamente sia  intervenuta  giurisprudenza di merito e di legittimità difforme.

 

2) La  sentenza  della Cass. SS. UU. 5-10-1994

 Secondo la citata sentenza non si configurerebbe alcun reato  di gestione  di discarica  abusiva o smaltimento non autorizzato di rifiuti tossico nocivi nella condotta di chi  solo mantiene in un ‘area rifiuti  scaricati da altri , in assenza di qualsiasi attiva partecipazione, e nonostante abbia  consapevolezza della loro esistenza.  

 Alla affermazione di tale principio la Cassazione era pervenuta in base alle seguenti considerazioni:

 in primo luogo un dato  testuale , rappresentato  dal fatto che il concetto di gestione di discarica  e smaltimento dei rifiuti non consente di ricomprendervi  anche quello  di solo mantenimento degli stessi ; in secondo luogo la inesistenza nell’ordinamento di un preciso obbligo positivo di  porre fine alla situazione  antigiuridica in corso , non essendo rinvenibile una norma che imponga al nuovo detentore la rimozione dei rifiuti del terreno entrato nella sua disponibilità .

 

3) la nozione di gestione di discarica non autorizzata  alla luce del dato testuale  del DPR n915/82 e del D.LG.vo n.22/1997: la gestione successiva alla chiusura.

Ritiene invece il PM che la decisione della Cassazione del 1994 non sia condivisibile  alla luce di un attento esame delle normativa di settore sia  statale come comunitaria  .

 Innanzitutto va esaminato il DPR 915/82 ed in particolare  gli art 10  e16 che contengono anche delle prescrizioni  che riguardano la fase di chiusura, successiva all’esaurimento dell’impianto e relativa alla sua messa in sicurezza.

 E da tali disposizioni risulta in modo inequivoco che, anche dopo la chiusura, è ravvisabile un esercizio ossia una gestione della discarica di rifiuti tossico nocivi e che ,anche tale fase è ritenuta importante ,in quanto il legislatore impone alla autorità di controllo  di dare precise prescrizioni  da osservare proprio in tale fase,mentre alcune prescrizioni  sono gia contenute nel testo dell’art 16  quali : la ricopertura della discarica ,il riutilizzo dell’area.

 

Ed il successivo Dlgs  n 22/1997 conferma tali prescrizioni là dove ,nel fornire una definizione  di “gestione dei rifiuti”, vi include espressamente il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura , attribuendo al  gestore  del sito precisi obblighi e responsabilità .

 E non può  certo dubitarsi del fatto che tali obblighi ,nel caso di cessione della proprietà e della gestione della discarica,si trasferiscano  in capo al nuovo proprietario del sito .

La  diversa interpretazione fornita dalla Cassazione porterebbe alla assurda conseguenza che chi  riceve una discarica autorizzata ,sarebbe tenuto ad  osservare determinate prescrizioni ,che non sarebbe invece tenuto ad osservare chi  subentra in una discarica  abusivamente realizzata .

 

 4) La delibera interministeriale 27-7 1984 e l’obbligo giuridico di attivarsi per evitare l’inquinamento  da percolato : il reato di gestione di discarica abusiva in forma omissiva.

In relazione agli  obblighi  di gestione della discarica ,anche quando la discarica è stata chiusa , osserva la accusa come rilevi anche quanto stabilito dalla Delibera interministeriale del 27-7-1984- contenente disposizioni per la prima applicazione del DPR n915/82- che al punto 4.2 cosi  testualmente stabilisce, con riferimento allo stoccaggio definitivo di discariche di prima e  seconda  categoria “ i sistemi di drenaggio e captazione del percolato, nonché  l’eventuale impianto di trattamento del medesimo  dovranno essere mantenuti in esercizio anche dopo la chiusura della discarica  stessa e a carico del gestore di quest’ultima ,per il periodo di tempo che sarà stabilito dall’autorità competente “

 

Prescrivendo la delibera degli obblighi a carico del gestore della discarica , per impedire lo sversamento del percolato anche dopo la chiusura, si configurano i reati,   a carico di colui che non li  adempie, di cui agli art 25 e 26 D P. R n.915/82 come fattispecie omissive improprie in forza della clausola di equivalenza  dell’art 40 capoverso c.p .

 Risulta quindi  chiaro il vizio logico contenuto nella sentenza della Corte di Cassazione, in quanto quand’anche  non fosse possibile  configurare un obbligo  di rimozione dei rifiuti  a carico  del detentore di un discarica chiusa, ciò non significherebbe certo la inesistenza a suo carico di  un obbligo di porre fine alla situazione giuridica in corso,  impedendo il protrarsi o l’aumentare del degrado ambientale .

 

 Esisteva pertanto, anche  in  base alla disciplina normativa all’epoca vigente, un obbligo giuridico di attivarsi affinché  i rifiuti fossero  posti e mantenuti nelle condizioni di massima sicurezza, in particolare sotto il profili dell’inquinamento da percolato, finchè   non  perdevano la loro capacità lesiva dell’ambiente.

 

  Secondo il  Tribunale invece un obbligo di bonifica, a carico di chi subentra nella detenzione di una discarica chiusa, sarebbe stato introdotto solo dalla legge Ronchi , mentre invero, a  parte la introduzione di un obbligo specifico di bonifica a carico di chi subentra nell’area in cui altri hanno abusivamente smaltito rifiuti,attuata dalla successiva normativa, già il DPR.915/82 e la citata Delibera Interministeriale del 27-7-1984 stabilivano un obbligo di vigilanza e mantenimento in sicurezza  della discarica ,obbligo che viene solo ribadito dall’art 28 D Lgs n 22/97 , che espressamente richiede che, l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento,  prescriva le modalità di messa in sicurezza , chiusura e ripristino degli impianti esauriti.

 

4)     La interpretazione della normativa statale alla luce della disciplina  comunitaria

 

La suddetta  interpretazione della normativa statale  risulta in linea con la disciplina comunitaria-  Infatti una disposizione base della normativa comunitaria in materia di rifiuti  l’art 4 della Direttiva 75/442/CE  stabilisce che  gli stati membri devono adottare tutte le misure necessarie  per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti che potrebbero  creare  rischi  per l’acqua ,l’aria ,il suolo ed in base a tale normativa  la Corte di giustizia ha ritenuto sussistere a carico del detentore di un’area utilizzata in passato come discarica abusiva , l’obbligo di adottare le misure necessarie per impedire la protrazione del degrado ambientale

 

6) La giurisprudenza di legittimità e merito successiva

Per tali motivi la sentenza della CC.SU. del  5-10-94  non può essere ritenuta soddisfacente ed in senso contrario si sono infatti  gia pronunciate altre sezioni della Corte - Sez III 11-4-1997 imputato Vasco- C.C.  Sez III 4-11- 1994 imputato  Zagni  -C .C 17-12- 1996 n 8468 – C.C Sez III 11-4-1997  - nonché giudici di merito .

 L’accertamento della responsabilità andrà quindi verificato in concreto attraverso l’accertamento della consapevolezza della esistenza della situazione antigiuridica ,della conoscenza del protrarsi nel tempo dell’offesa al bene giuridico protetto e della sua esposizione a pericolo di ulteriore degrado , nonché della volontarietà della persistente condotta del soggetto.

 

E nel caso di specie non può dubitarsi del fatto che   i dirigenti e gli amministratori,succedutesi dopo la cessazione dei conferimenti, pur sapendo che esistevano numerose discariche abusive di rifiuti tossici, ed avendo di conseguenza consapevolezza del rischio di contaminazione del suolo,sottosuolo  e delle falde idriche  e della laguna  non abbiano posto termine né limite alcuno alla situazione giuridica in corso ed ai suoi  effetti .

Le prove in atti relativamente alle predette circostanze sono numerose e sono state presentate al tribunale dall’Ispettore del corpo forestale Spoladori ,dal maresciallo della Guardia di Finanza  Porcu  e da altri testimoni, nonche dai consulenti tecnici dell’accusa  .

Significativa, anche se non come prova , della conoscenza da parte degli imputati del grave  degrado ambientale di Porto Marghera è anche  la intera vicenda  definita American Appraisal nell’ambito della quale è emerso che  tutti erano a conoscenza del grave degrado ambientale .

1) sulla utilizzazione  delle falde

Dopo avere ricordato quanto affermato dal Tribunale sul punto e cioè la inutilizzabilità delle acque di falda-attinte per moto verticale dal percolato di discarica -  per qualsiasi uso  alimentare o antropico ,osserva  la pubblica accusa come risulti invece provato da numerosi documenti- vedi  indagine idrogeologica del territorio provinciale  del 1998- che in tutta l’area lagunare esistono pozzi che attingono alle prime falde del sistema idrogeologico veneziano,  più profonde di 10 metri, per un utilizzo dell’acqua a diversi fini.

Ne consegue che pur considerando la modesta quota di risorse attribuibili ai pozzi superficiali, contrariamente  a quanto  affermato dal Tribunale,anche attualmente, il complesso delle falde minori, oltre i 10 metri di profondità , era utilizzato proprio per usi alimentari  e continua ad essere utilizzato per usi antropici.

2) circa il  trasferimento degli inquinanti e le  caratteristiche idrogeologiche del sottosuolo del petrolchimico

 Dopo avere ricordato che,secondo il Tribunale ,le acque di falda risulterebbero pressoché  stagnanti  e la permeabilità  complessiva del sottosuolo bassissima , dell’ordine di 10-4 cm/S ,fino ad una profondità variabile tra i 2 ed i 6 metri , per la presenza di materiale di riporto e di  rifiuti fangosi , ed  a causa  del banco di sabbia  prevalentemente fine  e limoso , tra gli 8 e i 15 metri , rileva il P .M come il tribunale abbia utilizzato un valore  errato perché ha confuso l’unità di misura , utilizzando l’unita cm/s anziché m  /s .

In ogni caso i valori di questo ordine di grandezza rientrano tra quelli di grado medio con drenaggio buono.

 

 Osserva ancora il P:M come da questa erronea valutazione del tribunale  ne conseguono altre  e come in ogni caso la complessità delle indagini,in relazione alla variabilità del terreno, renda comunque difficile un accertamento preciso dei valori di permeabilità .

 Le affermazioni del Tribunale comunque si pongono in contrasto con quanto dallo stesso successivamente ritenuto –vedi pagina 522 –525- laddove si da atto del fatto che la contaminazione riesce ad attingere le falde acquifere immediatamente sottostanti lo strato di caranto, sino a raggiungere il secondo acquifero  ad una profondità superiore ai 20 metri.

Contraddittoria è anche  la affermazione del Tribunale laddove, prima riconosce in astratto la idoneità delle acque di falda ad essere oggetto di tutela penale ai sensi degli art 439-440 c. p. in quanto la destinazione alla alimentazione non implica certo la potabilità delle acque di falda   e poi  lo esclude in concreto, affermando che la ragione della esclusione consiste nella circostanza che si tratta di acque di falda inutilizzate per il consumo umano  . Non è poi vero che la portata delle acque di falda sia insignificante in quanto se si parla dell’acquifero superficiale solo dal Petrolchimico escono 4 l/s (per quanto inquinati)che vuol dire  345600  litri / giorno  , e 126 milioni di litri/anno.

 E ci sono poi le centinaia di pozzi ,fino a 10 metri ,citati dalla provincia, certamente  di interesse pratico anche se modesto .

 Ed ancora male interpreta il Tribunale le conclusioni cui perviene il consulente tecnico  della difesa, relativamente alla bassa portata ed alla cattiva qualità originaria delle acque  ,che le renderebbe inutilizzabili a  prescindere dall’inquinamento, e cioè anche se l’inquinamento non sussistesse, in quanto estende la predetta valutazione del consulente Dal Prà, riferita solo  alla falda superficiale, al complesso di falda superficiale, prima falda e seconda falda .

  Ed infatti, a conferma dell’errore in cui è incorso il tribunale, si evidenzia  come  la salinità della seconda falda non risulta  sussistere .

 

In ogni caso  deve osservarsi come le acque salmastre possano essere utilizzate per uso agricolo sopportando alcune coltivazioni  elevate quantità di sali , per cui anche le acque salmastre –senza contare la dissalazione –costituiscono una risorsa per l’uomo a  meno che non siano inquinate  .

 Anche la affermazione ,secondo cui la portata massima estraibile è di un decimo di litro al secondo e quella secondo cui l’utilizzo delle acque sotterranee finirebbe per richiamare acque salate , si riferisce solo  alla prima falda ed  è informazione di carattere marginale , ristretta  all’area indagata, che difficilmente può essere estrapolata all’intero stabilimento  considerata la notevole complessità e diversità dei depositi presenti  -vedi  sul punto la relazione  Aquater-Basi-96 pagina 25 -

 Ed egualmente la affermazione, secondo cui l’utilizzo per i primi 30 metri delle falde, non sarebbe ipotizzabile, perché in tempi brevissimi si prosciugherebbero a causa del loro ridotto spessore , è affermazione apodittica e indimostrata.

Si deve quindi concludere che le dimensioni adottate dalla difesa per proporre i propri modelli sono minimali e  che il Collegio è stato indotto  in errore .

Erronea  e travisante è stata poi anche la valutazione del Collegio  circa l’andamento dei flussi sotterranei.

 

Il Tribunale ha infatti ritenuto che l’impatto degli inquinanti, veicolati dalle acque di falda  sottostanti le aree di discarica interna , sulle acque e sui sedimenti dei canali finitimi all’area di insediamento del plesso industriale ,secondo un processo di trasferimento orizzontale , avrebbe un andamento degradante verso sud est, salvo il rilievo che le acque di impregnazione , e cioè la  falda superficiale , potrebbe degradare  anche verso Nord.

 Ed invece risulta incontestato, dalla ricerca Aquater Basi 96 e 2000, che le falde hanno un andamento centrifugo, in particolare nella zona di ponente dell’area di insediamento del Petrolchimico,corrispondente   alle aree in cui si trovano le discariche isola 31 e 32 .

  Anche la affermazione secondo cui, il flusso del primo acquifero verso la laguna è insignificante   perché nella peggiore delle ipotesi si tratta di 4 L/S lungo tutto il perimetro dell’area di insediamento del plesso industriale ,non è condivisibile  in quanto in ogni caso 4l/s fanno 120.000 metri cubi /anno.

 

E comunque la ridotta mobilità delle acque al contatto  tra falde e acqua di mare, che è del tutto ovvia per ragioni fisiche ed idrodinamiche , specie con i gradienti in gioco, è comunque dell’ordine  di qualche metro / kilometro.

Il trasferimento orizzontale seppure lento comunque avviene e come dimostrato dai flussi registrati da Aquater Base 96 e 2000.

Occorre poi ribadire  che i 4 L/S non escono dalla prima falda ma da quella superficiale  e che i anche in questo caso il Tribunale è incorso in equivoci ,utilizzando spesso il termine generico di falda del Petrolchimico e non è comprensibile  la ragione per cui il Tribunale abbia considerato ancora più basso il flusso delle acque sotterranee  ed affermato che le stime degli esperti indicano un valore approssimativo della portata della prima falda , lungo tutta l’area del Petrolchimico dell’ordine di 4/litri  al secondo .

 

 I dati elaborati dalla struttura pubblica ,sulla base di elementi conosciuti in letteratura e contenuti nel Piano direttore 2000 , avrebbero comunque dovuto essere confrontati e verificati con i dati strumentalmente attestati dai puntuali rilievi Aquater Basi che sono certamente più completi e aggiornati .

 Deve comunque essere ribadito secondo l’accusa  che i 4l/s non escono dalla  prima falda  bensì  da quella  superficiale  e che il consulente della accusa Nosengo ha utilizzato gli stessi dati  del consulente  Francani  ,giudicandoli come valori minimi  di un range in realtà più ampio .

 Indimostrata è infine la affermazione secondo cui , oltre alla bassa permeabilità del sottosuolo,alla stagnazione delle falde sottostanti  le discariche interne, alla portata insignificante della falda stessa  concorrerebbe ad escludere l‘apporto inquinante della acque di falda (per quanto riguarda sedimenti e acque dei canali lagunari a tale  area finitimi)  la  enorme diluizione   che comunque le stesse subiscono ad opera di altri apporti  .

 

 La affermazione relativa alla diluizione si basa sua un errata interpretazione  del lavoro del prof Perin che indica un valore di apporto  dalla gronda lagunare di 600 m c/s come corrispondente all’apporto massimo ,mentre nella relazione Francani cui si riferisce il Tribunale questo valore viene considerato un valore medio, con la conseguenza che il ragionamento relativo alla enorme diluizione risulta errato.

Il Tribunale ha infine omesso di considerare che in ogni caso la pretesa -ma inesistente diluizione-  potrebbe riguardare solo le acque superficiali  e non certo quelle della falda piu profonda .

 

Conclusivamente risulta accertato che le falde hanno capacità di movimento ;

che la falda superficiale raggiunge i canali perimetrali con la velocità almeno di 4l/s e  che dove manca il caranto  inquina ,con trasferimento verticale , la prima ed in misura piu ridotta anche la seconda falda ;

che  la prima falda a sua volta  , dotata  di gradiente generato dagli afflussi provenienti dalla sue zone di alimentazione  poste a monte, si muove dove può e cioè verso i canali perimetrali  abbastanza profondi  da raggiungerla  e, se vi sono ostacoli  e permane un gradiente in direzione diversa da quella generale NW-SE ,la prima falda si muove in  altra direzione( la citata direzione Nord )  secondo il ben noto, in idraulica, fenomeno del rigurgito , che è il moto retrogrado di un flusso  ostacolato.

 

La sentenza conterrebbe dunque errori e contraddizioni e trascurerebbe le valutazioni di  American Appraisal , dei  dati Aquater base 95-96-2000 ,né tiene in alcun conto le valutazioni e note critiche del prof  Nosengo, che ha  ritenuto le indagini svolte insufficienti a valutare correttamente sia la permeabilità  del terreno come la validità dei modelli di simulazione.

 

3.9.1 Trasferimento orizzontale di inquinamento verso la laguna e contaminazione della falda  sottostante il Petrolchimico e dei suoli.

 Osserva il P.M come, secondo il Tribunale, risulti incontroverso che da tutta l’area del Petrolchimico derivi un apporto per moto di trasferimento orizzontale dalla prima falda verso i canali della zona industriale  di quattro litri al secondo .

 Quantitativo solo apparentemente piccolo perché corrisponde  a 345600 litri al giorno  ed in termini di apporto annuale a 126 milioni di litri  all’anno .

 

Le misure di concentrazione delle diossine nelle acque sottostanti il petrolchimico , effettuate a cura dell’Enichem in  relazione al disposto del DM 471/99 sulle bonifiche.

 

Le analisi sulle acque sottostanti il Petrolchimico sono state fatte   solo per 6 campioni  anche sulle diossine e ,su 3 campioni, sono state rilevate concentrazioni superiori  ai limiti di cui alla tabella  del DM 471/99, di cui per un campione in modo molto elevato .

 In un campione è stata rilevata anche la presenza della diossina 2,3,7,8 –TCDD ad elevato livello.

 E se da un controllo su solo 6 campioni è risultato un superamento elevato in due casi, non può considerarsi che il superamento sia un fatto solo sporadico e raro,secondo calcoli statistici il superamento dei livelli potrebbe essersi verificato in un percentuale compresa tra il 20% e  l’80 % e quella del livelli piu elevati potrebbe essere stimata come compresa tra circa il 9 %e il 67 %.

 L’intervallo dei valori misurati è tra 2.31 p g /L(I-TE) e 634 p g/L(I-TE) e la media è circa 112 p g/ L(I-TE) ( anche non considerando il dato piu elevato la media risulta di circa 8 PG/I (I/TE) con un valore sempre molto elevato.

  L’appello contiene quindi una descrizione per ciascun campione di acqua dei singoli valori  delle diossine misurate .

 

L’impatto del trasporto verso la laguna di 4 litri al secondo delle acque sottostanti il petrolchimico

Anche il valore minimo misurato nelle acque di falda pari a 2,31 p g (I-TE/litro)è superiore  al valore limite  proposto dalla Commissione  consultiva tossicologica  nazionale  (CCTN) per gli scarichi di PCCD e PDDF nei corpi idrici pari a 0,5 p g(I-TE/litro).

Con riferimento alla contaminazione media dell’acqua di falda ,di circa 112 p g/I (I-TE) ed un rilascio di 4 litri /secondo verso i canali ovvero 126 milioni di litri/anno, il quantitativo di diossine trasportato verso i canali risulterebbe dell’ordine di circa 14 miliardi di p g (I-TE/anno) pari  a circa 14 mg I-TE /anno).

 Questo apporto inquinante diventa significativo con riferimento alla gia esistente contaminazione dei sedimenti della laguna di Venezia.

 

Anche un solo milligrammo ( corrispondente a un miliardo di picogrammi) può contaminare ogni anno, ad un livello pari a10 volte quello di fondo, un quantitativo di sedimenti pari a100 tonnellate .

Ed un milligrammo rappresenta un valore che è 14 volte  inferiore a quello che sarebbe immesso in laguna nell’arco di un anno con il trasporto di 4 litri / secondo di acque contaminate al valore medio misurato a cura dell’ENICHEM .

 A pagina 526 delle sentenza si dice che le falde di cui si discute non possono fornire portate compatibili con qualsiasi l’uso e ciò è certamente vero,soprattutto per l’inquinamento delle acque inaccettabile secondo il DM 471/99.

 La portata è invece un fattore molto  meno rilevante in quanto possono esistere usi che richiedono un quantitativo limitato   di acqua al giorno.

 

La contaminazione dei suoli del petrolchimico

Premesso che i dati di contaminazione del suolo da diossine sono presentati in termini di ITE, senza differenziare i vari congeneri ,risulta che i livelli di diossine e composti simili  rilevati sui diversi strati di suolo nell’indagine promossa  da Enichem, in relazione a quanto previsto dal DM 471/99 su un totale di 30 siti campionati superino in otto siti il livelli previsti dal D. M. citato  (limite per le aree industriali pari a 100 n g I-TE/kg) ;

 che in 6 campioni la contaminazione  supera 1000 n g I-TE/kg con valori massimi di circa 3300,3748 e 3507 n g I-TE/kg ,piu di 30 volte superiori  ai limiti .

Trattasi di percentuali di superamento dei limiti non irrilevanti che dimostrano come  esistano strati non superficiali dell’area del Petrolchimico contaminati a livello superiore della cosiddetta Zona B di Seveso .

 

Trattasi di valori di inquinamento del suolo che trovano corrispondenza in quelli dell’acqua, in quanto, tenuto conto della scarsa idrosolubilità delle diossine e della loro elevata affinità con il carbonio organico contenuto nel suolo , i  livelli nell’acqua  risultano inferiori piu di 10.000 volte rispetto a quelli del suolo .

Ed i livelli accertati nell’ acqua e nel suolo sono coerenti con questa ipotesi.

 Segue nell’appello l’elenco degli 8 campioni in cui sono stati rilevati i valori superiori ai limiti di cui al D. M 471/99.

In conclusione : per quanto riguarda le acque sottostanti il Petrolchimico i dati indicano per i 6 campioni livelli da 2.31 p g I- TE litro a 634 p .g I- TE litro  con un  valore medio di circa 112 p g I-TE /litro  , 3 campioni su 6 superano  il limite del DM 471 /99 e tutti i campioni hanno concentrazioni non compatibili  con il criterio proposto dalla  Commissione Consultiva Tossicologica nazionale per gli scarichi idrici .

Calcoli elementari indicano che 4 litri al secondo corrispondono  a 345.600 litri al giorno e circa 126 milioni di litri /anno.

Un tale trasferimento d’acqua inquinata comporta la contaminazione di 100 tonnellate di sedimento ad un livello pari a10 volte quello di  fondo.

 

 Le concentrazioni rilevate nelle acque sono quelle che erano prevedibili in base al rapporto con il grado di contaminazione del  suolo e sottosuolo.

I suoli inquinati rilasciano inquinanti nelle acque ed anche se il rilascio d’acqua è quantitativamente limitato risulta  di notevole impatto ambientale in relazione alla tossicità delle sostanze in esame.

La affermazione del tribunale sul punto non può di conseguenza essere condivisa, perché se è vero che il  flusso è limitato  è anche vero che il carico inquinante è rilevante e che comunque il flusso d’acqua in un anno è considerevole..

 

II parte -sentenza

Capitolo quarto                                      

La compromissione del sedimento dei canali dell’area industriale ( rilevante in termini di disastro colposo e come antecedente dell’avvelenamento del biota su di esso  vivente

4.1 Premesse

Secondo il P.M l’evento disastro  consisterebbe nella alterazione   dell’ecosistema dell’area  industriale e nella contaminazione dei comparti ambientali che lo costituiscono attinti dal catabolismo del Petrolchimico

Secondo l’ipotesi accusatoria il sedimento dei canali dell’area industriale  sarebbe stato attinto dal catabolismo del Petrolchimico-  con effetti rilevanti in termini di disastro colposo - e dal sedimento la contaminazione si sarebbe estesa  al biota ( su di esso vivente) con effetti rilevanti in termini di avvelenamento

 L’inquinamento sarebbe causato da microcontaminanti – organici ed inorganici- in particolare diossine che , per  la costante presenza di “octaclorodibenzofurani,”troverebbero la loro matrice nelle filiera del cloro ed i conseguenza nella produzione del Petrolchimico

 La cosiddetta impronta delle diossine denota la matrice della contaminazione,  ed è improbabile che la matrice possa essere individuata in altro tipo di produzione, in quanto le diossine derivanti da altri processi   produttivi, diversi dal Petrolchimico, sarebbero diversamente connotate.

 La circostanza è confermata dalla corrispondenza delle impronte caratteristiche del sedimento dei canali inquinati con quelle dei pozzetti interni al plesso Petrolchimico .

 

 L’accertamento avente per oggetto la presenza nel sedimento dei canali delle diossine , dei policlorobifenili ( PCB), degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) degli idrocarburi clorurati,ammine aromatiche, nitrofenoli e metalli pesanti,dimostrerebbe la sussistenza dell’evento di danno ambientale disastroso

Per dimostrare il grado “disastroso” dell’inquinamento vengono fatti confronti tra il sedimento  dei canali dell’area industriale ed il sedimento dei canali dell’isola di S.Erasmo

Per molti campioni risultano superati, ora per un parametro ora per più parametri , i limiti della classe B) e talvolta quelli della classe C) del Protocollo d’Intesa 1993 del Ministero  dell’Ambiente

In particolare risulterebbero molto inquinati i sedimenti del canale Lusore Brentelle- antico corpo ricettore degli scarichi di provenienza del Petrolchimico- il bacino di evoluzione del Canale Industriale  Sud  , per la concentrazione di IPA, la darsena della Rana per la concentrazione di IPA di esaclorobenzene e  di PCB.

 

Cause di contaminazione del sedimento sarebbero in sintesi :

1) gli scarichi  incontrollati nel canale Lusore Brentelle , antico corpo ricettore di quelli attivi fino alla metà degli anni settanta., salvo per quel che riguarda  taluni scarichi superstiti;

2) lo smaltimento delle peci clorurate  trasportate con autobotti e bettoline  in  tutte le acque dei canali industriali della prima  e della seconda zona industriale;

3) gli apporti inquinanti recati fino all’attualità dall”SM15 ( scarico principale  di provenienza del Petrolchimico) ritenuto responsabile della contaminazione dei cd “Bassi Fondali” antistanti l’area di insediamento del plesso industriale  -dove  comunque anche secondo l’ accusa i valori di PCDD/F si riducono di tre ordini di grandezza rispetto  a quelli della prima zona industriale.

 

Le prime due cause sarebbero pertinenti a fatti meno recenti, la terza a fatti più recenti anzi al presente  , in particolare l’accusa osserva come nelle acque in uscita dallo scarico SM15 si rinvengano quelle sostanze che ,in concentrazioni significative, si trovano nei sedimenti ,all’esterno del Petrolchimico , in primo luogo  le diossine.

In tesi di accusa sarebbero attuali apporti rilevanti di inquinanti

 In particolare la immissione di diossine  nelle acque dei canali finitimi al plesso industriale  si sarebbe protratta  almeno fino al1998.

 

Lo proverebbe il fatto che un campione prelevato dal Magistrato delle acque nel 1998 avrebbe rilevato un valore di concentrazione – 150 picogrammi /litro- 300 volte superiore al valore limite per gli scarichi industriali, proposto dalla Commissione consultiva tossicologica nazionale (per diossine e furani) pari a 0,5 picogrammi /litro.

Gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del  noto divieto di diluizione  - art 9 quarto e settimo comma L n.319/76, come modificato dalla L n .650/79- stante la confluenza di acque di processo  e di altre correnti nel principale scarico   del plesso industriale  prima  del recapito nel corpo ricettore.

 

Osserva ancora  l’accusa  come decine di migliaia di bollettini di analisi interne – dimostrerebbero il superamento dei limiti di legge  anche in epoca recente .

L’imputazione  addebita agli imputati lo scarico di fanghi, di catalizzatori esausti e di altri sottoprodotti di risulta attraverso gli scarichi SM2e SM15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai limiti di accettabilità previsti dal D.P.R n. 962/1973, normativa speciale per la con terminazione lagunare  e tale condotta si porrebbe così in nesso causale con il disastro  e l’avvelenamento del biota

Un ulteriore addebito di colpa , pertinente la disciplina dei rifiuti ma rilevante anche  per quanto riguarda la gestione degli scarichi nelle acque , è  quello  conseguente alla presenza di C .V. M nelle acque di processo e nei reflui  di provenienza dal Petrolchimico ,che . comporta la qualifica di tutti i rifiuti recapitati nel corpo ricettore  nel corso del tempo, anche quelli convogliati  attraverso gli scarichi SM15 e SM2, come rifiuti tossico nocivi

Tanto consegue al fatto che gli imputati non avrebbero dimostrato che ,nelle acque di processo provenienti dagli impianti CV22/23 e CV 23/24 le concentrazione del CVM fosse compatibile con le concentrazioni limite relative alla diossina sostanza nominate nella tabella 1.1 allegata alla delibera del Comitato Interministeriale  27-7-1984.

 

Tutti i reflui avrebbero dovuto essere smaltiti come rifiuti tossico nocivi ,in forme adeguate a quelle   indicate dal d.p.r 915/1982( termodistruzione) e non nelle forme adeguate alla disciplina relativa agli scarichi nelle acque

Le condotte sopradette integrerebbero i reati di disastro innominato per i danni interessanti l’ecosistema nel suo complesso,nonché  quelli di adulterazione e avvelenamento, estendendosi la contaminazione attraverso l’inquinamento del biota alle risorse alimentari costituite da pesci  e molluschi, suscettibili di essere immessi nel mercato attraverso la pesca abusiva praticata  nei luoghi . Il pericolo  per l’incolumità pubblica  sarebbe attuale e il reato di disastro innominato sarebbe  permanente in atto

 

4.2 Illustrazione delle tesi di accusa  sulla compromissione del sedimento dei canali dell’area industriale  veneziana a causa dei microcontaminanti  inorganici ed organici rilevante in termini di disastro  innominato colposo

Illustrazione delle tesi di accusa attinenti alla sussistenza   di una relazione tra tale evento di danno e gestione del catabolismo nelle acque del <petrolchimico (riferibili agli imputati)

 Sinossi:

a) i dati della  contaminazione

b) profilo storico  degli scarichi attraverso il riferimento  alla autorizzazioni rese dal magistrato  alle acque

c) dell’attuale rilevanza dell’apporto costituito  dal flusso dell’SM 15” principale scarico di provenienza del petrolchimico intermini di contaminazione da diossine 

d) tipicità dell’impronta delle diossine di risulta dalla produzione del cloro

e) studio dei profili di congenere  delle diossine presenti  nei campioni di sedimento prelevati dai canali dell’area industriale 

f) confronto tra tali impronte e quelle relative all’esito di analisi di campioni di fanghi prelevati da pozzetti del sistema fognario del Petrolchimico

 

Alcuni dati sono incontroversi

La contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale esiste ed  è quella descritta nel “Piano Direttore  1989 della Regione Veneto” che descrive la situazione qual’era negli  anni della transizione  del petrolchimico da Montedison a Enichem  evidenziando anche che la grave situazione che aveva portato  l’ecosistema lagunare vicino al collasso  agli inizi degli anni 70,appariva in miglioramento  ,grazie agli interventi di depurazione   già avviati  e al miglioramento e riconversione delle tecnologie industriali  , ma non facilmente superabile per quanto riguardava  la componente inglobata nei sedimenti.

Lo stato di compromissione del sedimento dei canali dell ’area industriale è attribuibile al catabolismo industriale risalente nel tempo ( vedi consulenti tecnici della  accusa  Bonamin e Rabitti e deposizione teste Pavanato e Ferrari ) tutte convergenti nel riconoscere che la maggior parte delle sostanze inquinanti  è stata immessa in laguna  nel ventennio 50-70

 

Gli esperti dell’accusa – Baldassari - Bonamin e Fanelli hanno accertato la presenza degli inquinanti di derivazione da processi di lavorazione industriale oggetto di interesse processuale ( PCDD, PCDF, IPA, esclorobenzene , metalli pesanti) e hanno individuato, nel contesto dell’intera conterminazione  lagunare,  sei distinte aree di rischio , seguendo l’andamento della concentrazione degli inquinanti e rilevando ,come da tutti atteso ,per tutti gli inquinanti concentrazioni più elevate nella zona industriale.

Nel canale Lusore Brentelle  hanno rilevato alte concentrazioni di mercurio ed  hanno altresì rilevato, nei campioni di sedimento dei canali dell’area industriale, diossine che recano l’impronta del cloro

 

Tanto premesso – trattasi di circostanze sostanzialmente incontestate - osserva  il Tribunale  come sia essenziale nel processo accertare se tale situazione sia riferibile a fatto degli imputati-se non altro in termini di aggravamento della contaminazione preesistente , e come  altrettanto essenziale nel processo sia il verificare se tale situazione possa dirsi obiettivamente riferibile al Petrolchimico degli anni interessanti l’imputazione .

 

Procede quindi il tribunale  alla analisi del consulente dell’accusa Racanelli

Premesso che l’analisi è stata orientata  su policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani PCDD/PCDF, policlorobifenili, PCB, idrocarburi policiclici aromatici IPA, idrocarburi clorurati, ammine aromatiche nitrofenoli  pesanti  e metalli pesanti; che degli esiti è stata fatta una valutazione secondo  i parametri del Protocollo d’Intesa del  1993; che nessuna distinzione è stata fatta tra la Prima e la Seconda Zona industriale ; che  sono stati assunti i dati di sedimenti superficiali campionati dal 1992 a tutto il 1999  con  conseguenti differenze  influenzate dalle variabili spaziali , temporali , analitiche – dipendenti queste ultime dai risultati ottenuti da diversi   laboratori , per cui sono state considerate significative solo le differenze  tra dati che variano per più di un ordine di grandezza; che quale parametro di confronto sono stati presi i campioni prelevati in prossimità dell’isola di S. Erasmo; che nella zona industriale sono stati fatti campionamenti in sette punti denominati rispettivamente da S1, a S 7 e tutti  raffrontati ai parametri  di cui alla colonna A),B)e C) del Protocollo d’Intesa  1993 del Mistero dell’Ambiente; sulla base delle indagini tecniche eseguite  seguendo i criteri  sopraindicati  si sono avuti i seguenti risultati: la presenza di Mercurio in misura superiore ai parametri sopraindicati nel punto S 7- sedimento del Canale Lusore – Bretelle- antico corpo recettore degli scarichi di provenienza del vecchio petrolchimico- la presenza di esaclorobenzene HCB – sotto prodotto delle produzioni di interesse processuale , composti clorurati – e presente in dosi massicce  nelle peci clorurate.

 

In base a tali dati ritiene l’accusa che la contaminazione del sedimento dei canali della zona industriale  sia causato da pratiche di smaltimento dei rifiuti mediante getto diretto nei canali  mezzo di autobotti e bettoline  di provenienza del Petrolchimico

 Quanto   sostenuto dall’accusa non risulta in alcun modo provato per quanto riguarda il periodo di gestione del Petrolchimico da parte degli imputati:  –1970 –2000.

Consta  l’esatto contrario

 

Le analisi evidenziano poi  in particolare  percentuali  che superano le soglie del citato protocollo  d’intesa nei policlorobifenili –P C B- , nei Policlorodibenzodiossine  policlorodibenzofurani  PCDD/PCDF, negli Idrocarburi policiclici aromatici tossici  IPA , negli IPA tossici  nel piombo, nel rame , nell’arsenico - l’arsenico supera in quattro punti il livello dei protocollo – ed  il  c .t  evidenzia che l’arsenico è contenuto nelle ceneri di pirite- fanghi rossi- usati in antica data per l’imbonimento dell’area di sedime della zona industriale.

Conclusivamente ora per un parametro ore per l’ altro ,talvolta per più parametri i  campioni di sedimento , prelevati dai canali della zona industriale , superano i limiti di cui alla classe B del Protocollo d’intesa.

Per i campioni di sedimento superficiale prelevati dai punti sotto indicati risultano superati i limiti di cui alla classe C dello stesso protocollo

 

Il sedimento del canale Lusore  Brentelle presenta un grado di inquinamento più elevato che non è classificabile in base al protocollo e dovrebbe essere gestito come “rifiuto  tossico nocivo “

Segue quindi l’esame della analisi  del consulente dell’accusa  Ferrari

Il c t. accerta  innanzitutto  che gli scarichi erano autorizzati dal Magistrato alle Acque ;

che  la produzione dei clorurati avviene nel vecchio Petrolchimico .e che gli scarichi versavano direttamente nel canale Lusore Brentelle  senza alcun tipo di trattamento;

che verso la metà degli  anni 70 la produzione dei clorurati si spostava nell’area del nuovo Petrolchimico e  che a questa stessa epoca risalgono  i primi impianti di trattamento e termocombustione dei reflui clorurati  denominati CS30 e CS28.

 Il consulente ha poi indicato, elencandoli, gli impianti che  scaricavano direttamente  nel canale Lusore –Bretelle :

A impianto cloro- soda avviato nel 1951 e chiuso nel 1972

B impianto di produzione del CVM e cioè il CV1- chiuso intorno al 1970-  il CV10 chiuso   nell’81

C altri impianti, fino alla realizzazione dell’impianto chimico fisico biologico SG31 avvenuta nel 1978;

D  le produzioni di tetracloroetano e trielina ,cloruro di benzile  e benzale scaricavano  le acque reflue con recapito nel canale Lusore B fino all’avvio dell’impianto di strippaggio dei clorurati CS30

 

E in realtà incontroverso che il canale Lusore Brentelle  sia stato gravemente compromesso dal catabolismo del Petrolchimico  e ciò nel tempo, per cui si sarebbe dovuto verificare se si trattava   di tempi storici che trascendevano o meno l’imputazione

L’accusa non si è invece  posto il problema di accertare  se si tratta di tempi storici che superino quelli dell’imputazione ,né di verificare , se vi sia una relazione tra la condotte degli imputati ed  una qualche forma di aggravamento della contaminazione preesistente.

 

 Sul piano normativo  viene evidenziato che la legislazione speciale per la salvaguardia di Venezia – l.366/73  l .171/1973  DPR 962/73 – entra in vigore tardivamente  essendo stati i termini per la installazione di impianti di depurazione dei reflui in laguna prorogati  fino a tutto l’1-3-1980 e  che prima di questa data non possono considerarsi operativi i parametri di  accettabilità degli scarichi di cui alle tabelle  allegate al D. P R. 962 /73  e che  neppure  altrove opera la legge Merli

 Consta che al 1-3-1980 gli scarichi di provenienza del Petrolchimico . erano muniti di impianti di trattamento delle acque di scarico

 

 Secondo l’ipotesi accusatoria .l’inquinamento dei canali e della laguna nella parte antistante la zona industriale – causato dalla presenza  di diossine e idrocarburi clorurati di risulta della produzioni del P. sarebbero stati causati per il passato da:

a ) scarichi      nelle acque di reflui senza trattamento

b) evacuazione diretta in laguna di rifiuti clorurati a mezzo di bettoline e autobotti

Per l’epoca più recente invece dallo scarico S.M.15

 

Con riferimento a tale scarico  e premesso che i sistemi di trattamento sono rimasti sostanzialmente gli stessi ,salvo alcune migliorie nel 1995/ 98 a seguito di interventi della magistratura , viene evidenziato che  nello scarico S12 che poi confluisce in quello predetta erano stati fatti dei campionamenti ed era stato trovato un valore di concentrazione  pari a 150 picogrammi litro superiore  di 300 volta al limite degli scarichi industriali  proposto dalla Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale per diossine e furani che lo pone eguale a 05 picogrammi per litro che la diossina, rinvenuta nei bassi fondali, ha la stessa impronta di quella dei reflui di produzione dei DCE e CVM e degli altri idrocarburi clorurati provenienti dallo scarico SM15

 Gli esperti dell’accusa pervengono a ritenere che la fonte di contaminazione dei canali dell’area industriale debba essere individuata nella produzione del Petrolchimico e nei relativi scarichi perché le diossine  rinvenute nei sedimenti dei canali avrebbero la stessa impronta di quelle presenti nei reflui di derivazione  delle produzioni di DCE e PVC .

 

Viene quindi spiegato il procedimento attraverso il quale diventa possibile individuare la cosiddetta impronta delle diossine collegarle ad un determinato processo chimico.

Sinteticamente viene spiegato come la famiglia delle  diossine e dei furani è composta da 210 congeneri  e che usualmente vengono esaminati solo 17 congeneri , quelli  con tossicità più elevata  che viene correlata   mediante il fattore di conversione (TEQ tossicità equivalente )   a quella più pericolosa  2,3,7,8-TCDD /tetraclorodibenzodiosssina- classificata come cancerogena .

 I 17 congeneri vengono poi ridotti a 10 omologhi  attraverso il grado di clorurazione    tetra –penta esa  epta e octa diossine  e furani ed in relazione al diverso processo produttivo che genera le PCDD/F varia anche la proporzione tra i predetti gruppi  di congeneri ,ciò che consente di identificare u profilo o impronta del PCDD/F ed associarlo da un determinato  processo chimico

Il collegamento e l’impronta avvertono  però i periti non è comunque paragonabile alla impronta digitale essendo certo meno precisa, peraltro le variazioni che caratterizzano i processi produttivi dello stesso tipo di quello considerato  inducono importanti variazioni  nel disegno di congenere e portano alla configurazione di profili relativamente diversi, che comunque mantengono la loro peculiarità o tratto caratteristico.

 

Sinteticamente i confronti effettuati dagli esperti consentono di accertare   che nella impronta  dei fanghi  prelevati  nei pozzetti interni del Petrolchimico vi è prevalenza di OCDF- octaclorofurano e la stessa prevalenza viene notata  nei sedimenti superficiali di tutta la  zona industriale

 Questo , unitamente  ai dati di letteratura  in materia di prevalenza di OCDF nei reflui di provenienza dalla filiera del cloro ,consente  all’accusa di ritenere che il Petrolchimico  sia la causa dell’inquinamento  di tutta l’area industriale , non essendo peraltro possibile individuare  nell’area interessata altri processi produttivi,responsabili della presenza del tipo di diossine PCDD/F rinvenute nei sedimenti dei canali  ,atteso che le diossine di risulta degli altri processi produttivi non sono in nessun modo connotate dalla presenza del  OCDF .

 

Ricorda a questo punto il Tribunale come uno studio del C .N. R perviene  a diverse conclusioni, escludendo  che le impronte dei sedimenti prelevati nei punti di campionamento siano sovrapponibili a quelle tipiche della produzione del CVM.

 Ritiene comunque l’accusa che i  profili e le impronte delle diossine di risulta delle lavorazioni del Petrolchimico  possono essere associate ad una impronta media  comunque peculiare , che  esclude la possibilità di individuare un’altra matrice della contaminazione ,caratterizzata dalla prevalenza di octoclorofurano  seguito da eptaclorofurano o  anche da octaclorodiossina

I  profili  e le impronte delle diossine di risulta delle lavorazioni del Petrolchimico non possono essere associate ad una impronta tipica però possono essere associate ad una impronta media  comunque caratteristica peculiare  ,tutti i sedimenti dei canali industriali  denunciano la stessa matrice della contaminazione  in quanto tutti i campioni dei sedimenti sono riferibile allo stesso insieme.

 

 Non si fa carico invece  l’accusa di datare  l’epoca della contaminazione  pur essendo tecnicamente possibile

  Osserva a questo punto il tribunale come  l’accusa trascuri due importanti evidenze che provengono dalla stessa analisi dei suoi consulenti :

 1)l’andamento delle concentrazioni delle sostanze  inquinanti  evidenzia una forte diminuzione procedendo da nord  verso sud , man mano che ci si allontana dalla prima  zona per avvicinarsi alla seconda zona industriale;

2) nello spazio antistante lo scarico SM15 –lo scarico principale di provenienza del plesso industriale ,dalla meta degli anni 70 ad oggi- i valori di concentrazione degli inquinanti risultano più bassi   di quelli rilevati nel sedimento di altri canali industriali .

Prima di  affrontare problematiche più complesse il Tribunale  ritiene di esaminare quella secondo cui la contaminazione è proseguita almeno  fino al 1998, con l’immissione di diossine attraverso lo scarico SM15 del Petrolchimico, ipotesi che ritiene non plausibile.

 

4.3  Definitiva  confutazione della tesi di accusa sulla rilevanza attuale dell’apporto costituito dal flusso del SM15 (scarico nelle acque di provenienza dal Petrolchimico dell’oggi)

Alla base dell’ipotesi accusatoria  sopra esposta ci sarebbero i risultati di un analisi di un prelievo fatto allo scarico S12- affluente nello scarico SM15-  in cui è stato rilevato un valore di concentrazione  pari a150 picogrammi /l, risultato 300 volte superiore al limite proposto  per gli scarichi industriali dalla CCTN( Commissione consultiva Tossicologica Nazionale per le diossine e furani  eguale a 0,5 picogrammi /l)

  Tali esiti  non sarebbero rilevanti secondo le condivisibili critiche del c. t della difesa Foraboschi che ha evidenziato: gli errori delle valutazioni fatte dalla accusa .

 

Innanzitutto si evidenzia che si tratta di un unico prelievo e non di campionamenti, fatto in un momento in cui la corrente andava alimentando l’impianto biologico e non all’atto di essere scaricata direttamente nel corpo idrico ricettore ; che il valore indicato è erroneo perché quando venne indicato il predetto valore limite 0,5 picogrammi/ litro nell’87, la misura di tossicità equivalente (TEQ) era calcolata  secondo i criteri EPA /87, adottando i quali la concentrazione dello scarico S12 risulta di 14 p picogrammi /l, e non di 151  p. g /l come  indicato dalla accusa adottando i criteri successivi EPA/89; che mancano altri rilevamenti tali da rendere il dato significativo,  mentre la stessa Commissione ritiene necessario disporre di un numero di rilevamenti statisticamente significativo;che non esistevano all’epoca, secondo la normativa italiana  limiti per le concentrazioni di PCDD/F nelle acque di scarico e  tanto meno nelle correnti interne inviate a trattamento cosi come lo era la corrente S12 al momento del campionamento; che il limite di cui sopra era stato indicato dalla Commissione , con riferimento ad un caso particolare molto diverso: ricaduta di polveri  esistenti nei prodotti di combustione derivanti  da un  impianto dall’ inceneritore della città di Firenze  ( per cui la situazione esaminata dalla commissione non era confrontabile con quella in esame; che comunque l’apporto inquinante era limitato –l’ accusa non si era fatta carico di indicare le conseguenza derivanti dalla  immissione delle diossine nella misura rilevata   attraverso lo scarico Sm15 – il consulente della difesa aveva invece dimostrato che il flusso di massa dello scarico S12 dati per buoni i risultati delle analisi risultava pari  a 6 microgrammi  all’ora  espressi in TEQ  1987.

 

In via esemplificativa venivano riportati alcuni esempi per dimostrare che l’apporto dello scarico SM15 non aveva  potuto essere  rilevante in termini di disastro

 Rilevava ancora  il Tribunale che   la portata delle acque , proveniente dagli impianti di produzione del Petrolchimico, trattate  dai suoi sistemi di depurazione e confluenti nello scarico finale SM15 è pari a circa 0,3 metri cubi /s e che non è fondata la affermazione  del c t. Ferrari secondo cui invece lo scarico SM15  sversa circa 12 metri cubi  al secondo di acque  

Risulta invero anche  dalla relazione del Magistrato alle acque che il flusso dello scarico SM15  era di 11 milioni di metri cubi ogni anno  volume che corrisponde ad una portata media di 0,3 metri cubi /s.

 Risulta ancora che lo scarico era stato regolarmente autorizzato e che erano stati imposti con le prescrizioni accessorie  controlli analitici e che  quello evidenziato risulta essere l’unico controllo positivo noto in materia di formazione di diossine.

 

 Ad integrare  la infondatezza dell’accusa sul punto vengono richiamate considerazioni che saranno  sviluppate poi  e che riguardano  la tesi dell’accusa- ritenute tutte infondate-  secondo cui gli scarichi erano stati effettuati in violazione del divieto di diluizione ;

il superamento dei parametri di accettabilità di cui al DPR n.962/1973 aveva determinato condizioni peggiorative dello scarico delle acque ;

la presenza di CVM nella acque di processo dei reparti CV22/23 e CV24/25 conferiva all’intero flusso in uscita dagli scarichi SM2 e SM15 il carattere di rifiuti tossico nocivi  con la conseguenza che  tutti i reflui di provenienza del Petrolchimico  dovevano essere gestiti  come rifiuti tossico nocivi e  non alla stregua delle valutazioni tecniche e di disciplina pertinenti agli scarichi nelle acque.

 

Nessun addebito può essere  fatto con riferimento ad epoca più recente- dal 1990 al 2000- risultando provato che  lo scarico inquinante del Petrolchimico  risulta attestato su valori medi inferiori al carico ammesso dai parametri tabellari  di riferimento

 Viene quindi ribadito prima di procedere analiticamente alla valutazione di tutti i passaggi che  secondo l’ipotesi accusatoria  i sedimenti  dei canali di tutta l’area industriale sono contaminati da microinquinanti inorganici ed organici,in particolare da diossine,che per la costante presenza della specie di octaclorobenzofurani  denunciano la loro provenienza dalla filiera del cloro e perciò del Petrolchimico :  e che quindi nella tesi accusatoria assume rilevanza centrale  il tema relativo alla impronta delle diossine .

 

4.4 Primi elementi di confutazione delle tesi di accusa sul tema della caratterizzazione delle impronte delle diossine

Innanzitutto rileva la difesa come i prelievi di campioni siano stati fatti da pozzetti  pertinenti a rami di impianti chiusi da tempo  e nei quali venivano convogliate acque meteoriche ed acque  di lavaggio ,non acque di processo.

Dall’80 le acque meteoriche vengono   raccolte in vasche ed inviate all’impianto di strippaggio CS30 dei clorurati  i cui fanghi vengono smaltiti nei forni dell’impianto CS28.

 Ciò pone innanzitutto un problema di rappresentatività  dei campioni di fango prelevati  nei pozzetti.

Comunque dalle analisi dei prelievi di fango effettuati dai consulenti della difesa negli stessi pozzetti in cui erano stati fatti i prelievi da parte dei tecnici del P. M ., orientate alla ricerca dei composti organo alogenati e dei PCDD/F risulta –  secondo i grafici  riportati alle pagine da 626-a 629 che ,contrariamente a quanto ritenuto dalla accusa,  le impronte delle diossine  rilevate nei pozzetti non hanno caratteristiche  proprie , essendo costituite da mescolanze eterogenee , comunque non rappresentative che vi sono differenze al confronto delle impronte caratteristiche del Canale Lusore- Brentelle - antico corpo recettore degli scarichi del Petrolchimico  e quelle del canale industriale Nord.

 

 Non solo le impronte  delle diossine rilevate nei pozzetti non hanno caratteristiche proprie ma anche non vi è corrispondenza con la distribuzione delle PCDD/F presenti nelle acque reflue dei processi produttivi .

Risulta invece  e ne danno atto gli stessi esperti delle difese che le impronte delle diossine  di cui ad un campione il  n.  4 – di cui peraltro l’accusa non aveva fornito i risultati- corrispondono esattamente a quelle dei sedimenti del canale Lusore- Brentelle

I composti che sono stati trovati nel canale Lusore - Brentelle  sono stati trovati in tutti i pozzetti esaminati

Le impronte del canale Lusore –Brentelle  sono diverse da quelle  degli altri canali - canale Industriale Nord, canale Brentella, canale Salso , canale San Giuliano

 L’impronta del pozzetto n 4 –fango di fognatura del CV10-11- è del tutto identica all’impronta del canale Lusore –Bretelle.

 

Le impronte dei campioni prelevati dagli altri pozzetti  del sistema fognario TS1 e CS3 non sono sovrapponibili a nessuna altra impronta

 Tali rilievi  tecnici pongono il serio problema di verificare la corrispondenza delle impronte rilevate dove transitavano acque reflue convogliate nei pozzetti del vecchio Petrolchimico. con le impronte dei canali diversi dal Lusore Brentelle 

 

 4.5  Ancora sulla questione delle impronte delle diossine confutazione della ipotesi che individua nel Petrolchimico  la matrice della contaminazione  del sedimento dei canali della area industriale, indistintamente considerata

 Osserva il Tribunale come la difesa abbia  sostenuto che la  identità delle impronte  rilevate nel sedimento del canale Lusore  Brentelle  con quelle tipica della produzione del CVM e quelle rilevate nelle analisi dei campioni di fanghi prelevati dagli scarichi SM15 , SM 12 ,S M 22- vecchi e nuovi scarichi del Petrolchimico - consente di ritenere che  le caratteristiche delle emissioni inquinati del Petrolchimico  rimangano almeno tendenzialmente uniformi nel tempo  in contrasto con l’ipotesi formulata dall’accusa  secondo cui invece le differenze riscontrate tra tali impronte – in particolare tra quelle dei canali della prima e della seconda zona industriale-   derivano da variazioni indotte  nel tempo delle caratteristiche dei processi produttivi del medesimo tipo di quello considerato (petrolchimico filiera del cloro).

 

Procede quindi il Tribunale ad elencare le ragioni della tesi difensiva elaborata sulla base della consulenza del c. t . Vighi,  che giustifica le conclusioni di cui sopra

Il consulente delle difese attraverso il confronto tra le impronte  dei sedimenti inquinanti nelle diverse aree della con terminazione lagunare ed in particolare nel campo della prima e seconda zona industriale –  evidenzia la differente matrice della contaminazione ;

 muovendo dall’ambito della prima zona verso la seconda zona industriale evidenzia altresì che ,  per tutti gli inquinanti di interesse processuale, i livelli di concentrazione tendono nettamente a diminuire .

 Sulla base delle accertate differenze  è possibile affermare che le due aree ,quella della prima  zona industriale  e quelle relative alla seconda  zona industriale sono soggette a fonti diverse di contaminazione da PCDD/F

 

 La prima zona industriale ha risentito di emissioni che presentano caratteristiche diverse  da quelle degli scarichi del Petrolchimico  , le quali  sicuramente caratterizzano l’impronta dei sedimenti del canale Lusore Brentelle

 Ciò confuta la tesi accusatoria della identità della  causa della contaminazione di tutti i sedimenti dei  canali della area industriale  indistintamente considerata , da identificarsi nel catabolismo delle acque di provenienza del Petrolchimico .

 

 La evidenza di tali differenza  viene giustificata dalla accusa  con variazioni indotte nel tempo nel ciclo produttivo

E vero che le impronte variano  e non sono riconducibili ad una unica impronta bensì ad una impronta media ma ciò perché  varia nel tempo il processo produttivo   

 Nella sua analisi il consulente della difesa utilizza un data-base di  1300 campioni di sedimenti  e come il consulente dell’accusa segue il metodo di  analisi delle componenti principali, applicandolo ai dati dell’intero data base

 Descrive le analisi  dei componenti principali  , con  un metodo di analisi statistica che consente di trasferire   in un sistema a due o tre dimensioni quindi graficamente rappresentabile la maggiore o minore analogia

Inoltre elimina alcuni dati che avrebbero potuto falsare   gli esiti, escludendo tutti quei campioni che sono caratterizzati da valori inferiori  al limite della rilevabilità  analitica  per almeno 6 congeneri

 Da tali analisi  risulta  che i campioni del Canale Nord  e del canale Brentella – canali della prima zona industriale-sono riconducibili al medesimo insieme , mentre quelli del canale Lusore Brentelle non sono riportabili al medesimo  insieme.

 

Questa differenza consente di affermare che le due aree sono soggette a fonti  di inquinamento da PCDD/F diverse

 Il contesto della prima zona industriale ha risentito nel tempo di emissioni che hanno caratteristiche  diverse  da quelle degli scarichi  del Petrolchimico ,che caratterizzano invece l’impronta dei sedimenti   del canale Lusore Brentelle 

Di conseguenza risulta infondata la tesi accusatoria secondo cui invece il Petrolchimico  sarebbe responsabile dell’inquinamento di tutta la zona industriale indistintamente.

 

 L’ipotesi della accusa secondo cui le differenze delle impronte di congenere dipenderebbero da varianti nel ciclo produttivo è rimasta a livello di sola ipotesi

 E stata  invece  dalla difesa dimostrata la sua inconsistenza in quanto lo studio di campioni superficiali  e profondi evidenziano una sostanziale uniformità della impronta PCDD/F   da  cui è lecito dedurre che le variazioni indotte nel ciclo produttivo non hanno modificato le caratteristiche delle emissioni

 

In conclusione  dall’esame delle impronte  risulta che : le impronte rinvenute nel canale Lusore Brentelle  corrispondono alle impronte riportate in letteratura  come caratteristiche della produzione del C V. M .;   che  sono diverse da quelle rinvenute nei canali della prima zona industriale –canale Brentelle, canale industriale nord; che l’impronta del canale Lusore Brentelle  è rimasta  costante nel tempo pertanto mutazioni del ciclo produttivo non hanno influito sulla impronta ;

 che  la spiegazione dei c t dell’accusa , secondo cui la differenza dipenderebbe da variazioni nella produzione non si giustifica ; che le impronte dei sedimenti del Lusore  Brentelle  corrispondono a quelle caratteristiche della produzione del CVM nonché  a quelle riscontrate nei fanghi  prelevati dagli scarichi SM15,SI2 ed SM22; che  queste impronte  sono diverse da quelle caratteristiche della prima zona industriale  che a loro volta dimostrano invece analogie con quelle tipiche di altre produzioni  industriali

 

4.6 Segue  confutazione della ipotesi  che individua nel Petrolchimico la matrice  della contaminazione del sedimento dei canali  dell’area industriale indistintamente considerata

Vanno innanzitutto evidenziate alcune circostanze che sono incontestate o comunque adeguatamente provate.

E  incontestato che il gradiente di contaminazione diminuisce passando dalla prima alla seconda zona  industriale  e cioè da nord  a sud , avvicinandosi ai canali prospicienti l’area di insediamento del Petrolchimico; che a sud nella zona dei cosiddetti bassi fondali, area che intesi di accusa continuerebbe ad essere inquinata dagli apporti dello scarico SM15  il livelli di concentrazione di PCDD/F sono notevolmente ridotti; che ‘unica eccezione è rappresentata dal canale Lusore  .Brentelle , che risulta molto  inquinato verosimilmente  perché antico corpo recettore degli scarichi del Petrolchimico in epoca in cui non vi era alcuna regolamentazione .

 

Ed il gradiente di inquinamento dalla prima alla seconda zona industria contraddice l’ipotesi accusatoria  secondo cui la  contaminazione avrebbe la sua origine  nel Petrolchimico

 Secondo gli esperti delle difese invece  la contaminazione da diossine e furani avrebbe inizio nella prima metà del secolo e si sarebbe intensificata fino a raggiungere  i valori massimi per le diossine e i furani  negli anni 50 e negli anni 60,  e per gli IPA negli anni 60

Gli esperti –Bellucci e Colombo- hanno poi individuato le cause della contaminazione della prima zona industriale ,identificando  la sorgente dell’impronta di PCDD/F presente nella prima zona industriale , ed accertandone la diversità da  quella presente nell’antico corpo recettore del Petrolchimico;hanno  poi giustificato la contaminazione del canale sud-seconda zona industriale-  e spiegato la influenza  negativa dell’antico sito di discarica  dell’isola delle Tresse vicino allo scarico SM15.

 

Prima di esaminare il lavoro degli esperti il Tribunale riprende però alcune delle valutazione gia fatte in ordine alla normative vigenti in epoca precedente l’entrata in vigore di norme di protezione ambientale , relativa alla insalubrità delle lavorazioni, norme che hanno disciplinato per decenni     l’esistenza e l’andamento  delle produzioni inquinanti

 Innanzitutto viene  ricordato l’art 216 TULS  che ,prevedendo l’isolamento delle fabbriche e manifatture che producevano gas  vapori o altre esalazioni insalubri, indicava chiaramente che la norma  veniva intesa con finalità di tutela solo sanitaria e non di tutela ambientale 

 È tale disposizione per quanto riguarda il contesto territoriale di causa venne attualizzata dall’art 15 e 16 delle Norme tecniche di attuazione del PRG di Venezia del 1956.

 In particolare la PA aveva previsto per attività che oggi definiremmo di impatto ambientale la destinazione delle aree prospicienti la zona  industriale di Porto Marghera , che attualmente occupa un fronte di 6 km per una profondità di circa 4 Km.

 

Da un punto  di vista storico doveva poi  essere tenuto presente –ciò che l’accusa aveva invece ignorato -che la prima zona industriale  era stata realizzata mediante l’imbonimento di vaste aree di barena  ,con materiale di risulta degli scavi dei canali portuali ,e la seconda zona industriale invece mediante l’imbonimento, avvenuto quasi esclusivamente con rifiuti di provenienza dalle lavorazioni della prima zona industriale – rifiuti che alla stregua delle valutazioni normative vigenti dal 1984 sono definiti tossico-nocivi.

 Di questi rifiuti  usati per l’imbonimento una grande quantità  di colore rosso ,i cosiddetti fanghi  rossi derivano da processi di “decuprazione delle ceneri di pirite” e da processi di lavorazione della bauxite ,entrambi estranei al catabolismo del Petrolchimico

 Naturalmente insieme vi erano rifiuti di molte altre produzioni- produzioni del ciclo dell’acido solforico, materiali di risulta della produzione metallurgica, scarti di fonderia , ceneri di carbone  di centrali termoelettriche , fosfogessi di scarto di produzione dell’acido  solforico.

 Al catabolismo delle predette produzioni si aggiunse poi quello derivante dalle produzioni del cloro da parte del  Petrolchimico ,. i cui insediamenti produttivi vennero collocati nella seconda zona industriale e per cui gli scarichi a avvenivano nel canale Lusore - Brentelle

Il sottosuolo della seconda zona industriale per alcune centinaia di ettari( ad est dell’ alveo del canale Bondante ) è costituito da rifiuti di antica derivazione dalla produzioni della prima zona industriale.

Nello zoccolo di questa enorme massa di rifiuti sono  stai scavati interamente il canale Industriale sud, ,il canale Industriale ovest e in parte il canale Malamocco Marghera.

Nella seconda zona industriale ,in area adiacente ai bassi fondali vicino allo scarico SM15- scarico principale del Petrolchimico , dopo la cessazione, a  metà degli settanta, di quelli che recapitavano nel canale Lusore Brentelle  trova collocazione l’isola delle  Tresse,sito storico di discarica di rifiuti della prima zona industriale.

Tutte le predette acquisizioni solo assolutamente certe e documentate e non possono essere messe in discussione sul piano probatorio.

E attraverso lo studio e la analisi  dei sedimenti dei canali  Industriale nord e Brentella è possibili  associare  al catabolismo proprio delle tipologie produttive della prima zona industriale  l’inquinamento  dei sedimenti in tale ambito.

 Lo studio verifica inoltre le conseguenze della  trasmigrazione della contaminazione dalla prima alla seconda zona industriale.

 

 È stato accertato  dai consulenti della difesa attraverso l’esame di dati di letteratura  innanzitutto che dal 1932 era presente nella prima zona industriale la lavorazione del magnesio- e a tale tipologia produttiva , secondo quanto riportato  in US .EPA.2000, la tabella allegata alla predetta relazione   associa  come contaminante proprio le diossine ; 

 che la decuprazione delle ceneri di pirite ,attuata dal 1932 a tutti gli anni 60, è in grado di produrre  rilevanti quantità di diossine, caratterizzate da un impronta  simile a quella diffusa nell’ambito della prima zona industriale.; che le  ceneri di pirite rientrano nel catalogo dei materiali di risulta,provenienti dalla prima zona industriale, e utilizzati per imbonire la seconda zona industriale

 Il tracciante principale di tale rifiuto ,utilizzato in grandi quantità  per imbonire la seconda zona industriale , è costituito dai cosiddetti fanghi rossi.

 

 Data la rilevanza di questa tipologia di rifiuti  sono state fatte specifiche analisi, previa  loro raccolta  e classificazione,  prelevando  sei campioni di fanghi rossi, i primi cinque ( da ES1 a ES5) sulla sponda del canale sud e l’ultimo ES6 sulla sponda del canale industriale  ovest

 Tutti i campioni sono stati prelevati nella seconda zona industriale  e dove i fanghi rossi  si trovano  in zona a diretto contatto con le acque dei canali ,le cui sponde subiscono continua erosione .

 Le analisi effettuato hanno consentito di accertare  la presenza in uno solo   dei campioni, di ceneri di pirite e in tutti gli altri la presenza di  fanghi rossi bauxitici,entrambi rifiuti estranei al catabolismo del Petrolchimico ;inoltre in tutti  questi campioni l’impronta di congenere .che distingue un tipo di diossina  dall’altra  è la stessa del canale Nord  e del canale Bretella.

 

  Le analisi dirette alla ricerca delle diossine hanno portato ad accertare anche  concentrazioni di arsenico –che caratterizza la pirite –ed alluminio –che caratterizza la bauxite-

 E ciò consente di associare i campioni alle tipologie produttive che li hanno originati.

Inoltre per tutti i campioni prelevati  al di fuori di uno l’impronta della diossina è eguale a quella del Canale Industriale nord ed al canale Brentella  e  si tratta di impronta eguale  a tutte quelle rinvenute negli altri canali al di fuori del canale Lusore  . Brentelle

 E l’impronta che consente di associare la presenza di PCDD/F rinvenuto nei canali  ai fanghi rossi provenienti dalla lavorazione della pirite e della bauxite ,entrambi presenti nell’ambito della seconda zona industriale e soggetti a fenomeni di intensa trasmigrazione passiva  

 

 Da documentazione non contestabile risulta inoltre che i fanghi rossi bauxitici erano prodotti in misura molto rilevante  e che venivano usati non solo per imbonire ma  che venivano anche   spappolati  direttamente nei sedimenti dei canali  e che tra le aree imbonite e contaminate risulta essere indicato il canale Industriale sud (della seconda zona industriale)

 Gli esperti delle difesa hanno anche evidenziato  sulla base delle informazioni assunte che  la bauxite veniva lavorata dalla Save utilizzando il processo Bayer, cominciare dagli anni 30, che non produce diossine e dalla società Italiana  Alluminia con il processo Haglund che come verificato sperimentalmente produce invece diossine

 

 Osserva a questo punto il tribunale che le sponde dei canali della seconda zona industriale  e l’area di insediamento del Petrolchimico  in tutta la sua lunghezza sono caratterizzati dalla presenza di una notevole quantità di fanghi rossi –che nulla hanno a che vedere con la produzione del Petrolchimico -tanto risulta obiettivamente rilevabile anche percorrendo il canale Sud fino  a giungere alle sponde del canale Industriale ovest.

E risulta anche la attuale  trasmigrazione  passiva di tali inquinanti dalle sponde dei canali industriali alle acque  e ai sedimenti, cosi come analoga trasmigrazione avviene dalla isola delle Tresse dove sono stati smaltiti oltre un milione di metri   cubi di fanghi rossi verso i cd bassi fondali prospicienti lo scarico SM15.

 

 Risulta anche dalla deposizione del teste Chiozzotto- teste dell’accusa -che nell’isola delle Tresse sono stati convogliati enormi quantitativi di rifiuti  ed il fenomeno di erosione della isola delle Tresse risulta  avere causato un arretramento  delle sue sponde di oltre 50 metri, proprio davanti al punto di recapito dello scarico  SM15, e che il progetto di messa in sicurezza del sito prevede  il contenimento della percolazione delle sostanze inquinanti .

 

 Viene  poi rilevato che  nel canale Malamocco –Marghera  frontistante  lo scarico SM15, per tutti quasi i parametri analizzati i sedimenti presentano  livelli di concentrazione piu bassi di quelli osservati in altre zone dell’area industriale  e che  i livelli di concentrazione  delle sostanze inquinanti si riducono notevolmente nel passaggio dalla  prima alla seconda  zona industriale  e in prossimità dello scarico SM 15  raggiungono valori non eccedenti quelli attesi ,comunque non sproporzionati ,rispetto  a quelli che caratterizzano situazioni paragonabile , connotate da un impatto ambientale moderato certo non disastroso.

 Dei valori di  contaminazione raggiunti in prossimità dello scarico S. M15 ne da atto invero lo stesso  consulente dell’accusa.

 

 L’accusa di fronte a questi accertamenti assume che la presenza di diossina nei fanghi rossi  lungo le sponde dei canali della seconda zona industriale  dipende  da pratiche di  commistione di tale residuo con peci clorurate  provenienti dal Petrolchimico ,che rimarrebbe cosi  l’unica matrice di contaminazione dei sedimenti della zona industriale  per quanto riguarda le diossine

 Ma si tratta di una asserzione non provata  né sorretta da indizi.

 

 A sostegno della sua tesi l’accusa replica che nel tempo in ambiti distanti dal Petrolchimico. sono state attuate pratiche di evacuazione  diretta in laguna di residui clorurati di provenienza da tale plesso a mezzo di bettoline e autobotti.

 Anche questa affermazione rimane non provata.

 Contrariamente a tale ipotesi accusatoria risulta invece che dagli inizi degli anni 70 le cosiddette  peci clorurate furono inviate per trattamenti presso l’impianto di incenerimento  CS28,  costruito nel 72  e che  in epoche precedenti erano smaltiti in discarica .

 La tesi accusatoria è smentita anche dal fatto che  nei canali della  prima zona  industriale non si riscontra associazione di diossina con clorurati, come avrebbe dovuto riscontrarsi se fosse vero quanto affermato dalla accusa , mentre è stretta la relazione tra diossine e metalli  pesanti –arsenico ed alluminio tipici delle lavorazioni della prima zona industriale.

 

 Nel canale Lusore .Brentelle . è invece presente in elevata concentrazione la contaminazione di solventi clorurati

E viene anche ribadito che non è vero che la  lavorazione della bauxite non produca diossine, valendo questa affermazione , solo per il processo  Bayer, ma non per il processo Haglund ,come dimostrato dalla difese e non contestato dalla accusa.

 

 Le conclusioni che il tribunale ritiene di dovere trarre  in base all’evidenza probatoria sopra esaminata sono quindi le seguenti:l’inquinamento ha diverse matrici:

a) scarichi nella acque aventi recapito ei canali della prima zona industriale  provenienti dagli insediamenti produttivi cola insediati dagli anni 20 e in grado di rilasciare gli stessi inquinanti che secondo l’accusa proverrebbero unicamente dal Petrolchimico  e ciò contro l’evidenza del forte gradiente di contaminazione nella prima zona industriale  e contro l’evidenza delle differenti  impronte delle diossine nell’uno e nell’altro ambito

b) rifiuti tossici- nocivi di risulta delle medesime produzioni-fanghi rossi bauxitici  e ceneri di pirite che sono stati certamente utilizzati per l’imbonimento delle aree della seconda zona industriale  e nel corpo dei quali sono stati scavati  i canali della seconda  zona industriale  e che sono  stati altresì oggetto di erosione da parte delle acque a seguito degli scavi dei canali e a seguito delle maree , del moto ondoso  e del transito delle navi

c) il catabolismo nelle acque del Petrolchimico come fattore inquinante delle sue immediate adiacenze ;

il canale Lusore Brentelle  antico corpo ricettore degli  scarichi del vecchio Petrolchimico  e di alcuni scarichi superstiti,  muniti  tutti all’entrata in vigore della prima normativa in materia d p r 962/1973 –l’ 1-3-1980  di impianti di abbattimento del loro carico inquinante  è stato certamente inquinato dal Petrolchimico.

 

 Segue la verifica della compatibilità delle acquisizioni probatorie sopraindicate con l’andamento dell’inquinamento nell’ambito della zona industriale e  della esistenza  di  eventi  disastrosi  in senso proprio.

 

4 .7 Sulla base di quali premesse ed  entro quali limiti è possibile constatare la presenza di eventi di danno per l’ecosistema

 

L’accusa ha assunto, per sostenere l’evento di danno rilevante in termini disastrosi per l’ecosistema, le tabelle  allegate al protocollo d’intesa per la laguna di Venezia  del 1993.

 Queste tabelle però non definiscono parametri  di qualità ambientale ma  sono finalizzate solo  a stabilire criteri di mobilizzazione dei sedimenti , individuando i parametri secondo cui valutare le caratteristiche che devono avere i materiali  sedimentari  per essere immessi o reimmessi in laguna , trattasi sostanzialmente di  criteri di mobilizzazione dei sedimenti .

I valori indicati rispettivamente  nelle tabelle A,B,C  del predetto Protocollo d’Intesa non significano pertanto  pericolo reale perchè non  esprimono condizioni di rottura di sicurezza per l’ecosistema  e non definiscono parametri di qualità ambientale

 

 Né si ritiene congruo assumere, come dato probante la rottura delle condizioni di sicurezza dell’ecosistema ,il confronto tra le concentrazioni di inquinanti rilevate nei sedimenti dell’area industriale  e quelle rilevate nel sedimento dell’isola di S Erasmo , considerato anche  che spesso l’accusa assume ,a termine di confronto, il valore  massimo di inquinamento rilevato nei canali della zona industriale . cioè il campione rilavatosi in assoluto “il più inquinato”

  Sono pertanto condivisibili le critiche della difesa  relative alla impostazione seguita dagli esperti della accusa  .

 Condivisibile è invece il diverso criterio di  verifica  dalle stesse proposto  che si basa sul confronto tra le concentrazioni  rilevata nell’area industriale  e criteri di qualità ambientale.

 

Il consulente delle difesa premette innanzitutto che secondo il Comitato scientifico tossicologico ed ecotosssicologico della commissione europea 1994 un obiettivo di qualità ambientale, per una determinata sostanza dovrebbe esprimere un livello od una concentrazione  tale da non determinare alcun effetto indesiderato nell’ambiente e tale da garantire la protezione delle comunità biologiche e degli ecosistemi naturali

 

Esempio di un obiettivo di qualità per  un ambiente acquatico:  dovrebbe permettere che tutti gli stadi del ciclo  vitale di tutti gli organismi acquatici possano compiersi con successo e senza alterazioni; non dovrebbe produrre condizioni tali da determinare l’allontanamento degli organismi  dall’habitat o da parte di esso  in cui sarebbero presenti in condizione naturali – assenza di impatto antropico- non dovrebbe  produrre bioaccumulo di sostanze  a .livelli pericolosi per il biota ( incluso l’uomo) attraverso la catena alimentare  o per altre vie ,non dovrebbe   produrre condizioni capaci di alterare la struttura  e la funzione dell’ecosistema acquatico.

 

 Per quantificare questo obiettivo il massimo risultato conseguibile sperimentalmente  è il cosiddetto livello di  non effetto osservato ( NOAEL) , cioè un livello che, nelle condizioni  sperimentali note, non ha permesso di osservare alcuno degli effetti avversi.

 Il metodo più usato è  quello che  si basa sulla estrapolazione dei dati  sperimentali, mediante la applicazione di fattori di sicurezza , che saranno tanto più elevati quanto più carente è l’informazione o quanto maggiore è il livello di incertezza dei dati sperimentali.

Nel caso dei criteri di qualità per i sedimenti  l’informazione è molto scarsa e sono pertanto necessarie ulteriori estrapolazioni.

 A questo scopo normalmente viene utilizzato il  metodo degli equilibri partitivi che si basa  sul  principio del calcolo  della ripartizione  delle sostanze tossiche tra acqua e sedimento

 Si immagina che l’effetto tossico sugli organismi del sedimento sia provocato dalla parte di sostanza in soluzione nell’acqua interstiziale  e si fa riferimento ai valori di tossicità noti per gli organismi acquatici.

 Data la incertezza che il metodo degli equilibri partitivi comporta  vengono applicati ulteriori fattori di sicurezza

 Il criterio di qualità ambientale ha finalità essenzialmente preventive ed è espressione del principio di precauzione.

 

I criteri di qualità devono considerarsi quindi come uno strumento preventivo ,ampiamente protettivo,  per cui il superamento di questi criteri non deve però essere visto come raggiungimento di livelli ambientali tali da determinare un rischio reale  ,ma soltanto come l’erosione di margini di garanzia , che in generale  possono avere l’ampiezza di alcuni ordini di grandezza rispetto al livello degli effetti osservati.

 Ed è evidente che nell’ambito di tale scelta vi possano essere differenze come conseguenza  della esistenza di margini di discrezionalità

 Quello che varia nei diversi criteri  o livelli protettivi è  il maggiore o minore grado di sicurezza, il loro superamento non comporta il superamento di una soglia di pericolo reale

 

Il c t degli imputati  Vighi utilizza un data base per valutare lo stato di contaminazione dei sedimenti da metalli e  microinquinanti organici che  ha riguardo a 1300  campioni di sedimenti, che sono stati prelevati in diversi settori dei canali industriali e della laguna, e confrontati con i valori limiti  indicati secondo i diversi criteri di qualità ambientale .

 I campioni sono stati prelevati a  profondità di oltre due metri  che si riferiscono a contaminazione pregressa di molti decenni or sono  ed a profondità più ridotte di 10-15 cm che possono essere considerati rappresentativi  di una contaminazione più recente, relativa agli ultimi 20 anni

In molti casi la profondità del prelievo non è indicata  e comunque la datazione delle contaminazioni non è rilevante nelle prospettive accusatoria  che riferisce al fatto dell’imputato –quello successo per ultimo  nella posizione di garanzia - l’intero ordine delle conseguenze la cui causa ritiene  di individuare nel catabolismo del Petrolchimico

Nessun rilievo viene dato  nella prospettiva dell’accusa al problema causale delle condotte dei singoli imputati

 

Vengono quindi nella sentenza a questo punto esposti in modo analitico gli esiti  del primo confronto, innanzitutto per quanto riguarda i metalli , attraverso dati e grafici dalla cui lettura derivano in sintesi  le seguenti conclusioni : i livelli complessivi di contaminazione dei sedimenti mostrano un netta differenza tra i canali della prima zona industriale, nei quali i valori medi superano spesso i criteri di qualità ,e i canali  della seconda zona, nei quali i valori medi risultano essere compatibili con i limiti di accettabilità considerati; il superamento dei limiti  nell’ambito della seconda zona industriale è relativo solo ad alcuni sporadici valori massimi; i valori relativi ai campioni superficiali sia nella seconda zona come nella prima  sono compatibili con i criteri di qualità di cui si detto  ,e, le situazioni di maggiore contaminazione sono imputabili ad emissioni pregresse presumibilmente anteriori all’ultimo ventennio.

 Per quanto  riguarda  i microinquinanti organici  gli esiti delle verifiche sono i seguenti :

per il PCB: è evidente il gradiente procedendo dalla prima alla seconda zona industriale; i valori della seconda zona e della laguna sono sempre compatibili con i limiti del NOAA ,ad eccezione di alcuni dati misurati nel canale ovest,anche in questo caso dovuti presumibilmente a campioni non superficiali;per campioni di sedimenti superficiali, cosi come per i metalli è evidente la tendenziale riduzione delle concentrazioni  ,compatibile con i limiti almeno nella seconda zona industriale e nel resto delle laguna.

 

per il PCDD/F:

 valgono le precedenti osservazioni con la precisazione che, nei campioni superficiali  della prima zona, diminuiscono i valori massimi ma aumentano  quelli medi;

tuttavia, nella seconda zona  industriale e nel resto della laguna,  i valori sia medi sia massimi sono costantemente al disotto del limite indicato dal NOAA.

 

 per gli IPA:

il gradiente di diminuzione è meno evidente ed è significativo il valore relativamente alto, anche nei sedimenti superficiali relativi alla zona urbana ,dati che dimostrano come questo tipo di inquinamento può derivare anche da fattori diversi da quelli industriali

in ogni caso i valori specialmente nei sedimenti superficiali sono sempre  entro i limiti di accettabilità.

 

 per gli HCB:    

 in questo caso i valori misurati, sebbene sia ancora evidente il gradiente , superano anche nella seconda zona industriale i livelli di riferimento.

  Deve però  a questo  punto accertarsi se il superamento dei limiti di cui sopra significhi  pericolo reale per l’ecosistema lagunare

 A tale scopo è stata calcolata la concentrazione prevista di non effetto (PNEC) utilizzando la metodologia ufficiale proposta dalla Commissione europea basata  sul principio degli equilibri partitivi e su dati  tossicologici sperimentali.

 

Viene cosi stabilito il limite, al disotto del quale non si verificano effetti tossici ,con una riduzione però sostanziale  dei margini di sicurezza.

 Con riferimento al valore PNEC risulta che sia i valori medi come quelli massimi dei canali della seconda zona industriale  sono inferiori al valore soglia , e pertanto non esiste pericolo reale di effetti tossici per gli organismi,nonostante la riduzione dei margini di sicurezza

 Il confronto tra il valore PNEC ed il criterio di qualità dimostra l’ampiezza dei margini di sicurezza che sono  stati applicati anche nei confronti effettuati per le altre sostanze.

 

Al metodo  sopraesposto seguito dai tecnici della difesa  sono state fatte dalla accusa le seguenti critiche : il confronto con i criteri di qualità  sarebbe di affidabilità incerta; l’uso frequente di medie e mediane ridurrebbe i significati  della contaminazione; viene trascurato il fatto che, nei sedimenti dei canali, vive una comunità di organismi detritivori,  per cui dovrebbe tenersi conto anche delle condizioni favorenti  la biodisponibilità  dell ‘inquinante  incorporato nel materiale sedimentario.

 

Alle critiche predette  va risposto –secondo  il Tribunale- che, per quanto riguarda i sedimenti, non si dispone di altri dati basati su criteri sperimentali , e tanto vale sia per  i metalli come per i micro contaminanti organici; che i pochi paesi ed organismi che hanno esaminato il problema  hanno declinato il principio di precauzione  , introducendo normative finalizzate  alla tutela dell’ecosistema  acquatico, che non vi è   motivo per ritenere inaffidabile; che i protocolli usati dal consulente tecnico  delle difese sono quelli elaborati dagli organismi internazionali; che si sono occupati della materia;

che, come tutti  i criteri di qualità, rappresentano delle estrapolazioni e sono stime teoriche  che vengono corrette da adeguati  fattori di sicurezza ,che sono tanto più ampi quanto minore e l’effettiva base sperimentale.

 

E gli esiti complessivi della valutazioni fatte dal Vighi, condivisibili per le argomentazioni sopraesposte dimostrano che le concentrazioni di inquinanti  rilevate nei sedimenti sono compatibili nei valori medi ( spesso anche in quelli di picco) con i parametri assunti.

 Casi di superamento si riferiscono solo ad aree distanti dal Petrolchimico, nell’ambito della prima zona industriale .

 Per quanto riguarda poi  la critica relativa  alla non adeguata valutazione della biodisponibilità degli inquinanti si rileva come non sia facile la valutazione  e come  in ogni caso con riferimento ai metalli  , secondo il principio di precauzione , i metalli si assumono totalmente  biodisponibili.

Per quanto riguarda i  microinquinanti  organici viene fatto presente che le sostanze in esame PCDD/F, PCB; IPA;HCB sono composti ad elevata persistenza , per cui l’intervento di organismi detritivori non può rendere più o meno disponibile la sostanza.

Per quanto riguarda la critica fatta all’uso delle medie e mediane viene fatto presente che contrariamente ad un valore massimo e proprio quelli medio  o mediano che rappresenta     adeguatamente la reale situazione  e che in particolare risulta  più corretta la rappresentazione  quando si fa riferimento alla media geometrica anziché a quella matematica.

Media geometrica  e mediana fanno parte dei parametri che gli statistici chiamano robusti cioè sufficientemente solidi da non essere alterati troppo da valori non rappresentativi della serie di dati considerata.

Rileva infine il Tribunale come le conclusioni del  consulente tecnico  dr Vighi , che sono per le argomentazioni sopraesposte  condivisibili, vengano a coincidere con quelle  del Piano Direttore  del 1989 , che ha accertato una situazione  al limiti del collasso fini agli anni 70, ed il miglioramento , certo l’assenza di un aggravamento,  dopo l’inizio degli interventi di depurazione   e di riconversione delle tecnologie industriale , ma non facilmente superabile per quanto riguarda la componente inglobata nei sedimenti.

Ma le concentrazioni di inquinanti  nei sedimenti dell’area industriale  non significano comunque rottura delle condizioni di sicurezza per l’incolumità pubblica.

 

Da  ultimo viene ancora osservato come , con riferimento al valore del fall-out atmosferico ,per quanto riguarda la contaminazione dei sedimenti  dei canali ,le emissioni di PCDD /f di attuale derivazione dagli impianti di incenerimento del  petrolchimico  siano compatibili con i limiti di legge.

Non può sostenersi un progressivo inquinamento nel tempo delle concentrazioni di PCDD/F  nei sedimenti  perché i dati confrontati si riferiscono  stazioni di prelievo totalmente diverse.

 Rimane infine non confutata la  affermazione e secondo cui ,per valutare la progressione nel tempo della contaminazione , l’unico metodo sperimentato  consiste nell’esame  delle carote di sedimento per cui sia possibile una sia pure approssimativa datazione .

Rimane altresì non confutata la valutazione , secondo cui le informazioni derivate da questo tipo di analisi , significano una progressiva diminuzione delle concentrazioni  dei principali inquinanti,  almeno negli ultimi decenni.

 

4.8                                     Infondatezza degli addebiti di colpa

 Premesse: infondatezza della tesi di accusa secondo cui gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati effettuati  in violazione del divieto di diluizione.

 Primo addebito: gli scarichi del Petrolchimico. sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di diluizione.

Premesso che l’ipotesi accusatoria collega l’evento disastro-  consistito nella contaminazione del sedimento dei canali- e l’avvelenamento e adulterazione del biota – vivente nel sedimento dei canali al supposto malgoverno degli scarichi di provenienza del plesso industriale nelle acque - concretizzatosi nello smaltimento di reflui convogliabili in condotta , catalizzatori esausti  e altri sottoprodotti di risulta attraverso gli scarichi SM2 e SM15 ( con concentrazione di nitrati e clorurati superiori ai limiti di accettabilità  previsti dalle tabelle allegate al D.P.R n 962 /1973)- osserva il Tribunale come, in ipotesi accusatoria, tre siano gli  specifici addebiti di colpa:

1) :gli scarichi del Petrolchimico  sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di diluizione;

 2) sarebbero stati violati i parametri di accettabilità stabiliti dal DPR 962/1973

 3) i reflui di provenienza del Petrolchimico  avrebbero dovuto essere smaltiti  come rifiuto tossico nocivo ,in forme adeguate a quelle nominate dal d. p .r n.915/1982 ,  e non nelle forme  adeguate alla disciplina pertinente gli scarichi della acque

 

Tutti gli addebiti sono infondati.

Nel corso degli ultimi venti anni interessanti il periodo di imputazione, si trovano ad essere in vigore le tabelle allegate al d .p .r n.962/73  ;

 il termine previsto per la costruzione degli impianti di depurazione risulta essere stato prorogato fino  a tutto l’1-3- 1980

 la prima disciplina normativa degli scarichi nella acque opera quindi dal marzo 1980;

molto prima  di tale data i gestori del Petrolchimico  sono intervenuti sul catabolismo delle acque :

 Nello specifico è innanzitutto infondato che gli scarichi del petrolchimico siano stati effettuati in violazione del noto divieto di diluizione

  E per spigare i motivi di tale valutazione viene premesso l’elenco degli scarichi e delle correnti del Petrolchimico , aventi recapito in laguna- con la indicazione dei vari canali interessati- e che sono  tenuti al rispetto dei  parametri di cui alle indicate tabelle:

SM15

SM 2

SM 7

SM 8

SM 9

SM 22 corrente  e non  scarico  diretto per cui valgono comunque gli stessi limiti di accettabilità 

S 11 e S 12 correnti che convogliano  reflui clorurati e reflui mercuriosi , a cui si applica la disciplina  prevista dal DLVo n133/1992

 

Viene  quindi osservato che tutti gli scarichi veri e propri- per i quali e richiesto il rispetto  dei parametri di accettabilità – risultano regolarmente autorizzati e che tutte le confluenze di correnti  interne  sono note al magistrato alle acque

 Premesso che è incontestato che nei predetti scarichi confluissero la acque di processo trattate del Petrolchimico . ,oltre ad acque meteoriche  , di raffreddamento, civili chiarificate,  rileva il Collegio come  l’accertamento dei requisiti di legge debba essere fatto in corrispondenza del  punto di immissione delle acque nel ricettore – salvo deroghe - mentre quanto attiene alle correnti interne è irrilevante , e ,salvo deroghe, le correnti interne non richiedono autorizzazione .

Ne consegue che  la tesi accusatoria ,secondo cui il principale scarico del Petrolchimico ,. SM15- in cui confluivano e confluiscono , oltre le acque di processo , le acque di altre correnti- avrebbe funzionato quale grande diluitore ,  in violazione del divieto  di cui all’art 9 comma quarto e settimo L319/1976 come modificato con legge 650/1979- è infondata perché  in nessun modo la diluizione era vietata.

 

A chiarimenti di quanto affermato ricorda il tribunale come, in un insediamento produttivo, possono esserci più scarichi parziali- provenienti diverse lavorazioni o da un determinato ciclo tecnologico -  oltre allo scarico totale -che è quello rappresentato dalla miscela dei diversi effluenti parziali-  e come sia  la legge Merli a precisare in quali termini   possa essere lecita la diluizione

 Due sono le enorme che si occupano della questione :l’art 9  4° comma  che precisa “ i limiti di accettabilità non potranno in alcun modo essere  conseguiti mediante diluizione  con acque prelevate esclusivamente allo scopo”

L’art 9 7° comma che  precisa “ non è comunque consentito diluire  con acque di raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi  parziali contenenti  le sostanze  di cui al n10 delle tabelle A) e C) prima del trattamento degli scarichi parziali  stessi per adeguarli ai limiti previsti dalla presente legge 

 

 Dalla lettura di queste norme risulta chiaro che è vietata sempre la diluizione con acque prelevate esclusivamente allo scopo , ,mentre la diluizione con acque di lavaggio o di raffreddamento  è vietata solo quando ha per oggetto taluni scarichi parziali ,. contenenti sostanze ritenute particolarmente inquinanti e cioè quelle indicate alle tabelle A e C della legge Merli

 La normativa citata  ,cosi come quella attualmente in vigore- D.lvo  n152/1999 - prevedeva anche la possibilità che gli scarichi particolarmente inquinanti  venissero sottoposti a specifiche prescrizioni, che ,nella fattispecie, non risultano essere state imposte ,nè pertanto violate

 Tanto premesse va ritenuto che in assenza di specifiche  prescrizioni , sia possibile la confluenza di acque di raffreddamento , di lavaggio nello scarico terminale, tenuto quest’ultimo  al rispetto dei limiti di accettabilità.

 

 E la P.A. risulta avere dato prescrizioni – nel senso dell’obbligo di rispetto dei limiti di cui alle tabelle del d .p .r n.962 prima della miscelazione- solo per la corrente SM22 , mentre per tutte le altre non risulta presa alcuna disposizione   .

La separazione delle acque di raffreddamento da quelle di processo è stata disposta  per gli scarichi in laguna  solo con D. M 30-7-1999 che innova il quadro di riferimento normativo pertinente agli scarichi di cui si discute

 Conclusivamente secondo le valutazioni normative ,tecniche e di disciplina  correnti all’epoca dei fatti dal 1980 al 1999 ,  l’addebito di colpa risulta pienamente infondato, perché la miscelazione delle correnti era consentita, le pubbliche amministrazioni ne erano informate, tanto che hanno, in alcuni casi ,dato specifiche prescrizioni che risultano essere  state rispettate.

 

4.9 Della infondatezza  degli addebiti di colpa

Infondatezza delle tesi d’accusa  secondo cui il superamento dei parametri di accettabilità di cui al D.P.R n962/1973 determinò condizioni peggiorative  dello scarico delle acque

 Anche questa tesi non è fondata

Hanno accertato i consulenti della accusa e il dato è incontestato, basandosi sull’esame dei bollettini di analisi interna che ci sono stati più superamenti  istantanei e  puntuali dei limiti stabiliti dalle tabelle allegate al D.P.R. n962 /73

 Il consulente delle difese ha  però ritenuto utile anche  riferire i superamenti , oltre che ai bollettini,  e alle date di verificazione ,alla entità delle misure effettuate .

 Ed è stato innanzitutto evidenziato  che per tutti gli scarichi vi è stato un progressivo miglioramento della situazione, nel senso che la percentuale dei superamenti  è andata drasticamente diminuendo dal 4,4% del 1990 all’1%  del 1994.

 

 La difesa ha poi orientato l’analisi nel senso della verifica dell’effettivo carico inquinante  ed ha quindi proposto di  verificare se il superamento puntuale dei limiti di accettabilità determina –nell’unità di tempo considerata – l’immissione nel corpo ricettore di un carico inquinante superiore o inferiore rispetto a quello ammesso dalla norma.

 Determinata quindi per ciascuno dei parametri- in relazione ai quali sono stati accertati superamenti  puntuali istantanei - la concentrazione media annua , la difesa verifica per gli anni 1994-1997-1998-1999 e 2000 che mai risulta  superato il valore  medio di concentrazione nell’anno.

 Gli scarichi di provenienza Petrolchimico , nel loro reale andamento, si attestano su valori medi evidentemente inferiori rispetto ai parametri di riferimento, producendo un impatto ambientale corrispondente a quello di una scarico regolare .

 

 La validità ed il significato dell’accertamento fatto dalla difesa deriva dalla imputazione che non è quella contravvenzionale bensì quella  del delitto di disastro e avvelenamento – comunque eventi di danno

 Sul punto la accusa sostiene che parlare di medie non avrebbe nessun significato  nè sul piano scientifico né sul piano normativo.

La norma si preoccupa infatti solo di  stabilire la concentrazione limite senza considerare il diverso problema  della quantità globale di inquinante , immesso in un certo intervallo di tempo nel corpo ricettore, non prendendo in considerazione il criterio di concentrazione  massima  ammissibile di inquinanti che il corpo ricettore può tollerare .

Nell’economia  dell’accertamento che ne occupa  non avrebbero pertanto cittadinanza i concetti di quantità  giuridicamente consentita o di portata autorizzata

 

 Ritiene invece il Tribunale ,con riferimento alla necessità di accertare l’evento di danno rilevante in termini  di disastro  o avvelenamento , giuridicamente necessario  accertare la entità del carico  reale  effettivo in termini di impatto ambientale ,  verificando se  degli apporti inquinanti dello scarico, nella unità di tempo,  superino la disciplina normativa concernente il catabolismo nella acque

 

E la difesa dimostra che uno scarico che si attesti su valori medi inferiori a quelli limite nel suo andamento nel tempo,determina  un impatto ambientale corrispondente a quello di uno scarico regolare

Diverso è l’accertamento avente per oggetto i singoli superamenti ,da quello relativo all’impatto ambientale e la sommatoria dei singoli superamenti non costituisce una lettura  di sintesi del catabolismo nelle acque .

 Evidenzia   ancora , il Tribunale, a sostegno della fondatezza della tesi difensiva, che la tecnica usata dal nostro legislatore ha una funzione  semplificativa degli accertamenti, e che in altri paesi vengono adottate tecniche diverse, che tengono invece conto  delle caratteristiche del corpo idrico ricettore e si basano sul metodo che verifica la concentrazione  massima ammissibile  di inquinanti che il ricettore può tollerare .

Il metodo seguito dalla legge Merli di stabilire tabellarmente  concentrazioni limite di inquinante , senza considerare la quantità globale di inquinante –prodotto della concentrazione per la  portata dello scarico immesso in un determinato arco di tempo nel corpo ricettore  - costituisce un limite e non un valore della legge.

 Normative più recenti e conformi alle direttive comunitarie  assumono come parametri di riferimento non solo le concentrazioni ma anche le quantità di inquinante effuse

 

 Ed anche  la normativa applicabile-legge Merli- non ignora  invero  le categorie di portata autorizzata e/o quantità giuridicamente  consentita , tanto che l’art 21  prevede un reato   contravvenzionale , quando la domanda di autorizzazione non risulta corredata dalla puntuale precisazione  delle caratteristiche quantitative e qualitative del carico inquinante .

 

4.10 Segue infondatezza degli addebiti di colpa Infondatezza della tesi  di accusa secondo  cui la presenza di C. V .M nelle acque di processo dei reparti CV 22/23 e CV 24/25 conferirebbe all’intero flusso in uscita dagli scarichi SM.2 e SM.15 il carattere di rifiuto tossico  nocivo

 

Secondo il c t dell’avvocatura – Cocheo - gli scarichi nelle acque di provenienza del  Petrolchimico  sarebbero soggetti alla disciplina normativa pertinente ai rifiuti tossico- nocivi e non a quella concernente  la tutela delle acque applicandosi nella fattispecie il regime di eccezione previsto dal comma 6 dell’art 2 D:P:R 915/82.

Intesi di accusa l’unico trattamento consentito  dell’intera masse di reflui consisterebbe  nella termo distruzione  o nel conferimento in discarica ,adeguatamente alle valutazioni normative ,tecniche e di disciplina di cui al D.P.R n 915/82

Secondo l’interpretazione dell’accusa ,la legge n.319 /76, alla stessa stregua del d. p .r n.962/73 avrebbe carattere di sussidiarietà  rispetto al D.P.R n 915/82, e rilevante in tal  senso sarebbe il disposto del penultimo comma dell’art 2 D. P .R n 915/82 che cosi recita”  resta salva la normativa dettata dalla legge 10-5-1976 n319 e successive modificazioni e relative prescrizioni tecniche per quanto riguarda la disciplina dello smaltimento nelle acque,nel suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi di cui all’art 2 lettera e punti 2 e 3 della citata legge, purchè   non tossici e nocivi ai sensi  del presente decreto

 

 Rileva il Tribunale come la norma parli invero di liquami e fanghi  e non di scarichi.

La differenza sostiene l’accusa è però  solo apparente  perchè il disposto del primo punto dell’allegato 5 della delibera 4-2-1977 del Comitato  dei ministri per la tutela delle acque dall’inquinamento stabilisce    una equivalenza normativa tra il termine liquame  ed il termine  scarico.

 Sarebbe di conseguenza secondo la accusa la reale tipologia del refluo a definire se ad uno scarico sia  applicabile la disciplina di cui alla legge 319/1976 o quella di cui al D.P.R 915/1982

 In tesi di accusa  la normativa tecnica di attuazione del D.P.R n.915/82 e pertanto la deliberazione  27-7-84  del Comitato interministeriale- norma madre l’art 4 D.P.R n.915/82- definirebbe in modo preciso quali scarichi possono essere regolati dalla legge n319/76 e quali invece siano sottoposti al più rigoroso regime di cui al D.P.R.n.915/82.

 

 Sono regolati dal D. P . R n 319/76 tutti gli scarichi che non derivano dalle attività produttive  che figurano nell’elenco 1.3 della deliberazione sopra citata,  purchè il soggetto  obbligato dimostri che i rifiuti non sono classificabile come tossico nocivi,

Conclusivamente  spetterebbe al produttore  provare che nei reflui della lavorazione  non siano contenute  una o più sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite, e/o una o più della altre sostanze, appartenenti  ai 28 gruppi di cui all’allegato al D.P.R. n915/82- 20 nel gruppo sono indicate le sostanze chimiche di laboratorio non identificabili e/o sostanze nuove i cui effetti sull’ambiente  non sono conosciuti- ,in concentrazione superiore ai valori di C. L ,ricavati dalla applicazione dei criteri generali desunti dalla tabella 1.2

 L’onere di dimostrare  quanto sopra incomberebbe  al produttore e quindi agli imputati prima della attivazione dello scarico

Tra le sostanze per le quali non sarebbe possibili escludere a priori la presenza di concentrazioni superiori al limite del consentito dalla tabella  1.2 citata verrebbe in rilievo il C. V .M

 

 Non avendo gli imputati dimostrato che la concentrazione delle sostanze  predette era entro il limite delle concentrazioni limite ,tutti i reflui convogliati in condotta  provenienti dal Petrolchimico  avrebbero  dovuto essere smaltiti in forme adeguate  tramite la termodistruzione

E se i reflui  22 milioni di metri  cubi/ annui  provenienti dagli impianti   CV22 e CV23 sono definiti  come rifiuti  liquidi tossico nocivi , con la conseguenza che avrebbero dovuto essere inceneriti ,  tale carattere tossico -nocivo  sarebbe stato conferito  all’intero flusso dello scarico SM15- 370 milioni di metri cubi/anno

Ed un così rilevante scarico di rifiuti tossico nocivi qualificherebbe la colpa dei delitti di pericolo contestati : disastro e avvelenamento del biota.

 

Sempre in tesi di accusa, da premesse legalmente presunte come vere, deriverebbero delle conclusioni che neppure sarebbe necessario sperimentare in fatto e ciò perché  gli imputati avrebbero dovuto rendere la prova del contrario

 Ritenendo invece il tribunale ,non condividendo l’ipotesi accusatoria , che fosse necessario accertare  in concreto la natura tossico nociva delle sostanze inquinanti  alla stregua delle norme di legge in vigore rivolgeva  al consulente della accusa la domanda  se ,al di la di ogni presunzione legale, egli fosse al corrente di un qualche indice della presenza delle sostanze nominate nella D. I.1984  in particolare del C. V. M   nelle acque di processo  dei reparti CV e/o nei reflui convogliati dagli scarichi S.M.2e S.M15. ed in caso affermativo della concentrazione rilevata , e riceveva  una risposta  negativa.

 

 Alla domanda ulteriore,avente per oggetto quale prova avrebbe dovuto essere data  dal titolare dello scarico  per essere legittimato ad applicare la normativa sugli scarichi anziché  quella sui rifiuti,  riceveva  la risposta  che  per escludere che un refluo sia tossico nocivo occorrerebbe  fare una  analisi completa dello stesso ,determinando le diverse sostanze presenti  sino a chiudere l’analisi alla milionesima parte in massa (1mg/kg)

 Ciò comporterebbe  delle analisi praticamente impossibili  che non sono mai state richieste dalla autorità amministrativa competente al rilascio della autorizzazioni .

 

 Ritiene comunque il Tribunale che, la pretesa della accusa di  ritenere il produttore onerato dalla prova della presenza delle sostanze di cui alla tabella indicata in concentrazioni   inferiori a quelle limite , sia errata con riferimento ai principi generali che riguardano l’onere della prova nel processo penale , in cui il principio della presunzione di non  colpevolezza fino a prova contraria  comporta  che la prova deve essere data da colui che  la nega elevando l’accusa

L’onere della prova spetta pertanto alla accusa  in quanto anche dalla delibera del C. I del 1984. non emergono regole di significato tanto pregnante da smentire questo principio

 In materia e cioè sul tema della definizione dei campi di intervento delle due fondamentali discipline normative di protezione ambientale- quella relativa ai rifiuti quella relativa  tutela delle acque - le Sezioni Unite hanno stabilito alcuni  fondamentali principi.

 

 A ) Il D.P.R 915/82 regola l’intera materia dei rifiuti  , in essa si inserisce come cerchio concentrico la normativa relativa  agli scarichi , disciplinati dalla L n 319/76 e per Venezia dalla legge speciale 962/73

B) Se la sostanze è solida rileva la disciplina  di smaltimento  di cui al  D.P.R 915/82

C) Per le sostanze liquide  o a prevalente contenuto acquoso o convogliabili o convogliate  in condotta rileva la L 319/76

 D)Il quarto criterio deriva dalla disposizione del sesto comma dell’art 2 D.P.R n 915 /82 che riserva alla disciplina degli scarichi nelle acque anche  liquami e fanghi ,ivi compresi quelli derivati da cicli di lavorazione  e da processi di depurazione

E..)Ulteriore criterio è definito dalla inclusione  nel D. P. R n 915/82 di liquami e fanghi appartenenti alla classe tossico –nociva

F)Ultimo criterio discretivo  deriva dal fatto che il D.P.R. n.915/82 disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento ( conferimento ,raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio etc) dei rifiuti prodotti da terzi,siano essi solidi liquidi ,fangosi o informa di liquame  con esclusione di  quelle fasi,concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili) attinenti  allo scarico e riconducibili alla disciplina stabilita dalla legge n 319/76 o 962/73 con l’unica eccezione dei fanghi o dei liquami di verificata appartenenza alla classe dei tossico nocivi che sono regolati dal D. P .R n. 915/82.

 

Tanto premesso ritiene il T tribunale di poter escludere la applicazione della normativa di cui  al D.P.R   piu volte citato ai reflui di reparti CV per i seguenti motivi:

non si tratta di sostanze solide  rientranti per natura nella disciplina di cui al D.P.R;

si tratta di acque  di processo ,sostanze liquide convogliabili e convogliate in condotta ,direttamente immesse nel corpo ricettore senza alcuna soluzione di continuità, previo trattamento e abbattimento del carico inquinante; non si tratta di fanghi , che se tossico nocivi sarebbero disciplinati dal D.P.R 915/82; non si tratta di  acque di processo o di rifiuti liquidi veicolati e/o scaricati  in forma non canalizzata, nel qual caso sarebbe certa la definizione di rifiuto del refluo.

Nel caso in esame non consta che il collegamento tra fonte di riversamento e corpo ricettore sia in alcun momento della sequenza interrotto .

 

Al di la delle congettura sull’onere della prova si tratta di scarichi che non rientrano nell’unica eccezione prevista dall’art 2 comma 6 del D.P:R 915/82.

  Sollecitata poi alla verifica in fatto  della presenza di C. V .M nelle acque  di processo dei reparti di C. V in misura superiore ai limiti fissati dalla  delibera del comitato interministeriale del 1984  , la accusa  non è riuscita nel suo intento .

 

 L’accusa ha poi insistito sul monitoraggio in continuo  del C. V.M. nell’aria , presso  le vasche di neutralizzazione delle acque reflue (cd SG31), tale è in estrema  sintesi il ragionamento dell’accusa : non è mai stata ricercata la presenza di C. V M  nell’acqua delle vasche del reparto SG31 ma solo nell’aria sovrastante ,mediante la istallazione di gascromatografo; se si intende monitorare la presenza  del CVM nell’aria  non vi è ragione per non monitorare la presenza del  CVM anche  nell’acqua se il C VM è presente nell’aria deve essere presente anche nell’acqua delle vasche.

 Ed in tal senso il c. t dell’accusa ha orientato le sue ricerche  nell’illustrare gli esiti delle quali  lo stesso ha fatto presente che non esiste un parametro di accettabilità nella legge, per quanto riguarda il CVM , perché i  clorurati sono sussunti sotto una unica voce  e che in particolare il CVM in acqua ha una vita effimera brevissima, di nessuna durata ed è difficile reperirlo per mancanza di tempo.

 

Né nei sedimenti, né nel biota il CVM  può essere rinvenuto  perché evapora.

 Deve quindi essere ricercato nella vasche  durante il trattamento prima delle operazioni di abbattimento del carico inquinante dei reflui e delle operazioni che permettono al titolare dello scarico di perseguire l’obiettivo della loro compatibilità  con i parametri tabellari di accettabilità

  Applicando una legge termodinamica , legge di Henry, il c t dell’accusa  spiega come sia possibile determinare  la  concentrazione media del C .V .M  nelle acque di processo , partendo dalla concentrazione presente nell’aria , in 149 milligrammi /litro, e quella massima   di picco in1328 milligrammi per litro

Solo in 10 occasioni nell’arco di un decennio –dal 1984 al 1994- si rileva il superamento  del limite di 500 milligrammi /litro ( la CL di cui alle tabelle allegate alla delibera del C. I di cui si è detto)

 In tesi di accusa quindi questi 10 superi basterebbero conferire all’acqua delle vasche di neutralizzazione e cosi all’intero flusso dello scarico S.M15 e SM2 il carattere di rifiuto tossico nocivo

 Ne consegue che l’intero flusso del SM15 dovrebbe rientrare nella eccezione prevista dal comma 6 art 2 D.P.R 915/82

 

Non ritiene invece il Tribunale che il superamento dei limiti di concentrazione  in solo 10 casi giustifichi le conseguenze che ne ha tratto l’accusa

 Comunque la stima del C.T risulta errata in eccesso  in quanto, secondo  una corretta applicazione della legge di Henry – segue una dettagliata esposizione delle ragioni  per cui ilo calcolo effettuato dal consulente dell’accusa non sarebbe corretto bensì affetto da errori esiziali -  la concentrazione del C. V. M  in acqua risulta  ,a parità di concentrazione nell’aria, 40.000 volte inferiore  rispetto a quella che  risulta  in base alla relazione erroneamente utilizzata nella consulenza tecnica  della accusa .

 Comunque, rileva il consulente  .tecnico della difesa ,che, anche accettando l’erronea concentrazione calcolata dal consulente tecnico  della  accusa,  mai si arriverebbe a concentrazioni di C .V M  tali da superare la concentrazione limite di 500 mg/kg fissata dal DCI 27-7-1984 in quanto il valore calcolato dall’accusa è circa 20 volte inferiore alla C .L

 A questo punto  il consulente tecnico dell’accusa introduce un fattore correttivo, giudicato dalla controparte del tutto arbitrario , e che  comunque, quand’anche lo si volesse applicare,  non comporterebbe il superamento di limiti di concentrazione massima stabiliti dal DCI dell’84in materia di rifiuti: si otterrebbe  infatti circa 0,03 mg/kg contro i 500 mg/kg della CL

 

 Le valutazioni del consulente Cocheo non sono  pertanto attendibili

Il consulente delle difesa ha invece  verificato che nel periodo dal 1990 al 1994  risultano:

102 casi di presenza di C. V.M.  nell’aria  sovrastante le vasche in1360 giorni

una durata totale di 338 ore di presenza di C. V .M nell’aria su un periodo  di 32640 or pari quindi all’1 % del tempo

La presenza del CVM nelle vasche risulta comunque essere fatto del tutto eccezionale  e ciò  invero trova una ragionevole spiegazione oltre che nelle esame delle tabelle fatta dal consulente .tecnico . della difesa anche in altre circostanze

In particolare risulta che non vi era alcun collegamento permanente tra la fognatura dei reparti  di produzione CVM/PVC e le vasche di neutralizzazione

 

Ed invero i dati analitici confermano la assenza di CVM nell’ acqua  delle vasche , e dimostrano la inutilità di un controllo di questo parametro nelle acque di scarico ,considerata la bassa solubilità del CVM  ed infatti le vigenti normative non pongono limiti di concentrazione in acqua perché la concreta assenza del CVM in acqua  e intrinsecamente assicurata dalle sue proprietà fisiche , in particolare dalla sua bassissima solubilità.

 

 Conclusivamente risulta che normalmente il CVM nelle acque di processo , provenienti degli impianti di  produzione del CVM, era  assente ,quando era presente lo era in una percentuale ampiamente al di sotto delle C L ,di cui alla delibera attuativa  della disciplina normativa dei rifiuti

  Circa la ragione della presenza del gascromatografo in prossimità delle vasche va invece rilevato come esso servisse alla misurazione di altri gas oltre il CVM.

 

 Nelle vasche di neutralizzazione  infatti  doveva essere abbattuto il carico inquinante dei reflui e ciò avveniva mediante degli agitatori  che favorivano la evaporazione dei gas non solubili  , come il CVM  ; rilevava a questo punto evidenziare che le vasche sono chiuse  e munite di una cappa di aspirazione  che porta ad un camino di altezza di 46 metri  che è stato autorizzato e della cui funzione  legata anche alla  possibile presenza del CVM è stato dato atto

 

Il consulente . tecnico  della difesa ha anche evidenziato come le correnti del reparto CV 24 andassero all’impianto biologico solo dopo lo strippaggio , mentre le correnti dei reparti CV22 e CV 23 recapitavano nelle vasche solo e solo in occasione di eventi eccezionali ,che portavano a straordinari superamenti di livelli o disfunzioni altrettanto rare.

 

 Comunque la tesi di accusa risulta essere irrilevante ,posto che l’assenza certa ed  incontroversa tra le parti del CVM. nel biota nei sedimenti e/o nelle acque del corpo ricettore- laguna – rende irrilevante  l’ipotesi della presenza di CVM negli scarichi idrici  a monte

Oggetto della imputazione non è infatti ,né lo potrebbe essere, perché a contatto con l’acqua evapora    immediatamente , la presenza o meno del CV M nell’acqua della laguna.

 

Le tesi di accusa sulla supposta e in dimostrata presenza del cloruro di vinile nei reflui di provenienza dagli impianti CV, presenza che comporterebbe la necessità di un loro trattamento secondo la normativa relativa ai rifiuti,anziché secondo la normativa relativa agli scarichi  delle acque, oltre che essere infondata e priva di rilevanza, atteso che nessun evento di danno  risulta essere correlato nella ipotesi accusatoria a tale presunta violazione , perchè in  nessun modo viene sostenuto che l’inquinamento della laguna possa essere ricondotto al CVM. sversato

Conclusivamente la tesi accusatoria è infondata ed irrilevante.

 

4.11  Il caso particolare della contaminazione del sedimento del canale  Lusore –Brentelle, antico corpo recettore degli scarichi nelle acque di provenienza  dal Petrolchimico  e delle sue immediate adiacenza

I rilievi fatti con riferimento alla ipotesi accusatoria, secondo cui gli imputati sarebbero  responsabili dell’inquinamento causato da altri per omessa bonifica dei luoghi contaminati vale, sia per le discariche come per il catabolismo delle acque e dei sedimenti del corpo ricettore  e si ribadisce che la scelta di  un modello unitario di qualificazione della fattispecie concorsuale richiede comunque  che tra la condotta del concorrente e l’evento sussista un nesso di condizionamento , mentre non si può rispondere di disastro innominato colposo per il solo fatto di essere consapevoli dell’inquinamento  pregresso .

 

 Il ricorso alla schema concorsuale –113 c.p-. non esime dalla accertamento del nesso causale , mentre l’accusa ,rifiutando questa impostazione, e rimanendo ancorata allo schema della cooperazione per omesso  disinquinamento  della contaminazione preesistente , rifiuta qualsiasi indagine diretta  ad accertare il riferimento ad una base –line della  contaminazione, a partire dalla quale  ricostruire e valutare l’apporto dei singoli imputati

 E fonda la prova del disastro esclusivamente sul gradiente di concentrazione  tra il sedimento dei canali dell’area industriale  e delle aree non interessate ad impatto ambientale  nonché  sulla   in verificata tipicità della impronta di congenere delle diossine  , come indice della loro derivazione dalla filiera del cloro e perciò  dal Petrolchimico

 Esclude dalla ricerca l’andamento della contaminazione nel tempo, le conseguenze del catabolismo industriale nel tempo, la datazione in ogni caso della contaminazione  e ciò anche con riferimento  a quei siti ,come il Canale Lusore –Brentelle  e le sue immediate adiacenze che risultano essere  stati sicuramente inquinati dal catabolismo del Petrolchimico

 

 Si imponeva invece la necessità di accertare se ci fosse stato un aggravamento della contaminazione preesistente  per effetto delle condotta degli imputati, essendo certamente  la contaminazione preesistente ai tempi storici  interessati dalla imputazione .

La nozione di causa penalmente rilevante ,intesa come condizione necessaria  in un contesto complesso ,comporta che ,se un evento si produce solo quando un determinato  insieme di condizioni si verifica, rimane poi privo di significato accertare se uno dei fattori causali appartenenti a quel complesso ,sia prossimo o remoto rispetto al verificarsi dell’evento

L’apporto causale ben potrebbe configurarsi anche solo come aggravamento di un evento dannoso già prodottosi.

L’apporto causale di ogni singolo imputato comunque ,entro la cornice concorsuale di riferimento,  e fermo restando il principio di equivalenza delle condizioni, deve essere  sempre provato

 

Nelle precedenti pagine della motivazione sono state indicate le ragioni per cui non può addebitarsi al Petrolchimico   la matrice della contaminazione della prima zona industriale

Sono state anche esposte le ragioni per cui non sia facile  stabilire in che limiti il catabolismo del Petrolchimico . possa avere causato l’inquinamento del sedimento dei canali della seconda zona industriale , considerato  l’apporto dei preesistenti   scarichi nelle acque e gli apporti recati da altre matrici di contaminazione : imbonimento dell’area della seconda zona industriale  con enormi masse di rifiuti provenienti dalla  prima  zona industriale , erosione delle sponde dell’antico sito di discarica  dell’isola Tresse

 

Rimane comunque indiscusso che dal Petrolchimico  siano derivati nel tempo apporti significativi in termini di evento di danno ambientale

 Certo il catabolismo del Petrolchimico ha avuto un apporto significativo in termini di contaminazione delle sue immediate adiacenze  , perché è incontroverso che il sedimento del canale Lusore – Bretelle – corpo ricettore degli scarichi del vecchio Petrolchimico, dall’atto della sua fondazione fino a tutto il ciclo di ristrutturazione della prima meta degli anni 70, sia stato gravemente compromesso dal catabolismo di quegli impianti

Si tratta però di tempi storici, che  trascendono quelli dell’imputazione  

L’inquinamento del canale Lusore –Brentelle , è certamente riconducibile  al catabolismo del Petrolchimico.dagli anni della sua fondazione fino alla ristrutturazione risalente alla prima metà degli anni 70.

 

 Dal catabolismo delle acque in epoca più recente  deve invece escludersi che sia potuto derivare alcun apporto,in termini di aumento  dello stato di inquinamento preesistente , in quanto ,quando le allegazioni della accusa hanno consentito di operare verifiche è venuto in rilievo il contrario

 Nel canale Lusore –Brentelle anche attualmente recapita l’SM2 ,scarico che risulta essere di sicura ininfluenza  in termini  di impatto ambientale  ,attestandosi il suo scarico inquinante su valori di gran lunga inferiori ai limiti del consentito  ex lege o in base alle prescrizioni accessorie al titolo autorizzativo pertinente ( sporadici accertati superamenti puntuali devono ritenersi irrilevanti in termini di impatto ambientale).

 

 Dalla ricostruzione del consulente tecnico dell’accusa relativa gli apporti ritenuti influenti , in relazione al verificarsi della situazione ,risulta oltre alla conferma del fatto che nel canale Lusore Brentelle  scaricavano senza alcun trattamento  le acque di processo del vecchio petrolchimico  quali  erano degli impianti del vecchio  petrolchimico  che sono andati scaricando nel canale Lusore – Brentelle: gli impianti cloro-soda avviati nel 1951 fermati nel 1972,che utilizzavano catodi di mercurio e anodi di grafite- ( con conseguente  inquinamento da mercurio  e da PCDD/F)

 gli impianti di produzione  del C. V .M . a partire dall’acetilene  e cioè il CV1 chiuso intorno al 1970

 gli impianti di produzione CV 10 chiusi nel 1981 –che utilizzavano un catalizzatore  a base di cloruro di mercurio, altri impianti attivi fino alla realizzazione dell’impianto chimico -fisico – biologico SG.31- avvenuta nel 1978- ad esempio l’impianto di produzione di acetilene da metano (ACI) con conseguente sversamento nel canale  di acque con presenza  di inquinanti ,tra cui IPA, altri impianti  fonti di inquinamento da PCDD/F,che scaricavano nel canale fino alla avviamento dell’impianto di strippaggio dei clorurati, il  CS 30, e cioè  fino al 1980.

 

 Viene  a questo punto ricordato  dal Collegio che solo a cominciare dal 1-3- 1980 diventano operativi i  parametri di accettabilità degli scarichi, essendo stata la normativa –legislazione speciale per la salvaguardia di Venezia  - prorogata fino a quella data  e che gli scarichi di provenienza del P erano da quella data muniti di impianti di trattamento operativi

Gli interventi  per il miglioramento delle condizioni ambientali  e di sicurezza di Porto Marghera furono effettuati  dopo il 72 tra il 73 ed il 75  e sono documentati da commesse di lavoro e da verbali di collaudo.

 In particolare ,dalla testimonianza  Mason, risulta che la vasca baricentrica  pertinente all’impianto di trattamento biologico delle acque reflue fu realizzata nel 1976- e non come sostenuto dall’accusa a meta degli anni 80.

 Dal 73 all’80 si realizza l’adeguamento di Montedison alla costruzione degli impianti di depurazione  richiesti dalla legge di Venezia.

Quanto ai risultati  ottenuti mediante l’impianto di trattamento biologico in un periodo antecedente   l’entrata in vigore delle tabelle del d. p .r 962/73 , non risulta,nè l’accusa lo prova che  se ne  potessero  ottenere di migliori

Con atto 2-5-1983 il Magistrato alle Acque attesta che le acque di scarico  provenienti dal gruppo Montedison risultano essere a norma delle prescrizioni del D.P.R n 962/73

 

 Sostiene l’accusa che il depuratore biologico poteva gia essere fatto negli anni cinquanta

 Consta che Montedison .verificò la tecnologia esistente in Italia e che  non trovando impianti biologici industriali  per grosse dimensioni e  si  rivolse  all’estero ,in Germania

 Nella motivazione delle sentenza segue a questo punto un elenco dettagliato degli interventi eseguiti, commessa per commessa, con indicazione  per ciascuno  della data di realizzazione o di collaudo  o di messa in esercizio

 

  Il caso particolare della gestione del catabolismo del mercurio

 È certamente presente tale tipo di inquinamento  nel canale Lusore –Brentelle,  non c’è però, come per gli altri inquinanti, informazione adeguata sull’andamento delle contaminazione nel tempo.

 Risulta invece che  la Montedison realizzava tra il 1973 ed il 1981 in adempimento agli obblighi della legge speciale l’impianto di demercurizzazione entrato in esercizio nell’anno 1976 e collaudato nel 1982. La contestazione riguarda la scelta della Montedison . di realizzare negli anni dal 1971 in poi un impianto di cloro soda a celle di mercurio

 Consta pero che all’epoca dei fatti le solo tipologie di celle applicate industrialmente nella produzione del cloro e della soda erano a diaframma e a catodo di mercurio , mentre impianti  con celle a membrana- meno inquinanti  non erano ancora  stati realizzati ed erano invece  a livello progettuale , fino al 1978 in corso di perfezionamento , mentre nel 1981 ci sono  impianti sperimentali.

 

 Risulta conclusivamente provato che la nuova tecnologia delle celle a membrana si dovette perfezionare nel corso dei primi anni ottanta .

Negli Usa il primo impianto per la produzione del cloro con celle a membrana è del 1983.

Gli impianti di cui si controverte entrarono in funzione nel 1971.

Anche negli anni 80 la maggior parte degli impianti utilizzava celle a mercurio o diaframma a base di amianto.

 La realizzazione dell’impianto di demercurizzazione  ha consentito di ridurre le immissione di mercurio  in laguna  ad un microgrammo litro 0,001mg/l nei limiti della  legge speciale.

 

 La data di costruzione dell’impianto predetto collaudato solo nell’82 , risulta con certezza essere quella di molto antecedente,e cioè del 1974, e la sua entrata in funzione risale al 1976

 Ne consegue la infondatezza di tutti  i relativi addebiti  di colpa pertinenti all’uso del mercurio e alla realizzazione tardiva dell’impianto.

 Rileva il collegio come non venga individuata dall’accusa ,quando vengono sollevate critiche alla condotta di gestione del catabolismo nella acque ,la norma agendi che  sarebbe stata violata .

 Quando gli addebiti di colpa si specificano prendendo forma in proposizioni  verificabili viene in considerazione la loro infondatezza.

 

 Il generico riferimento alla migliore tecnologia possibile  da parte dell’accusa , non specifica mai che cosa concretamente gli imputati avrebbero dovuto fare , nelle condizioni rilevanti all’epoca di assunzione del potere di gestione da parte loro, per prevenire   il supposto evento di danno e quando l’addebito si specifica  risulta infondato.

Dirimente al di al della chiara infondatezza degli addebiti è comunque la inverificabilità di una relazione tra la condotta degli imputati ed un eventuale aggravamento dello stato di contaminazione  preesistente alla loro entrata in scena.

 Va ancora rilevato come secondo la tesi della accusa il disastro innominato  che presuppone un pericolo per la incolumità pubblica  deriverebbe dall’inquinamento del biota in quanto l’inquinamento dei sedimenti dei canali non sarebbe pericoloso se non lo fossero gli asseriti effetti –in termini di avvelenamento e adulterazione dell’ittiofauna su di essi vivente.

 

 Ed accertata la infondatezza delle accuse di avvelenamento e adulterazione  di acque e sostanze destinate alla alimentazione  viene di conseguenza esclusa anche la fondatezza della imputazione di disastro , che si caratterizza come matrice degli insussistenti pericoli alimentari

 La prova negativa della pericolosità della ittiofauna e cioè della fonte immediata del supposto pericolo per la salute pubblica ,costituisce prova che nessun pericolo  per la incolumità pubblica può   essere ricollegato   alle cause mediate ( stato dei sedimenti e della acque) .

 

II parte -appello del P.M.

Capitolo 3.8

Critica alla selezione dei dati di fatto da parte del Tribunale

( Capitoli n 3 e 4 della sentenza )

Le consulenze tecniche del P.M.

L’accertamento del laboratorio M. P. U. di Berlino

3.8.1 Rapporto tra la prima  e la seconda zona industriale 

 

 La tesi difensiva fatta propria dal Tribunale secondo cui l’inquinamento dei canali industriali sarebbe la conseguenza  dell’utilizzo  dei rifiuti provenenti dalla prima zona industriale per l’imbonimento della seconda  zona ,in cui vennero poi realizzati gli impianti del PETROLCHIMICO,risulta fondata sulla diversità delle impronte della diossina  cosiddette “vecchie”(  relative alla prima zona industriale , con OCDF in quantità maggiore  dei OCDD , ma con percentuali rispettive di 50 /60 % per OCDF e 10-20% per OCDD ) rispetto a quelle  “recenti” del Petrolchimico ( prevalenza assoluta di OCDF = 80-90%).

Si è contestata in aula da parte della accusa  la ricostruzione cronologica delle carote , rilevando che entrambe le impronte venivano prodotte  nei diversi impianti relativi al ciclo del cloro ,e  rilevando  altresì che anche  i rifiuti,  prodotti nella seconda zona industriale, sono rimasti in questa zona sotto forma di discarica, circostanza questa che dimostrava la inconsistenza della tesi difensiva , basata sulla analisi dei campioni ( da E1 a E6) ,raccolti ai bordi della seconda zona  industriale, che avrebbero dimostrato trattarsi di fanghi rossi vecchi inquinati da diossina  ,  mentre invece si trattava  di campioni misti e molto spesso di rifiuti anche della seconda zona industriale

 L’accusa evidenzia anche che gli stessi rifiuti erano stati spostati, dalla seconda alla prima zona, quando erano stati scavati i canali Brentelle , Industriale nord e Industriale ovest con camion  ,dato che solo una parte poteva essere bruciata nel termocombustore, e che  inoltre i rifiuti erano stati continuamente rimaneggiati dalle maree.

 

A supporto dell’’accusa vi sono i seguenti documenti:

1)mappe che dimostrano come negli anni 40 e 50 gran parte della  seconda zona  industriale fosse stata gia bonificata con ampi spazi agricoli

2) foto di discariche all’interno della seconda zona industriale  formatasi  prima del 1970 fino alla fine degli anni 80

3) dragaggio del canale Brentella e del canale industriale nord  attorno al 1960 ciò che comporta la deposizione dei fanghi inquinati in un periodo successivo

4) le barene campionate a S Erasmo e a Fusina  hanno la concentrazione massima della asserita impronta della prima zona industriale in strati, che la stessa difesa dice corrispondere agli anni 60-80 e questo vuol dire che erano emissioni della seconda zona industriale,  che possono essere arrivate là solo attraverso l’atmosfera; non è infatti possibile che rifiuti solidi come quelli che sarebbero stati prodotti con quella impronta prima del 1940,si siano potuti ridistribuire sulle barene a quella distanze. 

5) anche attualmente il ciclo di lavorazione DCE – PVC - CVM  produce non uno solo ma almeno due se non più,diversi tipi  di impronta  e ciò a confutazione della teoria delle due impronte diverse, prodotte in tempi diversi come emerge dalle seguenti risultanze  :

 esiste un data base di analisi interne  di acqua ,camini  e fanghi con impronte diverse  tra loro ,tra cui quella cosiddetta vecchia ; la bibliografia di Carroll  presenta entrambe le impronte da dati di produzione del CVM/CDE; i dati delle esposizioni atmosferiche ,che hanno entrambe le impronte in campioni raccolti in tempi recenti  ,in particolare  nella stazione di Dogaletto a 4 km SW   del Petrolchimico ; sia i suoli che le barene hanno tutti e due i tipi di impronta ;

 

3.8.2 peci clorurate  (prodotte dai vari impianti ) fanghi rossi e pirite  -supposte fonti della contaminazione da diossine

Il collegio sposa la tesi secondo cui dal 1972 le peci clorurate  furono tutte inviate  a trattamento nell’impianto CS 28 ed invece il CS 28 bruciava solo peci liquide  e peraltro era insufficiente .

Le peci solide hanno invece continuato ad essere smaltite fuori dello stabilimento  nelle tuttora esistenti discariche Dogaletto ,Moranzani  e Macchinon

 Il documento del magistrato alle acque conferma la possibilità di scarico con camion e bettoline delle peci clorurate, nonché la possibilità che –riscaldate- le peci  perdano i clorurati e quindi sia possibile trovare diossine senza i clorurati.

 Le difese degli imputati sostengono invece che contenevano diossine anche le produzioni della prima zona industriale  quali: quelle del magnesio ,della decuprazione di ceneri di pirite e dei fanghi rossi.

 Ma la affermazione si basa su dati contraddittori :alcuni dei campioni sono stati raccolti dai consulenti tecnici della difesa  dove gia nel 1944 esistevano campi coltivati;la correlazione diossina /AS (ceneri di pirite) e diossina /AI (fanghi rossi)viene smentita dai dati e dalle osservazioni che seguono; l’ Haglund, richiamato a sostegno dai consulenti tecnici degli imputati ,non produce  invece diossina

 

3.8.3 superamento dei livelli C e compromissione ambientale della laguna

Dal documento Mav -Aut- Portuale (1999) risulta che complessivamente il 35% dei campioni è superiore al livello C e il 43% si situa tra il livello B e il livello C.

 Per le diossine ,da tale documento risulta che oltre il 65% dei campioni è eguale o superiore al limite C.

Il confronto dei valori con linee guida internazionali  dimostra la possibilità di effetti avversi su organismi marini

 

 3.8.4 Dati e audizioni del dr VIGHI CT ENICHEM

La critica principale riguarda il fatto che il consulente  delle difesa  non spiega come ha eseguito la PCA(analisi componenti principali)  e seleziona dei dati ,senza spiegare i criteri di selezione ,  e seleziona anche figure , facendone veder alcune  e  non altre che dimostrerebbero il contrario

 Passando ad una analisi piu specifica osserva il P.M, con riferimento a quanto indicato nella sentenza a pagina 516 e 517 - dove si dice che i canali  Industriale sud e canale Malamocco  Marghera  sono stati scavati nella massa di materiali di riporto e cioè dei rifiuti provenienti dalla  prima zona- che dalle foto aeree si vede che in  tuta la parte Ovest di quella che sarà la seconda zona industriale   c’erano gia nel 1944 campi coltivati e che anche la parte sud era gia colmata , quindi nessuna di queste aree poteva  essere  colmata con rifiuti industriali,    vi poteva essere scavato il Canale industriale Sud ,che è invece stato per la maggior parte scavato in terreno gi agricolo.

Le uniche zone di conseguenza che possono essere state bonificate anche con rifiuti industriali della prima zona sono quelle  ancora arenicole nel 1955  e cioè la parte più orientale dell’area attualmente  compresa tra il  Canale industriale ovest e il Canale Industriale Sud.

 

 Con riferimento a quanto indicato o a pagina 556 dove si sostiene che le pratiche di smaltimento dei rifiuti sono state poste in essere nel rispetto della normativa vigente D.P.R. 915/1982 ed a quanto indicato a  pagina 547, dove si sostiene che l’accusa non ha considerato l’apporto inquinante dei rifiuti della prima zona industriale usati per l’imbonimento della seconda zona , ribadisce il P.M che ,a parte ogni riserva circa la pretesa assenza di normative  in materia di gestione dei rifiuti prima del 1982 , come risulta dalla cartografia,  gia nel 1944 buona parte di quella che diventerà poi la seconda  zona  industriale  era coltivata , e questo vuol dire che quelle aree non sono state  bonificate  con i rifiuti della prima zona industriale  essendo state  bonificate molti anni prima .

 Sono quindi i residui della seconda zona industriale ad avere formato le discariche  dentro alla stessa  e sono i residui della seconda zona industriale ,che sono stati campionati nelle varie consulenza tecniche  del PM

 

 Ne consegue il rovesciamento di tutte le conseguenze ambientali e della cronologia dell’inquinamento della laguna.

Con riferimento a quanto indicato a pagina 581 e 594 – laddove si critica la scelta da parte del consulente tecnico della difesa di S Erasmo come luogo di confronto - si ritiene invece che sia  corretta la scelta del  consulente del PM. di utilizzare S Erasmo ,come luogo di confronto, trattandosi  di un punto non privo di antropizzazione,  bensì di luogo con impatto antropico continuo ma a bassissimo impatto industriale .

 Ne consegue che   tutti i confronti fatti tra sedimento e pescato della zona industriale con S.Erasmo sono corretti.

 Con riferimento a quanto indicato a pagina  602 –laddove si addebita  alla accusa di non avere fatto alcuna indagine per verificare  i tempi a cui far risalire l’inquinamento per accertarne eventuale peggioramenti nei  periodi di gestione degli imputati – si rileva come al  contrario sia  sempre l’accusa, che cerca di ristabilire una cronologia reale ,contestando ad esempio al consulente della difesa proprio il fatto che nella carota C11, unica carota per cui esisterebbe una buona cronologia, gli ultimi tre campioni (quelli  piu vicini alla superficie ,corrispondenti  all’incirca al periodo 1995-1998) mostrano un aumento di OCDF caratterizzati  dalla impronta che anche la difesa ascrive  alle produzioni di CVM.

Circostanza questa che dimostra in modo inequivoco l’aggravamento dello stato di contaminazione preesistente .

 

Con riferimento a quanto indicato a pagina  607 e 608- laddove si commentano i dati della relazione del dott. Raccanelli rileva  l’accusa come si  tralasci volutamente da parte dei consulenti della difesa  la PCA( analisi statistica delle componenti principali) e ci si  limiti a commentare il confronto dei profili tramite gli istogrammi .

Dopo avere fatto il confronto visivo il consulente  dell’accusa invece presenta e una analisi statistica  delle componenti principali - detta PCA- relative ai sedimenti superficiali dei canali industriali, lagunari della città  di Venezia , dei fanghi, dei pozzetti Enichem  , degli scarichi dei depuratori civili.

 

 La PCA viene presentata con i dati acquisiti dal 92 al 99 e viene evidenziato che i primi 3 fattori spiegano il 76% della variabilità , e dimostrano  che i campioni dei canali industriali,dei pozzetti e di letteratura relativi alla produzione del cloro sono accomunati dalla medesima  impronta .

 Al contrario i campioni dei sedimenti dei canali di Venezia , della laguna distanti dalla zona industriale sono differenziati e vicini alla impronta degli scarichi civili

Anche con i dati forniti dalla difesa i primi 3 fattori spiegano il 77% della variabilità

 Anche in questo caso risulta evidente l’impronta del cloro che accomuna i dati dei pozzetti Enichem e dei sedimenti lagunari nelle vicinanze del PETROLCHIMICO, mentre gli altri campioni di sedimenti lontani dalla zona industriale sono differenziati e vicini alla impronta degli scarichi civili

 In conclusione l’analisi statistica dimostra la correlazione tra l’impronta reale  esistente  all’interno del Petrolchimico  e le impronte rilevate nei canali industriali attorno al Petrolchimico  e nei sedimenti superficiali lagunari nelle vicinanze dello stesso

 L’impronta è reale  ed è dovuta alle diverse produzioni del ciclo del cloro

 

 Con riferimento a quando indicato a pag.609 –laddove  si  attribuisce alla accusa di avere affermato che la matrice della contaminazione di tutta l’area industriale deve essere individuata nel catabolismo del  Petrolchimico – si osserva come  l’accusa non ha mai sostenuto una tale tesi.

L’accusa non sostiene che la matrice delle contaminazione sia solo il catabolismo del petrolchimico, ma che la fonte prevalente della contaminazione, per quanto riguarda le diossine, è sicuramente il Petrolchimico e in particolare gli impianti contestati nei capi di accusa con rifiuti (gas aria acqua) che sono caratterizzati da impronte molto simili ,anche se non del tutto eguali con il passare del tempo.

 Queste impronte definite impronte del cloro presentano evidentissime differenze rispetto alle impronte di altra origine  (depuratori ,deieizioni umane eccettera ) e per questo, quelle rilevate a seguito di analisi  chimiche effettuate dai consulenti  si fanno risalire alla lavorazione del cloro.

 

Segue quindi nell’atto d’appello la riproduzione grafica delle tabelle relative alle analisi delle componenti principali (pagine 1301 e 1302).

Con riferimento a quanto indicato a-pagina 625- laddove si ritiene che i prelievi effettuati nei pozzetti dal consulente della accusa non siano rappresentativi, non essendo transitate nei pozzetti  acque  reflue di processo diverse da quelle di lavaggio, anche quando gli impianti erano in funzione, si osserva come il tribunale, condivida  una  tesi difensiva, che non può essere vera , perchè , se cosi fosse, non si giustificherebbe la alta concentrazione di PCDD/F trovata nei fanghi depositati all’interno dei pozzetti.

 Evidentemente nelle acque fognarie e non solo nel canale Lusore Brentelle scaricavano direttamente le acque di processo, senza trattamento, attraverso i vari scarichi  a cui  erano collegate.

 Con riferimento a quanto indicato a pagina- 629 - laddove si sostiene che le impronte di diossine rilevate  nei pozzetti non avrebbero  una caratteristica loro propria ,essendo costituite da mescolanze eterogenee -si osserva come  è la stessa accusa a sostenere  la parziale  diversità delle impronte,  dovute alle diverse produzioni  di clorurati  e ai diversi cicli utilizzati  pur nella costanza del rapporto tra PCDD/F.

 

 Sbaglia la difesa anche quando sostiene la diversità delle impronte della prima zona industriale rispetto a quella della seconda zona , mentre invece la eterogeneità  dipende dall’insieme di diverse produzioni ,che hanno portato alla formazione della impronta che si rileva nei canali industriali attorno al petrolchimico  e nei sedimenti lagunari limitrofi.

 Mediando le impronte dei fanghi dei pozzetti prelevati da Arpav(PP) Enichem( PE) Chelab(PC)  si ottiene l’impronta che è perfettamente sovrapponibile  a quella dei fanghi rossi .

 Con riferimento a quando indicato a pag-631-  laddove si sostiene che i composti organo alogenati che si trovano  nel canale Lusore –Brentelle sono stati trovati in tutti i pozzetti esaminati ,  mentre diversamente nel Canale Bretella (prima zona industriale)  non risulta che tali sostanze  siano state rilevate  in quantità significative . risulta utile, con riferimento  a questi rilievi, piu di ogni altro commento, seguire la descrizione del processo  relativo alle peci.

 

Tra il materiale agli atti raccolto dal Consorzio Venezia Nuova, relativamente  alle produzioni di solidi e semisolidi , la scheda n 40( pagina 95 del documento)  riporta  dati relativi al reparti di produzione del dicloroetano ( impianto DL2 )

 In particolare risulta che le peci venivano stoccate in serbatoi  Kettle e trasferite in fusti e quindi al forno speciale  o che altrimenti solidificavano nei fusti .

Ed è proprio a causa del riscaldamento  nei Kettle che i composti clorurati volatili –(cioè con temperatura di ebollizione relativamente bassa)   sono evaporati dalle peci e si sono dispersi nella atmosfera.

Ed è questa la ragione per cui nel canale Brentella si trovano solo le diossine  e non gli altri composti clorurati.

I livelli di concentrazione delle diossine  nel canale Brentella   corrispondono a quelli attualmente  giacenti all’interno dei serbatoi del Petrolchimico  , trattasi di quei materiali che oggi vengono inceneriti nei forni e che ,nel passato, sono stati disseminati in laguna compreso il canale Bretella caratterizzando con tale impronta della diossina i sedimenti dell’area industriale.

 

Esame dai dati forniti dal dr Vighi

 Con riferimento al grafico riportato a pagina 638  della sentenza ed alla motivazione relativa  ai criteri seguiti dalla difesa sul punto ,osserva il P .M come non sia possibile controllare la elaborazione del dr Vighi , perché non è spiegato quali siano in congeneri utilizzati, né il perché della esclusione di alcuni campioni e come in ogni caso la spiegazione fornita non sia adeguata potendosi utilizzare anche i campioni esclusi.

 Nella  sentenza  si afferma  ancora  a pagina 639-640 che i campioni raccolti  nei canali della prima zona industriale sono diversi da quelli raccolti nella seconda zona , ma su tale circostanza  l’accusa non ha alcuna obiezione da fare  perché la circostanza è evidente, si contesta però che tale differenza  voglia significare diversa origine temporale  e industriale  della diossina .

 

Con una figura riportata a pagina  640 della sentenza e a pagina 1310  dell’atto d’appello  il dr Vighi mette in evidenza le differenze ,interpretando però i dati inspiegabilmente , secondo  un piano  obliquo,  e non secondo, come si dovrebbe fare, quello degli assi della ascisse e delle ordinate

Il P M riporta quindi nella pagina successiva una figura appartenente all’elaborato dello stesso consulente, ma che il medesimo non ha mostrato ,perché altrimenti diverse  ed in senso contrario avrebbero dovuto essere le sue conclusioni .

 Da questa figura risulta  che lungo l’asse 1 tutti i 17 congeneri sono dalla stessa parte  a destra  con la conseguenza che questo asse non può discriminare alcunché.

 L’asse 2 della stessa figura ha OCDD e OCDF in alto  e TCDD in basso,  ciò che  ha il significato di  dividere i campioni ricchi di octadiossine  ed octafurani da quelli ricchi  di TCDD

L’asse 2 spiega pero solo il 6% della variabilità.

 Vengono quindi presentati di seguito due esempi alternativi alla figura riportata a pagina  640 della sentenza  ma corretti sul, piano della utilizzazione delle PCA, che dimostrano come il tribunale abbia accolto acriticamente le tesi della difesa seguendo la selezione fatta dai  CCTT  degli imputati.

 

 Nelle figure A e B riportate a  pagina 1314 della sentenza si evidenzierebbe  ,nella figura A che nell’asse 1 non ci sono elementi discriminanti , perché sono tutti sulla destra e lontani dalla asse , l’unico significativo e l’ H e CDF , ma anche qui nell’area rossa ,assieme  ai campioni provenienti dal canale Lusore Bretelle(rossi) ce ne sono  parecchi altri che provengono dal canale Brentella e dal canale industriale nord  (blu e verdi);

 nella figura B avviene lo stesso, in quanto se è vero che nell’asse verticale  i campioni che hanno più OCDD e OCDF provengono dal canale Lusore Brentelle ,  ce ne sono  però anche parecchi del canale   Brentella e del canale industriale nord .

 Con  riferimento a quanto sostenuto a pagina 641-642 della sentenza laddove si da atto della  ipotesi accusatoria ,secondo cui la modifica della impronte potrebbe dipendere dalle diversità  introdotte nel ciclo delle produzioni succedutesi negli anni, e del fatto che  si tratta però di una ipotesi non dimostrata  , si osserva come invece la prova della tesi accusatoria ci sia e provenga

dalla stessa azienda , in particolare dai certificati analitici di provenienza Enichem  relativi ad emissioni varie del Petrolchimico.

 

 I grafici  riportati a pagina 1316 dimostrano che  sono possibili impronte  parzialmente diverse tra loro a seconda del ciclo di produzione  e che tutti i tipi di scarico possono avere sia prevalenza assoluta di furani  che prevalenza relativa e diversa di furani si diossine .

 Con riferimento a quando indicato a pagina 656 della sentenza, laddove si sostiene che è acquisizione certa l’utilizzo per l’imbonimento della seconda zona   in via quasi esclusiva di rifiuti di provenienza della prima zona  industriale  ed a quanto indicato a pagina 658 laddove si sostiene  che, nello zoccolo di questa massa di rifiuti ,sono stati scavati interamente i canali industriale sud industriale ovest, Malamocco Marghera osserva il PM come anche tale circostanza non risulti  vera, perché dalle carte si rileva che buona parte   dei terreni su cui è stata realizzata la seconda zona erano terreni agricoli .

 

 Con riferimento a quanto indicato a pagina 657 delle sentenza laddove ,  si evidenzia come vi siano immani quantità di rifiuti dalla caratteristiche colorazione rossa  , i cd. fanghi rossi   di derivazione  da processi di decuprazione delle ceneri di pirite e da processi di lavorazione della bauxite  assumendo cosi che i fanghi rossi sarebbero possibili inquinanti di diossine ,  osserva  l’accusa che si tratta di affermazione  non dimostrata.

 Si sostiene poi che tutti i fanghi rossi provengano dalla prima zona industriale mentre anche nel Petrolchimico funziona un impianto di produzione dei acido solforico che veniva alimentato  a pirite

Risulta che le ceneri siano state usate per imbonire qualsiasi depressione e poi sono state accumulate fuori dello stabilimento.

 

Con riferimento a quanto dichiarato a pagina 659- laddove si sostiene che la contaminazione elevata  del canale Brentella e del canale Industriale Nord costituiscono traccia indelebile  del catabolismo della prima zona industriale e non del catabolismo del petrolchimico  rileva l’accusa  come invece ,da documenti prodotti in giudizio- atti del genio civile- risulti che i suddetti canali sono stati dragati negli anni 60 e quindi i sedimenti contaminati si sono depositati dopo tale data.

Quanto alla presenza dell’alluminio e dell’arsenico in elevate concentrazioni ,ciò che consentirebbe secondo il tribunale  di associare i campioni alle attività produttive della lavorazione della bauxite  e  della decuprazione delle ceneri di pirite  si riportano le considerazioni contenute nel documento depositato il 6-3- 2001  da cui risulta che :

a )i valori di alluminio  trovati nei campioni da E1a E6  sono eguali o inferiori ai valori di AL di sedimenti non inquinati  dell’adriatico

b) gli unici dati scientifici relativi alle analisi di fanghi rossi – presentati dall’accusa e ignorati dalla difesa hanno valori  di AS Cd e ZN molto diversi da quelli contenuti nei sei campioni presentati dalla difesa

c) non esiste alcuna correlazione  tra AL ( che viene ritenuto indicatore di fanghi rossi) e la tossicità

d) la grande variabilità dei contenuti delle diossine

 Si conclude quindi evidenziando che  i campioni definiti fanghi rossi contengono PCDD/F e metalli in proporzione cosi variabile che evidentemente sono stati mescolato o si sono nel tempo mescolati con fanghi /rifiuti/peci provenienti dalla produzioni del cloro.

 

Va ancora criticata la sentenza laddove sostiene che la lavorazione della bauxite con il sistema haglund  , comporti  la presenza oltre che di un catalizzatore metallico anche  di tutti gli ingredienti necessari a produrre diossine e cioè cloro (coke ) e temperatura elevata , perché  invece manca uno degli elementi necessari a produrre diossine , il componente più importante ,e cioè il cloro, poiché  non c’è nessun motivo, scientificamente valido, per sostenere che il coke possa essere paragonabile al cloro o possa rappresentare una fonte di cloro.

 A parte il fatto che in  nessuna fase del processo risulta  la presenza del cloro, si sottolinea come comunque quel procedimento risulterebbe utilizzato in Italia molti  anni fa , per essere poi sostituito dal processo Bayer , mentre è negli anni 60-80  che , secondo la stessa difesa, si sarebbe verificata la maggior parte dell’inquinamento .

 

 Non si comprende poi la critica relativa all’utilizzo delle tabelle del Protocollo d’intesa del 93 come parametro  per la valutazione della sussistenza o meno del pericolo,  atteso che  lo stesso PM. aveva  sollevato la questione  e che comunque i dati presentati in aula su linee guida internazionale  mostravano chiaramente la pericolosità ambientale dei sedimenti  di Porto Marghera.

Non può poi essere condiviso l’esito negativo del controllo ,diretto a verificare la presenza di diossine o furani o IPA negli inceneritori , perché  la loro presenza risulta da un documento di provenienza  aziendale  -una lettera che l’ing Paoli inviava al direttore dello stabilimento per comunicare i flussi di microinquinanti  organici dello stabilimento.

Da quel documento e dagli allegati si evince che i lavaggi dei filtri degli inceneritori  CS 28 provocavano nel 1994 ,un flusso d’acqua e nerofumo contenente PCDD/F,che dopo neutralizzazione ( correzione di  PH solamente)  venivano scaricati direttamente in laguna  (anno 1994).

 

 3.7.2 La tecnologia per la realizzazione degli impianti di trattamento chimico –fisico –biologico delle acque reflue  industriali era disponibile negli anni 50

Osserva il P:M come le affermazioni contenute sul punto nella sentenza , alle pagine 777-780 , con riferimento alla tesi dell’ accusa , secondo cui il depuratore biologico poteva farsi negli anni 50 ,   siano generiche, perché la tesi accusatoria non poteva venire smentita in quanto fondata su documentate conclusioni.

Le affermazioni del Collegio nelle citate pagina della sentenza trovano invero una  puntuale  smentita  nelle argomentazioni e nella documentazione illustrata dal PM nelle conclusioni dibattimentali del giugno 2001  che il tribunale non ha minimamente considerato.

 

 3.7.3 Gli scarichi idrici

Viene quindi esaminata la sentenza nelle parti, da pagina 717 a pagina 725, laddove si ritiene infondata la tesi dell’accusa ,secondo cui gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di diluizione.

Premesso che la diluizione attuata in particolare sullo scarico principale SM15 dello stabilimento è pacificamente ammessa   in fatto da tutti , rileva il PM  come  secondo il Tribunale, la diluizione  non era vietata dalla  normativa vigente  e  che comunque ,anche se comportava il  superamento della concentrazione limite per numerosi inquinanti –fatto anche questo ammesso  ma qualificato come reato contravvenzionale- non determinava  condizioni peggiorative dello scarico.

Risulta dall’esame delle tabelle riportate nell’atto d’appello  e contenute nella relazione del prof  Foraboschi  -relative agli scarichi  SM15 e SM 22- che le concentrazioni delle sostanze inquinanti –azoto  nitrico, solventi organici aromatici, clorurati organici 2° gruppo – superano i valori limiti massimi di legge , in rilevante percentuale , e che mediamente si mantengono vicino ai valori limite mentre la legge  chiede che le concentrazioni siano in ogni momento inferiore al limite.

 

Il rispetto dei limiti di concentrazione ed il conseguente non superamento in nessuna occasione  delle concentrazioni limite .avrebbe comportato il contenimento del contributo inquinante  a livelli sempre inferiori al 10%del valore limite.

La sintesi delle valutazioni tecniche è che quanto maggiore è la portata dello scarico, a parità di concentrazione,tanto maggiore è il carico inquinante addotto nel corpo recettore e quindi il contenimento dell’impatto  ambientale passa  attraverso il contenimento della portata dello scarico .

 Con la diluizione si ottiene l’effetto opposto, in quanto l’aumento della portata ,ottenuta miscelando il flusso delle acque inquinate da determinati inquinanti- utilizzando acque pulite o contaminate con altri tipi di inquinanti - determina automaticamente la possibilità di scaricare quantità di inquinanti che non sarebbero consentiti, se ciascun flusso di acque inquinate fosse  scaricato separatemene o se , come richiede la legge i limiti fossero applicati a ciascun singolo flusso  prima della miscelazione .

 

Viene quindi contestata la sentenza nella parte - da pagina 726 a pagina 736-in cui ritiene infondata la tesi accusatoria,secondo cui il superamento dei parametri di accettabilità di cui al D.P.R n 962/1973 determinò condizioni peggiorative dello scarico delle acque

 Le valutazioni del Tribunale vengono contestate in base alle conclusioni del CT del P.M ,svolte nella udienza del 15-5 e nella relazione del 26-5-2001 che sono le seguenti: gli scarichi idrici del Petrolchimico hanno presentato e tuttora presentano rilevanti frequenze di casi di superamento  dei limiti stabiliti dalla legge per ciascun inquinante; la frequenza di tali superamenti è andata decrescendo dagli anni 70- 80  agli anni 90,ma rimane tuttora superiore all’1%; la affermazione del consulente della difesa fatta propria dal Tribunale, secondo cui il contributo inquinante degli scarichi non avrebbe peggiorato le condizioni delle acque lagunari nell’arco temporale considerato e ciò sia per la natura delle sostanze, sia per l’entità e quantità di tali superamenti , rimane priva di giustificazioni ed è invece vero il contrario cosi come dimostrato dalle condizioni di permanente contaminazione delle acque e dei sedimenti lagunari.

 

Va invero osservato come il collegio incorra in errori fondamentali  sulla base delle seguenti considerazioni.

Innanzitutto va chiarito che la normativa sulla  tutela delle acque  dall’inquinamento  si è sempre,  fin dalle sue origini, basata  sulla fissazione di valori limite  della concentrazione degli inquinanti –stabiliti in apposite tabelle variabili in base alle conoscenze scientifiche  -che non possono essere in alcun  caso superati .

La tesi della difesa ,accolta dal Tribunale, secondo cui la fissazione di limiti di concentrazione massimi  sarebbe invece  frutto di un compromesso ,per facilitare l’azione di campionamento e controllo, non è condivisibile, perché, se per assurdo fosse vera ,consentirebbe anche seppur per periodi limitati, di scaricare  elevate concentrazioni di inquinanti , tali da costituire un vero veleno per la vita acquatica del corpo recettore senza che si abbia il superamento dei valori medi .

 Peraltro quando il legislatore ha voluto applicare il criterio dei valori medi lo ha precisato nella norma , come ha fatto in materia di tutela contro l’inquinamento atmosferico, dove sono appunto previsti dei valori di concentrazione media nel tempo.

 

Per taluni inquinanti ,il tempo ,su cui si devono mediare le concentrazioni, è una settimana per i macroinquiannti la media  è annuale

 Va anche aggiunto che quando si fa riferimento a valori medi di concentrazione da non superare,  questi evidentemente  variano a seconda del tempo nel quale i valori vengono mediati.

In particolare il valore limite diventa più basso quanto piu lungo è il tempo su cui le concentrazioni vengono mediate ed è per tali  considerazioni che il ragionamento del Tribunale non può essere condiviso.

 

3.7.4 Rifiuti e inceneritori

1. Le interpretazioni normative

 Le normative specifiche inizialmente riguardanti la laguna di Venezia  e poi estese a tutto l’ambito nazionale  sul contenimento dell’inquinamento delle acque e del suolo  sono la legge Merli 319/76,

recante  norme contro l’inquinamento delle acque ,e il DPR 915/82 concernente lo smaltimento dei rifiuti.

Le predette normative data la finalità di tutele di un ecosistema delicato e unico doveva essere rigorosa ed a  interpretazioni rigorose  si è attenuta la Corte di Cassazione.

 Dalle dichiarazioni dei tecnici della difesa risulta invece che l’adeguamento degli scarichi idrici ai limiti di legge è avvenuto solo nel 1983, ben 10 anni dopo la promulgazione della legge

 I limiti di legge poi in realtà non risultano sempre rispettati neppure dopo. 

 

2 Le soluzioni impiantistiche e gestionali

 L’impianto di incenerimento  CS 28 dei residui clorurati installato nel 1972 aveva evidenziato forti carenze come risulta dalla relazione dei CC.TT di medicina democratica  ,soprattutto a causa di forti carenze del materiale costruttivo , che risultava evidentemente  erroneamente scelto sulla base solo di criteri di risparmio  economico .

 

 3 La gestione dei rifiuti

 Nulla dice poi la sentenza sugli altri impianti di incenerimento dei rifiuti esempio il primo impianto di incenerimento di reflui liquidi del reparto TD (anno 1972) -per cui erano state evidenziate carenze impiantistiche - l’impianto di incenerimento del nerofumo del reparto AC1(anno 1968), anch’esso privo di sistemi di abbattimento degli inquinanti , nè su quello della produzione del cloro  con celle a catodo di mercurio , di cui si è parlato in precedenza e per cui il mancato utilizzo delle  piu avanzate tecnologie ( celle a diaframma o  celle  a membrana) avrebbe consentito di evitare il rilascio nell’ambiente di mercurio e diossine.

Capitolo 3. 7

Impianti vecchi e obsoleti a Porto Marghera le migliori tecnologie disponibili

 

 3.7.1

La mancata adozione di dispositivi blow down sugli scarichi  di emergenza degli impianti.

Piu volte sono state trattate le problematiche ambientali connesse ai sistemi di convogliamento e trattamento (torce  e blow down) degli scarichi di emergenza ,derivanti dai dispositivi di protezione delle apparecchiature.

 

1)Raccolta e convogliamento degli sfiati

I recipienti chiusi che contengono fluidi pericolosi , se possono raggiungere elevate pressioni, devono essere dotati di dispostivi di sicurezza  per il caso di scoppio e quando questi dispositivi entrano in funzione , il contenuto viene rilasciato  in tutto o in parte  e convogliato  in un  sistema di raccolta blow- down ,cosi come impongono norme di buona tecnica e tutela ambientale.

 

2)Abbattimento  degli inquinanti

Osserva l’accusa come presso il polo chimico di Marghera almeno fino al 1993 la regola era invece quella dello scarico diretto nell’atmosfera degli sfiati di emergenza , regola che contravveniva alle norme di buona tecnica secondo cui:

lo scarico diretto nella atmosfera è vietato quando:

a) è  vietato  dalla legislazione locale;

b) quando  il fluido scaricato abbia temperatura superiore a quella di autoaccensione;

c) quando il fluido presenti caratteristiche di tossicità;

d) quando la corrente da scaricare sia un liquido infiammabile, tossico o comunque pericoloso;

Nel caso degli scarichi di emergenza contenenti 1,2 –DCE o CVM ricorrono le condizioni di  cui alla lettera b e/o della  lettera c e d.

 

3) Le soluzioni adottate dal Polo chimico, emissione da un camino a quota elevata o combustione in una torcia posta alla sommità di un alto camino ,contrastano le regole della buona tecnica in quanto non garantiscono né il contenimento nè l’abbattimento degli inquinanti pericolosi .

La prima soluzione comporta solo la diluizione degli inquinanti ,aumentando però la popolazione esposta  e non doveva pertanto  essere usata per  fluidi tossici  o cancerogeni

La seconda non doveva essere utilizzata per quelle sostanze –quali il CVM - la cui combustione produce  sostanze ancora piu tossiche

Solo nel 1993 risulta essere stato installato un inceneritore in cui sono inviati tutti gli sfiati normali e di emergenza degli impianti .

 

4)La disponibilità della tecnologia blow down

 

 La tecnologia per attuare la installazione di appropriati sistemi blow-down sugli impianti era disponibile dagli anni 60 ed era ben nota all’interno del gruppo.

 Tali sistemi di scarico sono stati installati negli anni 70 preso gli impianti  macro e micro pilota del centro ricerche della Montedison  di Castellanza e nel 1974 presso lo stabilimento di Ferrara.

 

5)     Utilizzo per gli impianti di produzione del cloro-soda del processo con celle a catodo di mercurio e mancata adozione della tecnologia disponibile  prima con celle a diaframma  e poi con celle a membrana.

 

 Il P.M espone su questo punto le sue critiche  alle affermazione infondate contenute nella sentenza laddove il Tribunale afferma che  l’approntamento di impianti di cloro soda  con celle a membrana era in uso dalla prima metà degli anni 70, solo però a livello sperimentale, mentre fino agli anni 80  il sistema  predetto non funzionava efficacemente a livello industriale.

 

 Risulta infatti dalle prove acquisite che al contrario erano in produzione da metà degli anni 70 impianti di cloro soda con celle a membrana e risulta provato comunque che, negli Stati uniti ,per la produzione del cloro-soda fin dagli anni 72 venivo usato il processo con celle a diaframma , che è meno energivoro di quello catodo di mercurio.

 

6) Effluenti e residui mercuriali originati dal processo cloro-soda presso il Petrolchimico di Porto Marghera

Il ciclo produttivo in questione comporta pesanti impatti ambientali con la emissione di rilevanti quantità di reflui di processo tra cui i fanghi mercuriali,contenenti alti tassi di mercurio , che risultano essere stati tumulati tra gli altri siti nella località di Marano ( vedi documentazione ispettore forestale )

 

7)Disponibilità della tecnologia impiantistica per la depurazione dei reflui derivanti dal processo cloro-soda e la sua  mancata adozione   presso il Petrolchimico di Porto Marghera

Nonostante esistessero   dagli  inizi degli anni  60  tecnologie impiantistiche che consentivano la depurazione delle acque reflue in questione fino al limite di concentrazione finale  di 5 p p b (5 parti per  miliardo), di mercurio , per 31 anni dal 1951 al 1982  la società ha gestito gli impianti cloro soda senza dotarli dei sistemi di  depurazione , essendo stato installato il primo impianto di demercurizzazione solo nel dicembre del 1982  .

 

 8) Disponibilità della tecnologia delle  celle elettrolitiche a membrana nel processo cloro- soda e la sua  mancata adozione presso il Petrolchimico di Portomarghera 

Le celle elettrolitiche a membrana erano disponibili sul mercato da oltre 25 anni.

La società americana Diamond Shamrock ,a meta degli anni 70, aveva gia realizzato e messo in produzione sei impianti con la tipologia delle celle elettrolitiche a membrana.

 Inoltre negli stessi anni (1975-1977) la società aveva in studio altri 40 progetti per impianti Cloro –soda con celle elettrolitiche  a membrana .

Nei primi  anni 80 la società Rumianca  realizzava la progettazione di un impianto con celle elettrolitiche a membrana che poi costruiva nel 1984 e faceva entrare in produzione nel 1986.

Solo nel 1988 ,con 15 anni  di ritardo anche in questo caso, la società Montedison si impegnava con il ministero dell’Ambiente a sostituire da subito le celle a catodo di mercurio con quelle  a membrana nei suoi impianti.

 

9)Riduzione dell’impatto ambientale attraverso l’adozione dell’ossigeno puro in luogo dell’aria nel processo produttivo dell’1,2 dicloroetano

Con l’adozione  negli impianti CV 22 e 23 della migliore tecnologia disponibile, che comportava la sostituzione dell’ossigeno puro in luogo dell’aria , nel processo produttivo dell’1,2, DCE si sarebbe notevolmente ridotto l’impatto ambientale

 Ed invece, nonostante i noti vantaggi anche sotto un profilo di rendimento del prodotto, oltre che  sotto il profilo ambientale, derivanti dalla adozione delle tecnica sopradescritta- già da tempo adottata da molte imprese-  la società   continua tuttora a produrre con il vecchio processo ad aria nonostante il suo maggiore impatto ambientale .

 

3.3.2 Omessa  applicazione della  normativa concernente lo smaltimento dei rifiuti in relazione agli apporti idrici  tali da qualificarsi rifiuti tossico nocivi e/o rifiuti  pericolosi,con conseguente divieto di loro sversamento  nelle acque della laguna di Venezia

 Rileva il P. M come  l’istruttoria dibattimentale abbia  evidenziato,mediante prove documentali  che ci sono stati ripetuti scarichi in fognatura di acque di lavaggio della pulizia delle autoclavi , fortemente contaminate da CVM  la cui presenza aveva anche fatto , in alcune occasioni, scattare nei reparti  gli allarmi per la quantità di CVM che si  diffondeva nella atmosfera  durante le operazioni di scarico.

La provenienza e la contaminazione delle acque di cui sopra  non ne consentiva lo scarico- non autorizzato né autorizzabile-  essendo  la sostanza contaminante  una di quelle indicata al punto 3.6 della tabella 1.3 contenuta nelle Delibera  Interministeriale di cui all’art 5 D.P.R 10-9-1982 n 915 in data 27-7-1984 .

 In base a tale disposizione le acque avrebbero infatti dovuto essere considerate rifiuti  pericolosi ( un tempo rifiuti tossico nocivi).

 

Il Tribunale  invece  aveva escluso che  gli apporti liquidi provenienti dai reparti CV 22.23 e CV 24.25 dovessero essere classificati come rifiuti liquidi pericolosi , escludendo altresì che la loro confluenza nello scarico generale SM15 attribuisse allo stesso la medesima qualità di rifiuto tossico nocivo  o pericoloso

Rileva quindi il PM come  la decisione del Tribunale si fonda su due premesse entrambe errate .

La prima è la affermazione che la delibera interministeriale non ha introdotto un principio di presunzione di tossicità del rifiuto in ragione della sua provenienza .

 La seconda è la affermazione che una eventuale presunzione sarebbe incompatibile con il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza

 La Corte di Cassazione ha  infatti affermato al contrario il principio secondo cui la tossicità di  un rifiuto  deve essere valutata in relazione alla sua provenienza  e quindi il Tribunale ha commesso un primo errore.

 

Dalla  seconda erronea premessa deriva l’affermazione che gli scarichi delle acque di processo, provenienti dai reparti CV 22/23 e CV 24/25 ,non appartengono alla categoria dei rifiuti, e sono invece sottoposte alle disciplina relativa  agli scarichi idrici.

Ed a fondamento di tale affermazione il Tribunale  pone  i principi contenuti nella nota sentenza della C.C  Sezioni unite del 1995.

Ma l’interpretazione  che il Tribunale dà alla citata sentenza  non è corretta ,non essendo mai stata utilizzata dalla giurisprudenza la distinzione tra rifiuto liquido e rifiuto solido per distinguere la disciplina da applicare al singolo caso.

Ne consegue che il Tribunale ha  commesso un secondo errore interpretativo

 

Va quindi chiarito,secondo l’accusa al fine di correttamente applicare le norme  in questione che lo scarico proveniente dai reparti CV 22/23 CV 24/25 va a confluire nell’impianto di trattamento denominato SG 31 ,gestito da un soggetto diverso da quello titolare dello scarico , per cui ci si trova in presenza di uno scarico indiretto.

 Per scarico indiretto si intende quello in cui il rapporto tra le acque di processo ed il corpo recettore  sia interrotto dall’attività di un soggetto diverso dal produttore dello scarico,al quale quest’ultimo conferisce il liquame per avvalersi dell’impianto di depurazione da quello gestito.

 

 Ed allora una prima ragione per escludere l’applicabilità della normativa in materia di scarichi idrici allo scarico  in questione è rappresentata dal fatto che  si tratta di scarico indiretto ,e come tale quindi, escluso dalla disciplina dettata per gli scarichi idrici ed assoggettato alla disciplina normativa sullo smaltimento dei rifiuti ,per effetto delle disposizioni contenute nell’art 36 D. LG vo 152/99, che  stabilisce  appunto come per  scarico debba intendersi il riversamento diretto nei corpi ricettori, con la conseguenza che quando il collegamento è interrotto ,viene meno lo scarico.

A sostegno di quanto affermato viene citata una sentenza della C.C del 1999 –Sez III 24-6- 1999  est Onorato - che richiama il D .Legislativo  152/99 e la sentenza della  C.C  del 1995  erroneamente  interpretata dal Tribunale , con la precisazione che la interpretazione ,  di cui alla  prima  sentenza citata , è conforme a  quella elaborata in precedenza  e cioè prima dell’entrata in vigore del  citato D. LG .vo , e secondo tale  interpretazione i rifiuti liquidi che  potevano , per le loro caratteristiche,essere qualificati tossico nocivi ,dovevano essere sottoposti alla più rigorosa disciplina dettata per lo smaltimento dei rifiuti tossico nocivi.

 

Tanto risulta con chiarezza anche  dalla sentenza delle Sezioni unite ,che il Tribunale ha male interpretato, nonostante  sia stato chiaramente detto dalla Corte stessa, nella  descrizione dei criteri ai quali ci si  deve  attenere per stabilire se deve essere applicata la normativa in materia di acque o quella in materia di rifiuti, che proprio secondo  uno dei criteri utilizzati per la distinzione , è prevista  la inclusione nel DPR 915/82  (art 2,6° comma ultima parte ) dei liquami e fanghi ,quando siano tossico nocivi .

 

E lo stesso principio viene ribadito nella sentenza  laddove ,dopo avere affermato che le fasi di smaltimento  dei rifiuti liquidi attinenti allo scarico sono soggette alla disciplina stabilita dalla legge 319/76, viene fatta salva l’unica eccezione dei fanghi e liquami tossico nocivi che sono invece sotto ogni profilo , regolati  dal d.p.r n 915.

Su tali interpretazioni non risultano esservi stati contrasti giurisprudenziali per cui non potrebbe neppure invocarsi la buona fede o l’ignoranza  del precetto penale ,dovuta ad errore giustificabile ex art 5 c p per la presenza di decisioni contraddittorie .

La  terza erronea valutazione  si è risolta in una serie  di errati apprezzamenti di fatto.

Il Tribunale da infatti atto degli accertamenti fatti dal C. T della accusa  Cocheo, ( utilizzando i rilievi di un gascromatografo che controllava la concentrazione di CVM  nella vasca di neutralizzazione   posta immediatamente  prima dell’impianto di depurazione dello scarico SG 31) dai quali è risultato il superamento dei limiti di concentrazione del CVM.  -fissati nella delibera Interministeriale . del 1984 perché il rifiuto possa essere considerato tossico nocivo - ma  sostiene  che il superamento dei limiti, accertato  in sole 10 occasioni,  non sarebbe sufficiente ad attribuire la qualifica di rifiuto tossico nocivo a tutta  l’acqua in uscita dallo scarico SM1510

 Ma nel suo ragionamento il Tribunale  commette degli errori ;avrebbe infatti dovuto – dopo aver rifiutato il primo criterio proposto e cioè quello  della qualificazione desunta dalla semplice provenienza da lavorazioni che producono rifiuti tossico nocivi- accertare se le acque provenienti dai citati reparti contenessero o meno CVM  e nel caso affermativo se la sua concentrazione  fosse superiore al limite fissato dalla delibera interministeriale del 1984.

 

Accertata la tossicità si sarebbe poi dovuto valutare quali fossero sotto il profilo giuridico le conseguenza della eventuale miscelazione  con altri rifiuti liquidi convogliati in laguna dallo scarico SM15.

 Il Tribunale avrebbe poi dovuto ricordare , e non  lo ha fatto, il divieto assoluto contenuto nella Delibera del 1984 . di  miscelazione dei rifiuti tossico nocivi con qualsiasi altro rifiuto .

 Comunque accertato che, anche in una sola occasione, la concentrazione di CVM era superiore al limite stabilito dalla relativa normativa, il rifiuto doveva essere qualificato come tossico nocivo e  come tale trattato e smaltito e non avrebbe invece dovuto essere smaltito in acqua, attraverso un normale impianto di depurazione, che non era mai  stato autorizzato allo smaltimento dei rifiuti tossico nocivi.

 

La modalità di smaltimento  dei rifiuti tossico nocivi praticata dal Petrolchimico era rigorosamente  vietata dall’art 9  u.c. DPR. 915/82 .

Il Tribunale ha poi affermato che i risultati del consulente  del PM. Cocheo erano inattendibili , sulla base dei rilievi fatti dal consulente della difesa Foraboschi , ma non ha poi consentito al consulente del PM di ribadire ai rilievi critici fatti da quello della difesa  , le cui conclusioni sono errate come emerge anche dalla lettura della memoria che in sede di replica era stata  depositata  dalla parte civile per confutare gli errori ed i travisamenti operati dal CT Foraboschi.

Il Tribunale ha ancora fatto affermazione infondate, quando ha ritenuto che non esisteva alcun collegamento  permanente  tra la fognatura dei reparti di produzione del CVM/PVC \e le vasche di neutralizzazione ; che solo fino al 1995  vi era la possibilità di qualche  sforatura per quanto riguardava le acque reflue del reparto CV 22/23, mentre non esisteva alcuna possibilità per quanto riguardava il reparto CV24/25 ; non è invero dato di capire da quale elementi probatori il Tribunale derivi le predette non veritiere affermazioni.

Va semmai  evidenziato come il contrario risulterebbe dalla domanda di autorizzazione del 1996,  che contiene la descrizione del percorso della acque di processo provenienti dai reparti ed indica il loro collegamento con le reti fognarie  e l’impianto di depurazione.

 

Certo risulta comunque che nelle acque di fognatura dei reparti finivano le acque di lavaggio delle autoclavi , cosi  fortemente contaminate  dal CVM  da provocare  allarmi all’interno  dei reparti

 Ed invero la presenza di CVM  nelle vasche di neutralizzazione era  ben conosciuta dallo stesso gestore che, sopra le vasche ,aveva messo un gascromatografo per misurare la quantità di CVM che dalle vasche evaporava .

Quale fosse la  situazione  dello scarico risulta comunque dalla documentazione prodotta dalla stessa azienda nel 1996, quando l’impianto era stato sequestrato dalla autorità giudiziaria  ed il Magistrato alla acque aveva sollecitato la presentazione di una relazione tecnica più dettagliata sulle caratteristiche dell’impianto.

 

 Da quella stessa  documentazione risulta: che sono stati avviati all’impianto SG31 liquami che avevano le caratteristiche dei rifiuti tossico nocivi  in base alla tabella 1.3 delle delibera ,nonostante il divieto contenuto nell’art 9 ultimo comma DPR915/82, che i predetti rifiuti  sono stati trattati come se si trattasse di un normale scarico idrico , mentre il loro coretto smaltimento avrebbe dovuto avvenire soltanto con il ricorso  all’incenerimento o in alternativa  con il conferimento in discarica, .che i predetti rifiuti sono stati miscelati con altri reflui provenienti da diversi reparti ,in violazione di quanto previsto dall’ultimo comma del punto 1.2 della citata Delibera e del principio contenuto all’art 4 lettera ) e DPR 915/82 che  sono state effettuate tutte le fasi di smaltimento dei predetti rifiuti in assenza di autorizzazione con la conseguenza che  il produttore si è sottratto al preventivo controllo da parte delle autorità amministrative.

 

Risulta quindi  provata una condotta contraria a specifiche disposizioni di legge, e pertanto colposa, protrattasi per decenni e concretizzatasi  nello scarico in laguna di tonnellate di rifiuti idrici tossico nocivi perché contaminati da CVM.

Conferma della fondatezza della ipotesi accusatoria si trova oltre che nella documentazione  di cui sopra anche in quella  contenuta nel faldone 102 acquisito dal Tribunale in data 8-5-2001

Risultando accertata la violazione del DPR 915/82 relativa allo smaltimento dei rifiuti, la assoluzione degli imputati dalle relative contravvenzioni  è ingiusta e deve essere riformata.

 

III parte –sentenza Capitolo V

  Ipotesi e  prove in tema di avvelenamento (452 e 439 c.p) e /o adulterazione (452 e 440 c p) del biota vivente sul sedimento dei canali della area industriale

 

5.1 Introduzione

Sinossi della motivazione sulla insussistenza di pericoli alimentari tipici dell’avvelenamento e della adulterazione.

Premessa : le caratteristiche quantitative e qualitative della presenza di inquinanti ,rilevate in traccia nel biota vivente nei sedimenti dei canali dell’area industriale, non permettono di ritenerne l’attitudine  a farsi causa iniziante di effetti avversi alla salute in quanto le classi  di esposizione, suscettibili di derivare dalla assunzione tramite la dieta del biota in questione, sono distanti ordini di grandezza da quelle- seppure solo potenzialmente- capaci di produrre effetti avversi. 

Nella prospettiva accusatoria la questione della reale attitudine delle sostanze di cui si discute  a recare nocumento alla salute è invece rimasta in secondo piano, ritenendo  l’accusa la sussistenza di pericoli alimentari, a prescindere dal riferimento ad una giustificazione e proponendo  di desumerne l’esistenza da generalizzazioni non pertinenti.

 

Significativo osserva il Tribunale è il fatto che l’accusa  non abbia  ritenuto di allegare adeguata informazione sulle classi di esposizione – dosi- al cui livello l’esperienza clinica e/o l’osservazione epidemiologica riconosce essere stati osservati minimi effetti nell’uomo. 

 Secondo l’accusa, il pericolo che connota la fattispecie  dell’avvelenamento e della adulterazione  può essere desunto dalla violazione di norme  tipiche della legislazione complementare e accessoria penale ed extrapenale  che affiancandosi ai delitti contro l’incolumità pubblica ,realizzano forme di tutela anticipata di tale bene.

 

 Esempio tipico il D. Lvo  30-12-1992  n.530  di attuazione della direttiva 91/492/CEE che, stabilendo parametri  di edibilità per il consumo umano dei molluschi, stabilisce tra l’altro che non devono contenere sostanze tossiche o nocive  di origine naturale o immesse  nell’ambiente, quali quelle elencate nell’allegato A) del D lvo 27-1-1992 n131 ,in quantità tali che l’assunzione di alimenti calcolata  superi la dose giornaliera ammissibile per l’uomo (c.d. D G. A e in inglese A.D.I accetable daily intake o T.D .I. tollerable daily intake ).

 

 E la maggior parte dell’istruttoria ha  infatti riguardata tale tipo di accertamento con esito negativo  in quanto è risultato provato che le dosi suscettibili di derivare dalla assunzione tramite la dieta di quel pescato non sono  riconducibili alla classe  di dosi capaci di superare i c. d  limiti soglia.

Viene a questo punto precisato che il limite di assunzione delle sostanze tossiche negli alimenti ,cd valori soglia, viene operato applicando dei fattori di correzione  che comportano la distanza di ordini di grandezza  dalla dose di assunzione che non ha provocato effetti tossici  in sede sperimentale su animali – cd noael no observed adverse effect level.

Dopo avere premesso  che verrà nel prosieguo spiegato cosa sono i limiti soglia  viene comunque anticipato che vengono determinati applicando dei  fattori di correzione  che realizzano la distanza di ordini di grandezza dalla dose che non ha provocato effetti tossici – NOAEL- e che  pertanto il limite soglia- espressione del principio di precauzione- non indica la misura del  pericolo reale.

 

E tanto è provato anche dal fatto che  il superamento del limite soglia o D. G. A non è sanzionato penalmente  ma solo in via amministrativa o convenzionale.

Comunque il programma probatorio diretto a  confrontare la dose idealmente assumibile tramite la dieta di vongole di provenienza dall’area  industriale e la D. G .A. –dose soglia- una volta eliminata ogni incertezza sulle caratteristiche -tossicologiche degli inquinanti non risulta provato essendo stato accertato il contrario.

 

Sia per quanto riguarda  i metalli e gli altri microcontaminanti di interesse, come per quanto riguarda  le diossine e il P.C.B. , risulta provato che, anche per i forti consumatori, un ipotetico consumo di vongole provenienti dall’area industriale non eroderebbe  l’ampio margine di protezione “1-4-picogrammi / kg di perso corporeo / die” e cioè il valore soglia  individuato dalla Organizzazione mondiale per la sanità e adottato anche dalla Commissione europea per la protezione alimentare, parametro di riferimento   dell’esposizione sicura a tali tipi di sostanze , determinato  applicando il principio di precauzione.

 

A tali conclusioni il tribunale  rileva di essere pervenuto utilizzando - secondo i criteri usati anche nei documenti delle agenzie regolatorie - per la corretta determinazione  della dose di assunzione individuale, dati di concentrazione e di consumo medi sul lungo periodo    ( sia la concentrazione come il consumo sono dati necessari per determinare la esposizione  giornaliera ), ed , alla accertamento della insussistenza di pericoli  alimentari suscettibili di derivare dalla dieta costituita dal biota di provenienza dall’area industriale ,  è pervenuto sulla base dei dati di concentrazione degli inquinanti   emersi dalle relazioni degli stesse consulenti tecnici delle  accusa.

 

Essendo però venute in luce notevoli differenze, per quanto riguardava la concentrazione  degli inquinanti , tra accusa e  difesa   era stata ritenuta concordemente la opportunità di affidare la analisi ad un consulente esterno che, le parti stesse avevano concordemente individuato  nel laboratorio  M. P.U. di Berlino, luogo di espletamento della analisi a cui le parti tutte hanno partecipato.

E i risultati delle analisi hanno dimostrato come i valori di concentrazione degli inquinanti , indicati dal consulente della accusa Raccanelli siano inattendibili -in quanto di gran lunga superiori  a quelli accertati  nel laboratorio di Berlino,  che sono risultai invece  corrispondenti a quelli  resi noti da altri consulenti della accusa-  e come siano invece attendibili quelli delle difese, ,atteso che, quelli  quelli  originariamente discussi e determinati dagli esperti delle difese  sono risultati superiori  quelli  emersi dalle analisi di Berlino .

 

Comunque ,sia seguendo i dati della analisi di Berlino, come quelli  precedentemente   rilevati dalle  difesa,utilizzando quindi sia i valori medi di concentrazione acquisiti prima come i valori medi ottenuti dalle analisi di Berlino , ed a maggior ragione  secondo questi dati ,i valori di concentrazione cumulativa per diossine  più   P. C .B  sono risultati compatibili con il valore soglia   che   applicando il principio di  precauzione , l’O. M. S  ha indicato nel 1998 ,sia per l’esposizione del medio consumatore come per l’esposizione del forte  consumatore .

E se non risulta superato il limite soglia a maggiore ragione non sono ipotizzabili  i supposti pericoli alimentari .

 

Riassumendo quanto sopraesposto rileva in conclusione il Tribunale come l’accusa abbia cercato di dimostrare   la sussistenza del pericolo attraverso il confronto delle concentrazioni di inquinanti e dei conseguenti livelli di  esposizione tramite la dieta  con misure – i  valori di soglia – lontane ordini di grandezze  dai livelli degli effetti osservati negli endpoints più sensibili, non riuscendo in tale intento perché l’evidenza probatoria disponibile  è di segno contrario  a tale proposizione.

Il Tribunale poi non condivide le ipotesi interpretative secondo cui il pericolo tipico dei reati di avvelenamento e adulterazione  viene retrocesso a parametri tipizzati da leggi  extrapenali o da agenzie regolatorie.

Per  quanto riguarda infine,  in particolare , le diossine si  osserva come l’accusa abbia  sostenuto che il  valore soglia definito dalla O.M.S. nel 1998 non è adeguato alle esigenze di protezione delle fasce di popolazione più sensibile. Sul punto va fin d’ora  chiarito che la O. M .S ha applicato , dovendo definire la misura della precauzione ,contenuti di ricerca scientifica , per la definizione del valore soglia, ultraprudenziali per le esigenze di protezione  delle fasce di popolazione più sensibile e per tutti gli effetti possibili.

E l’O.M.S. stabilisce che debba essere ritenuta adeguata , alla necessità di protezione di tutta la popolazione ,una esposizione  a dosi dieci volte inferiori a quelle che non sono ritenute capaci  di produrre effetto ( Noael), stabilendo con tale criterio il  T.D.I di 1-4 p g/  TEQ/ kg peso corporeo /die.

Ed  alla luce di tali considerazioni appare evidente come sia ingiustificato sostenere la inadeguatezza del valore soglia indicato per le diossine  dalla predetta organizzazione.

 

L’assoluzione degli imputati dai reati di avvelenamento e adulterazione risulta conseguente  all’accertamento che le dosi  di assunzione del consumatore medio  e del forte  risultano non sussumibili sotto le classi idonee a dar luogo ad un qualunque effetto avverso; che le dosi predette non sono sussumibili sotto quelle vietate dalla legge speciale o sotto valori non normali; che le diossine  e /o le diossine simili non sono sussumibili sotto la classe di quelle capaci di superare il valore soglia ,determinato , applicando il principio di precauzione.

 

L’assoluzione consegue  allo accertamento che i livelli di dose capaci di  produrre effetti negativi sull’uomo sono ordini di grandezza più elevati di quelli processuali; consegue altresì alla evidenza probatoria che non permette di individuare nel catabolismo del petrolchimico – quello dei tempi storici della imputazione- la matrice della contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale.

E come rilevato anche dalla difesa  se non  risulta  provato il reato di avvelenamento e adulterazione ,non risulta provato neppure quello di disastro innominato ,che nell’ipotesi accusatoria li presuppone.

Per tali considerazioni che verranno ampiamente esaminate nei capitolo che seguono l’accusa risulta del tutto infondata.

 

5.2 Resoconto delle tesi di accusa in tema di avvelenamento e di adulterazione del biota

Le tesi accusatorie si richiamano a studi rilevanti in ordine all’inquinamento del biota interpretandone in modo non corretto le conclusioni.

Premesso infatti che certamente il sedimento dei canali è inquinato e di conseguenza anche il biota sullo stesso vivente  e che sull’inquinamento del biota interferisce  la componente biodisponibile degli inquinanti  ,la questione rilevante nel processo e quella di stabilire  in che misura ciò avvenga e con quali conseguenze.

Si interessa di tale questione innanzitutto lo studio di Baldassari. Ziemacki e  Di Domenico –anno1996- che non evidenzia situazioni di contaminazione del biota , nel contesto della conterminazione lagunare, critiche per il consumo umano.

E le conclusioni del predetto studio, pur redatto fini diversi da quello della valutazione  del rischio per l’uomo , per conto  dell’Istituto superiore della Sanità non sono dissimili da quelle  prese da altri studiosi.

 

 Nelle conclusioni i tecnici di cui sopra hanno evidenziato in particolare che il livello di concentrazione  delle diossine  riscontrate  nei pesci e nei molluschi  dei canali della zona industriale  è confrontabile con quello normalmente riscontrato nei pesci e molluschi utilizzati per l’alimentazione umana ,provenienti  da aree con impatto antropico da moderato a trascurabile  

 Hanno gli stessi tecnici anche osservato che, per quanto riguarda la contaminazione da PCDD/F, sono state rilevate in letteratura concentrazioni di livelli superiori oltre un ordine di grandezza- cioè 10 volte superiori- a causa di sensibili contaminazioni ambientali locali.

 

Altre fonti accertano- vedi consulenza tecnica Sesana  Muller -che le concentrazione di inquinanti   non superano la scala dei valori normali  e che, in base alle analisi di campioni prelevati nei canali della zona industriale, sono compatibili con quelle che, secondo la disciplina normativa relativa alla edibilità del prodotto, sono ammesse per legge ad essere distribuite per il consumo umano diretto .

 A tale conclusioni è pervenuto anche  il consulente  tecnico  dell’accusa che ha però fatto le proprie indagini orientate  solo  sui metalli pesanti  assumendo come riferimento  i limiti fissati  dalla normativa italiana per la edibilità del prodotto .

IL riferimento normativo è costituito dal D. Lgvo.  530/1992, specifico per il biota di maggiore interesse processuale , e cioè i molluschi bivalvi  ,che secondo quanto prescritto nell’allegato  A ) punto d) non devono contenere sostanze tossiche o nocive , quali quella elencate nell’allegato A del  Dlgvo 27-1- 1992 n131 ,in quantità tali che la assunzione di alimenti  calcolata  superi  la D .G. A o  sia tale da alterare il gusto dei molluschi.

 Il Dl gvo 530/1992 indica per ciascun contaminante , partendo  dalla dose giornaliera ammissibile-(DGA) - la concentrazione limite (CL).

 

 Viene pero a questo punto ulteriormente evidenziato come un modesto superamento della DGA o del CL non significhi avvelenamento  punibile ai sensi dell’art 439 –440 c .p

  Ritiene in fatti il primo giudice  necessario evidenziare e ribadire come diversa sia la offensività degli illeciti amministrativi, aventi per oggetto il superamento dei  valori soglia ,dalla offensività dei delitti colposi di comune pericolo.

Il consulente tecnici Sesana  accerta ancora che per tutti i metalli vengono rispettate le concentrazioni limite  ,che fissano i requisiti di edibilità ,al di fuori dell’arsenico

 Il catabolismo del Petrolchimico  non è pero fonte di contaminazione da arsenico, mentre elevate concentrazioni di arsenico si associano  alle ceneri di pirite  che sono tra i rifiuti usati per imbonire le aree della seconda zona industriale.

 

 Altri studi condotti  per conto della mano pubblica- studi di Marcomini, Zanette, D’Andrea e Della Sala -evidenziano la insussistenza di pericoli alimentari  e la assenza di situazioni critiche anche per i forti consumatori ed anche  con riferimento alle diossine

 Ed infatti la tesi accusatoria trova fondamento sulle valutazioni di altri consulenti dell’accusa:Raccanelli e Zapponi

 

Valutazione del consulente dell’accusa  Raccanelli

Premessa la difficoltà di accertare la causa dell’inquinamento del biota non essendo possibile a differenza di quanto accade per il sedimento usare il confronto tra le impronte rileva comunque il consulente –tecnico  come  campioni prelevati nella zona industriale  risultino ricchi di furani a   basso grado di clorurazione  e di octaclorofurano , con una presenza molto bassa invece di diossine , mentre in altre zone di rischio , differenti dal contesto dell’area industriale ,predominano le diossine   sui furani, ciò che  evidenzierebbe la provenienza dell’inquinamento dal Petrolchimico.

 La tossicità di PCDD/F è espressa  con una unità I – WHO che   comprende anche la tossicità legata ai policlorobifenili detti diossina simili. 

 

 Il valore massimo di concentrazione di tali  inquinanti risulta trovato in un  campione prelevato  il 14-9-2000 dalla guardia di Finanza a pescatori di frodo  che  presentava una tossicità  di 2,7 p g I –WHO/kg  e comunque  nella maggior parte dei campioni risulta superato il limite di legge con valori massimi proprio in prossimità dello scarico SM15.

 

 In particolare il consulente –tecnico  dell’accusa in sintesi  evidenzia come , dal confronto tra i campioni prelevati nell’area industriale e quelli prelevati  nella zona di Santo Erasmo,  risultino con riferimento ai  valori massimi:

concentrazioni anche 135 volte più alte   per i PCDD/PCDF,

concentrazioni anche  86 volte più alte  per l’HCB,

concentrazioni anche  6,7 volte più alte per gli  OCDF/OCDD .

Evidenzia  inoltre l’esperto dell’accusa che l’octaclorofurano è il congenere che ha l’abbondanza relativa maggiore nei sedimenti industriali ,mentre l’octaclorodiossina è il congenere  che ha abbondanza maggiore nei reflui civili e nella città di Venezia

 Il fatto che il rapporto tra    OCDF e OCDD vada progressivamente diminuendo  man mano che ci si allontana dalla zona industriale  conferma la provenienza della contaminazione dal Petrolchimico.

 

 La tesi accusatoria consegue alla premessa secondo cui dell’inquinamento delle acque della zona industriale sarebbe responsabile solo il Petrolchimico , per cui accertata la presenza delle diossine l’accusa ritiene  raggiunto ed esaurito il suo programma di prove

 Secondo il consulente dell’accusa sarebbe sufficiente il consumo di 26 grammi di  peso edibile di vongole   per erodere il margine di garanzia costituito  dalla dose giornaliera ammissibile per un adulto, ove si ponga che quelle oggetto di campionamento ed analisi registrano valori di tossicità massima della misura di quella sopraindicata..

 

Con riferimento  al valore di concentrazione massimo di inquinanti riscontrato – quello del campione prelevato il 14-9-2000- basterebbe  mangiare 26 grammi edibili di vongole per superare la soglia  della dose giornaliera ammissibile

 Con riferimento al valore medio di tossicità riscontrato nei campioni sarebbero sufficienti 39 grammi di peso  edibile di vongole per erodere il margine di garanzia rappresentato dal valore –soglia

 

 Valutazione della consulenza d’accusa Zapponi

Sono le conclusioni a cui è pervenuto questo consulente tecnico  a consentire alla pubblica accusa di portare a compimento la prova in ordine  alle accuse  di avvelenamento e adulterazione delle sostanze destinate alla alimentazione. 

Le conclusioni del consulente partono dalla premessa che la concentrazione media di diossina nei molluschi bivalvi  dell’area industriale  di Venezia  risulta essere dell’ordine di1.85 p g TE/g e dalla  considerazione che  la stima risulta essere stata fatta in difetto, senza considerare  il contributo inquinante dei vari P C B- che sono stati invece considerati nello schema di tossicità aggiornato dell’OMS.

 

 E le conclusioni  finale cui il consulente è pervenuto  sono le seguenti .

1) il consumo di bivalvi provenienti delle aree più inquinate della laguna comporta più di un raddoppio dell’esposizione di fondo( quella  che non si darebbe se non si consumassero vongole )

2) il valore inferiore del limite OMS 1998( 1 p g T E /K g  p c /giorno) risulterebbe essere superato nella ipotesi di un consumo normale di bivalvi locali 

3) il valore superiore del limite dell’O:M S 1998 ( 4 p g T E /K g p c /giorno) è superato nella maggior parte delle ipotesi sopra riportate - che esaminano  il consumo di 50 g r / persona di bivalvi, di 100 grammi /persona  e  quantitativi maggiore per forti consumatori )

6)     nell’ipotesi minima di esposizione , si verifica comunque una situazione di rischio superiore a quella  risultante dalle verifiche fatte dalla US EPA, senza considerare il contributo dei PCB e un rischio aggiuntivo  superiore considerando  invece anche il contributo dei PC B

 

Entrambe le  predette valutazione degli esperti non sono state ritenute  attendibili dal Tribunale per le seguenti ragioni espresse in modo sintetico : la esposizione giornaliera va determinata come prodotto della concentrazione della  sostanza inquinante  nell’alimento  per la quantità di alimento assunto giornalmente, sul lungo periodo ed è infatti secondo questi criteri che sono stabiliti i parametri di riferimento usati anche dalla accusa ; sia per la concentrazione come per il consumo deve farsi riferimento a dati medi sul lungo periodo,   non potendosi prescindere da tale criterio per formulare il giudizio di compatibilità .

 

 I consulenti dell’accusa hanno invece utilizzato parametri dagli stessi stabiliti   facendo riferimento a dati di consumo abnormi e alle concentrazioni massime rilevate nelle varie campagne di campionamento   e confrontandole con le ipotesi di superamento del valore soglia più restrittive indicate dalla O.M.S. nel 1998 senza rendere  mai giudizi in termini  di idoneità delle esposizioni rilevanti a provocare pur minimi effetti avversi.

 

 L’utilizzo del termine consumo o assunzione sporadica o occasionale è estraneo al concetto  D.G.A o T .D.I. che fa sempre riferimento a consumi  protratti per lungo periodo

 In realtà un lieve superamento del valori soglia non sarebbe comunque sufficiente a fondare giudizi di idoneità a ledere della esposizione suscettibile di derivare dalla assunzione del biota tramite la dieta .

 

 Nel concreto non risulta in ogni caso superato il valore soglia  e le concentrazioni di inquinanti non sono riconducibili  a quelle vietate dalla legge

Ancora i dati pertinenti alle concentrazioni di inquinanti  rilevate nel biota di provenienza dell’area industriale sono risultati poco attendibili e non sono  stati ciononostante espunti dalle valutazioni degli esperti  delle parti  e su di essi si fonda la valutazione del Tribunale 

 

5.3 Note a margine sul significato dei valori limite pertinenti alla esposizione a sostanze tossiche

Informazioni sul processo di regolamentazione del rischio e sulla individuazione dei parametri di protezione alimentare 

Spiega quindi il Tribunale come per garantire il risultato , cui mira il principio di precauzione , la definizione del limite di protezione si attesti su misure che sono molto lontane dalla dose, la cui assunzione non provoca effetti tossici negli animali più sensibili ( NOAEL. No observable  adverse effect level)  e di conseguenza nell’uomo.

 

Essendo i dati acquisiti attraverso esperimenti esclusivamente eseguiti sugli animali, mediante la loro esposizione ad alte dosi ,sono necessarie due estrapolazioni relative:

1) alla valutazione del rischio nel caso di una esposizione  a basse dosi

2) alla valutazione del dato sperimentale  trasferendolo  dall’animale all’uomo .

 

IL NOAEL rappresenta quindi la più elevata  dose somministrata che non ha  prodotto tossicità.

Al NOAEL, per garantire la sicurezza nei confronti dell’uomo, vengono quindi  applicati fattori di sicurezza  ed è prassi comune che venga applicato un fattore di sicurezza10 se il NOAEL è derivato da esperimenti sull’uomo  , 100 se è derivato da studi sull’animale .

Con i fattori di sicurezza si vengono cosi  a stabilire livelli di esposizione ultraprotettivi per la salute umana .

 Non si tratta comunque di stabilire a quali livelli di esposizione l’uomo può ammalare,per cui l’esposizione dell’uomo ad una dose lievemente  superiore a quella del parametro di protezione, stimato secondo i criteri di cui sopra, non significa probabilità di un effetto tossico .

 La determinazione del valore soglia ottenuta in base ai dati di correlazione dose –risposta , ed in base alla successiva  applicazione dei fattori di sicurezza indica di conseguenza quale è la dose di una certa sostanza,  che nelle condizioni di esposizione date - viene ritenuta sicuramente priva di effetti tossici   (valore limite tossicologico  ,valore soglia , ADI ,TDI).

 

5.4 Segue brevi cenni sulla definizione dei valori limite per gli alimenti

 La dose giornaliera accettabile – valore limite – che viene espressa in p. g. ( picogrammi)/kg di peso corporeo  rappresenta quindi la dose che, se ingerita quotidianamente per tutta la vita , si ritiene non possa provocare effetti sfavorevoli per la salute.  

Il termine accettabile riferito alla dose giornaliera  viene utilizzato quando si parla di sostanze volontariamente o per necessità aggiunte  agli alimenti ,come ad esempio ,gli additivi alimentari mentre quando invece si tratta  di elementi di natura ambientale, non volontariamente immessi negli alimenti, viene usato   il termine tollerabile , da cui deriva la diversa  terminologia  di dose giornaliera tollerabile (DGT) o tolerable daily intake( TDI) o dose settimanale tollerabile  ovvero Tolerable Weekly Intake)

 

Viene usato anche il termine di dose settimanale tollerabile  per indicare la quantità che può essere assunta settimanalmente.

In definitiva le sostanze  bioaccumulabili (  cioè accumulabili per via alimentare ), presenti in basse concentrazioni negli alimenti, possono risultare pericolose  per la salute solo nel caso di assunzioni molto prolungate  e solo dopo avere raggiunto livelli di concentrazione cumulativa costante nel tempo ed in equilibrio con i valori di assunzione , per cui non è corretto assumere che il  valore soglia tollerabile possa venire superato nel caso di consumo di un piatto di spaghetti.

 

Il superamento della dose soglia si può verificare solo  quando venga superato il valore medio per un determinato  periodo, mentre superamenti sporadici non sono significativi ai fini della erosione degli ampi margini di protezione

Deve tenersi presente che il NOAEL si riferisce alla dose che non produce alcun effetto  indesiderato sull’animale  dopo una somministrazione giornaliera protratta per un lungo periodo e che si tratta di sostanze bioaccumulabili, per via alimentare  nell’uomo per cui il giudizio attiene ad assunzioni prolungate , e non a esposizioni occasionali, e presuppone che esse abbiano raggiunto  nell’organismo un certo livello di concentrazione  .

 Possono pertanto essere significativi e accettabili solo confronti con dati di assunzione medi e di lungo  periodo , mentre assunzioni occasionali elevate ,di breve periodo o comunque picchi di assunzione  non sono un punto di riferimento congruo  all’oggetto della verifica in questione

( superamento o  compatibilità di una data esposizione al limite soglia)

 

 5.5 segue Brevi cenni alla determinazione  della esposizione suscettibile di derivare tramite  assunzione  di un alimento che rechi in traccia sostanze inquinanti

 Veniva quindi evidenziato come per determinare la esposizione giornaliere bisogna considerare la concentrazione  della sostanza nell’alimento  e la quantità  di alimento assunta giornalmente , consumo  giornaliero

Sia  i valori di concentrazione della sostanza contaminante  come  i valori di consumo degli alimenti devono essere quelli medi per lungo periodo,  perché altri valori  non possono venire utilizzati.

 

 5.6 segue Brevi cenni sulla definizione delle concentrazioni di inquinanti in alimenti

 Devono pertanto venire sempre utilizzati  tra quelli rilevati i  valori di concentrazione media   e non quelli di concentrazione massima , utilizzandosi ,quando il numero di osservazioni risulti adeguato la media aritmetica.

Quando i dati non sono numerosi appare più corretto utilizzare il criterio  della mediana , potendo quello della media aritmetica  essere influenzato dai valori esagerati, sia troppo alti come troppo bassi ,mentre la mediana che rappresenta il valore di concentrazione  equidistante dagli estremi è più rappresentativa

 Per questo motivo non è corretto l’impiego di valori massimi di concentrazione nel biota né  il confronto del dato cosi ottenuto con stime di esposizione   media pertinenti a gruppi di confronto,calcolate sulle concentrazioni medie  ricavate da ampi campionamenti .

 

 5.7 segue I dati di consumo di riferimento nella valutazione della esposizione  suscettibile  di derivare tramite la dieta

In base alle premesse di cui sopra ,circa i corretti  criteri da seguire nelle valutazione del rischio derivante dal consumo degli alimenti, fondatamente la difesa ha evidenziato come le valutazioni degli esperti dell’accusa non siano affidabili perché riferite  a dati di consumo abnormi.

 Viene quindi rilevato che i consulenti della accusa hanno   ipotizzato consumi giornalieri senza alcune riferimento a valutazioni statistiche  e utilizzando ad esempio i ricettari che nulla dicono sul consumo giornaliero medio , che  non può essere arbitrariamente determinato e deve invece  essere determinato  in base agli studi esistenti che sono studi affidabili ,indipendenti , preesistenti al processo, effettuati da studiosi di indiscussa competenza ,indifferenti agli esiti del processo.

 

I consulenti dell’accusa non spiegano in alcun modo perché questi dati siano stati da loro  ignorati

Valgono invece al fine di valutare la sussistenza di pericoli  ,derivanti dalla assunzione tramite dieta di prodotti ittici  di inquinanti,  sia le statistiche dei consumi del pesce nella popolazione italiana, sia  le statistiche  relative al consumo del pesce  degli abitanti della laguna di Venezia, le prime  contenute nella pubblicazione dell’istituto superiore della Sanità del 1999 le seconde nel lavoro del Coses del 1966 intitolato “il sistema ittico :produzione lagunare e abitudini di consumo delle famiglie veneziane “.

 In questo lavoro sono non solo definite le medie di consumo generali, ma anche quelle riferite alle singole categorie di prodotto ed è inoltre possibile ,dai dati contenuti nella predetta relazione  estrapolare  il dato di consumo dei cosiddetti forti consumatori .

 

I dati di consumo contenuti in tale lavoro  sono stati poi utilizzati anche nello studio condotto sullo specifico delle diossine  e della contaminazione da OCDD e OCDF  nel contesto lagunare per conto del Comune di Venezia

 Dalle predette tabelle risulta che il consumo medio di prodotti ittici  da parte degli abitanti del comune di Venezia è di 71 grammi al giorno- peso lordo- e quello degli abitanti delle isole è invece superiore  93 grammi al giorno , che il consumo medio  giornaliero delle vongole  da parte degli abitanti del Comune di Venezia  è di 10 grammi al giorno e quello degli abitanti dell’estuario  di 20 grammi al giorno –tutti valori al lordo. Sulla base  dei dati del Coses i forti consumatori  nell’ambito del comune di Venezia possono consumare  11 kg al mese di prodotti ittici equivalente a circa 362 grammi (lordi ) al giorno   e 79 grammi di vongole al giorno mentre un consumatore medio ne assume 10 grammi al giorno.

Per forte consumatore si intende normalmente  colui che consuma un quantitativo di pesce cinque volte superiore a quello consumato dalla media della popolazione , e che ha le stesse abitudini degli abitanti dell’estuario.

La correttezza dei dati elaborati dal Coses risulta anche dal confronto con quelli elaborati per conto del ministero della sanità , che dimostra   come non sottostimino il consumo di pesce da parte della popolazione veneziana.

 

Importante è poi considerare per i prodotti ittici che interessano, e per stimare in modo corretto il consumo reale e quindi l’esposizione reale  del consumatore  alcune peculiarità 

Tali peculiarità consistono  nella resa del prodotto

Le statistiche di consumo  sopra riportate si riferiscono al peso lordo, mentre, per determinare il consumo rilevante ai fini de calcolo della esposizione , bisogna fare riferimento alla parte edibile, eliminando le parti che vengono  scartate e di conseguenza non  mangiate

 La questione non è marginale ed è resa complessa dal fatto  che,per i prodotti ittici , il rapporto tra peso netto  e peso lordo risulta essere molto variabile .

 È comunque certo che i consumi da considerare sono quelli relativi alla porzione edibile dell’alimento, per cui i valori lordi  indicati nella relazione del Coses devono essere trasformati in valori netti.

Dai calcoli cosi effettuati risulta che  il consumo complessivo netto  giornaliero  di prodotto ittico di un consumatore medio nel Comune di  Venezia   è di circa 30 grammi che aumenta a 137 grammi  per un forte consumatore,  e che per quanto riguarda le vongole il consumo è rispettivamente  di 1,4 per un consumatore medio e di 11 grammi  al giorno per un  forte consumatore

I  dati di consumo delle vongole della popolazione veneziana assunti dall’accusa –da 20 a 100 grammi di prodotto edibile  - risultano di conseguenza arbitrariamente  assunti  e non risultando fondati su criteri  accettabili non possono considerarsi congrui e pertanto portano a stime sulle dosi di assunzione  interessanti il processo  che sono prive di aggancio con la realtà.

 

 5.8 segue Brevi cenni sulla definizione di concentrazione limite

Importane osserva poi il Tribunale è innanzitutto chiarire il significato della definizione  di concentrazione limite  e  la sua differenza dal valore soglia di riferimento

La concentrazione limite relativa  a ciascun prodotto ha il compito di facilitare i controlli sulla edibilità degli alimenti  ,il relativo calcolo viene effettuato moltiplicando la DGA( espresso in mg/kg) per il peso corporeo(espresso in Kg)  e dividendo il prodotto per la quantità di alimento mediamente assunto giornalmente  .

La funzione della concentrazione limite è all’evidenza quella di prevenire esposizioni superiori alla DGA  ,funzione che viene realizzata considerando nel predetto calcolo un consumo di alimento sufficientemente elevato da salvaguardare anche i forti consumatori .

 Ne consegue che se le concentrazioni medie di inquinanti , rilevate negli alimenti, risultano inferiori   alla rispettiva CL ,l’alimento può essere  commercializzato , perché la sua assunzione anche in forti quantità , non comporta una esposizione superiore alla DGA .

 

 5.9 Valori limite e consumi medi di lungo periodo. Confutazione delle tesi di accusa secondo cui l’ipotetico consumo di vongole di provenienza  dell’area industriale  comporterebbe una esposizione giornaliera a metalli e a micro inquinanti ( esaclorobenzene e benzopirene) superiore alle rispettive dosi tollerabili (TDI)e(TWI) di riferimento.

 Va innanzitutto premesso che gli esperti delle difese, ai fini del calcolo delle dosi di assunzione di interesse processuale ,non assumono valori propri ma i valori di concentrazione  risultanti dalla fonti allegate dalla accusa .

Esiti pertinenti ai metalli

Utilizzando le concentrazioni limite relative al mercurio ,cadmio e piombo, definite in Italia ed in Europa , risulta che i dati relativi  nei prodotti ittici della laguna  sono inferiori od analoghi quelli riscontrati nei prodotti consumati in Inghilterra e in  Italia.

 In particolare le vongole raccolte nei canali industriali hanno una concentrazione di mercurio di 0,05 mg/Kg che è dieci volte inferiore alla C. L( 0,5 mg/kg)  prevista dalla disciplina normativa relativa alla edibilità del prodotto vigente in Italia ed in Europa per pesce e molluschi bivalvi ed analoghi risultati valgono per il cadmio e d il piombo.

Per il cadmio la concentrazione nelle vongole dei canali industriali risulta quattro volte inferiore alla relativa C.L. ( 1mg/kg) stabilita in Europa ed  in Italia

Per il piombo premesso che  i valori di concentrazione indicati dal consulente  tecnico Raccanelli sono diversi da quelli indicati da altri c. t. dell’accusa  e ciononostante la difesa ha assunto tutti g li esiti delle analisi riportati nella relazione del consulente  Raccanelli  risulta egualmente che la C .L ( 2mg/kg) è distante  più di quattro volte dai  valori di concentrazione  presenti nelle vongole dei canali industriali.

 

Per quanto riguarda l’arsenico va premesso che né in Italia né in Europa esiste  una C.L. per gli alimenti.

In ogni caso non esistono rilevanti differenze relativamente alla concentrazione di tale metallo  nei campioni di provenienza da diverse aree, ciò che consente di ritenere l’arsenico largamente diffuso in tutta l’area lagunare.

Sulla base di queste analisi risulta accertato che nell’ambito della zona industriale non sono date concentrazioni anomale di metalli nel biota e che non vengono superati i parametri (C.L.) che definiscono la commerciabilità e  la edibilità dei molluschi bivalvi

 Per metalli diversi dal cadmio, mercurio e piombo non è stabilita in Italia la C. L per  gli alimenti  ed allora le valutazioni pertinenti alla  protezione alimentare si eseguono ,stimando la dose di assunzione individuale o esposizione giornaliera e confrontando il dato di esposizione con i noti valori di protezione ( ADI) (TDI) (TWI).

 

 Premesso ancora una volta che il confronto deve farsi tenendo conto del consumo medio di prodotto ittico -parte edibile- che è quello correttamente determinato  dalla difesa secondo i criteri sopraesposti  e tenendo conto della concentrazione media  e delle protrazione dei consumi nel tempo di vongole provenienti esclusivamente dall’area industriale, risulta che ,per i metalli, la esposizione suscettibile di derivare tramite la dieta costituita da quel  pescato, non erode in alcun modo l’ampio margine  di protezione alimentare garantito  dal relativo limite soglia.

Il calcolo del margine di protezione  ovvero della distanza esistente tra la dose giornaliera tollerabile di ciascun metallo e la quantità dello stesso metallo ipoteticamente assunta dall’individuo con le vongole è stato eseguito dividendo il valore di TDI per il  valore di assunzione .

 

I valori di TDI sono quelli adottati in Italia dall’istituto superiore della sanità ed in Inghilterra dal Ministero dell’Agricoltura  pesca  e Alimenti per formulare analoghe valutazioni  di sicurezza sui prodotti ittici consumati dai paesi di appartenenza.

Le tabelle che sono riportate nella sentenza consentono di verificare che il margine di protezione è molto ampio.

Ed invero anche i consulenti dell’accusa avevano dato atto della compatibilità della concentrazione degli inquinanti presenti nei campioni  di pesce prelevati nei canali della zona industriale  con quelli che secondo la relativa normativa potevano essere distribuiti per il consumo umano ,nonché del fatto che per quel che riguarda i metalli , tutti sono largamente inferiori  ai limiti normativi di riferimento.

 

Anche per l’esaclorobenzene ed il benzopirene  appartenente agli IPA( idrocarburi policiclici aromatici)i  dati relativi dimostrano che la loro  concentrazione nelle vongole dei canali industriali non supera la C.L. di riferimento per cui conclusivamente sia per i metalli come per l’esaclorobenzene e il benzopirene , il consumo di vongole dei canali industriali anche da parte del forte consumatore  non è comporta la erosione dell’ampio margine di garanzia derivante dai relativi parametri -valori soglia – di protezione alimentare.

 

5.10 Valori limite e consumi di lungo periodo . L’esposizione alle diossine,  premesse  sulla confutazione della tesi secondo cui l’ipotetico consumo di vongole di provenienza dall’area industriale  comporterebbe una esposizione giornaliera a diossine e a P. C .B. tale da erodere l’ampio margine di garanzia costituito dal limite soglia individuato dalla O.M.S. 1998 in 1-4-PG/KG/DIE

Osserva sul punto il Tribunale come la difesa abbia dimostrato che l’assunzione di diossine e PCB suscettibile di derivare dalla dieta di prodotti ittici lagunari , non comporti alcuna erosione dell’ampio margine di garanzia  costituito dal valore soglia individuato  dall ‘O.M.S nel 1988 in 1-4-pg/kg p.c /die

 E la valutazione fatta dai tecnici della difesa  corrisponde a quella fatta anche da  alcuni tecnici dell’accusa .

I prodotti ittici provenienti  dai mari del nord  si attestano su grandezze di grana lunga superiori a quelle riscontrate nei canali dell’area industriale veneziana.

 In tesi di accusa, lasciata la prospettiva di un confronto con dati di esposizione rilevati in altri contesti,  si  sostiene che  l’alto grado di inquinamento del biota ,contenuto nei sedimenti dei canali dell’area industriale , risulta dal confronto con il grado  di inquinamento dei molluschi provenienti  da altre aree della laguna .

 

Nella loro valutazione gli esperti della difesa invece calcolano  l’esposizione a diossine  con riferimento ad un ideale consumatore di vongole di provenienza esclusivamente dai canali della zona industriale ,cumulandola con il consumo di altri prodotti ittici  lagunari e  con  altri prodotti di origine animale , considerano poi gli esiti di tale indagine confrontandola con i criteri dettati da O. M. S 1998 ed  infine integrano l’analisi , facendo un confronto tra l’esposizione a  diossine della popolazione lagunare e le altre popolazioni europee ,nonché quella degli U.S.A. 

 

5.11 segue Nota  a margine sui dati di concentrazione pertinenti alle diossine

 Gli esiti delle valutazioni degli esperti  della difesa dimostrano che il grado di concentrazione delle diossine nei pesci e molluschi della laguna veneziana è confrontabile con  quello  dei pesci e molluschi provenienti da altre aree che risentono di un impatto antropico diretto moderato.

 Infatti  dal confronto emerge in particolare  che  i prodotti lagunari, comprese le vongole raccolte in area industriale, hanno un carico di diossine inserito nell’intervallo delle concentrazioni che possono essere definite normale per questa tipologia di alimenti , per l’Europa e per gli Stati Uniti e ad analoga valutazione sono pervenuti anche alcuni consulenti del P. M..

 Rileva ancora il Tribunale  come dato di contorno che il grado di inquinamento , per quanto riguarda le diossine , dei molluschi e dei pesci di provenienza da tutta la laguna , e quindi  anche dall’area industriale  si colloca ai più bassi livelli dell’intervallo di concentrazione riscontrato nei prodotti ittici in Europa  e negli Usa.

 

  5..12 segue  La determinazione della esposizione a diossine suscettibile di derivare tramite assunzione di vongole di esclusiva provenienza  dai canali industriali

Dopo avere premesso che, anche per le diossine, devono utilizzarsi gli stessi criteri di valutazione già prima indicati per gli altri inquinanti  osserva  quindi il Tribunale come ,di conseguenza, valgono anche per le diossine le critiche relative ai criteri non corretti utilizzati dalla accusa ,che ha fondato le sue  valutazioni con riferimento a consumi medi ,che non trovano riscontro  nelle statistiche  dei consumi della popolazione veneziana ,italiana od europea  e che appaiono eccessivi e abnormi se confrontati con le  fonti disponibili.

 Hanno infatti fatto riferimento nei loro calcoli ad un consumo medio giornaliero di vongole dell’ordine di 20-100 grammi/die ( parte edibile ).

 

 Facendo invece riferimento ai dati elaborati dal Coses risulta, che la esposizione alle diossine è di 0,025 e 0,190 p g / kg peso  corporeo /giorno rispettivamente per i consumatori medi e per i forti consumatori del Comune di Venezia ,con un margine rispetto ai valori limite indicati dall’OMS nel 1998-1-4/ p g /kg peso corporeo- che è 40-161 volte inferiore per i consumatori medi e 5-21 volte inferiore per i  forti consumatori.

 Ne consegue che con riferimento al valore più restrittivo 1 p g /kg di peso corporeo, il suo raggiungimento conseguirebbe solo nel caso di un consumo giornaliero, protratto per lunghi periodi  di 57 grammi di vongole( parte edibile), pari a 400 grammi  ( al lordo) di vongole  ,consumo che non trova alcun riscontro nei dati elaborati dal Coses e che non costituisce in assoluto un’ipotesi congrua e realizzabile .

 Per raggiungere il valore soglia più elevato di  4 p. g / kg di peso corporeo/die sarebbe necessario consumare  233 grammi di vongole al giorno pari a 1600 grammi lordi al giorno  sul lungo periodo  

 Sulla base di tali dati risulta che la situazione di contaminazione propria delle vongole di provenienza dai canali della Zona Industriale non denota  pericoli alimentari.

 

 5.13 segue  L’esposizione a diossine con tutti i prodotti ittici lagunari

Con riferimento al consumo dei prodotti ittici  provenienti  da tutta la laguna, e pur con qualche incertezza  dovuta alla mancanza di dati per alcune categorie di prodotti ittici,le analisi effettuate dimostrano che la popolazione veneziana con abitudini alimentari medie  potrebbe assumere con il prodotto ittico lagunare 0,19 p g/ k g / giorno che è meno di un quinto della dose  di riferimento più basse indicata dalla WHO( 1 p g /k g peso corporeo / giorno).

 Ed il predetto valore di riferimento sarebbe rispettato anche nel caso di forte consumatore ciò che invece non avviene per i forti consumatori in altri  paesi europei.

 

 La assunzione di diossine ,tramite il consumo di vongole, costituisce una frazione minoritaria della complessiva assunzione  tramite tutti i prodotti ittici ,sia che si faccia riferimento alle vongole provenienti da tutta la laguna ,sia che si faccia riferimento alle vongole provenienti dai soli canali industriali , in base ai dati di analisi di concentrazione dedotti dalle fonti indicate dalla accusa

Nel caso di esclusivo consumo di vongole ,provenienti dai canali industriali, si passerebbe infatti da una esposizione di 0,19 p g/k g / giorno ad una esposizione di 0,2 p g/ kg  peso corporeo / die.

 L’incremento del carico di diossine derivante dal consumo di vongole provenienti dall’area industriale è irrilevante non solo per il confronto con la esposizione derivante dal consumo di tutti i prodotti ittici, ma anche per  il confronto con la quantità di diossine assunta giornalmente con tutti gli  altri alimenti .

 

  5-14 segue l’esposizione con tutti gli alimenti

 La assunzione di diossine avviene tramite tutti gli alimenti  e mediamente sono più carichi di diossine , per ragioni di bioaccumulabilità  i prodotti di origine animale attraverso i quali viene veicolata la maggior parte delle diossine ( pari all’80-90 %)

 Premesso che per effettuare dei confronti significativi devono essere utilizzati  dati  di raffronto omogenei  , mentre tale criterio non viene osservato dalla accusa , rileva il Tribunale come  la difesa verifichi innanzitutto  se l’esposizione complessiva della popolazione veneziana a diossine ,tramite la dieta costituita da tutti gli alimenti ,registri significative differenze, facendo due diverse ipotesi :

·        per l’ipotesi che il consumatore si alimenti con prodotti ittici,provenienti da tutta la laguna, compresi quelli dei canali industriali ;

·        per la diversa ipotesi in cui la quota di vongole provenga interamente dai canali  industriali;

 

 I dati utilizzati per il confronto sono ricavati ,sia per quanto riguarda  quelli relativi ai consumi, come per quanto riguarda quelli relativi alle concentrazioni di diossine, da una pubblicazione presentata al convegno Dioxin 99 tenutosi  a Venezia

 E dagli esiti di tali indagini risulta che nella prima ipotesi( consumo di 30 grammi di prodotto ittico al giorno) si ha una assunzione di diossine pari a 30 p g ITE, equivalente a 0,42 p g /kg peso corporeo / die e nella seconda ipotesi invece si ha una assunzione  pari  31 p.g ITE pari a 0,44 p g/k g peso corporeo die.

 

 Valori che dimostrano la insussistenza dei supposti pericoli alimentari derivanti da ipotetici consumi ,tramite la dieta  di vongole di esclusiva provenienza dai canali industriali.

 Anche  le valutazione di altri esperti di fonte pubblica avevano portato ad analoghe conclusioni, rilevando che il consumatore medio veneziano  assume con gli alimenti di origine animale una quantità di diossine  inferiore alla metà del valore guida più restrittivo determinato  dall’OMS nel 1998 ( 1 p g/ kg peso corporeo /giorno)

 E tali risultati non sorprendono  in quanto sono conformi a quelli   a cui erano pervenuti nel 1996 altri esperti.

 

5.15 ( segue) Il confronto con le esposizioni di  altre  popolazioni

Le stime a cui pervengono gli esperti delle difese coincidono con quelle a cui erano pervenuti altri esperti- Zanotto e altri nel 1999 -vedi relazione pubblicata nel corso del  convegno Dioxin 1999-e chiariscono come la esposizione per via alimentare alle diossine della popolazione veneziana  si collochi ai livelli più bassi dei valori di esposizione delle popolazioni europee.

 I dati di confronto rappresentati graficamente nelle tabelle riprodotte nel testo della sentenza   dimostrano :

1)che la esposizione alle diossine del consumatore medio veneziano è sovrapponibile a quella delle popolazioni di confronto

 2) che la concentrazione media di diossine nel pesce consumato da queste popolazioni è corrispondente  a quella riscontrata nel pesce consumato dalla popolazione veneziana

 

 Dai dati  esaminati risulta anche che i consumi medi ipotizzati dalla accusa sono di gran lunga superiori anche ai consumi medi di popolazioni come quella svedese ,finlandese o danese che pure sono considerate  notevoli consumatrici di questo tipo di alimenti.

 E trova altresì conforto la tesi della difesa secondo cui i livelli di esposizione della popolazione veneziana sono tra i più bassi di quelli europei ,certo comunque osserva il tribunale non è ipotizzabile una esposizione alle diossine superiore a quella della popolazione media europea.

 I dati risultanti dalla diverse indagini svolte in ambito europeo ed americano  hanno altresì dimostrato che  dalla maggioranza di consumatori in tutto  il mondo viene superato  il valore di esposizione più restrittivo indicato dall’O.M.S pari ad 1p g/kg peso corporeo/ die  con i soli alimenti animali  e che l’esposizione  aumenta ancora  di più per il contributo (meno levato ) degli alimenti di origine vegetale.

 Normalmente la assunzione totale di diossine e PCB  dalla dieta risulta  equivalente a 1.2- 3/ p g/ peso corporeo / giorno.

 

 Da queste stime risulta quindi che una considerevole  porzione della popolazione europea eccede il limite più restrittivo di 1pg stabilito dalla OMS

 Il lieve superamento del valore soglia non è pero indice di avvelenamento né di pericolo ,che possa connotare il corrompimento  di sostanze alimentari.

 Tale valore  non è quello della soglia ,oltre la quale ,stante un lieve superamento,si possa prospettare a ragione la attualità e/o la concretezza di un pericolo reale per la salute , essendo il valore di esposizione definito dall’OM S( 1998) un valore guida da  raggiungere  in futuro per ottenere una maggiore   protezione del consumatore .

 

 Sbaglia il consulente  della accusa quando indica come  esposizione di fondo della popolazione mondiale a diossine e PCB  quella di 1pg/kg peso corporeo/ giorno ,in quanto la commissione dell’O.M.S. raccomanda il predetto valore come quello più restrittivo  ma indica come limite precauzionale  quello di 1-4- p g/ kg / peso corporeo / die.

 Ed è sulla base di tale errata premessa e considerando dosi di consumo abnormi che l’accusa ritiene    che , sommando alla esposizione a diossine , quella di PCB, l’ideale consumatore di vongole di provenienza dai canali industriali superi l’esposizione di fondo.

 

 Ed invece secondo i dati esaminati dalla difesa, anche nel caso di forte consumatore,  si verificherebbero  livelli di esposizione  di 1.7  o 1,22 p g / kg / p c/ die per il consumatore di prodotti ittici provenienti da tutta la laguna  o esclusivamente dai canali  della zona industriale molto vicini ai valori più bassi  di quelli indicati dalla Commissione scientifica sugli alimenti della unione europea   2000 ( nell’intervallo compreso  tra 0,8e 4,5 p g/kg  / p. c /die )

 Assumendo il quantitativo di pesce che la difesa assume consumato dal forte consumatore si verificherebbe il superamento del valore di fondo o valore guida più basso da parte di tutti i consumatori europei ed americani  .

 Non solo ,viene comunque  ribadito che  il superamento del valore soglia  non significa prova di avvelenamento o di adulterazione concretamente pericolosa ma  che in ogni caso non esiste neppure la prova nel concreto del suo effettivo superamento.

 

 5.16 L’esposizione cumulativa a diossine  e PCB. al confronto con il valore limite indicato dalla OM S  nel 1998 di 1-4-P G/ KG peso corporeo / giorno

Il significato del dato probatorio rilevante prima dell’espletamento della analisi condotte a Berlino  su sollecitazione del Tribunale

 Sulla base dei dati di concentrazione  degli inquinanti, che trovano fonte nella relazione tecnica della accusa, i consulenti delle difesa determinano, in base  ai dati di consumo medio e di  consumo forte di vongole  di esclusiva provenienza dalla zona industriale , ricavati  dalla fonti sopraindicate, una esposizione ai soli PCB:

·        per i medi consumatori in 0,02 PG/KG p.c/die

·        per i forti consumatori  in 0,15 PG/KG p.c/die

·        ed una esposizione  cumulativa a diossine e PCB:

·        per i medi consumatori in 0,04 PG/KG p.c/die

·        e per i forti  consumatori  in 0,33 PG/KG p. c./die 

 Secondo il c. t  Raccanelli la concentrazione di PCB nelle vongole di provenienza dai canali industriali  presenta un valore medio espresso in WHO-TEF pari a 0.92 PG/G ( mediana 0,96) ed un valore medio di concentrazione di diossine  espresso nella stessa misura di 1,08  PG/G( mediana 1,125 PG/G)

 E quindi la concentrazione complessiva di diossine e PCB viene ad avere un valore medio pari a 2,0 pg / g e mediano di 2,08 pg/g

  E moltiplicando il valore medio di concentrazione con il valore medio di consumo   risultano i  valori di esposizione sopraindicati  che dimostrano come la   esposizione cumulativa di diossine e PCB anche per un forte consumatore  di sole vongole dei canali industriali si attesta su valori inferiori al valore guida più restrittivo indicato dall’OMS 1988(1PG/KG/p.c /die)

 Tanto risulta considerando i  dati reali plausibili di consumo ( fonte Coses), i dati di concentrazione – che derivano dalla accusa- ed informazioni relative alla esposizione  di fondo a diossine e PCB redatte a cura della OMS e della Commissione europea per la sicurezza alimentare nel 2000

 

Le conclusioni a cui perviene il consulente della  accusa sono quindi  inattendibili perché il consulente:utilizza valori di consumo improponibili ovrastima la concentrazione del PCB nelle vongole di provenienza industriale per calcolare l’esposizione cumulativa alle diossine ed al PCB moltiplica il valore di concentrazione delle diossine per un fattore di correzione di 1,5 ,mentre invece, essendo risultata  la concentrazione nelle vongole del PCB in misura inferiore a quella delle diossine, avrebbe dovuto utilizzare un fattore di correzione  inferiore a d 1 e non 1,5.

 

In sintesi :sia per i sedimenti dei canali , come per il biota si accerta che esiste un gradiente di concentrazione tra area industriale e aree interne alla conterminazione  lagunare che non risentono di impatto antropico  ,con un  più alto livello di contaminazione del biota vivente sul sedimento inquinato ed un rapporto di interferenza col biota lagunare  da parte della componente  biodisponibile degli inquinanti  che compromettono lo stato dei sedimenti .

 Tale dato di realtà certo ed incontroverso non significa però avvelenamento o adulterazione pericolosa del biota dell’area attinta da  inquinamento.

 

 Le prove dimostrano che i valori di concentrazione  di inquinanti  nel biota di provenienza dall’area industriale non superano i valori di concentrazione vietati dalla legge che definisce i parametri di qualità di molluschi ed altre specie ittiche ,né i valori normali di concentrazione

 Per i metalli  valgono  le sopraesposte considerazioni con la precisazione che , quando mancano nelle disciplina normativa le indicazione relative alla concentrazione limite ,la norma opera il rinvio alle pertinenti DGA e che nel caso particolare non vi è prova di superamento ,per gli inquinanti  di interesse processuale , dei parametri di qualità previsti da leggi speciali

 Non risultano mai neppure per tutti gli altri inquinanti  di interesse processuale  carichi inquinanti  non normali  cosi come non risulta che la dieta, anche per  il forte consumatore, comporti   esposizioni che raggiungano l’ampio margine di garanzia costituito dal TDI e neppure i limiti soglia espressione della massima precauzione.

 E questo risulta essere il quadro probatorio , a prescindere dalla importante sopravvenienza probatoria costituita dagli esiti  delle verifica ,disposta su sollecitazione del Tribunale  ,sui dati di concentrazione degli inquinanti nel biota dell’area industriale riferiti dal consulente  dell’accusa  Raccanelli

 

 5.17 il rilievo di notevoli differenze tra i dati di concentrazione riferiti dal C.T Raccanelli ( consulenza  espletata nel procedimento 45000/99 RNR) e i dati di concentrazione riportati in relazioni di altri consulenti dell’accusa .

Esiti delle analisi espletate presso il laboratorio MPU di Berlino sotto la responsabilità  del consulente d’accusa Luz Muller ( su campioni di vongole prelevate negli stessi punti di campionamento  oggetto di interesse da parte del consulente Raccanelli)

Attesa la esistenza di divergenze  nei dati di analisi dei c. t dell’accusa ,pur relative  a vongole prelevate negli stessi canali , è stata eseguita presso il laboratorio di Berlino e sotto la responsabilità del c .t. dell’accusa Luz Muller la analisi di alcuni -cinque -  campioni di vongole ed un campione di pesci  per rilevare la presenza di  diossine  ( PCDD/F) di bifenili policlorurati (PCB) idrocarburi policiclici  aromatici (IPA), esaclorobenzene  e metalli pesanti( cadmio,rame , mercurio, piombo,zinco, arsenico, alluminio, cromo, manganese, nichel , ferro e selenio)

  I risultati delle analisi di Berlino hanno nel processo una valenza importante,  anche se la parte della motivazione fino ad ora esposta  ne prescinde  completamente .

 E nonostante i risultati delle analisi fatte a Berlino, che hanno ,come detto in precedenza, ridimensionato i valori di concentrazione degli inquinanti, l’accusa ha continuato a sviluppare la sua tesi facendo sempre riferimento a valori di concentrazione massima  ed a consumi occasionali anziché a valori medi di concentrazione ad a valori medi di consumo nel lungo periodo.

Gli esiti delle analisi di Berlino  confermano la esistenza di notevoli differenze tra i risultati ottenuti dal consulente .Raccanelli egli altri consulenti del P.M.

 

Dal confronto tra i dati di Berlino  e quelli del consulente Raccanelli  -confronto praticabile in quanto i campioni provengono dallo stesso sito e le metodiche usate dal laboratorio sono state concordate - risulta la fondatezza dei rilievi critici  fatti  dalle difese .

 

Per la migliore comprensione della questione in esame viene quindi premesso che tutte le valutazione fatte dai consulenti per determinare la esposizione dei consumatori, tramite dieta costituita da vongole dei canali industriali, fanno riferimento alle concentrazioni di inquinanti  relative al peso fresco edibile; he i  prelievi , sia per le analisi effettuate a Berlino come per le analisi effettuate dal c t dell’accusa Raccanelli,sono stati effettuati nei medesimi punti : si tratta di cinque prelievi di campioni di vongole e un prelievo  di campioni di cefali .

 

Dal confronto tra le due analisi  risulta che i valori di concentrazione media si attestano in quelle di Berlino su grandezze che sono la metà di quelle pubblicate dal consulente Raccanelli ( nella sentenza sono riportate a confronto le tabelle che indicano per ciascun campione e per ciascun inquinante- metalli ,HCB, diossine, PCB Benzopirene  e somma IPA   il grado di concentrazione verificato)

Vengono quindi rappresentate in forma grafica ,per rendere piu evidente  il confronto  tra i dati di concentrazione  degli inquinanti , gli esiti  relativi al mercurio, piombo,arsenico,alluminio rame e cromo

Con riferimento al mercurio  risulta presente nel campione M 4 ,ritenuto dall’accusa il più inquinato in quanto prelevato in prossimità dello scarico SM15 ,principale scarico dello stabilimento,una concentrazione  sei volte inferiore a quella  indicata dal c.consulente  dell’accusa  ed inferiore anche di due volte a quella riscontrata nelle vongole pescate a S Erasmo .

Deve pertanto escludersi che esista una situazione anomala per quanto riguarda il catabolismo del mercurio.

Con riferimento al piombo i dati medi di Berlino risultano dieci volte inferiori a quelli del consulente dell’accusa, con  riferimento all’arsenico  i valori medi diminuiscono di circa  4 volte, con una sostanziale identità tra la concentrazione di arsenico rilevate nelle vongole pescate nei canali industriali e  nel canale S Erasmo.

Anche per quanto riguarda l’alluminio il controllo espletato a Berlino rivela valori di concentrazione significativamente inferiori a quelli del consulente dell’accusa , con differenze particolarmente rilevanti per quanto riguarda il campione ritenuto più inquinato M 4, nel quale si sono rilevate concentrazioni anche 14  volte inferiori  a quelle  indicate dall’accusa.

Per quanto riguarda il campione di cefali le analisi di Berlino non ne hanno rilevato la presenza.

Analoghe valutazione emergono anche per il rame  e cromo che risultano sostanzialmente presenti in analoghe concentrazioni nelle vongole dei canali  di S Erasmo.

5.18 segue valori di concentrazione dei metalli nelle vongole dei canali industriali  Confronto tra  gli esiti delle analisi condotte dal consulente Raccanelli e gli esiti delle analisi condotte dagli altri consulenti dell’accusa

 Le notevoli differenze risultanti dalle analisi dei campioni a Berlino confrontate con quelle del c t. Raccanelli non devono sorprendere, perché gia riscontrate dal confronto precedente tra le stesse analisi e quelle effettuate da altri consulenti tecnici della accusa .

 Vengono quindi riportate le tabelle , per ciascun metallo ,che evidenziano le differenze tra le analisi del consulente  .tecnico  Raccanelli e quelle dei consulenti tecnici  sempre della accusa Sesana, Turrito ,Baldassari.

 E questi  ulteriori confronti confermano che il dato anomalo è quello offerto dal consulente tecnico  Raccanelli.

 

5.19 segue Gli esiti delle analisi di Berlino per i valori di esaclorobenzene, benzopirene , diossine, diossina simili (PCDD/F e PCB ) Il confronto con i dati riferiti dal C.T Raccanelli

 Anche per tutti gli inquinanti sopra indicati i valori di concentrazione accertati a Berlino risultano largamente inferiori rispetto a quelli riferiti dal consulente tecnico Raccanelli

 In particolare: per l ‘esaclorobenzene  risulta che la concentrazione nel campione M 4 -. Quello prelevato in prossimità dello scarico  SM 15risulta la piu bassa di tutti i campioni  nelle vongole dei canali industriali  e si presenta solo 3,3,volte superiore a quelle delle vongole dei canali di S Erasmo ed invece di 28 volte inferiore alla concentrazione limite di riferimento ammessa per questi alimenti dalla legislazione italiana ed europea.

 

 Per quanto riguarda la concentrazione degli I. P .A .- idrocarburi policiclici aromati-  i valori di concentrazione riscontrati a Berlino sono mediamente 22 volte inferiori rispetto a quelli proposti dal Raccanelli, e per quanto  riguarda specificamente il campione M 4 risulta ben 37 volte inferiori  quelli della analisi di Raccanelli del 1999.

 Viene in particolare in rilevo che, come per l’esaclorobenzene cosi per i metalli e gli I. P. A , la concentrazione  riscontrata  nelle vongole del campione M 4  è la più bassa dei campioni della zona industriale   ed è  solo  2,6 volte superiore a quella del campione    prelevato a  S Erasmo.

Ciò consente di ritenere  che nella zona industriale non è attualmente presente  una fonte abnorme di contaminazione da IPA.

 

Analoghe conclusioni riguardano la concentrazione del benzopirene   dei PCB e delle diossine ed ancora una volta le differenze rilevate dal C.T.  Raccanelli tra le concentrazioni di inquinanti presenti nelle vongole dei canali industriale e quelle presenti nelle vongole di S Erasmo  risultano notevolmente ridimensionate.

Per la media i dati del C. T  Raccanelli risultano dimezzati mentre sono confermate le analisi relative ai campioni prelevati a S Erasmo

Risultano altresì normalmente più elevate le concentrazioni riscontrate  nel campione M 6 ( canale industriale sud mentre la concentrazioni rilevate nei campioni M1 M2 M4 sono tra loro livellate )

 E se  la difesa aveva dimostrato attraverso i suoi tecnici che ,anche con i dati relativi alle concentrazioni di inquinanti ,forniti dalla accusa  non sussisteva il pericolo denunciato nella contestazione  della accusa , a maggiore ragione lo dimostra con riferimento ai dati risultati dalla analisi eseguite a Berlino .

 

5.20 Il significato probatorio del confronto tra i valori di concentrazione  di inquinanti  nel biota  pubblicati dagli esperti delle difese prima del controllo prima del controllo espletato a Berlino  (relazione Pompa in data 18-4- 2001) e i valori di concentrazione riferiti dal laboratorio MPU all’esito di tale controllo.

L’adeguamento al dato di Berlino della valutazione di protezione alimentare: l’esposizione (agli inquinanti di interesse processuale) suscettibile di derivare dalla assunzione ,tramite la dieta,di biota di esclusiva provenienza dell’area industriale .

  Per tutti gli inquinanti di interesse processuale  i valori di concentrazione  riscontrati nel biota di provenienza dall’area industriale  non  sono sussumibili sotto la classe di concentrazioni vietate dalla legge che stabilisce parametri di protezione alimentare ( o che possano essere ritenute non normali)

La distanza che separa( per gli inquinanti di interesse processuale) le classi di esposizione suscettibili di derivare dalla assunzione del biota di provenienza dall’area industriale e  i pertinenti valori  soglia espressione  e misura del principio di  precauzione

Innanzitutto  osserva il  Tribunale come per tutti  i metalli di interesse processuale  le concentrazioni rilevate dagli esperti delle difesa  sono risultate superiori  a quelle medie rilevate a Berlino .

 Ciò comporta che i margini di sicurezza, espressi come rapporto tra il valore della dose giornaliera tollerata ed il valore della esposizione determinata nel concreto  sono ancora più ampi;

che le valutazioni fatte dalla difesa risultano corrette;

 che per i metalli nello scenario delineato dall’imputazione non sussistono pericoli alimentari

 che analoga è la situazione per il benzopirene   e l’esaclorobenzene  nonché per le diossine, per il PC B dioxin like .

 

I margini di sicurezza delineatisi dopo le analisi di Berlino ed i dati acquisiti dimostrano che anche  per le diossine più  PCB , partendo da consumi reali, nonché da dati di concentrazione reali , non esiste alcuna possibilità che il consumatore,costituendo la dieta con vongole di provenienza dell’ area industriale, possa assumere una quantità  pari alla dose tollerabile  più  bassa indicata dalla OMS  1-4 p g/ kg peso corporeo ed a maggior ragione quindi non sono ipotizzabili i supposti pericoli alimentari.

 Come evidenziato nelle premesse l’accusa ha cercato di dimostrare la sussistenza del pericolo tipico nei delitti in esame confrontando i livelli di concentrazione di inquinanti riscontrati nel biota di provenienza dai canali industriali ed i conseguenti livelli di esposizione con , con misure –quali la CL,il DGA il TDI definiti dalle agenzie regolatorie declinando il principio di precauzione – lontane ordini di grandezza dal livello degli effetti osservati  per gli endpoints più sensibili ,lontano tanti ordini di grandezza  ,quanti ne esprime il fattore di sicurezza  applicato in sede  di periodica  valutazione del rischio.

 

L’accusa però non è riuscita  neppure su questo piano a dimostrare  alcunché , perché l’evidenza probatoria è di segno contrario.

 Di conseguenza  e conclusivamente ritiene il Tribunale che  deve ritenersi provato che le dosi di assunzione media,sia da parte del consumatore  tipo come da parte del consumatore forte, non siano sussumibili sotto le classi idonee ex ante  a dare  luogo  a qualsivoglia effetto indesiderato per la salute , né  sotto le classi vietate dalla legge o sotto valori suscettibili di  essere ritenuti non normali e,per quanto riguarda le diossine , sotto la classe di quelle  capaci di superare il TDI e comunque  i valori limite individuati dall’OMS nel 1998.

 La assoluzione  consegue comunque alla accertata distanza di ordini  di grandezza che separa le classi di esposizione derivanti dalla dieta del biota di provenienza dall’area industriale da quelle capaci di produrre un qualsivoglia effetto indesiderato  per la salute.

 La assoluzione è altresì conseguente al fatto che la evidenza probatoria non consente di individuare nel catabolismo del PETROLCHIMICO  la matrice della contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale .

 

Note a margine di interpretazioni eccessive in tema di avvelenamento (439-452) e di adulterazione  pericolosa alla salute pubblica

 Perché il tribunale non convalida le soluzione interpretative che l’accusa ha proposto in diritto

  Premette il  tribunale che si tratta di un argomento  in coda perché le prove hanno  dimostrato che  non sono concretamente superati neppure i valori soglia  che attengono ad una tutela anticipata  a livello  contravvenzionale o di illecito amministrativo, che deve essere distinta da quella che le fattispecie penali di cui sopra  realizzano .

 Il pericolo tipico delle fattispecie delittuose invocate non sarebbe realizzato nel caso che i parametri definiti declinando il principio di precauzione , risultassero lievemente superati , non realizzandosi in questo caso  il pericolo tipico della fattispecie in esame.

 Non possono esser condivise le tesi secondo cui la prova della sussistenza  del pericolo  potrebbe essere desunta  da leggi extrapenali che realizzano forme anticipate della tutela della salute mediante prescrizioni o divieti  ( parametri di commerciabilità edibilità ,potabilità) né la tesi secondo cui la prova dell’avvelenamento deriverebbe dalla presenza della sostanza nell’alimento .

La anticipazione di tutela che le due fattispecie realizzano , seppure in modo diverso,  secondo il dato letterale, non può prescindere comunque dal concetto di pericolosità, per cui  in entrambi i casi è necessario accertare la presenza del dato reale di pericolosità.

Ciò che l’accusa non ha adeguatamente valutato , non considerando le caratteristiche qualitative quantitative  della presenza  di inquinanti effettivamente rilevate in traccia nel biota vivente sul sedimento dei canali dell’area industriale, sotto il profilo della loro attitudine a farsi causa iniziante di pur minimi effetti avversi alla salute.

Ed il tribunale ha invece verificato che le classi di esposizione derivanti dalla assunzione tramite la dieta del biota in questione sono distanti ordini di grandezza da quelle capaci di produrre u n qualsivoglia effetto avverso  osservato o comunque sperimentato

 

 E tale soglia rappresenta quella del pericolo reale che  si riscontrerebbe  nel caso che il dato oggettivo considerato risultasse sussumibili sotto la classe di quelli capaci di produrre effetti avversi per l’uomo.

 Da tale ipotesi invece le tesi accusatorie hanno inteso  prescinderne

 Le differente formulazione  delle due norme per cui solo nel caso di adulterazione si richiede  che si verifichi un pericolo per la salute pubblica, si spiega rilevando che mentre il concetto di avvelenamento denota in sé una situazione manifestamente  pericolosa ,le categorie di adulterazione o corrompimento sono  neutre rispetto alla probabilità di verificazione di un evento di danno.

 Ne consegue che il legislatore risulta avere voluto sanzionare espressamente non qualsiasi adulterazione ma solo quelle che comportino  una pericolosità per la salute pubblica delle risorse alimentari.

 

 La anticipazione della tutela non esenta comunque l’interprete  dall’accertamento  della intrinseca idoneità delle classi di esposizione rilevanti nel caso particolare a porre in pericolo effettivo l’incolumità delle persone

Ne consegue che il gradiente  di concentrazione di sostanze presenti nel biota vivente in aree non inquinate rispetto a quello vivente  nell’area industriale non significa di per sé avvelenamento o adulterazione pericolosa.

 Anche la dove la norma non menziona  il pericolo, non può ritenersi sufficiente un pericolo solo  congetturale , essendo le condotte criminose configurabili solo in presenza di un pericolo reale  in astratto od in concreto,  a seconda  della collocazione che il pericolo assume nella struttura  della fattispecie .

Ciò avviene sempre ove la legge impiega termini cosi pregnanti quali disastro ,avvelenamento o simili.

 

 Ritiene quindi il Tribunale che siano invero condivisibili le premesse  dell’accusa secondo cui nel caso di avvelenamento, a differenza di quanto avviene  per l’adulterazione , dove è espressamente indicato il requisito della idoneità a ledere , il pericolo è astratto avendo  il legislatore  adottato il criterio della presunzione di pericolosità. , non è  invece condivisibile la affermazione della accusa secondo cui la semplice presenza  e la natura pericolosa di una sostanza inquinante negli alimenti basterebbe a configurare la consumazione del reato di cui all’art 439 c.p. né è condivisibile  la tesi secondo cui, trattandosi di pericolo  astratto o presunto, esso potrebbe essere  presente anche in classi di esposizione lontane e molto inferiori rispetto a quelle che sono ritenute tali da fondare giudizi di idoneità lesiva.

 Secondo questa tesi –non condivisibile - ad integrare gli estremi dell’avvelenamento del biota lagunare  sarebbe necessaria e sufficiente la mera presenza di  una o più sostanze  tossiche nell’alimento.

 

 Non può infatti pur in presenza di  una norma che configuri  come elemento costitutivo  del reato il pericolo  astratto , prescindersi  dalla verifica della realtà del pericolo,  non essendo ammissibili valutazioni disancorate dal sapere scientifico e poiché  il pericolo è requisito della fattispecie non esiste soluzione interpretativa che legittimi  altre soluzioni certamente   infondate

 Si ripete  quindi che non è condivisibile una tesi che prescinda dalla verifica della situazione di pericolo reale   e che di conseguenza il delitto di  l’avvelenamento  avrebbe potuto ritenersi provato solo nel caso in cui  fosse risultato superato il valore soglia , ed poi determinate le classi di esposizione al livello delle quali è possibile ritenersi il prodursi di effetti avversi  e determinato il confronto tra queste e quelle suscettibili di derivare tramite la dieta costituita dal biota si fosse dimostrato che queste  corrispondevano a quelle.

 

L’accusa si è limitata a fare il confronto con il TDI (DGA) di riferimento,ma all’esito delle prove ed a maggiore  ragione dopo le analisi di Berlino  risulta essere provato che per tutte le sostanze di interesse processuale ,le esposizioni suscettibili  di derivare tramite la dieta costituita dal biota di provenienza dall’area industriale non superano i valori soglia di riferimento

 Neppure è condivisibile la tesi proposta dalla avvocatura dello Stato -con riferimento all’accertamento del pericolo concreto  tipico della adulterazione - secondo cui, premessa la legittimazione a fondare il giudizio di pericolo anche  su altri indici, nel caso specifico di adulterazione delle acque destinate alla alimentazione , il giudizio di pericolo potrebbe essere fatto assumendo come parametro di riferimento la disciplina normativa relativa  alla loro potabilità  in particolare il D. P .R 24-5-1988 n 236 –art 21- la dove la norma assume la rilevanza di “conseguenze per la salubrità  del prodotto alimentare finito”

 Per quanto riguarda la concreta pericolosità delle sostanze alimentari per la salute – vongole - il riferimento sarebbe al D.L. 30-12-1992 n 530 legge attuativa della direttiva 91/492/CEE che stabilisce le norme  sanitarie applicabili  alla produzione e alla commercializzazione dei molluschi bivalvi  vivi per il consumo umano- determinando   parametri di  qualità del prodotto: edibilità e commerciabilità.

 

 Tesi anche questa non condivisibile in base al   principio secondo cui se è vero che la attitudine di una sostanza alimentare  a recare nocumento alla salute  può essere provata con ogni mezzo consentito   è altrettanto vero che non può essere arbitrariamente  ritenuta

Nei delitti contro l’incolumità pubblica il  pericolo è un requisito fondato sempre  comunque  su un giudizio di idoneità della condotta e ledere  che è cosa diversa dal pericolo immanente alla violazione di regole comportamentali previste da leggi speciali ,la cui violazione è sanzionata come contravvenzione o illecito amministrativo ,quand’anche finalizzate alla tutela dalla salute. 

 Nei delitti contro l’incolumità pubblica il codice penale distingue da contingenze tutte  diverse, situazioni razionalmente ritenute passibili di più severa sanzione ,stante la differente offensività della condotta tipica .

 

 Va comunque ribadito che per gli inquinanti di interesse processuale  risulta essere provata la  riconducibilità delle concentrazioni presenti nel biota di provenienza dall’area industriale sotto la classe di quelle non vietate dalla legge speciale  e ciò per taluni tipi di contaminanti risulta essere stato accertato  proprio alla stregua delle previsioni di cui al D Lvo 30-12-1992 n 530 che stabilisce norme sanitarie applicabili alla produzione e alla commercializzazione dei molluschi bivalvi vivi (edibilità)

 Tali normative attengono comunque al tema delle edibilità che è cosa diversa dall’avvelenamento e/o adulterazione  nel senso che, quand’anche fosse stata accertata la non edibilità del biota di provenienza dall’area industriale, il problema dell’avvelenamento  e o dell’adulterazione non sarebbe stato comunque risolto sul piano probatorio.

 

 Per altri contaminanti è stata accertata la distanza  notevole  che separa dai valori soglia  le dosi di assunzione  di prodotti provenienti dalla zona in questione e per le diossine è stato egualmente accertato che non risultano superati i parametri che costituiscono espressione e misura del principio di precauzione

 Entrambi i parametri non distinguono comunque ciò che è avvelenato o adulterato da ciò che non lo è  , se anche fosse stato accertato il superamento dei valori soglia o dei limiti di edibilità –talora coincidenti- si sarebbe accertata la violazione della particolare disciplina , che non sarebbe stata però apprezzabile di per sé come indice di reali pericoli alimentari o come prova di  avvelenamento o adulterazione pericolosa.

 

Pertanto la tesi della avvocatura dello stato non può essere condivisa ,  a prescindere dal fatto che in concreto neppure  risultano essere state violate  leggi speciali. Va pertanto criticato il programma probatorio della accusa  che non attribuisce alcun rilievo  al problema della definizione del livello di esposizione  a cui la ricerca scientifica associa effetti avversi.

 Coerentemente ad una ipotesi interpretativa eccessiva  l’accusa non assume e non rende informazione adeguata sulla caratterizzazione   del rischio reale derivante dalla esposizione tramite la dieta agli inquinanti di interesse processuale.

 

 Coerentemente ad una ipotesi interpretativa che opera una indebita retrocessione del pericolo tipico dell’avvelenamento e  della adulterazione  a parametri  normativamente tipizzati  o tipizzati da agenzie regolatorie  -che sono espressione del principio di precauzione ma non misura della idoneità  a ledere  l’accusa si è limitata a proporre  l’uso di quei parametri , facendone peraltro malgoverno  sia con riferimento ai dati di consumo sia con riferimento ai dati di concentrazione.

 Nessuna allegazione od informazione  è  stata  data dall’accusa in ordine alle valutazioni di correlazione tra dosi ed effetti avversi, inesistente è l’analisi di dati clinici ,epidemiologici  tossicologici pertinenti alla esposizione e ciò come conseguenza coerente al programma di prova messo in atto  dalla accusa  basato sulla proposizione chiave – errata in diritto –secondo cui i parametri normativamente tipizzati o tipizzati dalla agenzie regolatorie- espressione  solo del principio di precauzione e non della misura di effettiva idoneità a ledere -distinguono ciò che è avvelenato da ciò che non lo è  ciò che è realmente pericoloso da ciò che adulterato non è

 Per tali motivi deve escludersi la sussistenza  dei reati di avvelenamento e adulterazione  pericolosa per la incolumità pubblica.

 

Individuazione delle classi di dosi capaci  di produrre il tipo di effetti osservati gli effetti cancerogeni

Insussistenza di tale rischio nello scenario delineato in imputazione

Brevi cenni alla distanza di ordini di grandezze da quelle di interesse processuale

 Premesso che si è discusso  degli effetti cancerogeni  suscettibili di derivare in capo al consumatore  dalla assunzione di biota di provenienza dall’ara industriale tramite la dieta  e che si verificata la complessità delle  relazioni intercorrenti tra esposizione ,suscettibilità genetica e cancro,va anche chiarito che non sono questi i termini di contraddizione che hanno opposto accusa  e difesa nel processo.

 Di fatto la discussione relativa alla sussistenza dei reati di avvelenamento e adulterazione ha avuto riguardo alla verifica del superamento o meno dei parametri  tipici della tutela anticipata- DGA – e su questo terreno l’accusa è stata smentita perché  è stato dimostrato che i parametri pertinenti  alla tutela più anticipata non sono stati superati

 E di conseguenza certo che ai livelli di esposizione di cui può parlarsi in questo procedimento  e comunque  nello scenario delineato dall’imputazione, non c’è  spazio per un pericolo reale  e ciò perché tutti gli studi che documentano effetti osservati  trattano  di esposizioni che sono ordini di  grandezza più elevate di quelle di cui si è discusso.

 

 Gli esperti delle difese discutono per sintesi le evidenze emergenti per ciascun tipo di sostanza di interesse processuale  da studi epidemiologici ,riportando le valutazioni di cancerogenità effettuate dall’IARC

 Gli esperti tale istituzione esaminano la letteratura disponibile sulla sostanza allo studio e alla luce delle letteratura esaminata   l’istituto  esprime un giudizio  generale di cancerogenità, separatamente per gli animali e per l’uomo formato da quattro categorie cosi identificate

 

 Evidenza sufficiente quando si ritiene che esista una relazione tra esposizione e insorgenza di tumore.

 Evidenza limitata: quando si ritiene che esista la relazione di cui sopra ma che anche l’azione di altri fattori  ( caso ,distorsione o confondimento) non possa essere ragionevolmente esclusa.

 Evidenza inadeguata :quando si ritiene  che non sia possibile in base agli studi esistenti  raggiungere una conclusione  sulla presenza o meno di effetti cancerogeni, oppure non ci siano studi disponibili.

 Evidenza che  suggerisce la mancanza di cancerogenità

Queste 4 categorie  ammettono poi delle  specificazioni per quanto riguarda gli animali e vengono   quindi presi in considerazione  per la valutazione  anche altri dati, eventualmente disponibili, quali ad esempio la caratteristiche anatomo - patologiche, effetti genetici, metabolismo,farmacocinesi, meccanismi di cancerogenesi.

 

 Effettuata la valutazione complessiva le sostanze vengono quindi  classificate in 5  gruppi

 Gruppo 1 : la sostanze è cancerogena per l’uomo ciò avviene quando vi e evidenza sufficiente nell’uomo

 Gruppo 2 A : la sostanza è probabilmente cancerogena per l’uomo, ciò avviene quando vi è evidenza  limitata  nell’uomo e sufficiente nell’animale

 Gruppo 2 B: la sostanza e possibilmente cancerogena per l’uomo e ciò avviene quando vi è evidenza limitata nell’uomo e meno che sufficiente nell’animale

  Gruppo 3: la sostanza non è  classificabile quanto a cancerogenità per l’uomo e ciò avviene quando vi è evidenza inadeguata nell’uomo ed  evidenza inadeguata limitata nell’animale 

 Gruppo 4: la sostanza è probabilmente non cancerogena per l’uomo

 

 Premette quindi il Tribunale che la valutazione dell’IARC è esclusivamente qualitativa  e non affronta mai il problema della dosi ,non interessando  all’istituto rendere giudizi sulla idoneità a ledere di una classe di esposizione rispetto all’altra .

  Chiarisce poi ancora il Tribunale con riferimento alla predette classificazioni come il significato del gruppo 3 che richiede evidenza inadeguata nell’uomo e evidenza limitata o inadeguata nell’animale si riferisca per quanto riguarda il termine inadeguata a due ipotesi :
 che gli studi  disponibili non permettano  di esprimere conclusioni sulla presenza o meno di effetti cancerogeni; che non ci siano studi disponibili

E altresì evidente come la assenza di studi non possa significare che se ci fossero gli esiti dimostrerebbero la presenza di effetti cancerogeni.

Nella sentenza segue a questo punto la esposizione di un quadro riassuntivo delle valutazione dell’IARC pertinenti alla cancerogenità delle sostanze di interesse processuale.

 

 Diossine

 Tutte  le diossine ,al di fuori della diossina per antonomasia (2,3,7,8 TCDD- tetraclorodibenzo diossina) che è sicuramente cancerogena e a cui  ci si riferisce quando si  parla di diossina al singolare , mentre  quando si usa il termine al plurale ci si riferisce ai PCDD, sono risultate non classificabili sotto il profilo della  cancerogenità per l’uomo (gruppo3)

( per diossine simili –dioxine like  si definiscono invece i PCDF e i PCB e se ne parlerà dopo).

 

Sulla base degli studi eseguiti  sia su casi in cui l’esposizione è avvenuta in forma diretta sia su casi in cui l’esposizione è invece avvenuta  in maniera indiretta , le conclusioni sono che complessivamente : la 2,3,7,8 –TCDD e ritenuta cancerogena le altre diossine – nulla viene proposto per quanto riguarda le OCDD/F di cui si discusso in termini di impronta – non sono classificabili  quanto alla loro cancerogenità per l’uomo.

 Rileva l’ente  nel 1997 che “ la mancanza di un precedente non può escludere la possibilità che la diossina ad alte dosi possano agire come cancerogeno per molti siti

 

 Da tale giudizio prudente che riguarda alte dosi non possono trarsi  giudizi relativi ad esposizioni a basse dosi e  a sostanze di natura diversa.

Va in particolare evidenziato come il giudizio del IARC sia relativizzato a ad esposizioni ad alte dosi

 Per quanto poi riguarda   la entità della esposizione è lo stesso ente che dichiara che si tratta di studi su casi in cui la esposizione è stata molto più  alta di quella riscontrabile nella popolazione in generale,  e l’esposizione  derivante dalla assunzione della dieta con il biota proveniente dall’area industriale  è sicuramente equiparabile a quella della popolazione in generale.

Ed è  invero lo stesso esperto dell’accusa a dichiarare che tutte le concentrazioni di diossine rinvenute nel biota lagunare sono di fatto propriamente confrontabili con i livelli frequentemente riscontrati  sotto l’influenza di un impatto antropico diretto da moderato a trascurabile

 

 Anche altri studi effettuati per conto di enti pubblici  sono arrivati conclusioni incompatibili con il dato di esposizioni anomale .

Ed in altro studio presentato al convegno Dioxin 99 si afferma che l’esposizione alle diossine per via alimentare della popolazione veneziana si pone  ai livelli più bassi dei valori di esposizione delle popolazione europee

 L’esperto della difesa ha  anche evidenziato che gli attuali livelli di esposizione delle popolazioni umane  ( 2-3- n g /kg )sono ordini di grandezza  inferiori rispetto a quelli osservati negli studi sperimentali e nelle corti lavorative oggetto di valutazione da parte  dell’IARC.

Premesso che le diossine che interessano sono gli OCDD che poco hanno a che fare con la  TCDD si osserva come   non esiste alcuna fonte , nessun studio epidemiologico in letteratura che  segnali effetti sulla salute e che  anche facendo riferimento alla tossicità di questo prodotto si rileva come  fosse di un millesimo rispetto a quella del TCDD e come sia stata abbassata ad un decimillesimo .

 

Sostanze simili alle diossine

 Premesso che con questo termine si definiscono i PCDF e i PCB osserva il Tribunale come per  l’IARC i PCDF risultino essere non classificabili sotto il profilo della cancerogenità (Gruppo 3)

Diversamente per i PCB (Policlorobifenili)  partendo da una evidenza limitata per l’uomo e da una evidenza sufficiente per l’animale l’ IARC in tre successive valutazioni – eseguite rispettivamente   nel 1974 ,1978,1987 classifica la  sostanza tra i probabili cancerogeni per l’uomo  (gruppo 2 a)

 Alla valutazione dei PCDF come non classificabili l’IARC è pervenuto rilevando che vi una evidenza inadeguata per l’uomo, una evidenza limitata  o inadeguata negli animali

 Nulla viene rilevato negli studi IARC sugli OCDF e cioè su quei congeneri per cui si è molto discusso in termini di impronta del cloro.

 

 Considerazione analoghe a quelle evidenziate per le diossine valgono quanto al livello di esposizione delle popolazioni osservate

Anche  per gli OCDF non esiste    alcun informazione epidemiologico che ne abbia rilevato gli effetti cancerogeni

Anche per questo congenere la tossicità  confrontata con quella della diossina è stata ridotta da un millesimo ad un decimillesimo ed anche in questo caso no si tratta comunque di effetti cancerogeni 

 

Per quanto riguarda i PCB –poli cloro bifenili- premesso che non esistono valutazioni recenti per quanto riguarda la loro cancerogenità l’IARC risulta averne fatto 3 valutazioni : la prima nel 1974 senza esprimere alcun valutazione in mancanza di studi  epidemiologici, la seconda nel 1978 in cui era  risultata una evidenza sperimentale sugli animali   di effetti cancerogeni di alcuni  bifenili policlorurati  ed evidenza suggestiva di una relazione tra esposizione PCB e sviluppo di melanoma maligno , la terza nel 1987 dove sulla base  di una evidenza limitata  nell’uomo ed una evidenza sufficiente  sugli animali  si era concluso che i PCB sono probabili cancerogeni per l’uomo.

 I tumori che interessano gli animali sono quasi esclusivamente  i tumori al fegato.

 

Dopo la valutazione IARC nel 1987 sono stati fatti cinque  studi epidemiologici condotti su coorti di lavoratori esposti professionalmente  a PCB e gli esiti di questi studi rendono difficile e problematica la espressione di un giudizio.

Due studi hanno fornito risultati negativi.

Un terzo lavoro ha segnalato un eccesso di melanoma

Un quarto ha segnalato un eccesso di melanoma  e  di tumori al cervello

Un quinto studio ha segnalato un eccesso di tumori al pancreas

Due ulteriori studi hanno segnalato il primo un eccesso di linfomi non Hodgkin ,un secondo un eccesso di mieloma multiplo e di melanoma in coorti di pescatori del Mar Baltico.

 Nessuno degli studi effettuati ha invece segnalato tumori al fegato.

 

Conclusivamente gli esiti degli esperimenti sugli animali riguardano quasi esclusivamente l’insorgenza di tumori al fegato ,mentre gli studi epidemiologici ,quando segnalano eccesso evidenziano sedi diversa dal fegato ed in particolare melanoma o sistema linfoemopoietico.

 Gli studi più recenti  diretti ad accertare   effetti cancerogeni dei DDT  avrebbero portato invece ad evidenziare una relazione  tra PCB e linfoma non hodgkin.

 Gli stessi autori dello studio sono però molto cauti nella loro valutazione  per la quale evidenziano la necessità di ulteriori  approfondimenti e di conseguenza anche il Tribunale non è in grado di valutare  le sopravvenienze  rispetto alle conclusione  IARC 1987 quando le conclusione erano nei termini di una evidenza limitata  mentre studi successivi segnalano in alcuni casi assenza di evidenza in altri evidenza di  effetti

 

Stabilire comunque quali delle conclusioni sia preferibile non interessa il giudizio del tribunale  atteso che tutti gli studi hanno riguardo ad esposizioni  con seguenti a gravi episodi  di intossicazione alimentare o ad episodi di esposizione professionale  stimate ordini di grandezza molto più elevati di quelli propri dei gruppi di confronto

 Quanto invece ai livelli di esposizione della popolazione veneziana ai PCB   basterà ricordare  quanto affermato  dal consulente dell’accusa secondo cui  i livelli riscontrati nel pescato lagunare sono confrontabili con quelli riscontrabili in aree marine oceaniche.

 Risulta comunque dirimente il fatto che sia per le diossine come per le diossine simili considerati   i valori di concentrazione  riscontrati  a Berlino nel biota di provenienza dall’area industriale   , anche per un forte consumatore il margine di sicurezza  anche quello più basso è notevole, e che in ogni caso i margini di sicurezza ,con riferimento ai parametri sopraindicati , secondo la tabella  di esposizione riportata nelle relazioni del consulente della difesa,  risultano per il consumatore medio da 54 a 215 volte e per il   consumatore forte da 7 a 28 volte.

 

Ed ancora veniva rilevato come le esposizioni considerate nella economia di giudizi sulla cancerogenità delle sostanze allo studio sono ordini di grandezza(centinaia se non migliaia di volte ) più elevate di quelle di interesse processuale e che gli effetti cancerogeni  in sede epidemiologica  si riscontrano a livello di esposizioni non confrontabili e non paragonabile a quelle in discussione

 

Idrocarburi policiclici aromatici

 L’IARC ha trattato la cancerogenità  della  esposizione agli IPA per la prima volta nel 1973  ed in epoca più recente altre monografie  hanno aggiornato la valutazione  della cancerogenità degli IPA sia con riferimento alle specifiche sostanze chimiche sia con riferimento alle miscele  nel 1983 3 nel 1987.

 L’esposizione agli IPA  interessante l’uomo si caratterizza rispetto ad altre perché avviene solitamente attraverso miscele o composti ( fuliggine nero di carbone nerofumo catrame carbone fossile, pece oli minerali ,fumo di sigaretta ,fumo di scarico  dei motori,bitumi  ,tutti i composti che contengono una delle indicate sostanze) e pertanto scarsa è l’informazione epidemiologica  pertinente alle esposizioni alla singole sostanze,  avvenendo esclusivamente su base sperimentale(animali),   mentre esiste quella relativa ai composti  o miscele.

 Essendo le sostanze molte ,alcuni studiosi assumono come significative delle caratteristiche del gruppo  ,quelle proprie di una sostanza.

 

 La più studiata e il benzo(a) pirene

 Con riferimento alle sostanze di interesse processuale si rileva che appartengono al catalogo delle più  note nella classe IPA

 Alcune di esse  sono classificate dall’IARC nel gruppo 2A come probabilmente  cancerogene per l’uomo  e ne segue elenco

 Altre sono invece classificate nel gruppo 2B come possibile cancerogeno per l’uomo  ne segue  egualmente l’ elenco

 Altre sono  inserite  nel gruppo 3 come non classificabili : cosi il dibenzo(ae) fluorantene

 

Deve comunque evidenziarsi che la gran parte delle sostanze in sé considerate non sono state esaminate e che per nessuna delle sostanze nominate esistono studi epidemiologici importanti  e che qualche informazione esiste solo per il benzo(a) pirene.

 La evidenza che riguarda  l’uomo è considerata limitata o inadeguata a seconda che tali sostanze  possano dirsi presenti o meno in miscele giudicate cancerogene

 Esempio il benzoantracene è ritenuto cancerogeno perché il catrame di carbone  in cui è contenuto è cancerogeno  ma non si sa se la cancerogenità del catrame di carbone dipenda  dal benzoantracene.

 Dalla valutazione delle miscele non è comunque possibile trarre valutazioni certe sui singoli componenti

 Nel 1983 l’IARC ha valutato come  cancerogeno :

il fumo di tabacco in relazione al quale sono segnalate evidenze epidemiologiche in diverse sedi

 l’inquinamento dell’aria che si evidenzia come causa efficiente dell’insorgenza di tumori respiratori

E in tale contesto  relativamente allo studio Iarc  83 vanno fatte due considerazione rilevanti:

non  vi è evidenza epidemiologica che dimostri come l’ingestione di cibi contenenti tracce di IPA determini apprezzabili aumenti di rischio di cancro per l’uomo

 benché non vi siano studi che evidenziano un nesso tra esposizione ad IPA e tumori ,vi sono numerosi studi che evidenziano aumenti di rischio per tumori della pelle e dello scroto in seguito ad esposizione  a fuliggine catrame e oli minerali e per tumori al polmone  a seguito di esposizione  a gas di carbone ed emissione da forni di cokeria.

 e piche tutti questi composti contengono IPA si pone il problema del loro contributo alla cancerogenesi ,problema non risolto  per i singoli composti  appartenenti alle classi IPA

 Nel 1987   l’IARC ha valutato la cancerogenità delle miscele o dei singoli  composti ,   distinguendo le varie classi da cancerogeno a probabilmente cancerogeno a possibilmente  cancerogeno a non classificabile come cancerogeno,ne segue  un elenco sia  delle miscele  come  dei singoli  composti, distinti a secondo del gruppo di appartenenza  e gli effetti cancerogeni osservati hanno riguardate prevalentemente polmone e vescica.

 

 Secondo il quadro di riferimento riportato negli studi IARC, risulta presente  a Marghera ,delle sostanze o miscele  di cui è stata valutata la cancerogenità , solo il nerofumo  e tale sostanza è stata classificato nel gruppo 3 stante la evidenza inadeguata di cancerogenità per l’uomo .

 Nessuna delle sostanze o miscele contenenti IPA,   appartenenti al gruppo 1, ha  invece a che fare con le produzioni di interesse processuale.

 Va da ultimo evidenziato come le concentrazioni di IPA  nei campioni di vongole provenienti  dai canali industriali  accertate a Berlino risultino ventidue volte inferiori a quelli proposti dal CT Raccanelli e che i valori rilevati si collocano a livelli confrontabili con quelli presenti nei prodotti ittici normalmente  edibili  e  commerciabili

 IL tribunale espone quindi nella sentenza i risultati degli studi epidemiologici fatti anche per i metalli –mercurio e piombo  - per l’esaclorobenzene per l’esaclorobutadiene   ed anche per queste sostanze valgono conclusivamente considerazioni analoghe a quelle svolte per gli altri prodotti inquinanti.

 

 Conclusivamente  osserva il tribunale come  per tutte le sostanze di interesse processuale  o non sono stati osservati effetti cancerogeni o lo sono stati a livelli di esposizione ,ordini di grandezza, molto più elevate rispetto a quelle presenti nei luoghi del processo.

 Le dosi di assunzione derivanti dal consumo delle vongole rimangono  al di sotto  della classe di dosi capaci di superare il limite soglia  .

Esiti del confronto tra le classi di dosi cui l’osservazione sperimentale sugli animali associa effetti cancerogeni con le dosi di assunzione rilevanti nel processo

 

 Per quanto riguarda le diossine  risulta che la misura della esposizione  è in (TEQ) dell’ordine di 0,19 p g/kg/die quindi di un consumo massimo di 0,019 p g/KG/DIE di TCDD

 La dose cancerogena per gli animali è di oltre 5milioni di volte superiore alla dose ipotetica di assunzione ,esagerata per eccesso.

.Per quanto riguarda i 17 congeneri la dose cancerogena è circa 2 milioni di volte superiore alla dose ipotetica di assunzione.

 Viene quindi fatta  seguire una esposizione analitica per ciascun inquinante  degli esiti del confronto da cui risulta  per ciascun inquinante la rilevantissima  differenza – da 100.000 a diciotto milioni di volte -tra le dosi di esposizione  , derivanti dal consumo del biota  della zona industriale e quelle a cui viene  associato un effetto cancerogeno .

 

 Tenuto conto del quadro di riferimento  il tribunale accerta  conclusivamente che gli effetti cancerogeni osservati in sede sperimentale su animale si producono  a livelli di classi di dose superiore ordini di grandezza ( centinaia di migliaia di volte solo in qualche caso decine di miglia di volte)  rispetto a quelle interessanti in questa sede e suscettibili di derivare dalla assunzione tramite la dieta ,di biota di provenienza dall’area industriale.

Di conseguenza deve escludersi la sussistenza di pericolosità con riguardo agli effetti cancerogeni per classi di esposizione interessanti questa sede e ciò sia facendo riferimento alle dosi di esposizione  accertate dalla difesa come a quelle  pur erronee indicate dalla accusa .

 E gli esiti delle indagini svolte in questa sede convergono con quelli risultanti da altre fonti  in cui non è stato accertato alcun aumento di rischio nella popolazione della laguna e delle isole  rispetto a quella della terraferma.

 In  definitiva le concentrazioni di sostanze inquinanti rilevate nel biota di provenienza dell’area industriale sono largamente inidonee , sicuramente inidonee  pure solo a porre il problema della produzione di effetti avversi come effetti cancerogeni 

 

5.23Gli effetti non cancerogeni

 Insussistenza di tale rischio nello scenario di imputazione

 Brevi cenni alla distanza ordini di grandezze da quelle di interesse  processuale

Infondatezza manifesta delle tesi di accusa sulla inadeguatezza del limite OMS  1998 a garantire la necessità di proteggere i soggetti deboli  

 Osserva il tribunale  come le concentrazioni di sostanze inquinanti siano largamente inidonee  a porre  il problema della produzione di effetti avversi per la salute, anche per quello che riguarda effetti non cancerogeni.

Per quel che riguarda lo specifico delle diossine  i rapporti tra i livelli più bassi di esposizione,  in grado di produrre effetti osservati o comunque noti e, i livelli di esposizione pertinenti al processo  variano a seconda del tipo di effetti considerati ,da un mimino di tre a un massimo di sei ordini  di grandezza.

 Questa misura-che separa le due dosi -è stata determinata , tenendo prudenzialmente conto del fatto che sia la Commissione Europea (2000) sia l’OMS(1998) specificano che gli effetti tossici rilevati in sede sperimentale sono stati  prodotti da somministrazioni di 2,3,7,8 TCDD ( la diossina più tossica)  e non dalle sostanze inquinanti di interesse processuale e tenendo conto altresì del fatto che sommare ,secondo  fattori di conversione  di tossicità equivalente,  la tossicità del PCB a quella  del  TCDD   è cosa conforme alla convenzioni tipiche dei procedimenti regolatori piuttosto che a regole scientifiche.

 

E seguendo questi criteri prudenziali la Commissione europea e l’ OMS hanno  concluso nel senso che il livello più basso a cui  potrebbero verificarsi effetti avversi non cancerogeni è  distante non meno di dieci volte  dal TDI di riferimento (1-4 pg  Teq KG. p c.die).

Tale fattore di sicurezza  10 è applicato tenendo conto della esposizione  suscettibile di derivare da tutto il complesso degli alimenti costitutivi  delle dieta  e ,con riferimento ai livelli di esposizione relativi ai forti consumatori , varia da un minimo di tre ad un massimo di sei ordini di grandezze.

 

Accertato che  per tutti  i metalli non risultano superati  i livelli di concentrazione, previsti dalle norme relative alla produzione e commercializzazione dei molluschi bivalvi vivi, l’accusa si è concentrata  sulla rilevanza del problema dei valori di concentrazione pertinenti ad altri inquinanti

 Ed accertato che anche per gli altri inquinanti i valori di concentrazione  sono valori normali e che comunque non superano i valori soglia ,il discorso della accusa  ha finito per concentrarsi sulla questione dell’effettivo margine di protezione suscettibile di derivare dal rispetto del TDI per i consumatori più deboli ( neonati  ,donne in gravidanza e in lattazione  anziani ,persone in cattivo stato di salute etc ) , ipotizzando in tesi di accusa che possano derivare effetti nocivi dalla diossine e dai furani anche se assunti in dosi compatibili con i valori limiti di soglia  di riferimento.

 

Il Tribunale ritiene infondata la tesi accusatoria ,sostenuta anche da Greeenpeace , che ignora e rimuove il problema della definizione delle classi di esposizione  che possono produrre gli effetti avversi .

E sul punto si ricorda che anche il principio di precauzione  fa riferimento a dei limiti di assunzione delle sostanze , assumendo in funzione della finalità protettiva  misure che sono ordini di grandezze  lontano dalla  dose  la cui  assunzione non provoca effetti tossici sugli animali più sensibili  e misure   ancora più distanti da quelle che sarebbe pensabile essere idoneo a provocare minimi effetti indesiderati nell’uomo.

Tutti gli  effetti tossici non cancerogeni riscontrati negli esperimenti   sugli animali , sono stati verificati dopo somministrazione ad alte dosi non confrontabili con quelle di cui al processo

 Partendo dalle sperimentazioni  sugli animali sono state fatte due estrapolazioni :

1) una relativa alla valutazione del rischio per la animale esposto a basse dosi;

2) l’altra qualitativa e quantitativa  relativa al trasferimento del dato animale sull’uomo.

Va  poi aggiunto che tutte le sperimentazioni sono state fatte utilizzando la 2,3,7,8 TCDD pura.

Considerato quindi che lo scopo della indagine è quello di trovare una dose sicura per l’uomo l’aspetto più problematico è evidentemente  quello della estrapolazione dall’animale all’uomo .

 La prima tappa è quella  dell’accertamento del NOAEL ,dose di sostanza  priva di effetti tossici, determinata partendo  dalla sperimentazione sull’animale e apportandovi  correzione mediante fattori di sicurezza  che tengono conto di valutazione etiche e politiche.

 

 Ed anche nella economia del procedimento regolatorio seguito dalla  OMS e dalla Commissione Europea il perturbamento dello stato di benessere dei soggetti più deboli risulta essere stato valutato in modo approfondito ,coerentemente con le finalità delle predette istituzioni di definire la misura della precauzione, determinando  valori soglia ultraprudenziali , tenendo conto anche  delle fasce di popolazione più sensibile.  

E la definizione della soglia accettabile, cioè sicura e adeguata alla necessità di protezione della salute di tutta la popolazione ,compresi le donne gravide e in lattazione , è stata come gia detto determinata a dosi  10 volte inferiori a quelle che comunque non sono in grado di produrre gli effetti menzionati.

 Ne consegue che le tesi di accusa,secondo cui non può escludersi che effetti tossici non cancerogeni  possano derivare da esposizione a   diossine  e furani  anche a livelli compatibili con i limiti  soglia   sono infondate 

 

 5.24 Esiti in materia di avvelenamento e/o di adulterazione pericolosa

 Ritiene  conclusivamente il tribunale che la tesi accusatoria ,relativa alla sussistenza di pericoli alimentari tipici del delitto di avvelenamento e del delitto di adulterazione deve essere ritenuta infondata in fatto (più di quanto non siano erronee le premesse interpretative in diritto)

 La prova della insussistenza del fatto ,consegue non a ragione della insufficienza probatoria   ma in base alla esistenza di prove adeguate acquisite a seguito  di un completo lavoro istruttorio , non essendo le classi di  esposizione  derivanti dalla assunzione dei prodotti ittici provenienti dai canali dell’area industriale sussumibili sotto le classi di esposizione  in relazione alle quale è possibile fondare giudizi di pericolo.

 

 Il Tribunale ha verificato  che le caratteristiche qualitative e quantitative degli inquinanti rilevati in traccia nel biota  dei sedimenti della zona industriale  non permettono di ritenerne la loro attitudine a farsi causa di effetti avversi alla salute; che le classi di  esposizione  derivanti dalla assunzione tramite  la dieta del biota in questione sono distanti ordini di grandezza da quelle capaci di produrre effetti negativi osservati o sperimentati.

Accertata la carenza dei presupposti del pericolo ,accertata la inidoneità delle classi di esposizione pertinenti alle concentrazioni di inquinanti rilevati in traccia  nel biota vivente nel sedimento dell’area industriale a provocare danno alla salute , accertato che, nello scenario del processo , le classi di concentrazione degli inquinanti  non appartengono a  classi di concentrazioni anomale, verificato il mancato superamento dei valori soglia  e dei parametri di protezione alimentare   che  applicano il principio di precauzione ,è dato ritenere l’insussistenza dei fatti contestati .

 

Va ancora osservato che, secondo l’accusa, il reato di disastro innominato  ed il supposto pericolo per l’incolumità pubblica conseguirebbe agli effetti sul biota dell’inquinamento dei sedimenti  dei canali, con la conseguenza che la mancata prova della asserita pericolosità della ittiofauna costituisce  a maggior ragione prova del fatto che nessun pericolo per la salute pubblica può essere anche solo  astrattamente  ricollegato alle supposte cause mediate , cioè all’inquinamento dei sedimenti.

 La assoluzione è altresì coerente alla evidenza probatoria che non consente di   individuare  nel catabolismo del Petrolchimico la matrice della contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale  indistintamente considerata.

 

Agli imputati non è neppure possibile riferire l’inquinamento del Canale Lusore Brentelle –sicuramente prodotto dal catabolismo del Petrolchimico – e degli ambiti adiacenti ,per avere l’accusa  trascurato la necessità di una indagine relativa  alla datazione dell’inquinamento al fine di accertarne  l’apporto dei singoli gestori, in definitiva ,per essere stato trascurato  il problema delle rilevanza causale della singole condotte degli imputati.

 Comunque anche gli addebiti di colpa ,in sé considerati, risultano infondati in fatto e in  diritto e pertanto l’accusa  nel suo complesso è infondata.

 

III parte -appello del PM

 Capitolo 3.5

 Erronea contraddittoria  ed illogica esclusione del reato di avvelenamento colposo

Premessa la distinzione teorica tra reati di pericolo concreto , reati di pericolo astratto e reati di pericolo presunto  - basata sulla esistenza per i primi della prova  concreta del pericolo per il bene protetto e per i secondi invece della prova della sola condotta ritenuta dal legislatore  in sé  pericolosa  -osserva il P.M come, per dimostrare la sussistenza del reato di cui all’art 439 c.p, si debba provare che le acque o le sostanze alimentari  sono state avvelenate ,cioè contaminate da sostanze tossiche, anche non letali ,in concentrazioni tali da potere comunque danneggiare l’organismo  umano, mentre non è necessario provare l’effettivo cioè concreto verificarsi del pericolo.

 Ed è incontroverso che non la presunzione legale di un pericolo effettivo fondi il disvalore dei reati di pericolo astratto , bensì la pericolosità generalmente e normalmente insita nel fatto tipico.

 E la pregnanza semantica di un elemento di fattispecie –l’avvelenamento appunto-a connotare il delitto de quo ,cosi che non ha senso parlare di presunzioni legali di pericolo.

Concorda  poi il P.M con il fatto incontroverso che attribuire la responsabilità penale di un evento, al di fuori del collegamento causale con l’azione, sarebbe contrario al sistema formato dagli art 25 II°comma e 27 III ° comma Costituzione .

 

 Dal coordinamento delle predette norme  risulta poi chiara la esigenza che il soggetto ,cui si applica la sanzione ,sia proprio quello che ha commesso il fatto dotato di disvalore .

 Premesse alcune considerazioni di carattere generale, relative alla differenza tra l’evento di danno e quello di pericolo, il primo certo ontologicamente, il secondo invece solo altamente probabile , in quanto riferito ad una realtà futura e quindi incerta – per cui un Tribunale ,che pretendesse la certezza ontologica del pericolo , finirebbe per non  poter mai ravvisare una condizione di pericolo-  osserva il P.M come nel caso concreto il pericolo sia stato contestato in ragione dello avvelenamento  delle acque e sostanze alimentari ,cioè di una  modificazione prodotta mediante immissione di veleni o sostanze tossiche ,capaci di produrre sostanze dannose nel sistema biologico,alterandone seriamente le funzioni.

 

L’accusa ha dimostrato che gli imputati hanno provocato nel corso di decenni emissioni nell’aria , nell’ acqua superficiale ,nell’acqua di falda  ,nel suolo  e sottosuolo  di sostanze tossiche in violazione delle norme che disciplinano tale attività ed in concentrazione che comunque mettono in pericolo la salute pubblica   e che  ciò ha  comportato una modifica della realtà esistente , e  creato un pericolo che prima non c’era o aggravato quello gia sussistente .

 L’accusa ha dimostrato  che legato alla condotta ,che ha modificato la realtà esistente , è il pericolo  rappresentato da una nuova situazione in cui si è evidenziata una manifestazione di danno genetico .

 La associazione tra evidenze di danno e presenza di inquinanti industriali è tangibile e reale

 Dall’esame delle evidenze sperimentali relative agli anni 93/99 la zona di Porto Marghera  prospiciente il Petrolchimico è risultata caso del tutto particolare rispetto ad altre aree lagunari , perché livelli significativi di danno genetico sono stati rilevati ripetutamente in mitili e pesci .

 

Analisi chimiche più recenti hanno suggerito una relazione tra danno biologico e contaminazione da IPA,  bifenili policlorurarti ed esaclorobenzene, in particolare la presenza della DRZ - zona diagonale radioattiva- è segno di esposizione multipla a composti  aromatici DNA reattivi.

 Negli organismi studiati in particolare nei mitili-tenendo conto dei tempi di vita, del fatto che filtrano la colonna d’acqua , della loro elevata capacità di bioaccumulo e della limitata capacità metabolica- è risultato  accertata la avvenuta  contaminazione ,a causa della esposizione ambientale, ad agenti genotossici,nei periodi menzionati ,esposizione che ancora persiste .

 E se è avvenuto un danno genetico nei mitili  per esposizione alle sostanze inquinanti , scaricate dal Petrolchimico ,se ne deve dedurre che analogo rischio di modificazione genetica  esiste anche per la collettività umana ,esposta direttamente o indirettamente alle stesse sostanze tossiche .

 Anche nei pesci si sarebbero verificate analoghe modificazioni, per quanto riguarda la  zona diagonale radioattiva, circostanza questa che conferma il carattere indifferenziato del rischio per tutti gli organismi viventi  esposti alle stesse sostanze .

Il ripetuto riscontro nel tempo in mitili  e pesci  dell’area industriale di livelli significativi di danno genetico giustifica  a tutt’oggi  l’ipotesi che il meccanismo  di legame di alcune molecole inquinanti al DNA e conseguente formazione di addotti sia( o rischi di essere ) un fenomeno riscontrabile anche nell’uomo.

 Sono le leggi della biologia che provano la non impossibilità del danno nel caso concreto e consentono la legittima configurazione  di un pericolo scientificamente supportato

 

 È quindi importante  segnalare  quanto i primi giudici hanno ignorato e ricordare  che:

1) trovare il DNA danneggiato non dimostra che quel danno si è tradotto automaticamente  in mutazione e tumori  nei pesci  e nei mitili,  ma significa che la esposizione è capace di determinare effetti molecolari  iniziali che possono sviluppare mutazioni deleterie.

 2) è certo che esistono esempi in letteratura che  dimostrano come ,compatibilmente con la dose e le modalità di esposizione ,un certo numero  degli inquinanti , trovati in quantità maggiore nei mitili dell’area industriale ,possono causare mutazioni e tumori in determinati organismi.

3) che per quanto riguarda l’uomo ,a differenza degli organismi acquatici, per cui il rischio è diretto,  si parla  nella comunità scientifica di una esposizione che ha l’attitudine e cioè è idonea  a farsi occasione iniziale di possibili processi causali.

 

 Addotti al DNA e micro nuclei, come rilevato dalla consulente tecnica Venier,  possono determinare mutazioni, si tratta in particolare di  mutazioni cromosomiche ,considerate predittive di rischio di tumore nell’uomo.

 Anche se non è dimostrato,  in tali condizioni, il regolare innesco di stimoli proliferativi  capaci di facilitare la insorgenza di mutazioni  e lo sviluppo  dei tumori, si tratta comunque di possibilità  ben note di cui è impossibile calcolare le percentuali di verificazione .

 Bisogna infatti distinguere l’effetto precoce individuato come micro nucleo ,danno cromosomico,  e le possibili  conseguenze di tale danno.

 

 Per ogni specie la riproduzione ,le funzioni immunitarie ed endocrine sono funzioni vitali altrettanto complesse del mantenimento dell’equilibrio replicativo, quell’equilibrio di segnali e funzioni , che se sregolato sfocia nella cancerogenesi .

 L’alterazione del messaggio genetico  o della sua espressione può pregiudicare  le funzioni vitali, produrre conseguenze a medio e lungo termine nei singoli organismi e nell’ecosistema.

 Tanto rilevato appare priva di fondamento la affermazione contenuta nella sentenza ,secondo cui le caratteristiche degli inquinanti non sono state considerate dall’accusa  sotto il profilo delle loro attitudine  a farsi causa iniziante di pur minimi effetti avversi alla salute .

 

Il danno genetico

 Le valutazioni che seguono sono tratte dalla pubblicazione scientifica della IARC n146 che tratta dell’uso di test a breve e medio termine  per gli agenti cancerogeni  e dei dati sugli effetti genetici per la valutazione del rischio cancerogeno.

 Va innanzitutto evidenziato come ,sulla base dei risultati sperimentali, sia stato accertato che un aumentato livello di specifici danni al DNA può essere predittivo di aumentate incidenza di tumore in gruppi di popolazione .

 Gli addotti  al DNA possono causare  mutazioni puntiformi e alterazioni cromosomiche e tutti i tumori contengono alterazioni cromosomiche,alcune delle quali sono tappe specifiche  dello sviluppo del tumore .

Delle  alterazioni cromosomiche rilevabili  sperimentalmente fanno parte i micronuclei.

Entrambi , addotti al DNA e micro nuclei  sono oggi ampiamente utilizzati come marcatori biologici di effetti chimici precoci(associati in primo luogo all’esposizione) e la maggior parte dei  casi di esposizione ,valutati dalla IARC come cancerogeni umani, sono genotossici ,vale a dire agiscono causando lesioni chimiche nel DNA .

 È pertanto ragionevole supporre che l’aumento di danni al DNA ,sopra  il livello di fondo, in specifici gruppi  di persone sia associato ad aumentato rischio di tumore.

Per lo meno per i cancerogeni  genotossici  gli addotti al DNA sono probabilmente gli eventi molecolari critici  negli stadi precoci della iniziazione della cancerogenesi .

In alcuni casi la esposizione a fattori cancerogeni  può non essere accompagnata da manifestazioni esterne , in altre situazioni invece le conseguenze della esposizione  si manifesta nei livelli di danno al DNA che può essere quindi usato come misura di esposizione .

 

Il vantaggio aggiuntivo delle misure degli addotti al DNA è che possono fornire informazioni sulla esposizione, in situazioni dove tali informazioni non si possono ricavare altrimenti.

 E tali considerazioni valgono anche nel caso in cui ci sia esposizione ad agenti genotossici capaci di formare addotti e contemporaneamente ad agenti promotori e co - cancerogeni capaci di modulare tale livello di addotti( es l’alcool etilico aumenta drammaticamente i livelli di addotti 06 metiguanina in esofago ,stomaco pancreas e colon dopo esposizione sperimentale a nitrosamine specificamente a nitrosodimetilamina   )

 E se si verificano gli effetti predetti sui pesci ci si deve chiedere  cosa possa verificarsi nella popolazione che di essi si nutre ,con particolare attenzione agli effetti indotti da tale consumo sulla salute umana.

 La presenza di livelli significativi di addotti del DNA e di micronuclei  dimostrano in modo certo la esposizione degli organismi considerati ad agenti genotossici

 Con il sostegno delle attuali conoscenze scientifiche e con riferimento specifico  all’ambiente acquatico,va inoltre considerato che il danno al DNA è solo una delle possibili conseguenza tossiche ,potendo la tossicità interessare contemporaneamente  piu bersagli intracellulari .

La manifestazione di alterazioni genetiche , indotte da un composto chimico, può avvenire a dosi istanti dalle dosi tossiche e a distanza di generazioni.

 

 Con riferimento ai molluschi avrebbe dovuto inoltre tenersi conto  della loro capacità di bio accumulo  degli inquinanti  ,spesso consistente ,e dei tempi necessari per la loro  depurazione .

 Ed ancora doveva considerarsi il fatto che le reazioni metaboliche  dell’uomo sono ben più   efficienti  di quelle modeste che si verificano negli invertebrati e che di conseguenza producono quantità pericolose  di intermedi reattivi, capaci di formare addotti sul nostro DNA.

 Il fatto che alle questioni prospettate non sia stata data ancora una risposta scientifica certa  non ha peraltro rilevanza ai fini dell’apprezzamento del pericolo ed è proprio per prevenire tale genere di pericolo  che è stato  dalla comunità scientifica  elaborato  il principio di precauzione   che presuppone “ una preliminare valutazione scientifica obiettiva”,  la quale indichi che vi sono “ragionevoli  motivi di temere”  effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani ,degli animali e delle piante, potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto dall’unione europea.

 

La prevenzione è necessariamente correlata al rischio ed è comunque  al principio di prevenzione che deve farsi riferimento quando si devono definire misure dirette ad evitare il pericolo che un evento si verifichi,ciò che ha portato la Corte di  Cassazione ad affermare che “la stessa probabilità che ad una condizione consegua un effetto può ritenersi sufficiente  per sostenere l’esistenza di un rapporto causale in un contesto di prevenzione”.

Il Tribunale non ha invece considerato gli indici di esposizione a composti genotossici su un bersaglio critico che è il DNA, con lesione strutturale di una molecola ,macromolecola ,all’interno della cellula che è materiale biologico.

 

Gli addotti sono certo indice di esposizione a composti genotossici  ed anche indici di danno genetico  . e questo fattore di rischio, che non è un pericolo congetturale  ma una condizione di fatto molto concreta , non è stato  in alcun modo valutato dal Tribunale .

Anche  a proposito della dose  soglia le affermazioni del Tribunale muovono da presupposti non condivisibili,  perché diversi sono i termini della questione prospettata .

Rileva il P .M  come si sostenga da parte del Tribunale   che  le classi di esposizione suscettibili di derivare dalla dieta del biota lagunare sono distanti ordini di grandezza da quella capaci di produrre qualsiasi effetto avverso , e tale circostanza  è ritenuta dirimente.

Ora  se si può  concordare sul fatto che la pericolosità di determinate azioni per determinati beni deriva da una quantità obiettiva ,non è poi sempre condivisibile una sola  valutazione  quantitativa che si ispira a premesse meccanicistiche  ,perché nella fattispecie si ha a che fare non con un mondo meccanico  ma con un mondo sub molecolare  .

Nella fattispecie  poiché il dato della realtà che ha l’attitudine di farsi occasione iniziante di possibili processi causali di un futuro evento dannoso è la lesione al DNA definibile a livello molecolare o citologico devono applicarsi le leggi della biologia .

 

Caratteristiche peculiari delle stesse sono il fatto di essere modelli temporali – si riferiscono cioè a fenomeni che sottostanno ad un processo, come la cancerogenesi -e modelli a livelli parzialmente sovrapposti (serve cioè a connettere differenti livelli della realtà,tant’è vero che la biologia contemporanea –incentrata sul DNA è nata da una forte interazione con la fisica  e fu proprio un fisico quantistico che creò un ponte tra le due discipline).

 

 Le lesioni del DNA definibili a livello molecolare o citologico si configurano come danni biologici iniziali capaci  di innescare effetti negativi a livelli organizzativi superiori.

E in questo quadro devono valutarsi oltre alla dose ed al meccanismo d’azione dell’agente tossico  anche le caratteristiche strutturali e funzionali degli organismi esposti ( modalità di esposizione, specificità biochimiche e fisiologiche, sistemi di difesa, compensazione e delimitazione del danno) ed il momento del ciclo vitale in cui essi risultano colpiti dallo stimolo nocivo.

 

 Differenze genetiche tra individui(fenotipi metabolici differenti  possono rendere conto di un diverso grado di sensibilità o di resistenza individuale) ed influenze dell’ambiente interno ed esterno  possono comportare risposte diverse, per cui risulta invero complesso ed arbitrario stabilire  una relazione tra causa (l’esposizione ) ed effetti indotti cosi come lo sarebbe stabilire ,su dette basi, soglie di non pericolosità.

 La mancata considerazione di tali dati reali di pericolosità ha viziato irrimediabilmente il ragionamento del giudice di primo grado, che non ha capito che sussiste  il pericolo consistente  nella lesione apportata al DNA dagli agenti genotossici, da cui, per evoluzione del danno  possono derivare vere e proprie mutazioni ovvero cambiamenti dell’informazione contenuta  nel DNA, trasmissibili a generazioni cellulari successive .E rispetto a questo tipo di pericolo non rilevano le  considerazioni contenute nella  motivazione della sentenza  per giustificare la esclusione del rischio

 

 Il ricorso alla sanzione penale trova  qui la sua giustificazione  proprio nella funzione  della tutela penale stessa   che è quella di salvaguardare  i beni essenziali per l’individuo e la collettività , nella fattispecie esposti al pericolo derivante dalle conseguenze possibili della lesione al DNA, ossia al materiale genetico fondamentale  degli organismi viventi, lesioni definibili  a livello molecolare e citologico  che si configurano come danni biologici iniziali, capaci di innescare effetti negativi a livelli organizzativi superiori.

 

 E la tutela del patrimonio genetico è stata riconosciuta nel 1982 dal Consiglio d’Europa con la raccomandazione n 934 e successivamente  dal Parlamento europeo il marzo 1989 e il diritto alla conservazione di un genoma  non modificato  è stato riconosciuto  anche nel nostro ordinamento  dalla legge 2137/2001 n145 che ha ratificato la Convenzione di Oviedo.

 Essendosi verificata nel caso in esame una rottura del patrimonio genetico  avrebbe dovuto ritenersi sussistente  la condizione di pericolo per l’incolumità pubblica derivante dai fatti descritti in imputazione considerati, sub specie dei avvelenamento colposo.

 

La prova fornita nel corso del dibattimento di primo grado dalla accusa di alcune tipiche lesioni indotte nel DNA da agenti genotossici, che costituiscono lesioni iniziali da cui per effetto di una normale evoluzione del danno si consolidano vere e proprie  mutazioni ovvero cambiamenti dell’informazione contenuta nel DNA,trasmissibili in generazioni cellulari successive è stata immotivatamente ignorata dal Giudice e la sentenza appellata dovrà pertanto essere riformata sul punto con l’accertamento del pericolo derivante dalla immissione in ambiente lagunare  degli inquinanti industriali  indicati nella imputazione e del conseguente avvelenamento delle acque e delle sostanze alimentari nei limiti descritti

 

Capitolo 3.6

 Erronea contraddittoria e illogica esclusione della sussistenza degli estremi del delitto di adulterazione colposa di cui agli art 440-452 c.p

 3.6 Erronea contraddittoria e illogica esclusione della sussistenza degli estremi del delitto di adulterazione  colposa di cui agli articoli 440-452 c.p

 Pur aderendo e condividendo la impostazione del Tribunale,  secondo cui è necessario dimostrare la esistenza di uno specifico pericolo  in concreto per la salute pubblica, come conseguenza sia della adulterazione delle acque e delle sostanze alimentari,sia delle acque di falda  ad opera degli scarichi idrici  ,delle discariche e delle emissioni in atmosfera delle sostanze inquinanti indicate nel capo di imputazione ,  ritiene il P. M,  a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, che vi siano elementi   che consentano di ritenere provata la sussistenza di tutte le  predette circostanze 

Va premesso che, com’è noto, l’art 440 c p punisce la condotta di chi corrompe  o adultera  acque o sostanze alimentari ,prima che siano attinte o distribuite per il consumo ,rendendole pericolose per la salute pubblica .

 

 Di conseguenza la norma punisce il degrado dell’acqua o delle sostanze alimentari provocato da componenti privi di quelle elevata tossicità che li rende veleno .

E secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso anche dal Tribunale, l’art 440 c .p è un reato di pericolo concreto ,per la cui sussistenza è necessario che il giudice accerti la possibilità di un nocumento alla salute , pur non essendo necessaria la prova di una effettiva  lesione della stessa .

 Nello stesso senso è orientata anche la dottrina, nonostante alcuni ritengano che, nell’accertamento della pericolosità dell’azione ,si potrebbe essere indotti a ritenere che corrisponda piu alla sostanza  del fenomeno, qualificare di pericolo astratto anche tutti i reati che ricalcano lo schema dell’art 440 c .p citato.

 

 Aderendo comunque alla interpretazione dominante , secondo cui è necessario dimostrare l’esistenza di un pericolo in concreto   per la salute pubblica , come conseguenza della adulterazione della acque o delle sostanze alimentari , ciò non consente di pervenire alla conclusione che la prova del pericolo e della sua concretezza si risolva nella dimostrazione scientifica della certezza di conseguenze  dannose per la salute dell’uomo, quale effetto della condotta adulterante.

È peraltro indubbio che il pericolo sia un concetto irrinunciabile  ma di difficile definizione  scientifica, essendone controversi  i criteri di accertamento, la unicità o diversità di nozione in relazione ai diversi istituti; è comunque altrettanto indubbio  che il principio di  tassatività  e offensività  impongono che anche il pericolo sottostia a criteri razionali, capaci di verificazione empirica .

 

Ed è altrettanto chiaro che il pericolo costituisce il risultato di un giudizio ex ante, perché appunto ha ad oggetto  la previsione che, dalla situazione in  esame, derivi un futuro evento dannoso; 

si formula cioè un giudiziosi  non di certezza sul verificarsi o meno di un evento dannoso, bensì un giudizio di pericolosità, con i relativi margini di incertezza ,connessi alla previsione di un evento,non come certo, né  come possibile, bensì come probabile.

Il giudizio di pericolo è derivato  in parte dalle massime di esperienza –non disancorate dal sapere scientifico che consente di dire  quanta  probabilità esiste  che un certo evento lesivo si verifichi – in parte da esigenze normative ,dato che il grado rilevante di probabilità  dipende da una serie di elementi latu sensu normativi (importanza del bene minacciato ,tipo di offesa che questo potrebbe subire, modalità della eventuale lesione,criteri  tutti che se correttamente applicati  rispondono alla necessita   di anticipare la soglia della tutela penale).

 

Tanto premesso rimane il problema di accertare in base  quali elementi (cd base del giudizio) il giudice possa formulare il giudizio di pericolosità in concreto , inteso come  valutazione della probabilità che si verifichi  un evento lesivo del bene protetto dalla norma   La Cassazione non ha chiarito nelle sue decisioni  se sia imprescindibile , caso per caso, una dimostrazione scientifica della pericolosità  ( ad esempio mediante schede tossicologiche  quando esista una letteratura di tal genere) sulla base di una sperimentazione  ad hoc, tesa a dimostrare  l’attitudine della sostanza a provocare malattia ,sia pure  in senso ampio cioè  come alterazione dello stato di benessere fisiopsichico dell’individuo o se invece , tale valutazione possa essere comunque effettuata  sulla base anche di altri elementi, dai quali il giudice possa  motivatamente ritenere   la sussistenza  della pericolosità in concreto.

 La prima soluzione appare riduttiva  perché  non consentirebbe di valutare la pericolosità in mancanza  di adeguata sperimentazione , e perché  trattasi di indagini non brevi ,che si  prolungano  anche per anni prima di consentire il raggiungimento di  risultati significativi per stabilire gli effetti della esposizione ,dell’inalazione o dell’ingestione  della sostanza esaminata sulla salute dell’uomo

 

 Significativa in tal senso è la vicenda relativa all’accertamento della tossicità del dietilstrilbestolo, anabolizzante usato per 40 anni e di cui sono stati poi accertati dopo un ventennio di ricerche gli effetti cancerogeni .

 Inoltre  viene  ricordato il principio affermato dalla Cassazione in alcune decisioni della libertà per il giudice di fondare il suo convincimento su qualsiasi  elemento idoneo a motivare il giudizio nel caso specifico,  nel senso che la pericolosità della sostanza  a recare  nocumento alla salute pubblica può essere provata  con qualsiasi mezzo consentito, disattendendo anche relazioni tecniche peritali,  purchè ciò avvenga con motivazione adeguata e rigorosamente logica, dando cosi ragione della decisione adottata  

 Altre pronunce hanno affermato la possibilità di fondare il giudizio di pericolosità su parametri  normativi, tutte le volte in cui esiste una disposizione (di legge o di regolamento) che riconosce  una specifica pericolosità ( intesa come attitudine generica  a ledere la salute)  ad alimenti che si trovano in particolari condizioni o che hanno  certe caratteristiche .

  È a questo punto che viene  in rilievo  secondo il P M la questione del significato giuridico da riconoscere  agli standards di qualità di un prodotto o di un alimento  previsti da leggi speciali.

 

 Dopo avere  fatto un elenco di quelli piu significativi – premesso che nel corso degli anni  le norme speciali sono diventate molto numerose-  e chiarito che in tutti  i casi elencati  si tratta  di limiti imposti dal legislatore a tutela della salute umana , il cui superamento comporta il verificarsi di una situazione che il legislatore stesso considera –in base a dati scientifici- di rischio per la salute  il P. M.  ricorda anche  gli orientamenti giurisprudenziali circa il valore che agli stessi viene attribuito, quanto alla esistenza o meno di una presunzione di idoneità delle norme tecniche speciali a garantire il livello accettabile di tutela  - e da atto  del prevalere dell’orientamento piu recente, secondo cui la responsabilità in sede penale presuppone sempre la violazione degli standard,  su altri  orientamenti , secondo cui invece il giudice potrebbe ritenere sussistente la responsabilità nonostante il rispetto degli standard – vedi in particolare  la  sentenza della Corte Costituzionale n127/1990 e della  Corte di Cassazione  sez III n11295 del 1-10-1999 e sez I n5215 del 9-5-1995.

 

Tanto premesso ritiene il PM che, tra tutti  gli standard di qualità normativamente imposti, debbano essere presi in considerazione per valutare  la concretezza   del pericolo nella presente vicenda  i valori di concentrazione massima ammissibile fissati dal DPR 236/88 per le acque destinate al consumo umano , limiti che meglio di altri consentono per il caso di specie di essere  utilizzati come circostanze  rilevanti  ai fini del giudizio di pericolo concreto .

 

 Viene quindi ricordato  come in dibattimento sia  stata fornita la prova della esistenza ,nell’area circostante il Petrolchimico ,di numerosi pozzi artesiani utilizzati dai proprietari per il prelievo dell’acqua  da destinare al consumo umano - secondo la definizione contenuta nell’art 2 citato DPR - che  non si limita a  ricomprendere il solo consumo alimentare ,ma che estende la tutela ad ogni genere di consumo  dell’acqua fatto dall’uomo ( compreso l’uso igienico –sanitario  e quello irriguo)

 La circostanza rileva  per due  ordini di motivi .

 In primo luogo perché  smentisce la tesi difensiva della inutilizzabilità dell’ acqua di prima falda – non utilizzabile perché  inquinata precedentemente al Petrolchimico e perché   salata -in quanto l’acqua di falda risulta utilizzata da un numero indifferenziato di persone che la usano prelevandola dai pozzi artesiani .

In secondo luogo perché consente di meglio apprezzare le implicazioni penalistiche  delle considerazioni svolte dal prof    Nosengo sulla contaminazione della falda idrica e quindi dell’acqua attinta da pozzi e destinata al consumo umano .

Prima di approfondire –in diritto tale specifica doglianza d’appello – il P.M. svolge alcune considerazione in fatto dirette criticare la sentenza nella parte in cui sottovaluta le conseguenze dell’inquinamento delle acque sotterranee, del suolo  e del sottosuolo .

Ritornando quindi ai valori di concentrazione massima ammissibili per le acque destinate al consumo umano stabiliti dal DPR 236/88, va innanzitutto precisato che, secondo la direttiva comunitaria di cui la legge è esecuzione,  gli standard  o parametri contenuti nel citato DPR  costituiscono il livello minimo per la tutela della salute pubblica, al di sopra del quale sussiste pericolo di lesione, che non può essere accettato dagli stati membri se non nei limiti rigorosissimi delle condizioni a cui la direttiva  subordina la possibilità di autorizzare -per tempi limitati- il superamento della soglia di rischio e che le eccezioni sono rigorosamente contenute  e limitate a casi gravi e per breve periodo.

 

 Viene quindi ricordato come la Corte  di giustizia  della unione europea con la sentenza  del 22-9-88 abbia  stabilito due  importanti principi:

 tutti i valori dei parametri costituiscono  una soglia di pericolosità per la salute umana , soglia che non può e non deve essere superata  e deve  essere interpretata in senso restrittivo;

 le deroghe sono tassative e  legittime, solo se  applicate in condizione di stato di necessità , per effetto di un evento grave e non imputabile al soggetto che autorizza la deroga  e devono altresì essere limitate nel tempo.

Solo in questo caso la esigenza di tutela della salute può giustificare il suo sacrificio alla necessità di tutelare la incolumità pubblica, messa in pericolo dalla situazione di emergenza

 Ad eguali conclusioni si perviene esaminando il regime delle deroghe ai valori massimi di concentrazione previste dal DPR 236/88.

 

 L’art 17 del citato DPR ,nel disciplinare le uniche due ipotesi in cui possono essere consentite deroghe , impone come limite insuperabile che il superamento dei limiti di concentrazione non presenti un rischio  inaccettabile per la salute pubblica .

 Tutti i parametri individuati dalla norma sono stati determinati con preciso riferimento a fattori di rischio per la popolazione  e si è inoltre ribadita la necessità - oltre  il principio della equivalenza  di tutti i parametri contenuti  nell’allegato, in funzione della esistenza di un preciso fattore di rischio- che  vengano controllati  da parte dell’autorità sanitaria anche altri parametri , diversi da quelli contemplati nell’allegato , ma che comunque possano rappresentare un fattore di rischio .

 Accertato il collegamento tra i parametri di cui sopra ed il pericolo per la salute dell’uomo  e dell’ambiente si tratta di verificare  in che modo i limiti normativi sopra richiamati  possano venire in rilievo come circostanze di fatto rilevanti per la formulazione del giudizio circa  la prevedibilità di una  lesione della incolumità pubblica.

 

 Ciò non vuol significare la trasformazione del reato da reato di pericolo concreto a reato di pericolo presunto, bensì ricerca di affrontare e risolvere il problema  di individuare le circostanze di  fatto, in presenza delle quali possa ritenersi sussistente la probabilità della lesione alla salute , come conseguenza della adulterazione della sostanza  alimentare, alla luce del principio giurisprudenziale  sopra citato, che consente al giudice di rinvenirle in qualunque elemento ,anche di carattere normativo ,non essendo egli vincolato agli esiti di dimostrazioni scientifiche  concrete del rischio esistente e del suo livello.

Ciò non significa confondere il piano dei requisiti di qualità stabiliti dalla normativa pertinente  alla edibilità con quello  diverso e relativo alle classi di esposizione suscettibili di essere ritenute ex ante capaci di produrre effetti avversi o comunque indesiderati per la salute  dell’ideale consumatore.

 Sono infatti entrambi criteri pertinenti a rendere l’informazione adeguata sulla caratterizzazione  del rischio reale .

 Peraltro anche la valutazione tossicologica su base sperimentale  ha sempre carattere presuntivo  e probabilistico  dal momento che la valutazione viene fatta su animali ,con una stima dei risultati operata   in termini statistici e  quindi probabilistici.

La estensione della sperimentazione condotta su cavie all’uomo è frutto di regola generalmente accettata in campo scientifico che comporta necessariamente un tasso di probabilismo essendo fondata sull’id quod plerumque accidit .

 

 Bisogna comunque fare attenzione a non confondere i due livelli-quello della astrattezza del pericolo e quello del margine di astrattezza contenuto nella valutazione del pericolo da parte del giudice- perché oltretutto in caso contrario il giudizio di pericolosità in concreto si risolverebbe nella verifica del danno conseguente alla condotta ,ciò che la Cassazione ha escluso essere necessario per configurare il reato di pericolo in esame .

 Va ancora osservato come il bene tutelato dalla norma sia la salute pubblica per cui è necessaria una diffusività del rischio capace di incidere su di un valore collettivo come quello della salute pubblica. Anche sotto tale profilo la giurisprudenza ha precisato  che basta la mera probabilità di un contatto della sostanza adulterata con un numero indeterminato di soggetti

 Passando ad esaminare altri aspetti della norma incriminatrice osserva il P.M. come l’espressione adulterazione significhi alterazione della natura genuina di una sostanza destinata alla alimentazione, attraverso un procedimento con cui si aggiungono o si sostituiscono elementi nocivi per la salute.

 Il temine corrompimento indica invece la immissione di sostanze, che alterano l’essenza rendendo cosi  nocivo l’alimento corrotto

Per quanto riguarda il concetto di acque o sostanze destinate alla alimentazione  deve ricordarsi che, secondo un orientamento giurisprudenziale, per quanto riguarda l’acqua essa sarebbe sempre suscettibile di destinazione alimentare  ed in tal senso ha disposto l’art 1della legge 5-1-1994 n36, che ha  stabilito che tutte le acque superficiali e sotterranee ,ancorché  non estratte dal  sottosuolo sono pubbliche e costituiscono una risorsa che va salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà.

 

 Nello stesso senso è una sentenza della Cassazione del 22-7-1997 n.7170, che ha ritenuto sussistente il reato di cui all’art 440 c. p  nel caso di sola contaminazione  di una falda idrica ad opera del percolato fuoriuscito da una discarica illegittimamente gestita, senza che fosse richiesta la attualità della utilizzazione della falda, essendo stata ritenuta sufficiente la potenziale utilizzabilità  dell’acqua, pur in assenza di qualsiasi opera per la sua diretta o indiretta destinazione al consumo umano .

 Si è cosi inteso proteggere le acque ancorché non estratte dal sottosuolo in funzione del loro potenziale sfruttamento ad uso umano , prescindendo  dal  loro effettivo attuale utilizzo  (vedi sul punto anche la sentenza della Cassazione del 29-6-85 n 6651), ciò che dimostra   come sia erronea la decisione del Tribunale laddove ha ritenuto non sussistere il reato di cui all’art 440 c. p sul presupposto delle inutilizzabilità  delle acque per il consumo umano .cosi come erronea risulta la affermazione relativa alla immobilità o eccessiva salinità delle acque di falda .

Per la sussistenza del reato di cui alla art 439 c p non è quindi richiesta  la potabilità dell’acqua , ma solo quella della sua potenziale destinazione ad uso umano ed alla soddisfazione dei bisogni alimentari di un numero indeterminato  di persone , ciò che  può avvenire nel caso  di adulterazione

di acque di una falda che alimenta direttamente i pozzi , in tutti i casi in cui si determini un pericolo per la salute pubblica.

 

 Il giudizio di pericolosità può poi essere desunto,a prescindere dai parametri tossicologici sugli effetti derivati dalla ingestione alimentare  dell’acqua prelevata dalla falda inquinata, dalla presenza  effettiva delle sostanze  inquinanti  descritte nella imputazione e di cui è comprovata la tossicità  o per alcune anche la cancerogenità .

 Nel caso in esame è provato  dalle analisi eseguite da  Acquater ne 1995  e nel 1996  che  l’acqua di falda  campionata da piezometri in prossimità del Petrolchimico è fortemente inquinata da sostanze derivanti dalla sua produzione , al punto di superare   di gran lunga  i limiti di CMA previsti per numerosi parametri   contemplati  dal DPR236/88..

In particolare per l’arsenico la presenza in quantitativo elevato consente di ritenere dimostrato non tanto il reato di adulterazione quanto quello di avvelenamento, attesa la idoneità della concentrazione  riscontrata in falda ad operare quale vero e proprio veleno per la salute umana,  ed analoghe considerazioni valgono anche per il dicloroetano.

 E questi risultati avrebbero dovuto portare ad un ben diverso esito processuale ,essendo evidente la esistenza di concreti elementi di pericolo .

 

La assoluzione degli imputati non appare pertanto accettabile e consegue ad una errata e sottostimata valutazione  delle prove.

Sull’accertamento tecnico  presso M. P. U. di Berlino

 Anche in questo caso viene accettato il metodo della difesa , confrontando molluschi pescati in periodi stagionali diversi e confrontando le concentrazioni degli inquinanti riferite al peso edibile .

 Ed invece i dati devono essere normalizzati rispetto al contenuto dei lipidi per gli organici e al contenuto di sostanza secca   per i metalli cosi come suggerito dagli studi e dalla procedura Epa

 E normalizzando i dati le differenze spariscono diventando i dati di Berlino per le sostanze di interesse processuale addirittura di gran lunga superiori  a quelli proposti dalla accusa.

 

 Comunque utilizzando i dati di Berlino ,e confrontando le concentrazioni di sostanze inquinanti  nei campioni bivalvi cresciuti nei sedimenti dei canali industriali con quelle dei campioni  cresciuti nei sedimenti di S Erasmo , si rileva , con riferimento alla concentrazione sui lipidi , che la tossicità  nei bivalvi dei primi campioni rispetto a quella dei secondi è 13 volte superiore per  quella dovuta a  PCDD/F  e PCB e 38 volte superiore quella dovuta a HCB.

 E l’HCB( esaclorobenzene ) è un sottoprodotto solo delle lavorazioni del ciclo del cloro,  per cui è evidente la contaminazione da quella specifica fonte di inquinamento .

 Quanti agli IPA che provengono anche dal traffico marino e dalle combustioni  risultano 36 volte piu concentrati nei canali industriali .

 

Anche i dati dei metalli ottenuti a Berlino  ed espressi sul secco  evidenziano la  loro maggiore concentrazione   nei molluschi provenienti dai canali  del Petrolchimico .

 Il Tribunale poi  nella motivazione ,di cui a pagina 804,  utilizza per il suo giudizio i valori mediani – ciò che vuol dire eliminare  i valori massimi e quelli  minimi -ed in concreto  il campione M6 pescato nel canale industriale sud ,dove si svolge la maggiore attività  di pesca abusiva.

 In realtà  anche sulla base della analisi eseguita a Berlino si avrebbe  che  ad un giovane  di 40 kg   basterebbero 24 grammi edibili  per superare la DGA prevista  dal WHO a causa della concentrazione di PCDD/F e PCB ,mentre a S Erasmo  la stessa persona potrebbe mangiare 250 g cioè 10 volte di piu .

 

 Per quanto riguarda il non superamento, quanto alle diossine, dei valori limite stabiliti  per le dosi giornaliera o settimanale, si osserva come  i dati dovrebbero essere aggiornati considerando l’aumento di fondo della esposizione a diossine  attraverso la dieta  nella popolazione del territorio dell’UE.

 Viene infatti sottolineato nei documenti del comitato scientifico  europeo che date  le  assunzioni medie di diossine o dioxin  –like  attraverso la dieta nei paesi europei  di 1.2 –3.0 p g WHO-TEQ /KG p c per giorno, una percentuale considerevole della popolazione europea dovrebbe superare il TWI indicato dal Comitato.

 

Risultando di conseguenza già superati i valori di riferimento ,a seguito dell’inquinamento di fondo  per una parte di rilievo della popolazione,  ne consegue che ogni esposizione aggiuntiva deve essere considerata alla luce della affermazione che vi è gia  di fondo una esposizione critica .

 Ribadisce quindi il P.M. per chiarezza che i valori soglia  si riferiscono a tutta la assunzione di diossine o composti simili e non solo a quella  attribuibile  ad uno specifico componente della dieta e che  nelle valutazioni non deve dimenticarsi la assunzione di fondo delle diossine che viene raddoppiata per pochi grammi (24 g) di vongole pescate nei canali industriali

 Viene ancora criticata la sentenza a pagina 811, laddove si dice  che la compromissione dei sedimenti delle acque dell’area industriale  non è riferibile al Petrolchimico ,  mentre invece una

tale affermazione risulta contraddetta dalla natura degli inquinanti,come ad esempio l’HCB tipico della lavorazione del cloro e l’HCB si ritrova poi assieme a diossine  e dioxin –like proprio nei molluschi .

 

Il Tribunale afferma anche, a pagina 814 e 815 che, secondo la normativa pertinente , le quantità di inquinanti  rinvenute  nei molluschi prelevati nei canali della area industriale sono compatibili con quelle  che sono ammesse per legge ad essere distribuite per il consumo umano  , ma cosi decidendo trascura il DLVO n530/92 secondo il quale  per le sostanze non regolate da  concentrazioni limite ci si deve riallacciare alla DGA.

 

 Anche nelle pagine successive –816,817,818- il tribunale insiste poi sui metalli e su alcuni parametri  trascurando però quelli più tossici e  operando cosi una selezione non corretta .In ogni caso con le vongole si supera la DGA,senza contare l’effetto tossico sinergico (cumulativo) data da Cadmio Piombo ,Mercurio. Arsenico,IPA, Diossine,PCB,HCB, sostanze tutte valutate separatamente mentre invece vengono assunte insieme dal consumatore .

Le considerazioni  riportate nella sentenza a pagina 825 che riguardano valutazioni del consulente del PM devono poi ritenersi errate per difetto in quanto considerando pranzi e cene reali si supererebbe  la DGA di sei  volte.

 Cosi come errate devono considerarsi i ragionamenti esposti  a pagina 856 ,dove   si indicano i consumi  del consumatore  medio e del forte consumatore , considerando che in ogni caso il forte consumatore che mangia 11 grammi al giorno con una concentrazione  pari al valore massimo riscontrato – di 2,7 p g WHOTE/G- assume  solo dalle vongole  un quantitativo di inquinanti ,che sommato al resto, supera di gran lunga la DGA.

 

 Ed infine non si condivide il confronto con  le concentrazioni rilevate in altri mari anziché  il confronto con altre zone della laguna come S Erasmo, né la affermazione  secondo cui  i carichi inquinanti registrati nel biota di provenienza dell’area industriale sarebbero normali, atteso che i confronti con l ‘area di S Erasmo  hanno invece evidenziato le notevoli differenze  sopraindicate 

 

3.9.2 I parametri di rischio disponibili per le diossine  e composti simili(PCDD PCDF e PCB dioxin like 

Nella sentenza viene fatto spesso riferimento al TDI dell’OMS affermando anche che  il comitato scientifico europeo utilizza lo stesso riferimento.

 Tale affermazione invece non corrisponde al vero ,in quanto nel 2000 questa organizzazione indicava un parametro inferiore  cioè 1 pg  WHO –TEQ/ kg peso corporeo giorno , anche se recentemente il parametro è stato rivisto ed aumentato a 2 pg WHO-TEQ/ kg ,  rimanendo però sempre inferiore a quello indicato dall’OMS.

 Va poi anche sottolineato che sia lo SCF che l’OMS fanno riferimento a dosi o esposizioni a diossine e composti simili espresse secondo il criterio WHO – TEQ ciò che implica la considerazione  della esposizione oltre che  a PCDD e PCCF anche ai PCB e dioxin like , nella definizione della concentrazione TEQ ( diossina equivalenti ), ai fini della valutazione del rischio.

 

 Va poi osservato come il documento del SCF dica “ che l’uso della sola 2,3,7,8-TCDD come unica misura della esposizione a PCDD e PCDF e PCB simili alla diossina porti ad una grave sottostima  del rischio per l’esposizione umana  per questi composti .

 Inoltre il SCF mette in evidenza come pur avendo alzato la dose tollerabile , considerata la assunzione media di diossine   attraverso la dieta nei paesi europei- pari 1.2 –3.0 p g WHO – TEQ kg p .c /giorno- risulta che una percentuale considerevole della popolazione dovrebbe superare il valore soglia indicato .

 Ne consegue che se i valori soglia risultano gia superati dai valori di fondo, nell’aggiungere ogni altra esposizione bisogna considerare che quella di fondo è gia critica .

 

Ed ancora il CSF non prende in considerazione gli elevatissimi rapporti che sussisterebbero tra i livelli privi di effetto avverso e quelli della dose giornaliera.

 Viene poi evidenziato come sempre venga fatto riferimento, nella estrapolazione dei dati sperimentali dall’animale all’uomo, al peso corporeo , ciò che è particolarmente rilevante, considerato anche che, attesa la lunga durata della emivita della diossina , si verifica nell’organismo  un progressivo accumulo.

Secondo il CSF il valore della dose soglia è inferiore  da 10 a 25 volte rispetto alle dosi per le quali è stato ritenuto possibile un effetto avverso sull’uomo e inferiore  di un fattore 5 rispetto alla dose stimata priva di effetto..

 

 Tanto contraddice la affermazione del Tribunale secondo cui invece la differenza tra la dose stimata priva di effetti e la dose soglia sarebbe molto piu elevata.

Da ultimo viene ricordato che secondo l’ US EPA (US Environmental Protection, Agency) che viene citata nella sentenza come fonte di riferimento, per determinare la classe dei forti consumatori, sussiste un incremento di rischio cancerogeno dell’ordine di 1 su 1000 per un esposizione aggiuntiva  di 1 p g WHO - TEQ/kg  peso corporeo al giorno.

 

3.9.3 L’esposizione di fondo e il contributo dei PCB –diossina simili ( dioxin –like) alla tossicità equivalente

Ricordata quella che è la esposizione di fondo per gli adulti dei paesi europei ,secondo i calcoli della SCF pari a 1,2 – 3,5 p g WHO - TEQ kg/ p c giorno   ( esposizione risultante dalla sommatoria dei due livelli inferiori pari a 0,4 e 0,8 rispettivamente per PCDD/F  e per i PCB “dioxin like” e  dei due  livelli superiori pari a 1,5 e 1,5 relativi ai medesimi inquinanti ) e da cui risulta che il contributo dei PCB”dioxin like “ porta ad una esposizione che è superiore  rispetto a quella a solo PCDD e PCDF  di un fattore che varia da 3 a 2 ,  viene poi riportata la stima  media del livello di fondo secondo l’US EPA che la valuta in un 1 p g  WHO - TEQ/ kg peso corporeo a fronte di una  precedente valutazione  nell’ordine invece di 3 p .g relativa gli anni precedenti  periodo 1980 –1990.

 La diminuzione della esposizione di fondo deriverebbe da una serie di riduzione delle emissioni e contaminazioni.

 L’esposizione comunque per il 95simo e 99simo percentile della popolazione è stimata 2-3 volte superiore a quella media per cui ,considerando questa variabilità, le stime non si differenziano di molto .

 Si rileva poi come la stessa agenzia evidenzi anche come la esposizione ai PCB dioxin like oltre che ai PCDD/F comporti un incremento di un fattore sino a 2 .

 Trattandosi di inquinanti che hanno diverse fonti è comprensibile la diversità di dati in relazione alla diversità dei contesti.

 

 Rapporto tra contributo di PCDD/F e PCB sulla  base di dati di misura relativi ai bivalvi della laguna veneta

Da studi eseguiti risulta che la concentrazione tossicologicamente equivalente (PCDD/F e PCB) espressa in WHO-TEQ (criterio OMS e UE)    è mediamente superiore di circa 50-60% rispetto alla tossicità equivalente relativa solo a PCDD/F( criterio ITE).

Il rapporto tra i due criteri risultava nei singoli campioni analizzati compreso tra   circa 1,24 e circa 2 ,con una media di circa 1,6 ,con la conseguenza che moltiplicando per un fattore di 1.6 la concentrazione espressa in ITE  si otteneva una ragionevole stima delle concentrazione media espressa in WHO-TEQ.

 

 Possibili criteri per l’uso di dati relativi a  PCDD e PCDF( concentrazione I-TE) senza considerare i PCB ed evitare sottostime del rischio

 Le valutazioni che non includono il contributo dei PCB portano ad una sottostima del rischio.

 Per adeguare le valutazioni fatte con criteri I-TE risulta ragionevole applicare il fattore sopraindicato di 1.6 che non comporta una sovrastima eccessiva .

 Tanto viene evidenziato in contrapposizione a quanto risulta a pagina 826 della sentenza, in relazione alla valutazione del consulente del  PM Zapponi.

 Ma contrariamente a quanto affermato dalla difesa non è il consulente del PM. ad essere caduto in un errore esiziale, bensì il consulente della difesa.

 Risulta infatti ,contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, che il valore della concentrazione delle diossine viene moltiplicato per il fattore 1.5 per la stima complessiva di PCDD/F e PCB  e non per la stima della sola concentrazione di PCB.

 Lo stesso Tribunale peraltro da atto, in altre pagine della motivazione, di condividere il criterio di adeguamento della stima sopraindicato, laddove ad ogni stima relativa ai soli PCDD e PCDF senza i PCB viene associata quella relativa a tutti predetti componenti, moltiplicando la prima stima per un fattore 1,55 ovvero incrementandola del 55%.

 Sulla base dei dati forniti dai diversi studi ,in assenza di dati specifici sui PCB ,l’uso di un fattore correttivo 1.6 da applicare ai dati di concentrazione di PCDD/F può ragionevolmente evitare una significativa  sottostima della esposizione complessiva (PCDD/F e PCB) e del relativo rischio.

 Il fattore 1.6 è il più basso tra quelli discussi ed è basato su dati sperimentali della laguna e non comporta evidentemente sovrastime irragionevoli.

 

 3.9.4 Il consumo di bivalvi , la resa ovvero la percentuale edibile rispetto al lordo e le stime di esposizione

 Riferimento alla motivazione della sentenza da pagina 847 a pagina 858

 

 3.9.4.1  Conseguenze che derivano applicando ai dati dei consulenti della difesa i parametri di resa ( rapporto tra la parte edibile ed il lordo) dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione)

 Vengono di seguito riportate le tabelle contenenti la  indicazione per i diversi alimenti del rapporto tra la parte edibile ed il peso lordo- secondo l’ente sopraccitato- pari per le cozze al 32%, per l’ostrica al 12 %, per le vongole al 25 %.

Applicando questi dati a quelli riportati nella sentenza, per quanto riguarda i forti consumatori, si hanno dei valori netti di consumo giornaliero pro capite di vongole e cozze   che risultano quasi doppi rispetto a quelli indicati dal Tribunale, sia per i consumatori medi come per i forti consumatori .

 In particolare per quanto riguarda le vongole il consumo medio  e massimo  sulla base di dati Coses  e delle rese dell’Istituto  nazionale di ricerca per gli alimenti  e la nutrizione   risultano rispettivamente di 2.5 e19.75 grammi /persona /giorno a fronte di valori di 1.4  e 11 grammi /persona /giorno riportati per gli stessi parametri nella sentenza a pagina 855.

Ed analogamente ,per quanto riguarda i soli mitili, il consumo medio e quello massimo risultano rispettivamente di 1.6 e 8.64 grammi/persona /giorno a fronte dei valori 1 e 4 grammi /persona7 giorno riportati per gli stessi parametri alla tabella  a pagina 855 della sentenza .

 Va anche rilevato come nel considerare la assunzione di diossine e composti simili  il Tribunale abbia fatto riferimento  solo al consumo  delle vongole, tralasciando quello delle cozze  ciò  che comporta una sottostima dei consumi.

 Per i forti consumatori, considerando il consumo complessivo di vongole e cozze si ottiene un consumo globale  di più di 28 grammi/persona /giorno( 19,75 grammi di vongole + 8,64 di mitili) valore che rientra tra quelli considerati dal P. M .

 

 E assumendo per i bivalvi un valore di contaminazione medio, pari a quello risultante dalla perizie, ovvero di 1,85 p g (I-TE) g  limitatamente a PCDD e PCDF senza considerare i P C B ed un consumo di 28 grammi /persona /giorno per un individuo di 70 KG di peso corporeo risulta un assorbimento  pari a  0.74 p g l TE /kg p c . giorno

 Limitando per il momento il discorso ai PCDD/F e considerando una esposizione di fondo molto bassa ,pari a 0,4 p g I-TE /kg p. c giorno una esposizione aggiuntiva di 0,74 p g l -TE / kg  p c/ giorno  porterebbe a una esposizione globale paria quasi 3 volte quella di fondo ed invece nel caso  di una esposizione di fondo piu elevata  porterebbe ad una esposizione complessiva  dell’ordine di quasi  volte quella di fondo .

 Trattasi in ambedue i casi di  incrementi elevati rispetto al fondo.

 Ed estendendo la analisi all’insieme dei composti simili alle diossine ,il valore di esposizione aggiuntiva di 0,74 p g l T E/kg p c/giorno, se addizionato ai valori di fondo per l’Europa per tutti i composti compreso tra 1,2 e 3,0 p g WHO - TEQ/kg ,porterebbe comunque ad un aumento significativo

 Sommando il valore aggiuntivo a quello minimo si arriva ad un valore quasi pari a 2 pg   e ad un livello comunque superiore al valore minimo del TDI dell’OMS ( compreso tra 1 e 4 p g al giorno) Solo questo modo di procedere appare corretto perché  i parametri utilizzati dall’OMS e dall’UE si riferiscono   all’esposizione globale per ingestione ,inclusa quindi anche quella di fondo e non solo quella derivante dal peso specifico dell’alimento .

Il valore di 0.75 si riferisce poi solo al contributo di PCDD/F e non considera  quello dei PCB e quindi è una sottostima della esposizione .

 Utilizzando il criterio di correzione per la valutazione anche dei PCB che comporta un incremento del 50-60% il valore di 0.74 viene a corrispondere a circa 1.1.-1.2 e se, a questa esposizione, si   aggiunge quella di fondo di 1.2- 30 si supererebbe il limite di 2 p g .

 

3.9.4.2

I dati dell’istituto  nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione sui consumi medi giornalieri  pro capite di molluschi in Italia

 Va innanzitutto premesso che il predetto istituto effettua una distinzione  tra il consumo medio totale  pro capite  ed il consumo pro capite medio per i soli consumatori , considera cioè oltre la media  totale del consumo giornaliero pro –capite ,anche la media dei soli consumatori , identificati come tali e diversi dai non consumatori o consumatori sporadici.

 

 Dagli studi effettuati risulta: un consumo medio nazionale totale dei molluschi freschi di circa  4.2. grammi persona  giorno, un consumo medio di molluschi freschi dei consumatori – che costituiscono circa l’11% della popolazione-   di circa 36 .0 grammi persona giorno; il rapporto tra le due medie è dell’ordine di 10.

Lo stesso ente precisa che il peso percentuale dei mitili nei molluschi freschi  è del 29.6 %( quantità espressa al netto degli scarti, parte edibile)

 Per quanto concerne  i mitili i dati diventano :ì consumo medio nazionale totale dei mitili  freschi di circa 1.2 grammi persona giorno consumo medio di mitili freschi dei  consumatori ( che costituiscono circa l’11% della popolazione) di circa 10.6 grammi / persona giorno; per quanto riguarda le vongole i dati indicano:consumo medio nazionale circa 0.334 grammi persona giorno

 consumo medio molluschi  freschi dei consumatori ( che costituiscono circa il 2,2  della popolazione ) circa 15.0 grammi /persona / giorno.

 

 Conclusivamente i dati statistici elaborati dal predetto Istituto indicano per la popolazione italiana, per gli effettivi consumatori di mitili e vongole un consumo medio giornaliero di circa 25.6 grammi / persona /giorno, stima che si può sicuramente assumere essere inferiore rispetto al consumo   da parte dei consumatori medi di Venezia .

 Anche nell’ambito di questa categoria, che indica sempre valori medi ,si può assumere che vi siano individui che consumano meno e individui che consumano di più.

 Comunque il predetto quantitativo di consumi -pari a 25.6- costituisce una sottostima rispetto alla realtà veneziana ed è molto piu elevato di quello  proposto dalla difesa per i forti consumatori, mentre risulta compreso tra i valori indicati dalla accusa .

 Si tratta anche di una valore non molto diverso da quello derivato dai dati Coses presentati dai consulenti della Difesa ,considerando i fattori di resa dell’Istituto nazionale della nutrizione e pari a circa 28 grammi persona giorno.

 

 Dopo avere riportato i valori dei consumi medi lordi  indicati nelle tabelle utilizzate dal Tribunale e relativi all’Italia , al Comune di Venezia ed ai  forti consumatori ,  risulterebbe, che il consumo medio di bivalvi nel Comune di Venezia è circa 6.5 volte superiore a quello medio nazionale,mentre

il consumo dei forti consumatori veneziani risulterebbe  circa 46 volte superiore a quello medio nazionale .

 Per i consumi netti di vongole e cozze riportati egualmente i valori di consumi medi relativi all’Italia, al Comune di Venezia e ai forti consumatori risulterebbe che il consumo medio di questi bivalvi nel Comune di Venezia è 8 volte maggiore di quello medio nazionale e per i forti consumatori 50 volte maggiore di quello nazionale.

A parte l’esistenza di alcuni errori – ad esempio il valore di 0,3 grammi /persona /giorno che viene indicato come rappresentativo del consumo di vongole e cozze  mentre invece risulterebbe  corrispondere la consumo di sole vongole secondo i dati dell’istituto nazionale per la Nutrizione – assumendo comunque come valido- quanto indicato nelle tabelle utilizzate dal Tribunale - risulterebbe  che il rapporto tra  i consumi dei forti consumatori veneziani ed il consumo medio nazionale è dell’ordine  di circa 50 ( 46 per i lordo e 50 per il netto).

 

Considerato che secondo l’istituto di cui sopra il consumo netto medio nazionale di mitili e vongole è di circa 1.5 grammi persona giorno moltiplicando questo dato per 50, il valore diviene 75 grammi persona giorno e questo dato può essere confrontato con quello del consumo medio nazionale dei consumatori pari circa 25 grammi persona giorno.

 

 Le conclusioni che vengono tratte dal P .M sono le seguenti: l’Istituto considera due categorie di consumatori quella media  totale della intera popolazione e quella media degli effettivi consumatori;.il consumo medio dei consumatori risulta per gli alimenti ittici superiore di almeno un ordine di grandezza rispetto a quello medio totale .

Sulla base del valore della resa calcolata dal predetto Istituto,e utilizzando i dati di consumo dei forti consumatori, indicati nella sentenza ,si ottiene per questa categoria  un livello di consumo complessivo di mitili e vongole dell’ordine  di 28 grammi / persona /giorno che  rientra  tra quelli proposti da piu consulenti del P. M con le conseguenze che ne conseguono.

 

 Anche il livello indicato dall’istituto dei consumi di vongole e cozze  per la categoria degli effettivi consumatori di circa 25,6 grammi persona giorno è certamente in difetto rispetto alla realtà veneziana e comunque risulta compreso tra quelli indicati dal PM.

 Anche per il consumo medio giornaliero della popolazione, applicando ai valori indicati dallo istituto  dell’ordine di  circa di1,5, grammi persona   giorno il fattore 50- che riguarda la differenza tra il consumo dei forti consumatori e quello  medio della popolazione  generale-  si ottiene il valore di 75 grammi  persona giorno  che è dell’ordine di quelli  piu elevati ipotizzati dall’ accusa .

 Le stime dei consumi riportate nella motivazione sono invece significativamente piu basse ,e quanto sopra riportato, mette invece in evidenza la ragionevolezza dei dati indicati dai consulenti del PM..

 

 3.9.5 Alcune considerazioni su”gli esiti della valutazione tecnica correttamente operata –per il Tribunale dagli esperti delle difese(relazione Pompa del 18-4- 2002)  relativamente alla comparazione con  i dati di altri paesi

A pagina 876 della motivazione sono riportate le concentrazione di inquinanti rilevate negli organismi della laguna e quelle rilevate in altri paesi  ( senza precisare il criterio di tossicità utilizzato)  e la concentrazione di diossine riportata ,per le vongole dei canali industriali è di 1.2 p g TE/G.

 

Secondo la perizia Bonamin invece la concentrazione media nei bivalvi campionati   è pari a  1.85  pg l -TE/g  quindi superiore–benché valutata senza considerare il PCB - e quindi certamente in difetto- e si trova al secondo posto in ordine di grandezza della serie di 11 dati della figura a pagina 876 della motivazione, dopo il dato relativo ai pesci svedesi .

 

Alla luce di questo dato ritiene il P. M che non possa condividersi la affermazione del Tribunale, secondo cui invece il valore di inquinamento dei bivalvi della laguna veneziana risulta confrontabile con quello medio riscontrato nei pesci e molluschi di altre aree, essendo invece i valori accertati nella perizia Bonamin ben più elevati, se confrontati con quelli europei e soprattutto se confrontati con quelli relativi ad altre  zone della laguna.

 

Di particolare rilevanza si ritiene essere un documento dell’unione europea ,relativo alla esposizione, per ingestione attraverso la dieta , a diossine e PCB correlati ,nei paesi membri.

Da tale documento risulta che solo 5 su 49 campioni ,relativi ad alimenti ittici europei ,sono superiori alla concentrazione media di 1.85 pg I-TE/g rilevata dalla citata perizia.

 Ne consegue che la contaminazione di bivalvi nella laguna si attesta sulla fascia alta dei  valori europei.

 

3.9.6

Microinquinanti tossici nella laguna di Venezia ,le diossine e composti simili

 Perizia tecnica Bonamin + altri del 1997 , consulenza tecnica Limonato + altri del 1998 ,indagine istituto superiore di sanità Di Domenico  + altri 1996

 

 3.9.6 Microinquinanti  tossici nella laguna di Venezia: le diossine e composti simili  la perizia tecnica di V Bonamin, A Di Domenico,R Fanelli, Turrio Baldassarri(1997), la correlata Consulenza tecnica di L Simonato ,L Tomatis , P Vineise G.A Zapponi(1998) e l’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità (A di Domenico, Lturrio Baldassarri, G Ziemacki 1996)   

 3.9.6.1Premessa 

 Le predette indagini tecniche acquisita al presente giudizio rilevano ,in quanto richiamate spesso anche dal Tribunale , dal quale però  non sono state  correttamente interpretate .

 

 3.9.6.2 Inquinamento da microinquinanti  nella laguna veneta.Rapporto conclusivo dell’Istituto  superiore della Sanità per il Ministro della sanità 21-1-1996(allegato 3 alla relazione di Perizia Bonamin et al 1997)

 Va premesso che lo studio di cui sopra riguardava  i rischi relativi al consumo di bivalvi e prodotti ittici nelle  aree in cui la pesca è consentita e che già all’epoca la pesca era invece vietata nelle aree della zona industriale,  con provvedimenti di sanità pubblica successivamente reiterati ;

 che i  rilevamenti fatti che riguardano i microinquinanti organici e d inorganici sono state eseguiti su 20 campioni di biota raccolti in larga maggioranza in zone della laguna, ufficialmente destinate all’allevamento e alla pesca.

 Tutti i campioni considerati in questo studio sono stati inclusi nella perizia Bonamin e costituiscono circa la metà dei campioni complessivamente esaminati .

 Il P. M riporta quindi l’elenco dei campioni prelevati in 6 aree, di cui solo le prime due non destinate ad allevamento e pesca , e dalla analisi dei risultati emerge che le concentrazioni di diossine sono molto basse ,con una media di concentrazione dell’ordine di 0.45 p g I-TE/g  o di pari circa 0.52 p g l- TE/g –includendo anche i campioni provenienti dall’area industriale e dall’area urbana-  sovrapponibile a quella relativa  alle sole aree di allevamento e pesca .

Le conclusioni dell’accertamento sono nel senso di conseguenza che le concentrazioni rilevate sono confrontabili con i livelli frequentemente riscontrati in aree sotto l’influenza di un impatto antropico diretto moderato  o trascurabile

 

 Nella successiva perizia Bonamin del 1997 sono presentate 41 determinazioni di PCDD/F (I-TE)12 delle quali relative all’area 1 ( 9 su bivalvi, inclusa i dall’indagine del 1996 e 3 su pesci), 1 relativa all’area 2 , 7 relative all’area 3 ,12 relative all’area 4 , 2 relative all’area 5, e 7 relative all’area 6.

 Secondo i consulenti della difesa le conclusioni a cui perviene  la perizia Bonamin non sarebbero dissimili da quelle prese nel rapporto redatto per conto dell’istituto superiore della sanità

 Dalla lettura della consulenza risulta invece che cosi non è, perché invece le conclusioni sono molto  dissimili

 

 3.9.6.3  Perizia tecnica di  VBonamin , A Di Domenico,R Fanelli l Turrito Baldassari

L’indagine che era finalizzata a verificare l’impatto del Petrolchimico su sedimenti lagunari ed organismi  bentonici e di valutarne l’utilizzabilità di quest’ultimi a fine alimentare ,si è basata sugli accertamenti di laboratorio eseguiti da tre diversi istituti ,e ha incluso la determinazione degli idrocarburi policiclici  aromatici  , delle diossine ,PCB,DDT esaclorobenzene e metalli pesanti

 La discussione che segue riguarda invece solo le diossine (PCDD/F)

 Seguendo gli stessi criteri  utilizzati prima dall’Istituto l’area è stata divisa in 6 zone

Le misura effettuate hanno rivelato la differenza tra il livello medio di contaminazione di PCDD/F dei sedimenti nell’area industriale e nell’area adibita a pesca e allevamento di in fattore dell’ordine di 100,pari circa 1 pgl-TE/g, ed analogamente per il confronto con i livelli di fondo italiani ed europei.

 

Questa differenza non è irrilevante e dimostra una condizione di inquinamento molto elevato nell’area industriale della laguna .

 Le analisi, eseguite nella consulenza Bonamin, nel numero di 41, divise tra le 6 aree ,contengono una serie abbastanza numerosa di dati e possono quindi fornire valutazioni affidabili della contaminazione dei bivalvi che sono organismi stanziali  e  sono quindi indicative delle condizioni del luogo in cui sono stati prelevati.

 Le misure effettuate sui sedimenti hanno indicato un fattore dell’ordine di 100 tra il livello medio di contaminazione da PCDD e PCDF sui sedimenti e il livello medio nell’area adibita  a pesca  e allevamento pari a circa  1pgl-TE/G, differenza significativa che dimostra una condizione di inquinamento molto elevato nell’area industriale dalla laguna  .

 Le concentrazioni nei bivalvi dell’area 1 variano da 0,52 p g- I-TE /g a 4.9 p g I-TE /g con una media di 1,85 p g I-TE/g.

 

Il valore piu elevato  della serie di campioni risulta dalla media di due determinazioni eseguite separatamente  in due diversi laboratori e si riferisce a campioni prelevati da un sito al centro del canale industriale sud  ed è quindi rappresentativo di una area piuttosto ampia .

 Trattasi pertanto di un valore che costituisce valido indicatore della contaminazione massima ,da considerare nelle valutazioni di rischio ,in accordo alle procedure usuali in questo ambito ( che prevedono la indicazione del caso peggiore)

 Le concentrazioni nei bivalvi dell’area 4 variano invece da 0,079 p g I-TE/g  ( dato relativo alle vongole) a 0,63 p gI -TE/g(dato relativo  su mitilo )con una media di 0,42 p g –I-TE /G

 È utile a questo punto rilevare come i valori medi di concentrazione rilevati nei prodotti ittici provenienti da varie parti dell’ Adriatico- espressi in termini di TCDD – equivalente siano compresi tra 0.11 e 0.24 p g I-TE/g sulla base di un ampio campionamento.

Trattasi di valori ancora piu bassi perché  relativi ad aree senza impatto industriale .

 La differenza tra i valori della area 1 e quelli dell’area 4 è significativa e varia di un fattore  4-5- mentre quella tra i valori dell’area 1 e i valori della aree pulite dell’Adriatico   e superiore  ad un fattore  10.

 Va comunque a questo punto ribadito  che è un errore considerare la perizia Bonamin  e altre del 1997 e volta  la prima a definire l’inquinamento dell’area industriale  come sovrapponibile e concordante  con lo studio ISS del 1996 ,volto  definire l’inquinamento dei prodotti della aree di allevamento  e pesca.  

 

3.9.6.4 La consulenza tecnica di L Simonato , L Tomatis  P  Vineis e G.A  Zapponi del  (1998)

Di questa consulenza   il Tribunale ha riportato le conclusioni laddove si dice che non emergono elementi  che comportino un rischio piu elevato nelle popolazioni della laguna rispetto a quelle di terraferma e che non appaiono tendenze costanti che consentano di individuare  una delle due popolazioni come soggetta a rischi piu elevati  .

Le frasi riportate sono però parziali e le conclusioni complete sono invece nel senso che ,pur non emergendo elementi  che depongano a favore di un rischio piu elevato nella popolazione lagunare rispetto a quella di terraferma , che dall’insieme della crescita nel tempo di alcune sedi tumorali emerge la necessità di indagini più approfondite , per poter individuare eventuali fattori eziologici , tra i quali anche esposizioni legate all’inquinamento della  laguna.

 

Vengono  quindi riportati i parametri epidemiologici sui quali si basano le predette conclusioni, che evidenziano un aumento significativo di tutti i tumori, ed in particolare per i tumori alla mammella per i linfomi non hodgkin  per il periodo 1990-1994 per entrambi i comuni e per entrambi i sessi  e l’accertato aumento è di fatto , secondo le conclusioni dei consulenti ,compatibile con un aumento del rischio, anche se la verifica della causa richieda ulteriore approfondimento

 Conclusivamente risulta accertato che:

a) vi è stata contaminazione della laguna veneta in gran parte a causa degli scarichi industriali

 b) sono state esaminate sostanze cancerogene e tali sostanze sono state rinvenute nel sedimento e nel biota ove tendono  ad  accumularsi

c)una esposizione prolungata a livelli anche molto bassi a sostanze cancerogene comporta un aumento di rischio di tumori, considerato anche l’effetto sinergico dei vari componenti della miscela cancerogena

d) la particolare situazione  idrologica della laguna  ,caratterizzata  dalla lentezza del ricambio e della diluizione dei contaminanti rende l’inquinamento grave .

Il P. M  riporta poi i provvedimenti da adottare  secondo i suggerimenti dei consulenti .

 Da pagina 1420  a pagina  1427 vengono poi ripetute in modo sintetico  tutte le considerazioni svolte sub 3.9.6

Capitolo 3.10

 

Sul significato della contestata  permanenza in atto

 Immotivata e contraddittoria   assoluzione degli imputati  da tutte le contravvenzioni loro rispettivamente  contestate con permanenza in atto

  Viene innanzitutto ricordato che la costruzione  della accusa  in ordine ai delitti di cui agli art 434,439,440 nella  forma di cui all’art 452 c.p. non è quella del reato permanente, bensì quella di una pluralità di  reati ad eventi plurimi differiti rispetto alle condotte ,riunite dalla cooperazione colposa e/o dalla continuazione, e che la condotta degli imputati viene contestata a ciascuno per i periodi di rispettiva competenza

 

 1 La permanenza del reato in generale

Dopo avere premesso alcune considerazioni di carattere generale circa la figura del reato permanente ed in particolare:

 la sua compatibilità sia con  la condotta commissiva come con  la condotta omissiva ;

 il suo accertamento  sulla base delle risultanze processuali ;

 la possibilità che venga rilevata anche d’ufficio ;

la compatibilità con la figura del concorso di persone e con la figura della  cooperazione colposa di persone nel reato;

 l’appello affronta il tema della legge applicabile nel tempo.

2 La legge applicabile

Secondo la giurisprudenza, nel caso di reato permanente ed in applicazione dei principi di cui all’art 2 c .p. se la successione delle leggi comporta una sanzione piu grave,dovrà applicarsi  la norma piu grave all’intero reato, perché sotto la vigenza di quest’ultima il reato ha avuto sia una parte di esecuzione ,sia la fase terminale della consumazione .

 Ne consegue che nella fattispecie ,con riferimento alla normativa introdotta dal D .Lgs  152/1999 piu severa della precedente, le condotte costituite dallo scarico  senza autorizzazione  da insediamenti produttivi e da scarico superiore  ai limiti tabellari  di accettabilità, gia previste come reato dalla art 21 della legge n319/76 ,anche se poste in essere prima della entrata in vigore ma protrattesi nel tempo sino alla entrata in vigore della nuova  disciplina , devono essere sanzionate secondo  la nuova  e piu severa normativa .

3 Le singole fattispecie contravvenzionale  e delittuose di cui al secondo capo di imputazione  Nel secondo capo di imputazione sono contestate violazioni commissiva  e omissive che il Tribunale riconosce avere il carattere  della permanenza che sussisteva ancora all’inizio del processo e che probabilmente sussiste ancora oggi 

Risultano contestate e provate le seguenti violazioni sulla cui sussistenza si è ripetutamente pronunciata la Corte di Cassazione.

 

art 17e 18 D.P.R 19-3-1956 n303 norme generali per l’igiene del  lavoro

E poiché  non sono mai state   nel caso di specie adottati mezzi efficaci  per evitare i danni che potevano essere   arrecati ai lavoratori ed alla ambiente il reato sussiste tutt’oggi.

  Art 9 u .c 15,21,25,26, L10-5-1976 n319 norme per la tutela delle acque dall’inquinamento Dlgvo 27-1-1992 n132 art 6,7,18,19 relativo alla protezione delle acque sotterranee

  Per le violazioni ad entrambe le predette normative la Cassazione si è pronunciata in senso positivo per quanto riguarda la configurabilità del reato permanente .

 DPR 10-9-1982 n915 in attuazione delle direttive europee  relative allo smaltimento dei policlorodifenili e policlorotrifenili e dei rifiuti tossico nocivi  sostituito dal DLG.vo 5-2 1997  in attuazione delle direttive europee sui rifiuti pericolosi , L regione Veneto 23-4-1990 n28 recante nuove norma per la tutela dell’ambiente

 Relativamente a questa norme dopo la sentenza delle Corte di Cassazione del 1994 che aveva ritenuto configurabile  il reato di gestione di discarica  abusiva solo nella forma commissiva, sono intervenute successive decisioni di segno opposto che devono essere condivise in quanto  la legge

punisce non solo la realizzazione della discarica ma anche il suo consapevole mantenimento  o l’inerzia consapevole  ( rilevante sul punto la sentenza della Cass .pen  3-1-1995 n163 e Cass pen 21-05-1996 III sezione)

 

  DL 27-6-1985 n312 convertito nella legge 8-8-1985 n431 recante disposizioni urgenti per la tutela di zone di particolare interesse ambientale

 Anche per questo tipo di reato ,consistente nella esecuzione di opere senza la prescritta autorizzazione paesistica ,si configura la permanenza dovuta al mantenimento consapevole della alterazione .

 Dl vo 15-8-1991 n277 in attuazione  delle direttive  europee e in materia di protezione dei lavoratori dai rischi  derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro

L 15-3- 1963 n 366 nove norme relative alla laguna di Venezia e Marano

L  16-4-1973 n171 “interventi per la salvaguardia di Venezia“

 DPR20-9-1973 n962 recante norme per la tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque

Per tutte queste contravvenzioni è indubitabile che sia configurabile la realizzazione di una condotta in forma permanente .

Il Tribunale senza motivare ha assolto gli imputati da tutte le contravvenzioni pur avendo in alcune parti della sentenza riconosciuto che erano state commesse .

 

 3.11 conclusioni relative al secondo  capo d’accusa

 Non è vero che l ‘accusa sia indeterminata essendosi a ciascuno addebitata la condotta tenuta nel periodo di tempo per ciascuno indicato nel capo d imputazione

 Ad un primo gruppo di imputati –gruppo Montedison -sono addebitate le condotte di cui al capo 2 lettera A ,ad un secondo gruppo di imputati-gruppo Enichem – Enimont – sono invece addebitate le condotte contestate al capo 2 lettera B ;

altri imputati ,che sono transitati da una azienda alla altra, devono rispondere di entrambe le contestazioni

Parte quarta  Le società

Posizioni di garanzia

 I ruoli

 Le responsabilità dei singoli imputati

 Il Tribunale laddove ha riconosciuto sussistere una responsabilità penale –pur dichiarando poi la prescrizione per il relativo reato- ha individuato solo alcuni responsabili, senza motivare in ordine alle ragioni per cui invece avrebbe assolto altri imputati che, per le posizioni di garanzia rivestite avrebbero  dovuto essere egualmente ritenuti responsabili.

Il Tribunale non affronta né approfondisce il problema della responsabilità legata alle posizioni di garanzia.

 Il Tribunale non ha egualmente affrontato la questione dei rapporti tra società controllata e società  controllante .

 Segue da ultimo nell’atto d’appello la esposizione delle vicende societarie con il passaggio della gestione degli impianti di produzione del CVM/PVC  dalla Montedison alla Montepolimeri , alla Montedipe,   a Riveda s.r.l alla società Enichem  polimeri ,alla Enichem base ,alla Enichem Anici  a Enimont Anic  a EVC Italia  nonché l’esame della rilevanza del ruolo svolto dall ’ ENI nella vicenda .

 

Parte quinta

Richieste del PM di rinnovazione del dibattimento e di riforma della sentenza di primo grado

 La richiesta di rinnovazione ha per oggetto solo la acquisizione di alcuni documenti e la audizione degli ufficiali di polizia giudiziari della Guardia di Finanza in relazione ad alcuni accertamenti risultanti dalle documentazioni che richiede di acquisire

 

Appellavano avverso la sentenza del Tribunale anche le parti civili  esponendo motivi d’appello sostanzialmente corrispondenti a quelli indicati dal P.M.

 Nel  proprio atto d’appello la difesa dell’avvocatura dello Stato  introduceva  invece più specifiche critiche alla sentenza nella parte in cui escludeva la responsabilità degli imputati  relativamente alle   contravvenzioni in materia di inquinamento idrico.

 Osserva in particolare l’avvocatura come sia provato il ripetuto superamento dei limiti di tollerabilità tabellarmente fissati dalla legislazione speciale  per Venezia  e dalle successive norme  aventi valore su tutto il territorio nazionale –legge 319/76 -in materia di scarichi idrici, in base alle analisi che erano state fatte dallo stesso gestore dello stabilimento.

 

 E poiché - come  affermato dallo stesso Tribunale  -ogni superamento dei predetti limiti integra  una violazione  del divieto e quindi della norma risultava incomprensibile e contraddittoria la assoluzione di tutti gli imputati anche dalle contravvenzioni , oltre che dai reati di avvelenamento e adulterazione .

Risultava inoltre documentalmente  provato che veniva scaricata in fognatura l’acqua di lavaggio della pulizia della autoclavi fortemente inquinata dalla presenza di CVM .

Tali scarichi non erano e non potevano essere autorizzati attesa la loro provenienza e contaminazione con una  delle sostanze indicate al punto 3.6 della tabella 1.3 contenuta nella Delibera del  Comitato interministeriale  di cui all’art 5 del DPR 10-9-1982 n 915 in data 27-7-1984  ciò che comportava la classificazione dei rifiuti liquidi come tossico nocivi o pericolosi.

 Il Tribunale, nell’andare di contrario avviso, aveva  invece ritenuto che  la citata delibera non introducesse un principio di presunzione di tossicità del rifiuto in ragione della sua provenienza e che l’onere della prova gravasse anche in  questo caso sulla accusa.

 

 Si osservava invece come in  senso contrario si fosse ripetutamente pronunciata la Suprema Corte.

Veniva poi criticata la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto applicabile agli scarichi delle acque di processo provenienti   dai reparti CV22/23 e CV 24/25 la disciplina relativa agli scarichi,invece di quella relativa i rifiuti tossico nocivi o pericolosi

Innanzitutto doveva essere premesso che le acque di processo, provenienti dai predetti scarichi ,non si immettono direttamente nel corpo ricettore ma che confluiscono nello scarico SM15 e successivamente  nell’impianto di trattamento SG31 ,gestito da soggetto diverso da quello titolare del Petrolchimico , e che si tratta quindi di uno scarico indiretto ,per tale ragione escluso dalla disciplina dettata per gli scarichi idrici e sottoposto alla disciplina relativa ai rifiuti .

Veniva quindi  esaminata in modo preciso la disciplina normativa da cui dipendono i limiti di applicazione delle due leggi fondamentali –quella che riguarda gli scarichi e quella che riguarda i rifiuti :innanzitutto l’ultimo comma  dell’art 2 D. P. R 915/82 che sub lett d) stabilisce  la non applicabilità del D.P.R agli scarichi disciplinati dalla legge  10-5-1976; quindi il penultimo comma della stessa norma  fa salva la normativa dettata dalla legge 10-5-1976 n.319 e successive modifiche e relative prescrizioni tecniche  per quanto riguarda la disciplina dello smaltimento nelle acque , sul suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi di cui all’art 2 lettera  e)punti 2 e 3 della citata legge, purchè   non tossici e nocivi ai sensi del presente decreto.

 

Ora con riferimento a tali disposizioni viene innanzitutto evidenziato che la esenzione viene fatta con una duplice previsione riferita  agli scarichi e allo smaltimento; che il legislatore ha talvolta usato il termine smaltimento come sinonimo di scarico benché  il concetto normativo di smaltimento sia più ampio di quello di scarico comprendendo fasi diverse dalla semplice immissione del rifiuto nell’ambiente  quali la raccolta, il trasporto ,lo stoccaggio ; che il sesto comma  ha  una formulazione più ampia di quella dell’ultimo comma e fa riferimento ad una ipotesi  di smaltimento di liquami nelle acque , che non è invece prevista nell’art 2  legge 319/76 che riguarda solo lo smaltimento nel suolo e nel sottosuolo per i liquami  e lo smaltimento, nel suolo adibito ad uso agricolo e non ,nel sottosuolo ed nel mare per  i fanghi ; che l’interpretazione condivisa dal Tribunale secondo cui la esenzione del sesto comma esclude dalla disciplina dei rifiuti solo lo smaltimento dei liquami  e fanghi di cui all’art 2 legge Merli , a meno che non siano tossico nocivi , viene ad  individuare una disciplina speciale  , senza però individuare gli elementi specializzanti  che permettano di  distinguere le due fattispecie ; che la predetta interpretazione   comporterebbe delle incongruenze in quanto consentirebbe  di versare nelle acque , seppure nel rispetto della legge 319/76 ,rifiuti  tossico nocivi la  interpretazione fatta propria dal Tribunale verrebbe poi  a porsi in contrasto con il divieto, stabilito con delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque dall’inquinamento  del 7-1- 86   di scaricare in mare rifiuti tossico nocivi.

 

 Doveva ancore evidenziarsi come sulla base delle definizione normativa del termine liquami contenuta nelle delibera del 4/2 /77 allegato 5, nessuna distinzione poteva essere operata rispetto al termine scarico, in quanto per liquame doveva intendersi qualsiasi sostanza suscettibile di essere oggetto di scarico.

In base a queste considerazioni doveva pervenirsi ad una interpretazione opposta rispetto a quella sostenuta dal Tribunale  e ritenere che il limite di carattere generale si riferisca a tutti gli scarichi disciplinati dalla legge 319/76 ,che sono esonerati dal rispetto della normativa di cui al DPR 915/82 solo se non classificabili come tossico nocivi ai sensi   del citato D.P.R.

 Ed infine la interpretazione che viene ritenuta  corretta dall’appellante risulta conforme al contenuto delle direttive comunitarie in materia.

 L’appellante cita quindi una serie di decisioni della C. C dalle quali risulterebbe che l’esenzione contenuta nel sesto comma  dell’art 2   D. P R 915/82  ha carattere generale e riguarderebbe tutti gli scarichi  indistintamente sia diretti che indiretti e che , quando sono classificabili come tossico nocivi, verrebbero sottoposti alla disciplina di cui al citato D.P.R.

 

 Altra valutazione erronea è quella in base alla quale il Tribunale ha escluso che le acque provenienti dai reparti abbiano natura tossico nociva, risultando accertato il superamento dei limiti di cui alla tabella  allegata  alla delibera  del C. I del  1984 in sole dieci volte in un lungo  arco temporale .

In vero, una volta esclusa la qualificazione dei rifiuti come tossico nocivi  in base alla sola loro provenienza da determinate lavorazioni, doveva il Tribunale accertare se le acque contenevano C .V.M. e nel caso positivo, se la loro concentrazione superava il limite fissato dalla Tabella di cui alla delibera del 1984.

E la dimostrazione che anche una sola volta la concentrazione di C. V . M. era superiore al limite  stabilito nelle tabelle, comportava la classificazione del rifiuto come tossico nocivo, con il conseguente divieto di  smaltimento in acqua attraverso un  normale impianto di depurazione, non autorizzato allo smaltimento dei rifiuti tossico –nocivi.

Il Tribunale aveva poi ritenuto viziata da errori la consulenza tecnica del perito della accusa dott Cocheo - senza consentire allo stesso di illustrare le ragioni di quanto dallo stesso ritenuto, per cui veniva espressamente impugnata la relativa ordinanza dibattimentale   del 15-5-2001 chiedendo sul punto la rinnovazione del dibattimento.

 Vengono quindi nell’atto di appello  esposte le leggi scientifiche utilizzate   dai consulenti tecnici delle parti, evidenziando i limiti e  la difficoltà di stabilire- secondo le leggi  di Henry o di Raoult- la concentrazione di C .V M nell’acqua partendo dalla conoscenza di quella presente nell’aria, per concludere  che un giudizio obiettivo  avrebbe dovuto  ritenere che non era possibile conoscere la reale concentrazione del cloruro nelle acque scaricate in laguna  ,in mancanza di un completo certificato di analisi ,che il detentore  dello scarico era tenuto ad esibire per legge a dimostrazione che  non si trattava  di rifiuto tossico nocivo.

 

 Ed era proprio per questa  difficoltà che il legislatore aveva  ritenuto di desumere la natura tossico nociva del rifiuto  dalla sua provenienza.

 Il ritenere invece che nelle acque di processo non fosse presente, se non in concentrazioni inferiore al limite tabellare il cloruro è circostanza che si pone in contrasto  con gli accertamenti fatti come  ad esempio lo sversamento   diretto in fognature del contenuto delle autoclavi di polimerizzazione.

Non risultava inoltre provata in alcun modo la affermazione del Tribunale, secondo cui non vi era collegamento tra la fognatura dei reparti di produzione CVM/PVC   e le vasche di neutralizzazione,  al contrario la circostanza risultava smentita dal fatto che il gestore dello stabilimento aveva posto proprio sopra le vasche di neutralizzazione un gas cromatografo che doveva servire a misurare la quantità di C V M presente nell’aria ,  a seguito di evaporazione dalle vasche.

Doveva quindi ritenersi certa la presenza di C. V .M nell’acqua  e per  accertarne  la attuale effettiva concentrazione era stata richiesta una CTU che il Tribunale aveva rigettato e che veniva riproposta in appello seppur in via subordinata.

 

Premesso quindi che le acque provenienti dai reparti CV 22 e CV23 sono acque di processo che, per il fatto di provenire da lavorazioni caratterizzate  da elevata concentrazione  di sostanze tossiche   contengono rifiuti tossico nocivi , la cui tossicità e pericolosità è pertanto desunta, per superare tale desunzione ,avrebbe dovuto il produttore dimostrare  che il refluo proveniente da a tale  reparto , prima di essere trattato nell’acqua , era privo di CVM o che la concentrazione del gas era inferiore a quella prevista nella Tabella, mentre invece nessuna della analisi chimiche eseguite dal produttore ha avuto per oggetto la ricerca del CVM.

 Ciò comporta la violazione degli articoli 16 e 26 del DPR 915/82 e della normativa  regolamentare di cui alla citata   Delibera del 27-7-84, essendo stati trattati come scarichi idrici dei rifiuti  tossico nocivi.

 

 Le considerazioni svolte dal  CT Cocheo ,con riferimento ai processi di lavorazione  e produzione del CVM, in particolare il fatto che, affinché il cloruro di vinile possa emergere dalla soluzione acquosa é indispensabile che questa sia saturata , dimostra al presenza del CVM  in misura superiore a quella consentita  dalla tabella ,perché la  saturazione del cloruro di vinile in acqua  si verifica quando la concentrazione e pari a 1.100 mg/kg ovvero  a 2,2 volte la CL della tabella  1.1. della delibera del CI.

 Il fatto che nelle analisi non risultasse la presenza del CVM non può poi fare ritenere che tale sostanza  non fosse presente  bensì che non era stata ricercata , infatti quando una sostanza non era presente, ma era stata ricercata, ne veniva fatta la relativa annotazione .

 Andava quindi evidenziato come per un corretto smaltimento dei rifiuti ,ovvero per il loro incenerimento avrebbero dovuto sostenersi dei costi pari ad 1.200.000-1.400.000  lire al metro cubo moltiplicati per il numero di metri cubi smaltiti ogni anno e che secondo al stessa difesa erano  pari a 210.000 metri cubi all’anno, spesa che il soggetto obbligato non aveva mai sostenuto e che costituiva di conseguenza illecito profitto del trasgressore ai sensi dell’art 18-L349/86

Ed analoghe considerazioni dovevano essere fatte con riferimento  alle acque di processo provenienti dai reparti CV 24 e 25. 

 

Appello incidentale dell’imputato Cefis.

In conseguenza delle impugnazioni di cui sopra, ha proposto appello incidentale la difesa dell’imputato Cefis Eugenio chiedendo assoluzione perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto relativamente ai reati per i quali è stata adottata diversa formula di proscioglimento, lamentando che in ogni caso per detti reati elementi a suo carico sarebbero emersi dalle dichiarazioni di coimputati contumaci rese in sede di indagine preliminare ed acquisite in dibattimento senza che l’imputato Cefis avesse prestato consenso ad utilizzo nei suoi confronti, onde, non utilizzabili tali elementi che avrebbero comprovato una sua conoscenza e la consapevolezza dei problemi ambientali e sanitari, non ne resterebbero altri sui quali fondare una qualunque prospettiva di sua responsabilità, e si imporrebbe conseguentemente l’assoluzione con l’ampia formula richiesta.

 

Tanto premesso in ordine al deciso e argomentazioni del Tribunale in ordine al primo ed al seconndo capo d’imputazione, ed ai relativi motivi di impugnazione degli appellanti, va poi peraltro ancora ricordato che su tutti i predetti temi controdeducono, con specifiche memorie depositate in cancelleria prima del giudizio di appello ma riprendendo argomentazioni proposte già in primo grado anche con specifiche memorie, i difensori degli imputati Smai, Pisani e Patron, nonché dell’imputato Diaz, ed altresì la difesa degli imputati Grandi, Trapasso, Belloni, Gaiba.

Oltre a specifica contestazione e confutazione dell’attribuibilità alla lavorazione del cvm delle patologie dei singoli lavoratori in particolare analizzate dalla difesa in ultimo citata, con riferimento alle principali assorbenti tematiche ripresentate con i motivi d’impugnazione dalle accuse appellanti si sostiene, quanto al primo capo d’imputazione, in principalità l’assenza del nesso di condizionamento, la cui prova mai sarebbe stata fornita dal P.M. che ancora nei motivi d’appello non coglierebbe il punto focale del giudizio, ma altresì l’oggettiva insussistenza dei reati contestati, l’assenza di colpa e la tempestività ed adeguatezza degli interventi tecnologici ed impiantistici. Si contestano altresì le argomentazioni tutte degli appellanti anche in tema di cooperazione colposa, prescrizione, continuazione e permanenza.

 

Circa il problema del rapporto causale tra l’esposizione a CVM e i singoli tumori e le singole malattie contestati, premesse da parte della difesa quelle che ritiene delle “verità” relative: all’idea di causa, rilevante per il diritto penale, alla strategia accusatoria, che permea di sé anche i motivi di appello, fondata su concetti di causa estranei al nostro ordinamento e da quest’ultimo ripudiati, alla strategia della difesa, invece sempre fedele alle premesse giuridiche sulla nozione di causa, estraibili dal codice penale, e ripercorse la vicenda processuale di primo grado e quella che si ritiene puntuale valutazione della sentenza del Tribunale di Venezia, si sostiene che questo processo non doveva neppure avere inizio in quanto il comportamento degli imputati non è configurabile come condizione sine qua non degli eventi lesivi, e mai le diagnosi dei medici legali dell’accusa si sono espresse sull’esistenza del nesso di condizionamento. Il giudizio dei medici legali ha sempre avuto per oggetto l’idoneità dell’esposizione al CVM a provocare tumori e malattie, idoneità rivelatasi, peraltro, inesistente.

 

 Da ripudiare dunque la tesi dell’accusa che, ignorando ostentatamente le prescrizioni in diritto, si è attestata su un concetto di possibilità o probabilità della condizione necessaria estraneo a quelli che dovrebbero essere i fondamenti granitici dell’amministrazione della giustizia penale: per una sentenza di condanna non bastano neppure probabilità della condizione necessaria assai elevate, quando non sono prossime a 100; principio al quale sarebbe rimasto fedele il Tribunale di Venezia che, in un paese democratico ove non è vero che auctoritas facit judicium mentre resta vero che “lex facit judicium”, ha dato lo “jus” rispondente appunto alla legge  secondo la quale “in tanto sussiste il rapporto causale in quanto la condotta (azione od omissione) sia condizione necessaria dell’evento lesivo”, e non condizione idonea o condizione dell’aumento del rischio.

 

Sul punto, si contestano nello specifico i motivi di appello del P.M. evidenziandone quelle che si affermano essere dichiarazioni contrarie al vero: in primo la non veridicità della coincidenza delle sue tesi sul nesso causale con i criteri enunciati dalle Sezioni Unite della Corte Suprema.

Si osserva come, prima della replica, il P.M., nel corso dell’intero dibattimento, aveva voluto che i suoi esperti medico-legali intendessero la causa non come condizione necessaria, ma come condizione idonea, e nella replica, aveva modificato la propria posizione, sostenendo che la causa penalmente rilevante coincide con il concetto di condizione necessaria, intesa però non come condizione necessaria dell’evento lesivo, ma come condizione necessaria dell’aumento, o della mancata diminuzione del rischio. Nei motivi di appello, contestando la rispondenza della tesi del Tribunale sul rapporto causale con quanto esposto dalle Sezioni unite, vi sarebbe il rilancio, da parte del P.M., della condizione idonea, delle serie e apprezzabili possibilità, delle buone probabilità, della “molta probabilità”, con approdo al concetto di condizione necessaria, come condizione dell’aumento del rischio o delle probabilità  del verificarsi dell’evento, o della mancata diminuzione del rischio e delle probabilità.

 

Le affermazioni del P.M. sarebbero peraltro in insanabile contrasto con gli enunciati delle Sezioni Unite relativi alla condizione necessaria dell’evento lesivo e al ripudio dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio. Si analizza dunque quanto abbiano sostenuto le Sezioni Unite, per capire se davvero la tesi enunciata dall’accusa “combaci e coincida” con quella sostenuta dalla Corte Suprema, coincidenza che si esclude, evidenziandola invece con i principi enunciati dal Tribunale di Venezia. Premesso il forte richiamo, che si assume all’inizio operato dalle Sezioni Unite, al concetto di causa penalmente rilevante, inteso come condizione necessaria dell’evento lesivo, si osserva come le stesse abbiano poi posto altro insuperabile paletto: il criterio dell’aumento o mancata diminuzione del rischio di lesione del bene protetto, o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente) è un criterio estraneo al nostro ordinamento, che va perciò ripudiato dai giudici.

 

Osserva dunque la difesa che le Sezioni Unite rifiutano “un affievolimento dell’obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento rigoroso della causalità” (p. 11), affievolimento realizzato riconoscendo “appagante valenza persuasiva a serie ed apprezzabili probabilità di successo (anche se limitate) e con ridotti coefficienti indicati in misura addirittura inferiore al 50% dell’ipotetico comportamento doveroso omesso”, e ciò sulla base delle pretesa che “quando è in gioco la vita umana anche poche probabilità di sopravvivenza rendono necessario l’intervento del medico”.

 

“Le Sezioni Unite non condividono questa soluzione” (p. 12), perché “con la tralaticia formula delle serie ed apprezzabili probabilità di successo si finisce per esprimere coefficienti di probabilità indeterminati, mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui” (p. 12).

Questa presa di posizione delle Sezioni Unite, si accompagna all’altra, risoluta presa di posizione sul ripudio del criterio dell’aumento del rischio come sostitutivo della condizione necessaria dell’evento, e sul riconoscimento della fedeltà del nostro ordinamento al criterio della condizione sine qua non o causa but for per “le ragioni di determinatezza e di legalità della fattispecie di reato che il modello condizionalistico della spiegazione dell’evento garantisce”.

 

Su questi tre snodi – la causa come condizione necessaria dell’evento lesivo, il ripudio del criterio dell’aumento del rischio, il rifiuto di clausole indeterminate e manipolabili, quali quelle relative alle serie o elevate probabilità dell’esistenza del nesso di condizionamento – si deve registrare una prima, assoluta convergenza tra la sentenza del Tribunale  di Venezia e quella delle Sezioni Unite.

Sulla causalità, infatti, il Tribunale di Venezia esordisce affermando che “secondo il codice vigente, in tanto sussiste il rapporto causale, in quanto la condotta lesiva (azione od omissione) sia condizione necessaria dell’evento” (sentenza, p. 128); questa individuazione della causa penalmente rilevante è poi accompagnata dal ripudio del criterio dell’aumento del rischio: occorre “rifuggire – dice il Tribunale di Venezia – dagli orientamenti che forzano il criterio causale per ragioni di prevenzione generale, collocandolo nell’area dell’aumento del rischio” (sentenza, p. 146).

 

Quanto al “passaggio dal piano deterministico a quello probabilistico”, con l’uso della formula “serie o elevate possibilità”, il Tribunale di Venezia afferma: “è ben vero che le tendenze all’erosione del paradigma causale si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali quali la salute e la vita umana, ma ci si deve chiedere se queste specifiche esigenze di giustizia possano condizionare una corretta ermeneutica del nesso causale, che deve fondarsi su parametri logico-scientifici oggettivi. Infatti, perseguendo questa strada, dominata dal criterio probabilistico di grado difficilmente determinabile, ancorché qualificato alto o elevato, si incorre nel pericolo di introdurre nell’accertamento della sussistenza del nesso causale il libero convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese di giustizia, che viene a sopperire la mancanza di certezze scientifiche o comunque di consenso generalizzato della comunità scientifica” (sentenza, p. 131).

 

Formule indeterminate e indeterminabili, e quindi manipolabili, quelle relative al grado di probabilità, ancorché definito alto: in questo modo, il Tribunale di Venezia non fa che anticipare ciò che diranno poi le Sezioni Unite.

Un’altra basilare anticipazione della sentenza delle Sezioni Unite è compiuta dai giudici di Venezia quando riconoscono che la “responsabilità deve essere provata secondo la regola di giudizio dell’oltre il ragionevole dubbio, regola che ormai fa parte del nostro ordinamento” (sentenza, p. 148): le Sezioni Unite diranno che “il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che, in base all’evidenza disponibile, lo avvalorino nel caso concreto ... non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa”.

 

Errata  sarebbe dunque l’affermazione del P.M., secondo la quale le Sezioni Unite non assumerebbero affatto il “modello causale” invocato dal Tribunale di Venezia (p. 792), giacché, per i giudici di Venezia, sarebbero rilevanti, per la spiegazione dell’evento, anche leggi scientifiche di forma statistica, purché la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza mentre, per le Sezioni Unite, sarebbero sufficienti coefficienti medio bassi di probabilità frequentista.

Qui, secondo il P.M. starebbe il punto cruciale, perché, per le Sezioni Unite “è indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento.

Sostiene però la difesa che chi sappia capire, oltre che leggere, non tarderà a rendersi conto che i giudici veneziani e quelli delle Sezioni Unite, a proposito delle leggi statistiche, dicono esattamente le stesse cose: cosicché si può asserire che il Tribunale di Venezia ha nuovamente anticipato le conclusioni delle Sezioni Unite.

 

Infatti – dopo una premessa di carattere generale, secondo la quale “il problema che si pone al tribunale, al di là dell'individuazione del grado di probabilità o della percentuale che si ritiene sufficiente ai fini dell'accertamento del nesso causale,  è piuttosto quello di individuare un modello causale al tempo stesso compatibile con il nostro ordinamento e idoneo a  includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza, ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca l' approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e l'analisi di tutti i fattori presenti e interagenti (Hempel): in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero  in grado di spiegare che un evento si è verificato a  patto che la frequenza consenta di inferire l'explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione logico-probabilistica” – il Tribunale di Venezia non richiama più il criterio del coefficiente percentualistico vicinissimo a 100, ma si attesta, con decisione, sull’idea di “regola di natura probabilistica” tale da consentire una generalizzazione sul nesso di condizionamento ricavabile dalla epidemiologia, dalla biologia molecolare, dalla tossicologia e dalla medicina legale.

 

Il Tribunale avrebbe d’altra parte tenuto conto dell’evidenza, della certezza processuale per operare le verifiche “attente e puntuali” richieste dalle Sezioni Unite. Anzi la sentenza del Tribunale di Venezia risulta addirittura molto più chiara, corretta e comprensibile della sentenza delle Sezioni Unite. Infatti anche il Tribunale di Venezia non considera inutilizzabili frequenze molto basse nella successione di eventi singoli, come sono quelle relative alla successione tra alte esposizioni a CVM e insorgenza dei singoli angiosarcomi, ma ciò che dimostra quanto sia migliore, e più criticamente argomentata, la sentenza del Tribunale di Venezia rispetto a quella delle Sezioni Unite, è l’individuazione delle verifiche attente e puntuali: le Sezioni Unite non precisano quali siano queste verifiche, pur ritenendole indispensabili; il Tribunale di Venezia lo precisa, collegando la verifica attenta e puntuale al calcolo della forte associazione tra rischio ed esposizione.

 

 E facendo buon governo della regola, invece fraintesa dal P.M. dell’oltre il ragionevole dubbio: regola probatoria e di giudizio, propria di tutti i sistemi processuali dei Paesi democratici in forza della quale se su una prova, sul riscontro di un fatto, su una conoscenza scientifica (indispensabile per la sentenza di condanna) sussiste un dubbio ragionevole, il giudice non ha alternative diverse dal proscioglimento. E sarebbe altresì sfuggita al P.M. l’importanza della precisazione del Tribunale in ordine alla necessità di verificare, sotto tale ottica, l’affidabilità di una ipotesi scientifica (ad esempio, l’ipotesi formulata da IARC 1979 – 1987 sul legame causale tra CVM e i tre organi bersaglio diversi dal fegato). E’ un problema non da poco, giacché, se il sapere scientifico di oggi può diventare la favola di domani, il rischio di condannare degli innocenti è sempre incombente quando, tra le prove di un processo penale, debba essere annoverato anche il sapere scientifico.

Premesso quanto sopra in diritto, la difesa sostiene che proprio in ordine alla condizione necessaria l’accusa abbia proposto un “grande buco nero”, mai provando il nesso di condizionamento tra malattie e tumori ed esposizione al cvm, atteso che le stesse diagnosi individuali degli esperti medico-legali si sono limitate alla idoneità lesiva, ancorate quindi alla causalità generale.

 

Ed ancora nei motivi non esisterebbe neppure l’ombra di un accenno al nesso di condizionamento. Fallito infatti anche il tentativo di ricostruzione della catena causale per l’incertezza scientifica sul punto emersa dall’esame degli stessi consulenti dell’accusa e soprattutto del dott. Simonato, il P.M.  nei motivi butta lì, scritta in grassetto, l’affermazione delle Sezioni Unite, secondo la quale “non potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il suo effetto, nè potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento, soltanto con una quantità di precisazioni” (p. 793).

Per la difesa il P.M. dimostra però di non aver compreso detta affermazione avallando un’interpretazione palesemente erronea del pensiero delle Sezioni Unite. La loro sentenza, infatti, fa una osservazione ovvia e banale: non si può pretendere che il giudice conosca tutte le fasi intermedie e tutta la serie di eventi continui nel tempo e contigui nello spazio che collegano l’evento iniziale con l’evento finale.

 

Dicendo “tutte”, però, la Corte Suprema vuole dire che è sempre possibile, invece, l’individuazione di alcune fasi intermedie, di alcuni anelli causali. E in effetti sarebbe sempre possibile una spiegazione parziale del “meccanismo del fenomeno”, parziale ma sufficiente per l’attribuzione causale dell’evento lesivo. Ma nella specie nessun esperto dell’accusa sarebbe riuscito a sostenere di aver individuato “l’anello causale intermedio” che, attraverso una spiegazione parziale, consente l’attribuzione della responsabilità.

 E così, difettando la prova che l’esposizione a cvm sia condizione necessaria delle patologie non riconosciute dal Tribunale, è un falso problema quella della concausa ancora sostenuto nei motivi di appello dal P.M. cui, si sostiene, sfugge completamente una nozione basilare come è quella che concerne la relazione tra la nozione di condizione necessaria e quella di causa sufficiente.

 

 Né potrebbe sostenersi che il ruolo causale del cvm sarebbe fuori discussione, avendo in ogni caso “accelerato i processi patologici sfociati nelle malattie cancerose del fegato e del polmone”. Sarebbe questa un’affermazione del tutto sfornita di prova, ennesima dichiarazione non veritiera del P.M., così come sarebbero sfornite di elementi scientifici di supporto i tentativi del P.M. di ricondurre l’asbesto e il CVM ad un unico meccanismo di azione, e di contestare quanto recepito dal Tribunale in forza dell’evidenza processuale, e cioè che il CVM fosse un cancerogeno iniziante con idoneità lesiva solo ad elevate esposizioni.

Ma, secondo la difesa, lo sforzo massimo di distorsione della verità è compiuto dal P.M. sul tema della causalità generale, cioè della idoneità lesiva del CVM.

 

La distorsione della verità non risparmia nessuno dei capitoli trattati dal P.M., sotto la voce “Causalità generale e casistica processuale”. Ancora ripercorrendo le emergenze processuali si evidenziano gli assunti errori ed omissioni del P.M. in ordine alla ricostruzione della epidemiologia e studi epidemiologici, sulle singole patologie ed organi bersaglio, sul meccanismo d’azione del CVM e sulla cancerogenesi, sull’effetto lavoratore sano, sul rischio CVM a basse dosi, sul ruolo e conclusioni degli organismi internazionali, attestandosi sostanzialmente la difesa sulle valutazioni e conclusioni del Tribunale del quale nega altresì appiattimento alle tesi dei propri consulenti.

Quanto alla causalità individuale ed allo specifico delle patologie riscontrate a Porto Marghera, osserva la difesa come il P.M. abbia riproposto temi e problemi già trattati precedentemente, sia in ordine alle patologie, epatocarcinoma, tumori ad organi bersaglio diversi dal fegato, cirrosi epatopatie, sia in ordine al ruolo concausale del CVM, alcol e virus B e C, sia in ordine agli effetti conseguenti alle basse dosi di esposizione.

 

Quanto all’epatocarcinoma, rimarca comunque la difesa la fallacia della tesi del P.M. secondo la quale il rapporto Ward non avrebbe bisogno di conferma e la necessità di una “sospensione di giudizio”. Osserva, richiamando anche giurisprudenza degli Stati Uniti e la concezione induttivistica di Hempel, e quella antinduttivistica di Popper, che nella scienza non vi sono certezze e che “le leggi della scienza sono null’altro che delle ipotesi di cui non si saprà mai se sono vere o false” onde la domanda–chiave – così come sostengono giustamente i giudici americani – cui rispondere quando si deve stabilire se una teoria o una tecnica sia una conoscenza affidabile per il giudice è se le ipotesi formulate possono essere confermate o falsificate, se godono di un alto grado di conferma e se hanno superato ripetuti tentativi di falsificazione.

 

Ora, se si valuta che i casi di epatocarcinoma considerati nella relazione Ward sono solo 10 e, per esplicita ammissione degli autori dello studio, si tratta della prima occasione in cui è presente “una evidenza relativamente forte in favore di una relazione dose-risposta con l’epatocellulare” (così il teste dell’accusa Boffetta: ud. 12.7.2000, p. 85), e che lo stesso Boffetta ha ricordato nel corso della sua deposizione, che l’affidabilità dei dati del rapporto Ward sull’epatocarcinoma va valutata “con una serie di limitazioni, soprattutto dovute al basso numero di casi confermati di epatocellulare, che come dico sono 10, dopo tutte le verifiche che abbiamo potuto fare” (ud. 12.7.2000, p. 86), e se pur è  vero che Wong e indirettamente Mundt del 1999, Weihrauch del 2000, nonchè Wong, Chen e altri del 2002, suggeriscono la esistenza di una associazione tra CVM ed epatocarcinoma, va osservato che, a parte l’incompletezza, limitazione e contraddizioni di tali studi, nessuno degli stessi può essere considerato una conferma del rapporto Ward, perchè in essi manca l’analisi dell’effetto dose-risposta, compiuta, come dice Boffetta, per la prima volta dallo studio multicentrico europeo: e l’analisi dose-risposta, come affermato anche da Simonato, è fondamentale per rendere plausibile l’idea di un legame causale.

 

 Ma, elemento essenziale ai fini della valutazione e controllo del giudice in ordine all’affidabilità dell’ipotesi scientifica, è che, tra gli studi che hanno affrontato direttamente il problema degli epatocarcinomi, ve ne sono due che negano, in modo categorico l’esistenza di una associazione: sono gli studi di Wu (1989) e di Simonato (1991). La presenza di questi studi è da sola sufficiente ad escludere la necessaria, forte conferma che, come abbiamo visto, si raggiunge solo quando “ci sono un gran numero di esempi positivi e nessun esempio negativo”; d’altra parte, proprio l’esistenza dei due studi induce a pensare che siano indispensabili ulteriori ricerche, volte ad appurare se il rapporto Ward sia in grado di superare i tentativi di falsificazione. Quindi corretta la conclusione del Tribunale che ha ritenuto che sul punto debba essere sospeso il giudizio.

 

Ancora, sul ruolo concausale del CVM, dell’alcol, del virus B e C nell’insorgenza dell’epatocarcinoma e nell’insorgenza della cirrosi, rimarca la difesa  le idee non chiare del P.M. sul concorso di cause, ribadendo che il problema dell’interazione, cioè del concorso tra due o più antecedenti, può sorgere solo se ciascun antecedente può essere definito condizione necessaria, e ciò può accadere solo se sia stata previamente provata la sua idoneità lesiva.

Ciò significa che, poiché, in mancanza della necessaria conferma scientifica, manca la prova della idoneità del CVM a provocare cirrosi, il CVM non può diventare una condizione necessaria: resterebbe perciò inesorabilmente sbarrata la strada al tentativo di ipotizzare un concorso o una interazione tra CVM e alcol.

Analogamente si contesta il P.M. in ordine alla relazione esposizione al CVM e tumori al polmone, rimarcandosi l’inconcludenza sia dal punto di vista della biologia molecolare che degli esperimenti sugli animali dell’idea della plausibilità biologica, e così l’inapplicabilità, al processo penale, della “probabilità di causazione”, criterio smentito in modo categorico proprio dai massimi esperti dell’accusa, a cominciare da Vineis, cui il Tribunale si richiama (sentenza, p. 132 ss.), per finire a Berrino, Comba, Bracci, Carnevale.

E si ricorda quanto dichiarato da Berrino, confermato in dibattimento (ud. 14.12.1999, p. 90): su 3000 casi di tumore del polmone, sappiamo che circa 1000 casi non si sarebbero manifestati senza l’esposizione lavorativa. Ma “non sappiamo quali. Naturalmente tutti i nomi sono a disposizione del magistrato, ma cosa se ne farebbe il magistrato? Tirerebbe a sorte?”.

Queste parole di Berrino sintetizzerebbero il pensiero degli scienziati di tutto il mondo.

Secondo la difesa, poi, non ha nessun senso pensare alla probability of causation se non vi è alcuna associazione tra esposizione a CVM – PVC ed aumentata insorgenza di tumori del polmone, se cioè la esposizione non possiede la qualità di causa, sul versante della causalità generale.

D’altro lato, lo strumento delle probability of causation potrebbe essere utilizzato solo in un processo civile, in cui si adottasse la “versione debole” della regola di giudizio del più probabile che no (Mastrangelo, in effetti, considera il 50% come soglia del più probabile che no): nessuno spazio potrebbe essere riservato a quel calcolo in  un processo dominato, come il processo penale, dalla regola dell’oltre il ragionevole dubbio o in un processo civile in cui si seguisse la versione forte del più probabile che no.

 

Osserva d’altra parte la difesa che lo studio caso-controllo di Mastrangelo, cui ha fatto riferimento il P.M., sarebbe privo di validità per il fatto che, pur trattandosi di tumore del polmone, Mastrangelo non ha tenuto conto dell’effetto del fumo, cioè non ha tenuto conto del fattore che spiega oltre il 90% dei tumori polmonari che insorgono nella popolazione. E ciò oltre agli assunti difetti metodologici dello studio, ed alla mancata conferma delle cinque ipotesi, inventate da Mastrangelo, sul meccanismo d’azione del PVC.

Irrilevanti sarebbero poi i rilievi formulati dal P.M. relativamente agli “altri organi”, tumori del laringe, del sistema emolinfopoietico e del cervello, nonché sui melanomi, rispetto ai quali il P.M. non porta nessun argomento, nessun documento, nessuna prova da cui si possa evincere una valutazione insufficiente da parte del Tribunale . E non poteva essere diversamente: nella motivazione, a p. 152 ss., il Tribunale si fa carico proprio degli studi e delle conclusioni degli esperti dell’accusa sui tumori del laringe, del sistema emolinfopoietico, dell’encefalo e dei melanomi.

Quanto al riferimento del P.M. al morbo di Raynaud di Terrin e Bortolozzo, in realtà vi sarebbe la mancata prova della malattia.

 

In conclusione sul punto, sostiene la difesa che il processo non poteva proseguire con l’appello, perché il P.M. non era in grado di intrattenersi sul nesso di condizionamento e sulla sua prova, perché nel processo di primo grado gli esperti medico-legali dell’accusa si erano del tutto astenuti dal pronunciarsi sulla condizione sine qua non ed avevano concentrato la propria attenzione sulla esposizione al CVM, intesa come causa idonea, cioè in un modo che non riflette il concetto penalmente rilevante di causa per il nostro ordinamento.

Nei motivi, in effetti, il P.M. non ci ha mai intrattenuto sul nesso di condizionamento: questa è la ragione che ha reso inutili tutti i suoi rilievi.

 

Non si esime peraltro la difesa dei predetti imputati di trattare anche il tema della colpa. Sul punto, premesso che alla serie di addebiti, che il capo d’imputazione articola come addebiti di colpa, l’impostazione d’accusa attribuisce una duplice valenza: parametri della asserita colpa con riguardo ai delitti con evento di danno, e condotte costitutive del contestato delitto doloso di cui all’art. 437 cp., la difesa innanzitutto rimarca che rispetto alle imputazioni di delitti con evento di danno, la questione della colpa è assorbita dall'infondatezza oggettiva delle accuse: acclarata l'inesistenza di nesso causale fra gli eventi di morte/malattia e le condotte ascritte agli imputati EniChem, il problema d'una loro colpa in relazione a quegli eventi, non da loro causati, non può nemmeno essere posto. Peraltro anche relativamente a tali addebiti sostiene la difesa l’insussistenza della colpa e la conclusione della loro infondatezza è ragione autonoma e autosufficiente d’infondatezza delle accuse di cui al capo I di imputazione. Rispetto invece alla contestazione di cui all’art. 437, 1° comma, cp l’inesistenza di violazione di regole di sicurezza significa inesistenza della stessa condotta costitutiva di reato.

 

Anche sul punto dunque la difesa ripercorre la storia del processo e le ragioni della sentenza di primo grado che ha ritenuto infondata l’impostazione d’accusa e specificamente l’infondatezza degli addebiti di colpa, analiticamente quindi esaminando e contestando gli specifici rilievi svolti dagli appellanti nei loro motivi. In particolare, vengono ribadite, in forza delle richiamate evidenze processuale, le conclusioni cui è giunta la sentenza relativamente alla presa di coscienza del problema CVM solo nei primi anni ’70 ed il relativo crollo delle esposizioni, nonché la legittimità del sistema di monitoraggio multiterminale in relazione ai criteri di cui alla normativa di cui al DPR 962/82 attuativo della direttiva CEE 610/78, ed il buon funzionamento del sistema stesso anche in relazione alla ricerca e interventi sulle fughe, la tempestività e adeguatezza degli interventi tecnologici e impiantistici già peraltro analiticamente ricordati dal Tribunale nella sua sentenza, tema sul quale controdeduce altresì ai relativi motivi di appello la difesa dell’imputato Diaz. Rimarcano i difensori l’infondatezza degli specifici addebiti di colpa connessi agli impianti, attesa la soluzione dei problemi relativi agli ingressi in autoclave, agli organi di tenuta, agli aspetti gestionali relativi alla manutenzione, mezzi di protezione individuali, sorveglianza sanitaria e informazione e formazione dei lavoratori.

 

Già all’esito del giudizio di primo grado aveva dunque concluso la difesa sostenendo che la situazione era in regola con la legge e con le esigenze di sicurezza. Gli interventi già effettuati dai primi anni ’70 da Montedison avevano risanato gli impianti così presi in consegna da Enichem nel 1987: le esposizioni a CVM erano prossime allo zero, largamente al disotto del valore soglia; era in funzione da oltre un decennio, sotto gli occhi di tutti (comprese le autorità di controllo), un sistema di monitoraggio mediante gascromatografo, la cui affidabilità non era in discussione. Durante la gestione EniChem sono stati introdotti ulteriori miglioramenti, sia impiantistici che gestionali.

E quanto all’impostazione in diritto dell’accusa, che ha cercato di negare rilevanza al valore soglia normativamente indicato, rileva la difesa che ovviamente non compete alla sede giurisdizionale mettere in discussione la legge, alla quale soltanto (art. 101 Cost.) il giudice è soggetto.

Specificamente poi la difesa contesta i motivi d’appello del P.M. e dell’avvocato dello Stato relativi ai reati previsti dagli articoli 437, co.1 e 2, 422 c.p., sostenendo l’infondatezza delle accuse alla motivazione della sentenza. Intanto, sostiene la difesa, l’infondatezza obiettiva degli addebiti di colpa di cui sopra potrebbe chiudere il discorso relativo all’art. 437 cp in quanto le questioni di merito concernenti tale reato si sovrappongono in gran parte a quelle concernenti i suddetti addebiti. Vi sarebbero però ulteriori ragioni autonome e autosufficienti d’infondatezza dell’accusa di delitto doloso.

 

Rispetto alle principali critiche mosse dagli appellanti alla decisione sul punto del Tribunale, osserva la difesa che:

a) L’evoluzione storica delle conoscenze sulla tossicità del CVM non ha interesse per la posizione degli imputati EniChem, entrati in scena a partire dal 1987, quando era ben noto da tempo che il CVM ha effetti tossici.

b) Non è vero che il Tribunale non avrebbe considerato, per finta o per ignoranza, che il CVM è un epatotossico. Basti pensare alla affermazione di potenzialità causale dell’esposizione a CVM rispetto all’angiosarcoma del fegato!

c) Non è vero che il Tribunale abbia negato l'esistenza di norme a tutela della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970, quali i D.P.R. nr. 547/55 e nr. 303/56. Ha, semplicemente, escluso che i fatti accertati ne costituissero una violazione. L’appello sembra voler presentare come questione di diritto, invocando norme che nessuno disconosce, la confutazione che il Tribunale ha fatto relativamente agli assunti fattuali dell’accusa.

 

Quanto agli elementi oggettivi dell’art. 437 cp, sostiene la difesa essere errata l’interpretazione ‘globalizzante’ fornita dal P.M.. Si osserva che il P.M.  prende atto che il Collegio ha  proceduto “ad una elencazione fondata sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma penale”, e su tale premessa ha escluso dalla fattispecie dell’art. 437 c.p., già in via di astratto diritto, alcune fra le ipotesi contestate” -in particolare “tutti quegli strumenti o dispositivi (non collocati per effetto delle condotte omissive addebitate dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non rientranti nel concetto di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel concetto di apparecchi (“caratterizzati dalla complessità tecnica”); tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene o generiche per mancata individuazione dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi antinfortunistici; tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità operative” e non ad attività di natura preventiva ed antinfortunistica”-. Il P.M. rimprovera dunque alla sentenza di avere fatto in tal modo tabula rasa delle imputazioni, secondo una ricostruzione giuridica incomprensibile e senza senso, dimenticando per strada “anche la fondamentale disposizione dell’art. 2087 c.c., pure contestata nel capo d’imputazione”, ed azzerando altresì norme speciali quali l’art. 4 del D.P.R. 547/55 e l’art. 4 del D.P.R. 303/56, che “contengono il principio imprescindibile che impone l’obbligo per il datore di lavoro di attuare ogni misura diretta ad evitare che la sicurezza e la salute del prestatore di lavoro possano essere poste in pericolo e/o danneggiate”.

 

Il PM propone dunque un’interpretazione dell’art. 437 come fattispecie onnicomprensiva, che sanziona come delitto qualsiasi violazione dolosa del dovere di sicurezza, sotto qualsiasi aspetto.

Ma, secondo la difesa, tale interpretazione ‘onmnicomprensiva’ dell’art. 437, riproposta negli atti d’appello, è in contrasto non soltanto col significato lessicale della formula legislativa, ma anche con la sua ratio, e non trova alcun conforto in posizioni dottrinali o giurisprudenziali.

L’interpretazione degli appellanti azzera del tutto i caratteri, pure esplicitati chiaramente dal legislatore, della fattispecie tipica dell’art. 437, che incrimina violazioni del dovere di sicurezza specificamente tipizzate, come si conviene a una norma penale: il delitto consiste nella  omessa collocazione di apparecchi destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro. Non, dunque, in una qualsivoglia violazione del dovere di sicurezza, diversa dall’omessa collocazione di apparecchi destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro.

 

Invero, dalla rilevanza attribuita  alla clausola generale dell’art. 2087, circa l’individuazione dei doveri di collocazione di date apparecchiature prevenzionali, l’accusa salta alla conclusione –viziata logicamente- che verrebbero in rilievo, ai fini dell’art. 437, le violazioni di qualsivoglia obbligo enunciato o desumibile nelle disposizioni generali.

Rimarca dunque la difesa che, così argomentando, viene ignorato il dato normativo che per l’interprete della norma penale dovrebbe essere decisivo, cioè, per l’appunto, il dettato testuale della norma penale, che almeno su questo punto è inequivoco: l’art. 437 opera una selezione entro l’area generica dei ‘doveri di sicurezza’, incriminando come delitto doloso soltanto una particolare categoria di omissioni: cioè, testualmente, l’omessa collocazione di impianti apparecchi segnali “destinati a ….”.

 

L’incriminazione come delitto è cioè ristretta a tipi di violazione del dovere di sicurezza, che il legislatore penale ha ritenuto più gravi. E questo, non altro, secondo la difesa degli imputati avrebbe inteso ribadire il Tribunale, parlando di “violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà”. Definendo ‘gratuita’ questa asserzione, gli appellanti mostrano di non averne capito (o fatto finta di non capire) il senso: la ‘particolare serietà’, cui la sentenza si riferisce, è quella che il codice penale ha ravvisato nella violazione di obblighi di collocazione di apparecchiature prevenzionali. Viceversa contra  legem sarebbe la conclusione d’accusa, che riconduce alla fattispecie obiettiva dell’art. 437 qualsiasi violazione del dovere di sicurezza, che se mai potrebbe essere rilevante solo come  eventuale contravvezione a leggi speciali, e comunque rilevante come criterio per la eventuale attribuzione di colpa.

 

E non sarebbero in contrasto con la sentenza del Tribunale neppure i criteri enunciati nelle sentenze citate dagli stessi appellanti, criteri che fanno riferimento a qualunque apparecchiatura necessaria per evitare infortuni sul lavoro, e non (contrariamente ai motivi d’appello) a ciò che apparecchiatura non è.

Dunque, secondo la difesa, l’azzeramento della tipicità della fattispecie di cui all’art. 437, stemperata nel generico dovere di sicurezza, vizia in radice, già in puro diritto, le applicazioni che, nei motivi d’appello, vengono proposte con riferimento alla quasi totalità dei singoli addebiti contestati. Il problema d’una ipotetica responsabilità ex art. 437 non può essere prospettato, se non con riferimento ad addebiti che abbiano ad oggetto la omessa collocazione di apparecchiature di prevenzione. Per tutti gli altri addebiti (e sono la quasi totalità) il problema non sorge.

 

Sarebbero dunque estranei alla  problematica dell'art. 437 cp gli addebiti relativi ai mezzi personali di protezione, che certo sono doverosi, ma la cui violazione non rientra nella fattispecie delittuosa in oggetto non potendo essere considerati “apparecchi”. Il dovere del datore di lavoro di fornire ai lavoratori, ove prescritto, mezzi personali di protezione, è cosa diversa dal dovere di  ‘collocare’ apparecchiature di sicurezza, cioè di apprestare, collocandoli là dove devono svolgere la loro funzione, elementi strutturali del sistema di protezione dell’ambiente di lavoro.

Altresì estranei all’art. 437 sarebbero gli addebiti relativi alle modalità operative. Tale ipotesi di accusa, ripresa nei motivi di appello, annovera cumulativamente ipotesi fra loro eterogenee: gli addebiti di omissione relativi al blocco degli impianti, al risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in ordine alla sostituzione degli organi di tenuta. A parte l’infondatezza in fatto, ne sostiene la difesa la non pertinenza in diritto, quale corollario dei principi giuridici correttamente ricostruiti e applicati dal Tribunale che ha ritenuto tali addebiti “palesemente non correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi specifici con finalità antinfortunistica o comunque di prevenzione”.

 

Infondati sarebbero altresì gli addebiti relativi al monitoraggio, anche nella prospettiva dell’art. 437 cp. Secondo la difesa si può ragionevolmente dubitare che il sistema di monitoraggio rientri nelle tipologie considerate dall’art. 437. D’altra parte, l’ipotesi d’accusa relativa al monitoraggio non è di omessa collocazione, ma di avere installato e tenuto in esercizio un sistema asseritamente imperfetto. Il PM contesta il “mancato monitoraggio di zone di lavoro come l’insacco, lo stoccaggio e l’essiccamento, ritenute dall’azienda zone non a rischio”. Le zone di lavoro, cui il PM si riferisce, non sono zone in cui vi fosse esposizione a CVM, sì invece a polveri di PVC. Il monitoraggio in continuo non era obbligatorio, ed alle esigenze di prevenzione e controllo del rischio polveri si è adeguatamente provveduto in altro modo. Il sistema di monitoraggio è stato anche controllato da pubbliche autorità (cfr. testi Gregio, Iagher: ud. 18.4.00), che, limitandosi a impartire prescrizioni (prontamente eseguite) di adeguamento limitatamente ad un aspetto specifico del monitoraggio nel reparto CV22/23 (periodicità delle analisi), hanno preso atto della idoneità complessiva del sistema. Quanto ad eventuali, occasionali malfunzionamenti, proprio le segnalazioni di problemi da risolvere confermano l’attenzione che al monitoraggio del CVM veniva dedicata. Quando si presentavano, i problemi venivano affrontati e risolti.

 

Quanto al dolo, l’infondatezza oggettiva dell’imputazione ex art. 437, avvia a soluzione anche il problema dell’elemento soggettivo. Sul problema del dolo d’altra parte gli appellanti avrebbero operato un travisamento facendo leva sulle conoscenze degli imputati quasi ad identificarle con il dolo.

In realtà, secondo la difesa, la questione del dolo è concettualmente distinta da quella della conoscenza o non conoscenza degli obblighi statuiti dalla normativa, da parte del soggetto obbligato. Avuto riguardo alla struttura del reato omissivo in esame, il dolo del reato di cui all’art. 437 cod. pen. richiede congiuntamente:

a) la consapevolezza da parte del garante dei presupposti fattuali dell’obbligo, cioè d’una specifica situazione di rischio non schermata;

b) la conseguente consapevole volontà di astenersi dal collocare impianti o apparecchi o segnali, positivamente rappresentati come necessari a neutralizzare la conosciuta situazione di rischio.

Sul piano probatorio, trattandosi appunto di provare uno stato psicologico sulla base di dati esterni, l'accento deve essere posto sulla consapevolezza della situazione tipica (di pericolo non schermato) che costituisce il presupposto fattuale dell’obbligo di attivarsi, e sulla conseguente rappresentazione di un attivarsi possibile in quella data situazione.

 

Lasciando da parte ogni questione sulla infondatezza obiettiva delle accuse, per la difesa a proposito del dolo è sufficiente osservare che i motivi d’appello non trattano l’essenziale, ciò che è specifico al profilo soggettivo dell’ipotesi accusatoria. Hanno continuato a discutere del dovere di sicurezza e di doveri di diligenza, senza minimamente preoccuparsi di chiarire in che cosa consista l’oggetto del dolo, avuto riguardo alla struttura del fatto omissivo tipizzato nell’art. 437. In buona sostanza, i motivi d’appello sembrano confondere con il dolo – che è conoscenza e volontà d’un concreto fatto di reato - la (doverosa) consapevolezza astratta dei doveri legali!

In tal modo nei motivi d’appello dell’accusa il problema del dolo dell’art. 437 non sarebbe nemmeno stato posto.

 

Sostiene poi la difesa che vi sarebbe un’ulteriore, autosufficiente ragione d’infondatezza dell’accusa, vale a dire l’inapplicabilità dell’art. 437 al di fuori del campo della prevenzione di infortuni, al quale soltanto la lettera della legge si riferisce.

Si osserva che il concetto di infortunio ha un ben preciso fondamento normativo nel DPR 1124/1965, e già prima nel RD 17 agosto 1935 n. 1765, che si riferiscono a una “causa violenta in occasione di lavoro”, cioè – come afferma concorde la dottrina – a un “evento traumatico” avvenuto in un determinato tempo e luogo.

L’utilizzazione, nell’art. 437, del termine tecnico “infortunio” – implicante un chiaro riferimento alla normativa di settore – non può ritenersi casuale. Il legislatore ha inteso delimitare la fattispecie delittuosa alla prevenzione degli infortuni in senso tecnico, lasciando ad altri strumenti normativi la tutela preventiva da rischi diversi da quello d’infortunio, e in particolare dal rischio di malattia professionale non derivata da causa violenta o evento traumatico.

 

In tal senso si sarebbero espressi gli autori (Fiandaca e Musco, Vaudano, Nappi, Zagrebelski, Corbetta) che si sono occupati del tema, e questa delimitazione della fattispecie emergerebbe dalla pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 232/83, Riv. giur. lav. 1983, 403), che in merito alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 437, con riferimento al principio d'uguaglianza, proprio sulla premessa interpretativa che la norma penale non comprende gli apparecchi di protezione da malattie, e che da tale esclusione deriverebbe una ingiustificata diversità di trattamento, ha dichiarato l’inammissibilità “non essendo consentito chiedere alla Corte "una pronuncia dalla quale scaturirebbe una nuova fattispecie penale".

La pronuncia di inammissibilità della questione, con la motivazione che ne è stata data, sottenderebbe, secondo la difesa, l’accettazione, da parte del giudice di legittimità delle leggi, della premessa interpretativa del giudice a quo. Altrimenti sarebbe uscita con una pronuncia interpretativa di rigetto.

 

Quanto all’aggravante del disastro, osserva preliminarmente la difesa che nel presente processo la trasposizione del ‘disastro’ nell’ottica dell’art. 437 può essere teoricamente prospettata soltanto per quegli aspetti dell’accusa di disastro che attengono ad ipotizzate conseguenze delle condotte contestate come violazione dell’art. 437. Può riguardare, cioè, soltanto il ‘disastro’ contestato con riferimento alla gestione dei reparti CVM. Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, sarebbe la modifica dell’imputazione con cui il PM ha formalmente inserito nel capo 1 l’intero ‘disastro’ descritto nel capo 2, e così unificato l’accusa di disastro per gli imputati di entrambi i capi. La distinzione deriva dalla struttura logica dell’accusa, anche dopo la sua riformulazione, ed esclude ogni nesso fra la contestazione ex art. 437 e gli aspetti del supposto ‘disastro ambientale’ delineati nel capo 2, il cui contenuto è diverso ed autonomo dal problema della esposizione a CVM e dei relativi obblighi di sicurezza.

 

Sostiene poi la difesa che  l’accusa di disastro innominato nasce priva di un contenuto fattuale specificamente enucleato.  Il PM avrebbe gettato l’art. 434 del codice penale, mescolato a tanti altri, senza specificare quali siano, nella complessa ipotesi d’accusa, i fatti cui egli ritenga pertinente la qualificazione giuridica di disastro.

Ma è la tesi in diritto che vieppiù, secondo la difesa, è da criticare, osservandosi che il discorso del PM procede per slittamenti successivi: comincia con l’accettare (a parole) l’esigenza di caratterizzare il disastro come evento di danno; dopo di che, esclude che occorra un danno a persone o a cose, tagliando fuori in tal modo le ipotesi di danno delle quali il diritto penale normalmente si interessa, ed aprendo la strada alla riduzione del cosidetto ‘evento di danno’ a “stato di fatto che renda possibile il danno”. Con una serie di giochi di parole, il requisito del danno si scioglie senza residui nel pericolo: “la valutazione del disastro arriva al pericolo e lì si deve fermare”, scrive il PM in neretto.

 

L’evento di danno, che pacificamente viene richiesto dalla dottrina e dalla giurisprudenza perché possa dirsi integrata la fattispecie ex artt. 434, 2° comma, nell’impostazione del PM viene semplicemente azzerato, con tentativo, altresì, di scardinamento del principio di responsabilità personale, in quanto l’asserita responsabilità degli imputati che hanno rivestito posizione di garanzia dopo il 1973 sarebbe fondata su fatti che riguardano altri, in ragione di eventi lesivi, connessi ad esposizioni ante 1973, non riconnessi alla loro condotta.

Circa la questione della configurabilità in diritto della strage colposa coltivata ancora con specifico motivo dall’avvocato dello Stato, ed invece abbandonata dallo stesso P.M., ritiene la difesa inconsistente la tesi per la chiara volontà del legislatore, espressa esplicitamente nella relazione sul progetto preliminare del codice penale e per la chiara lettera della legge che fa riferimento all’incendio ed agli altri disastri che seguono nel capo I del titolo VI.

Parimenti la difesa ritiene palesemente infondata, oltre che inammissibile per carenza di interesse, l’impugnativa della predetta parte civile dell’ordinanza 7/4/98 con la quale il Tribunale, decidendo sull’ammissibilità delle costituzioni di parte civile ha “tracciato il solco dei c.d. periodi di pertinenza”. Lo scopo di tale impugnativa viene ipotizzato dalla difesa nel tentativo di superare la considerazione atomistica dei singoli eventi, intesa a collocare i singoli eventi dentro o fuori del periodo di competenza di uno o altro imputato. Da ciò il collegamento anche con la strage colposa relativamente alla quale la predetta parte civile non avrebbe parimenti interesse. Ma, sostiene la difesa, il tentativo sarebbe assurdo in riferimento ai principi basilari della civiltà del diritto (in particolare il principio di personalità della responsabilità).

 

Specificamente, quanto all’imputazione di disastro, la difesa di Smai, Pisani e Patron, ripercorre ancora il processo dalla formulazione dell’accusa alla sentenza di primo grado, ricordando che inizialmente la contestazione del disastro si era articolata in due diverse figure che si snodano nei due capi d’imputazione, figure poi trasformate in un unico disastro permanente con la modifica dell’imputazione di cui all’udienza del 13/12/2000.

Sostiene dunque la difesa che, quanto all’accusa di disastro di cui al primo capo d’imputazione, l’infondatezza emergerebbe dall’insussistenza di elementi essenziali della fattispecie incriminatrice: il danno a cose, neppure individuato nel capo d’imputazione, ed il danno a persone rivelatosi insussistente per come evidenziato trattando del rapporto causale, ma anche il pericolo reale e concreto per la pubblica incolumità, inteso come“un numero indeterminato di persone che, nel loro insieme, valgono a comporre la collettività”, la cui assenza sarebbe comprovata dall’assenza di danni alle persone, danni che non solo non si sono verificati, ma, secondo la difesa, neppure nei periodi di gestione Enichem avrebbero potuto verificarsi, sia all’interno che all’esterno dello stabilimento, così come comproverebbero le relazioni degli esperti della difesa Dragani e Zocchetti sulla “Assenza di pericoli reali durante la gestione EniChem dello stabilimento di Porto Marghera”, e una seconda Relazione del prof. Foraboschi sulla “Assenza di pericoli reali nell’attività dello stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera, nel periodo di gestione EniChem” depositate all’udienza del 20 aprile 2001.

 

Quanto al disastro (c.d. ambientale), di cui al secondo capo d’imputazione, sostiene la difesa che l’insussistenza di un danno all’ecosistema, comprovato dall’insussistenza dell’accusa di avvelenamento e adulterazione cui comunque sarebbero estranei gli imputati Enichem, esclude di per sé la sussistenza del reato, neppure ipotizzabile per l’assenza di danni alle persone neppure supposti dall’accusa. Evidenzia poi la difesa come nell’inerzia probatoria del P.M. si sia sobbarcata l’onere non solo di dimostrare l’assenza di pericoli e di danni da avvelenamento e adulterazione, ma di dimostrare altresì -ricostruendo la storia dell’inquinamento dei canali industriali- che l’inquinamento dei canali circostanti il Petrolchimico è dovuto ad una molteplicità di fattori, fra cui spiccano l’inquinamento, di antica origine, proveniente dalle attività industriali svolte nella prima zona industriale e l’imbonimento della seconda zona industriale con i rifiuti della prima. Gli imputati Enichem poi, nonostante non avessero mai gestito le discariche all’interno  e all’esterno del Petrolchimico, e non avessero quindi partecipato alla contaminazione (peraltro, non pericolosa) delle falde, sin dall’inizio degli anni novanta hanno intrapreso – senza averne alcun obbligo giuridico – un’opera di messa in sicurezza  e bonifica dei siti inquinati.

 

Inevitabile e aderente alle risultane dunque, secondo la difesa le conclusioni del Tribunale, sull’accusa “simbolo” di questo processo - ovvero quella di aver cagionato un “disastro”, ritenuta infondata prima di tutto in fatto e poi anche in diritto.

Ma il P.M., osserva la difesa, anche nei motivi di appello ignora pervicacemente il fatto e si limita a contestare la lettura che il Tribunale avrebbe dato del “suo” capo di imputazione. Questo costituirebbe l’unico motivo di appello rispetto all’accusa di aver provocato un “disastro”: tanto per quanto riguarda il primo capo di imputazione che per quanto riguarda il secondo, tanto che si abbia riguardo al disastro di cui all’art. 434 c.p. o che si rivolga l’attenzione a quello configurato dall’art. 437 co. 2. Per il resto vi sarebbe l’assoluta mancanza di qualsiasi argomentazione che sia fondata sulle prove e sui fatti, come emersi dal dibattimento che in alcun modo evidenziano essersi verificato quell’evento di danno, diffuso e di vaste proporzioni, per persone e cose, che costituisce l’essenza di questo reato. Non una riga sarebbe poi dedicata nei motivi d’appello in specifico all’evento di disastro ambientale.

Osserva al riguardo la difesa che il P.M. parla di “compromissione ambientale” della laguna prospiciente Porto Marghera, parla di “contaminazione del suolo, del sottosuolo e delle falde”, ma sempre con riferimento ai reati di avvelenamento e di adulterazione, senza dedicare una sola riga a spiegare in che modo questa “compromissione” o “contaminazione” verrebbe ad assumere  i connotati del supposto “disastro”. In sostanza, la strategia dell’accusa sarebbe manifestamente quella di negare ogni elemento di fattispecie tipico del disastro – l’evento di danno “disastroso” in particolare – riducendo questo reato ad un mero pericolo per la pubblica incolumità interamente sovrapponibile al pericolo per la salute pubblica previsto dall’art. 440 c.p., ma togliendo altresì ogni “concretezza” al pericolo per la pubblica incolumità richiesto dalla fattispecie di adulterazione e quindi – nella logica del P.M. – dal disastro.

 

Sostiene però la difesa che tutte le argomentazioni che i motivi affastellano in tema di avvelenamento e  di adulterazione  non riescono in alcun modo a superare la secca conclusione del Tribunale secondo cui i due reati non sussistono, perché manca in radice ogni pericolo per la pubblica incolumità. Conclusione, questa del Tribunale, inconfutabile, dalla quale discende l’insussistenza dei delitti di avvelenamento e di adulterazione, ma anche, a maggior ragione, l’insussistenza del disastro “ambientale”. Lineare e inappuntabile il ragionamento del Tribunale che, nella logica dell’accusa che riferisce il pericolo per la pubblica incolumità/salute pubblica esclusivamente al pericolo “alimentare” legato al possibile consumo delle risorse idriche (falde) o del biota edibile, una volta emerso invece che questo pericolo “alimentare” – che è l’oggetto delle accuse di adulterazione e avvelenamento - non sussiste, ritiene a fortiori insussistente anche il disastro. Il disastro, infatti, richiede anch’esso il pericolo (reale) per la pubblica incolumità, in aggiunta all’ulteriore elemento specifico del grave danno alle cose e alle persone.

 

Il P.M., dunque, non sarebbe riuscito a fornire alcuna prova della sussistenza del pericolo astratto, proprio dell’avvelenamento, o del pericolo concreto richiesto dall’adulterazione, e neppure avrebbe tentato di provare l’evento di danno unito a pericolo concreto per la pubblica incolumità, che costituisce il connotato tipico del fatto di disastro.

Nello specifico delle contestazioni di avvelenamento e adulterazione, trattati in sé ma anche per il collegamento con il reato di disastro nella costruzione “a grappolo” del secondo capo d’imputazione, sostiene poi la difesa l’inconsistenza del tema del “danno genetico” introdotto dal P.M., ricordando che la presenza di addotti al DNA, nell’uomo come nei molluschi, è interpretata, in tutta la letteratura internazionale, come indice di esposizione e non di danno. Questo sarebbe un dato talmente pacifico, nella comunità scientifica, che la stessa esperta dell’accusa Venier, nel corso della sua deposizione (ud. 17.10.2000, p. 65), non ha potuto fare a meno di confermarlo, dicendo che “l’addotto viene considerato esposizione avvenuta”.

Vieppiù azzardato sarebbe poi l’ulteriore passaggio del P.M. che, dato per scontato il danno genetico nei molluschi, afferma che ragionevolmente “un rischio analogo di modificazione genetica sussista anche per la collettività umana esposta, direttamente o indirettamente, alle stesse sostanze tossiche”, rifugiandosi dietro espedienti verbali quali “non impossibilità del danno genetico”, “risposte biologiche possibili”, “principio di precauzione”.

Quindi la non impossibilità del danno genetico e di risposte biologiche non provate che si sostituirebbe al pericolo reale, senza peraltro neppure una risposta alla domanda in ordine a che modo l’uomo potrebbe subire un aumento degli addotti al DNA posto che la trasmissione con la dieta alimentare è scientificamente insostenibile.

 

Inconsistente la tesi del danno genetico, sostiene altresì la difesa l’infondatezza delle argomentazioni del P.M. in tema di pericolo alimentare. Dai dati della realtà, emersi nel corso del processo di primo grado e dopo la chiusura del dibattimento, emergerebbe in modo incontestabile come di avvelenamento e/o di adulterazione del biota lagunare non si possa neanche parlare. Sostiene infatti la difesa che tutti i tentativi del P.M. si infrangono contro lo scoglio della totale assenza di pericolo per la pubblica incolumità, confermata dalle ricerche sugli effetti osservati nell’uomo e nell’animale, dal mancato superamento dei valori massimi di concentrazione (CL) dei contaminanti, ammissibili per la edibilità dei molluschi – o dei valori ritenuti normali in tutti i Paesi del mondo, per quelle sostanze non disciplinate attraverso la previsione di una concentrazione limite (CL) – nonché dal mancato superamento dei valori di TDI (tolerable daily intake-dose giornaliera accettabile).

E destinato a naufragare sarebbe altresì il tentativo del P.M. di sostenere, anche se solo per le diossine, che i valori riscontrati nelle vongole dei canali industriali, non potrebbero essere considerati normali. Ancora una volta deporrebbero il contrario i dati della realtà che hanno portato, dopo la fine del processo, a falsificazione dell’ipotesi prospettata (con sorprendente parallelismo con la falsificazione operata dall’OMS, agenzia IARC di Lione, delle ipotesi prospettate nella monografia IARC dell’87 circa i pretesi effetti cancerogeni del CVM sui tre organo bersaglio diversi dal fegato): nel luglio 2002, è diventata operativa, nelle Comunità Europee, una legge (vd. regolamento CE n. 2375/2001 del 29.11.2001, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea come L. 231/5 del 6.12.2001) che individua la concentrazione limite (CL), proprio per le diossine (PCDD + PCDF), ammesse nei prodotti ittici, ai fini della loro edibilità e della loro libera commercializzazione, nell’ambito dei Paesi UE, in 4 pg/WHO TEQ/g di prodotto fresco, concentrazione che è più di 4 volte superiore a quella media, riscontrata dagli esperti dell’accusa, nelle vongole dei canali industriali.

 

Di ciò non avrebbe tenuto conto nei motivi di appello il P.M. che parimenti non dedicherebbe neppure un cenno ai risultati delle ricerche compiute da Pompa ancor prima dell’emanazione della nuova legge, culminanti nella dimostrazione della assoluta normalità delle concentrazioni di diossina dei molluschi dei canali industriali, e delle ricerche compiute da Vighi sulla comparabilità delle concentrazioni delle diossine nei molluschi pescati nei canali industriali, con le concentrazioni riscontrabili nei pesci del mare Adriatico e degli altri mari. E osserva ancora la difesa che i motivi d’appello pure tacciono della recente Raccomandazione della Commissione Europea (emanata il 4.3.2002 e pubblicata il 9.3.2002 sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee), relativa alla riduzione della presenza di diossine e furani nei mangimi e negli alimenti, che, sostiene la difesa, assesta un altro colpo mortale all’impianto accusatorio faticosamente messo insieme dal P.M..

 

La Raccomandazione, infatti, suggerisce (senza peraltro imporlo) un approccio innovativo per affrontare il problema delle concentrazioni di diossine negli alimenti: tale approccio si basa sull’introduzione di una nuova classe di livelli di concentrazione delle diossine negli alimenti, che prendono il nome di “livelli d’azione”, la quale si distingue dalla classe di valori, ben superiori, presi in considerazione per la edibilità dei prodotti (definiti “livelli massimi”).

Alla luce della bipartizione introdotta, il documento della Commissione Europea raccomanda, qualora le concentrazioni di diossine negli alimenti superino i “livelli d’azione”, l’avvio di indagini per individuare la fonte di contaminazione dell’alimento, in modo da adottare i provvedimenti necessari per risolvere il problema. In ogni caso, l’alimento resta comunque edibile e commerciabile fino a quando la concentrazione di diossine non supera il “livello massimo”.

Ebbene, per le diossine nei prodotti ittici, il livello d’azione è fissato in 3 pg/g di prodotto fresco.

Ciò significa che il “valore d’azione”, che già è ben lontano da quello che determina la edibilità del prodotto, è circa 3 volte superiore a quello medio riscontrato nelle vongole dei canali industriali (1,0 pg/g), mentre è quasi 7 volte superiore alla concentrazione media (0,45 pg/g) di diossine presente in tutti i molluschi raccolti in laguna (canali industriali compresi).

 

Per i parametri europei, quindi, le vongole raccolte nei canali industriali di Porto Marghera non solo sono edibili, ma la quantità di diossine in esse presenti è tale da non consigliare nemmeno l’adozione di provvedimenti urgenti per la bonifica dei siti di provenienza. E nonostante il ricorso ad espedienti pretestuosi introdotti nei motivi, il P.M. non è riuscito neanche a dimostrare il superamento dei valori di TDI, previsti dalle agenzie chiamate a regolare il rischio alimentare.

Quanto agli scarichi del Petrolchimico, contesta la difesa il tentativo, nei motivi, di rilanciare le tesi di Cocheo, che nulla hanno a che fare con l’accusa di  “disastro”, tesi secondo la quale i reflui del Petrolchimico dovrebbero essere sottoposti alla disciplina dei rifiuti e smaltiti come tali.

 

Sostiene la difesa che al di là dell’inesistenza della supposta contaminazione da CVM delle acque, sedimenti, falde e fauna e quindi del solo immaginario pericolo per la pubblica incolumità, il tema è altresì irrilevante rispetto all’imputazione di disastro o di avvelenamento e di adulterazione: non c’entra nulla con queste contestazioni. Non c’entra nulla perché non vi è – e non vi può essere – alcuna contaminazione da CVM dell’ecosistema lagunare: perché il CVM è assente, ma anche se ci fosse non si accumulerebbe né nelle acque della laguna, né nei sedimenti e nemmeno nel biota. Ricorda al riguardo la difesa quanto lo stesso esperto dell’accusa Cocheo aveva pacificamente ammesso nel giudizio di primo grado: e cioè, che il CVM “ovviamente” non si accumula nei sedimenti, nei pesci e nelle acque: il CVM “è un gas che ha una vita abbastanza breve. Nella stessa acqua in realtà, avendo l'emivita breve, dopo un certo periodo di tempo sparisce”.

 

Parimenti contesta la difesa il tentativo nei motivi di appello di rilanciare le tesi di Carrara. Sarebbe infatti insostenibile il riferimento ai superamenti istantanei risultanti dai bollettini interni e la perseveranza nel non considerare il carico inquinante. La tesi per la difesa è infatti priva di rilevanza rispetto al reato di disastro o a quelli di avvelenamento e di adulterazione, dopo che il prof. Foraboschi ha dimostrato, bollettini di analisi alla mano, che, nel periodo di gestione EniChem, gli scarichi del Petrolchimico hanno avuto un impatto ambientale sul corpo recettore inferiore (di gran lunga inferiore) a quello che avrebbero prodotto scarichi che si fossero sempre mantenuti entro i limiti tabellari.

 

Al riguardo si sostiene che dal dibattimento di primo grado è comunque emerso che:

-       nessuno delle migliaia di bollettini di analisi prodotti proprio dall’accusa attesta anche un solo episodio che sia lontanamente vicino a costituire un pericolo per l’ecosistema;

-       tutte le discipline di settore sono concordi nell’affermare che l’unico criterio valido per valutare l’accettabilità dei contributi di contaminanti attraverso scarichi idrici è la stima del carico inquinante (D.P.C.M.  27.12.1988; D.Lgs. 152/1999; Quaderno 100 dell’IRSA “Metodi analitici per le acque”, 1994, p. 44), che si basa sull’individuazione di carichi massimi ammissibili rispetto ai corpi idrici (D.M. 23.4.1998 sulla tutela della laguna di Venezia; la competenza è affidata alle Regioni, cui spetta fissare la quantità massima per unità di tempo, per ogni inquinante o famiglia di inquinante, D.Lgs. 152/1999).

 

Criterio  del carico inquinante del quale non vi sarebbe menzione nei motivi d’appello. Questo per l’ovvio motivo che il riferimento non poteva che portare ad una conclusione: l’assoluta irrilevanza non solo dei bollettini interni, ma di tutto il tema degli scarichi idrici rispetto alle accuse.

Rimarca infine la difesa di Smai Pisani e Patron comunque, in relazione ai periodi di competenza ed agli specifici ruoli svolti, l’estraneità degli stessi sia relativamente al primo che al secondo capo d’imputazione rispetto ai cui fatti in ogni caso non avrebbero dato alcun contributo causale.

 

Sui medesimi temi relativi al secondo capo d’imputazione controdeduce ai motivi di appello altresì la difesa degli imputati Morrione, Marzollo, Fabbri, Cefis, Grandi, Porta, Gatti, Lupo, D’Arminio Monforte, Calvi, Trapasso, Diaz, Breichenbach, Sebastiani, Fedato, Gaiba, Belloni, Gritti e Bottacco, nonché del responsabile civile Montedison S.p.A.., specificamente confutando, in forza dell’esame delle emergenze processuali le singole doglianze degli appellanti. In particolare sul tema delle discariche e acque di falda sottostanti, ricordando come la ricostruzione accolta dal Tribunale sia aderente alle risultanze dibattimentali ove la sostanziale consonanza delle voci dei consulenti tecnici e gli studi condotti da enti pubblici, quali il Magistrato delle Acque, il Comune di Venezia e la Regione Veneto, avvalorerebbero le considerazioni accolte in tema di stratigrafia e idrogeologia dei suoli e dei sottosuoli, di andamento di falda, di velocità di deflusso delle acque di falda e del coefficiente di ritardo con il quale si muovono gli inquinanti in essa eventualmente presenti, di irrilevanza del trasferimento orizzontale degli inquinanti nella laguna e nei canali industriali.

 

Ma altresì sull’inutilizzabilità delle acque di falda, sugli scarichi idrici, sul biota e sull’assunzione delle sostanze rinvenute nel biota dei canali industriali, nonché sull’accertamento di assenza di rischio per l’incolumità pubblica. Ed anche in diritto, sostanzialmente in conformità alle argomentazioni della difesa di Smai, Pisani e Patron di cui prima si è detto, viene rimarcata l’insostenibilità dei rimproveri degli appellanti alla sentenza con riferimento alla interpretazione e applicazione delle norme incriminatrici; sostenendo altresì l’inesistenza di normae agendi in materia di gestione di rifiuti in epoca anteriore all’entrata in vigore del d.P.R. 915/82, l’inesistenza di un obbligo di bonifica o messa in sicurezza di siti contaminati da terzi antecessori in epoche pregresse, l’inammissibilità della qualificazione come “rifiuti” delle acque di processo provenienti dai reparti CV.

Controdeduce infine la difesa degli imputati, e contesta, le argomentazioni, oggetto di specifici motivi d’impugnativa, con le quali il P.M. sostiene la cooperazione colposa fra tutti gli imputati, la continuazione fra tutti i reati contestati, la permanenza delle contravvenzioni di cui al II capo d’imputazione e l’insussistenza della prescrizione dei reati contestati, argomentazioni delle quali preliminarmente la difesa rileva la strumentalità per creare un collegamento fra le imputazioni individuali, per tenere in qualche modo insieme fatti e responsabilità sparsi nell’arco di un trentennio di vita di due diversi gruppi industriali. Una strategia unificante –massificante- che si sarebbe mossa in due prospettive che si intersecano e si alimentano reciprocamente nella spasmodica ricerca di uno spostamento in avanti del tempo di commissione dei reati:

a) da un lato, in senso ‘orizzontale’, l’inserimento di un numero ampissimo di imputati (ventotto sui trentadue complessivi), dirigenti sia di Montedison che di Enichem,  in una gigantesca cooperazione colposa, maturata nel corso di tre decenni;

b) dall’altro, sulla ‘verticale’ dello sviluppo temporale delle azioni e delle omissioni, l’inclusione  di tutti i reati attribuiti a ciascuno degli imputati nelle figura del reato continuato (la continuazione ‘esterna’ fra i reati dei due capi funzionerebbe tramite il trait d’union del disastro) e/o – limitatamente agli imputati coinvolti nel secondo capo d’imputazione - l’attribuzione del carattere ‘permanente’ alle contravvenzioni ivi contestate.

 

Sostiene al riguardo la difesa, quanto all’ipotizzata cooperazione colposa tra tutti gli imputati, che la tesi non regge già all’assunto con costanza ribadito dalla giurisprudenza in forza del quale “la cooperazione nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto” (sent. del 25.11.1998, ric. Loparco).

Ora, il solo accingersi nell’impresa di individuare “reciproche consapevolezze” fra soggetti che si sono alternati, in contesti organizzativi e normativi diversi, con ruoli diversi,  addirittura in gruppi industriali diversi, in un trentennio di gestione di una realtà industriale gigantesca, avrebbe causato, dopo un iniziale senso di vertigine, moti di incredulità. Non sorprende, quindi, per la difesa, che nel processo di primo grado l’esistenza di un qualche legame conoscitivo fra gli imputati, avente  ad oggetto i rispettivi contributi causali, non sia stata oggetto di alcun tentativo di dimostrazione da parte dell’accusa, pubblica o privata che sia.

 

Osserva poi la difesa come il tentativo del P.M. nei motivi di appello, di superare l’ostacolo cercando di liquidare il predetto requisito della consapevolezza reciproca, sostenendo essere una restrizione estranea all’istituto, sarebbe un’assurdità ben colta dal Tribunale che in modo stringente ma con insuperabile logica ha disatteso la tesi.

Quanto all’ipotizzata continuazione tra tutti i reati contestati, osserva la difesa come il P.M., a fronte dell’esclusione da parte del Tribunale in termini generali della configurabilità della continuazione fra reati colposi, in considerazione del requisito dell’identità del disegno criminoso, ritenuto compatibile solo con una pluralità di reati dolosi, sostenga che “la colpa è senz’altro interna e compatibile con la volontà e la consapevolezza dell’agire economico, delle scelte d’impresa, ecc.: in breve, con un agire finalistico funzionale ad obiettivi (il profitto, la massimizzazione della capacità produttiva, il risparmio di costi, ecc.) non coincidenti certo con eventi lesivi od i fini immediatamente vietati e puniti dal diritto penale, vale a dire con il dolo in senso proprio delle singole fattispecie”. Onde, secondo l’accusa, “è senz’altro compatibile, con il rimprovero di colpa, tanto più se ‘cosciente’, la presenza di un unico ‘disegno criminoso’, realizzato dalle diverse condotte esecutive, attive od omissive, in sé finalistiche, anche se non tecnicamente ‘dolose’ rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo integrano”.

 

Sostiene in contrario la difesa l’erroneità della tesi, osservando che la verità è che nel contesto dell’art. 81 cpv., i termini “azioni” ed “omissioni”, posti in essere in “violazione di leggi”, vanno necessariamente intesi come equivalenti di “reati”. Ne consegue una conclusione ovvia: la continuazione può esistere solo fra reati dolosi, posto che la mancanza di volontà dell’evento – che caratterizza tutti i reati colposi – è logicamente incompatibile con la presenza di un unico disegno criminoso, quale che sia l’ampiezza che si voglia riconoscere a tale nozione.

D’altra parte, rileva ancora la difesa, l’inapplicabilità dell’istituto della continuazione ai reati colposi è stata più volte affermata in giurisprudenza, tanto da potersi dire che sul punto si è formato – come in tema di cooperazione colposa - un indirizzo assolutamente univoco. E nel senso dell’incompatibilità argomenta pure la dottrina maggioritaria.

Richiamare oggi i finalisti tedeschi sarebbe pertanto un’operazione totalmente anacronistica, e d’altra parte neppure avrebbe individuato il P.M. gli specifici disegni criminosi che avrebbero animato le condotte degli imputati. 

Quanto all’ipotizzata permanenza delle contravvenzioni contestate nel secondo capo d’imputazione, sostiene la difesa che l’operazione è, ancora una volta, totalmente priva di fondamento giuridico. Premesso al riguardo che il secondo capo d’imputazione è incentrato sulla contestazione, con tempo di commissione “fino all’autunno del 1995”, dei delitti di avvelenamento, adulterazione e disastro, e che al suo interno vi trovano menzione anche numerosi riferimenti normativi che evocano fattispecie contravvenzionali, perlopiù in materia ambientale, anche se senza una specifica descrizione di condotte corrispondenti alle contravvenzioni richiamate, sostiene la difesa che con la modifica dell’imputazione il P.M. ha chiaramente fatto intendere, così come riconosciuto dal Tribunale con l’ordinanza del 23/1/2001, che i detti riferimenti e quelli nuovi di cui alla modifica, costituivano mera indicazione di profili di colpa specifica, e che l’aggiunta della contestazione della permanenza fino al dicembre 2000 era da riferire solo al disastro.

 

Dunque, per la difesa, il riferimento alla “permanenza in atto”, riferito alle contravvenzioni di cui al capo d’imputazione originario, costituisce nulla più che un maldestro e tardivo tentativo di sollecitare una pronuncia giudiziale su imputazioni mai ‘coltivate’ dal P.M. durante l’istruttoria dibattimentale ed in ogni caso riferite a reati abbondantemente prescritti. Ed una volta che si è verificato l’effetto estintivo, nessuna correzione in corsa dei temi d’accusa, nessuna improbabile ‘spiegazione’ di contestazioni irrimediabilmente pasticciate e ambigue può far rivivere realtà ormai irrilevanti per il mondo del diritto.

Che, del resto, il Pubblico Ministero non possa strumentalizzare l’istituto delle nuove contestazioni per far ‘risuscitare’ a  proprio piacimento reati ormai prescritti, è un principio che la giurisprudenza  ha avuto modo tempo addietro di riscontrare, ritenendo che l’accusa non ha questo potere: ritenere diversamente significherebbe infatti non tenere conto della “natura costitutiva della contestazione dell’accusa, quale espressione della volontà punitiva dello Stato” (Cass. 3.11.1987, Cass.pen. 89, 1233; Cass. 19.6.1981, ivi 83, 311).

 

In conclusione: tutti gli ipotetici reati suscettibili di rientrare nelle ipotesi contravvenzionali di cui al capo 2) originario, debbono ritenersi prescritti in quanto – alla stregua dello stesso capo d’imputazione – si sono esauriti, istantanei o permanenti che siano, prima dell’autunno del 1995.        

Nelle specifico delle fattispecie contravvenzionali, osserva la difesa che quanto a quella di discarica abusiva il riconoscimento del carattere permanente del reato di cui all’art. 25 d.p.r. 915 / 1982, scontato in dottrina e in giurisprudenza. Questo non può però bastare: la permanenza esiste finché perdurano realizzazione e gestione delle discariche, e nella specie il funzionamento delle discariche era terminato ben prima del periodo di gestione Enichem.

Né potrebbe essere condivisa l’interpretazione fornita dal P.M. in netto contrasto con l’insegnamento delle Sezioni Unite (sent. del 5/10/1994, ric. Zaccarelli) che ha precisato essere estraneo al reato “chi sia subentrato e si ritrovi l’area con i rifiuti ammassativi da quegli che in precedenza vi aveva gestito la discarica.

 

All’attuale detentore non è fatto alcun obbligo  di controagire e cioè di intervenire per la rimozione dei rifiuti dal terreno entrato nella sua disponibilità…”. E l’insegnamento delle Sezioni unite è stato seguito in termini pressoché letterali da successive pronunce (Cass. sez. III, 11.4.1997, Riv.pen. 98, 264, e, nella giurisprudenza di merito, Pret. Terni, 31.1.1995, F.it. 95, II, 347).

Quanto alla tutela delle acque, il Pubblico Ministero ha invocato una pretesa natura permanente della contravvenzione relativa ai limiti tabellari di cui all’art. 21 III co. l. 319 / 1976. Questo sulla base di una massima giurisprudenzale, ancora una volta isolata, che ha agganciato l’individuata natura permanente ad una singolare presunzione: che “il prelievo dei campioni evidenzia soltanto il protrarsi di una azione antigiuridica”, con la conseguenza che “è compito dell’imputato offrire la prova che la permanenza è cessata per avere gli compiuto atti idonei a tale scopo”  (Cass. 21.7.1988, citata a p. 1439 dei motivi d’appello).

In realtà come perentoriamente affermato dalla Corte regolatrice, il reato di cui all’art. 21 III co. l.Merli, che consiste nel superamento dei limiti di accettabilità prescritti, “non può essere ritenuto di natura permanente, a meno che non si provi in concreto che lo scarico extratabellare sia continuo, e cioè che l’alterazione della accettabilità ecologica del corpo recettore si protragga nel tempo senza soluzione di continuità per effetto della persistente condotta volontaria del titolare dello scarico” (così Cass. sez. III, 16.11.1993, Riv.pen. 94, 889). E nella specie l’accusa non avrebbe fornito detta prova.

Quanto all’asserita insussistenza della prescrizione dei reati contestati, contesta innanzitutto la difesa le argomentazioni in ordine al “disastro eventualmente progressivo”, osservando comunque che se il danno alle persone non è elemento costitutivo del disastro, lo spettro della prescrizione è destinato inesorabilmente  a materializzarsi; se invece ne fa parte, la prova della sua sussistenza del tutto impossibile.

 

Erronea sarebbe poi la tesi per cui l’inosservanza dolosa di cautele antinfortunistiche aggravata dal disastro sarebbe un reato autonomo. Sostiene la difesa trattarsi di delitto aggravato dall’evento: la  conseguenza non può che essere la consumazione del reato al momento della condotta, attiva od omissiva, descritta nel primo comma dell’art. 437, ed il decorrere della prescrizione da quel momento (nel senso che il verificarsi della circostanza non segna mai il momento consumativo del reato).

Quanto infine alla ritenuta mancata prescrizione degli omicidi e delle lesioni colposi, rinvia la difesa a quanto già sostenuto sia relativamente alla singolarità della concezione del capo d’imputazione, sia all’inconsistenza della tesi per cui sarebbe configurabile la continuazione fra reati colposi ed anche fra reati dolosi e reati colposi, siano questi caratterizzati da colpa incosciente o anche cosciente. 

In conclusione si sostiene che i motivi d’appello redatti dal Pubblico Ministero e dai difensori delle parti civili sono totalmente infondati, una ingenua richiesta al giudice di scardinare i termini più elementari del rapporto fra aspirazioni di politica criminale e regole del diritto penale il cui accoglimento potrebbe passare solo attraverso il sovvertimento dei principi basilari del diritto penale liberale.

 

Con nuovi motivi depositati il 31/1272003, la parte civile Medicina Democratica ripropone censure alla sentenza di primo grado in merito al punto relativo alla responsabilità personale degli imputati che si assume esclusa con motivazione inesistente, omettendo il tribunale di incontrare la responsabilità degli imputati con riferimento agli uffici ricoperti nei gruppi societari di appartenenza, formati dalla società di controllo (holding) e dalle società controllate (società operative). Si sostiene al riguardo che anche in assenza di una relazione obbligatoria tra amministratori della capogruppo e amministratori della società controllata si pone la questione di sanzionare l’abuso della direzione unitaria facendo ricorso all’istituto della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 CC; responsabilità che, si sostiene, potrebbe nel nostro caso essere assimilata a quella di cui all’art. 2395 CC degli amministratori nei confronti dei terzi direttamente danneggiati dagli amministratori stessi.

 

Propone poi ancora detto appellante doglianze in merito alla conclusione del Tribunale che, escludendo il patto di segretezza tra le industrie chimiche, sostiene che dalla stessa documentazione prodotta dal P.M. risulterebbe che il rischio oncogeno era ignorato in tutte le industrie di produzione sia statunitensi che europee. Secondo il predetto appellante tale conclusione sarebbe invece contraddetta dai documenti in atti, e, a supporto allega documenti aventi ad oggetto la ricostruzione dei fatti operata da studiosi americani.

Infine, ancora si dilunga il predetto appellante sul tema della causalità generale richiamando i contributi sul tema del proprio consulente tecnico, prof. Giorgio Forti e sostenendo totale incomprensione dell’argomento da parte della difesa (specificamentre dell’avv. Stella).

 

Nuovi motivi aggiunti vengono altresì presentati dal P.M. con atti depositati il 3 ed il 5 gennaio 2004 con i quali si richiede rinnovazione del dibattimento per l’acquisizione di studi scientifici e documenti (elencati negli atti stessi), pubblicati successivamente al novembre 2001 ed all’ottobre 2002, che si riferiscono ai dati ed alle conoscenze scientifiche sul CVM, che sarebbero rilevanti nell’ambito della presente vicenda giudiziaria.

In merito a tali motivi aggiunti e richieste di rinnovazione dibattimentale, controdeduce ancora, con specifiche memorie depositate il 17/1/2004, la difesa degli imputati Smai, Pisani e Patron. In proposito, premessa l’eccezionalità della rinnovazione del dibattimento in appello che sarebbe ancorata alla decisività anche qualora si indichino prove sopravvenute alla sentenza di primo grado, si sostiene che un tale requisito difetterebbe nella specie laddove i nuovi elementi forniti dal P.M, riguardano solo alcuni punti specifici e circoscritti, fra i tanti che la sentenza del Tribunale ha esaminato: le basi probatorie della decisione, rappresentate dalla miriade di prove testimoniali e documentali, e da confronti a tutto campo fra i consulenti dell’accusa e della difesa, non sono messe rimesse in discussione, e sono solo vagamente sfiorate in alcuni punti.

 

Non potrebbero dunque i selezionati documenti e studi recenti su presunti effetti del CVM, che non riguardano le condizioni di lavoro nei reparti CV e gli eventi specifici di cui all’imputazione, essere considerati indispensabili ai fini della decisione, cosa sulla quale neppure si è dilungato il P.M. nell’avanzare la richiesta, neppure illustrando il contenuto dei documenti elencati. Ma se già inaccoglibili sotto il predetto profilo sostanziale, le nuove richieste istruttorie del P.M. sarebbero altresì inammissibili in rito in quanto carenti della necessaria illustrazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che le dovrebbero, appunto a pena di inammissibilità dei motivi, e quindi anche di quelli aggiunti, supportare, rilevandosi altresì la tardività dei nuovi motivi depositati il 5 gennaio 2004, senza il rispetto del termine libero di 15 giorni prima della data del giudizio di appello che varrebbe anche per le prove sopravvenute. Nel merito comunque detta difesa esamina e contesta le conclusioni cui il P.M. vorrebbe pervenire sulla scorta dei nuovi documenti. Infine rimarca come nessun valore potrebbero avere, anche in tal caso per difetto di decisività, i documenti allegati ai nuovi motivi dalla parte civile Medicina democratica che neppure ha formulato richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, onde gli stessi vanno senz’altro esclusi.

 

Aperto il giudizio di appello, si procedeva preliminarmente a correzione dell’errore materiale relativo alla rubrica della sentenza di primo grado. Venivano quindi decise da parte della Corte, come da relative ordinanze in atti cui si rimanda, la preliminare eccezione avanzata dalla difesa del responsabile civile Edison S.p.A. con adesione da parte delle altre difese degli imputati, d’incostituzionalità del potere di appello di P.M. e Parte Civile a seguito di sentenza assolutoria, questione dichiarata manifestamente infondata, nonché, dopo la relazione e mutazione del collegio conseguente ad, accolta, ricusazione di uno dei suoi componenti, le richieste, preliminarmente discusse, di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con relative questioni in fatto e in diritto, richieste integralmente rigettate per i motivi esposti analiticamente nella relativa ordinanza che qui deve intendersi integralmente riportata e ribadita.

Si procedeva dunque a finale discussione nel corso della quale gli appellanti concludevano per l’accoglimento dei motivi d’appello, mentre i difensori degli imputati e responsabili civili insistevano per la conferma dell’impugnata sentenza.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va innanzitutto dichiarata l’estinzione dei reati ascritti nei confronti degli imputati Cefis Eugenio e Sebastiani Angelo a sensi degli artt. 531 cpp e 150 cp, estinzione che esime da valutazione di merito. Invero, i predetti, come risulta dai relativi certificati in atti, sono deceduti nelle more del giudizio di appello, il Sebastiani in data 27/8/2003, ed il Cefis in data 25/5/2004.

Quanto al merito delle impugnazioni, osserva preliminarmente la Corte che circa la doglianza del P.M.  di  NON CORRETTA INTESTAZIONE DELLA SENTENZA per avere il Tribunale omesso di riportare l'integrale capo d'accusa, e in particolare la corretta formulazione dei capi d’imputazione come modificati con le contestazioni formulate ex art. 517 c.p.p. nel corso delle udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000, la stessa, atteso che la sentenza, sia nel dispositivo che nella motivazione era rispondente alle finali contestazioni, evidenzia sostanzialmente un mero errore materiale della rubrica della sentenza di primo grado, che anziché riportare le imputazioni come appunto modificate ex art. 517 cp dal P.M., riportava le originarie imputazioni di cui al decreto che disponeva il giudizio. Alla relativa correzione questa Corte, giudice competente ex art. 130 cpp, ha provveduto preliminarmente in udienza nel contraddittorio tra le parti con ordinanza dettata a verbale.

Nella disamina dei motivi d’impugnazione è poi ancora utile affrontare separatamente le questioni relative ai reati di cui al primo capo d’imputazione e quelle relative al secondo capo.

 

I° CAPO D’IMPUTAZIONE

Si tratterà delle problematiche dirimenti rispetto agli specifici motivi di appello, evidenziandosi fin d’ora che la sentenza del Tribunale deve intendersi qui non solo conosciuta, così come tutti gli atti di causa, ma altresì integralmente trascritta, sì che possa ritenersi fatta propria da questa Corte nelle parti specificamente non oggetto di diversa ricostruzione e/o valutazione. Con l’obiettivo di consentire, così come nello scopo della motivazione della sentenza secondo la previsione normativa –artt. 190, 1° co., 546, lett. e, cpp-, la comprensione da parte dei soggetti del processo delle ragioni in fatto e in diritto che logicamente portano alla decisione enunciata nel dispositivo. Lungi ogni velleità di rifare riassunti di atti e prove ovvero non richieste ennesime ricostruzioni dottrinarie e giurisprudenziali di istituti giuridici, laddove invece sarà sufficiente enunciare, sempre funzionalmente al controllo del processo logico decisionale, il fatto ritenuto con riferimento alla fonte probatoria e la tesi in diritto cui ci si ispira, che può coincidere con quella sostenuta da una delle parti, onde la regola della concisione ben può imporre richiamo piuttosto che prolissi tentativi di ridire diversamente le stesse cose.

 

La disamina dei motivi di gravame passerà attraverso la valutazione della sussistenza o meno, nei suoi elementi oggettivi e psicologici, dei reati contestati e degli istituti invocati dagli appellanti, che ovviamente assorbirà ogni specifica doglianza, muovendo dalla prioritaria questione relativa alla causalità in ordine ai reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose che, strettamente connessa alle caratteristiche di pericolosità e concreta nocività del CVM e del PVC, è funzionale poi alla valutazione anche dei restanti reati contestati nel primo ma anche nel secondo capo d’imputazione.

 

I REATI DI CUI AGLI ARTT. 589 – 590 C.P. : problematica della CAUSALITA’.

Circa i reati di cui agli ARTT. 589 - 590 C.P. ed alla problematica della causalità, si sono già ricordati, ma giova qui richiamarli per il necessario confronto con le tesi sostenute dagli appellanti, controdedotte a loro volta dalle ampie argomentazioni della difesa degli imputati, i principi di diritto ai quali il Tribunale si ispira, assumendo di uniformarsi ai più recenti e più rigorosi orientamenti della giurisprudenza della S.C. così enucleandoli dopo excursus anche relativo alla giurisprudenza nordamericana:le esigenze di certezza e garanzia, il rispetto dei principi di legalità e personalità della responsabilità penale, di rango costituzionale, devono essere soddisfatti mediante il mantenimento di un rigoroso modello causale ove il rapporto di condizionamento sia spiegato o da leggi universali, secondo il modello nomologico-deduttivo, o da leggi di copertura scientifico-statistiche, secondo il modello statistico-induttivo. Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché qualificato “alto” o “elevato”.

 

Il ricorso a tali criteri rischia infatti di introdurre nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese  di giustizia;dalle scienze e dai limiti di conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:

1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza scientifica; 

2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una "corroborazione provvisoria "; 

3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto ; 

4) l’incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento;

5) la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento della causalità non può essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia aumentato il rischio del verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una illegittima confusione tra il piano soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre l’attribuibilità dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;

7)     gli studi epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni generali e proponendosi scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non sono assolutamente in grado di spiegare la causalità individuale e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.

 

Già in merito a questi principi si è visto come specifiche censure all’interpretazione del nesso causale fornita dal Tribunale siano mosse dagli appellanti ed in particolare dal P.M., che, a seguito della sentenza n. 30328 del 10.7/11.9.2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sopravvenuta nelle more, sostiene come proprio tale citata pronuncia permetterebbe di evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza impugnata.

 

Contesta conclusivamente il P.M. il modello assunto dal Tribunale secondo il quale di fronte all’incertezza scientifica non resta che ricorrere alla regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata oltre il ragionevole dubbio, conclusioni che sarebbero erronee e che non possono essere accettate prima di tutto e proprio alla luce del criterio offerto dalle SSUU della Corte di Cassazione che non assumono affatto il modello causale invocato dal Tribunale di Venezia, potendosi invece, secondo il P.M., così schematizzare il ragionamento seguito dalla Suprema Corte:

5)                 il processo penale, passaggio cruciale e obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, è sorretto da ragionamenti probatori di tipo inferenziale induttivo che partono dal fatto storico, rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, essendo dipendenti da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse;

6)                 lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche non può, d’altra parte, spiegare in via deduttiva la causalità, perché è impossibile per il giudice conoscere tutti gli antecedenti causali e tutte le leggi pertinenti;

7)                 il giudice ricorre, invece, nella premessa minore del ragionamento ad una serie di “assunzioni tacite”, presupponendo come presenti determinate “condizioni iniziali” e “di contorno” non conosciute o solo congetturate sulla base delle quali mantiene validità l’impiego della legge stessa;

8)                 non potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il suo effetto, né potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale;

9)                 ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica “certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari;

10)             tutto ciò significa che il giudice è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza processuale” conducenti ad un giudizio di responsabilità enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica” o “probabilità prossima alla – confinante con la – certezza”.

 

A questo punto si può già rilevare, secondo il P.M., il netto distacco tra la tesi sostenuta dal Tribunale (viziata da gravi errori di interpretazione) e i principi espressi dalle Sezioni Unite del Giudice di legittimità che afferma come “non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”.

Qui, si sostiene, il punto cruciale enucleato dalla Suprema Corte: “E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento.

 

Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale, pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’”attendibilità” in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile.

Ecco allora, secondo il P.M. appellante, il distacco del Tribunale di Venezia dal principio enunciato dalle Sezioni Unite. Si osserva infatti che la sentenza impugnata sostiene che l’incertezza scientifica va provata oltre il ragionevole dubbio, ma così facendo si ferma ad un passaggio precedente, che priva il suo ragionamento proprio di quella natura rigorosa che voleva attribuirgli, e non è in grado di arrivare alla conclusione decisiva che le Sezioni Unite raccomandano: quella per cui è l’incertezza del riscontro probatorio che va provata oltre il ragionevole dubbio.

Il Tribunale si sarebbe fermato al riscontro scientifico e non avrebbe valutato il riscontro probatorio dell’istruttoria dibattimentale, mancando comunque di verificare i dati delle scienze con i riscontri probatori del processo.

 

Sostiene il P.M. che mentre per il Tribunale il giudizio finale di probabilità causale in presenza di una legge statistica con coefficiente medio-basso deve essere risolto secondo la regola dell’oltre il ragionevole dubbio, per le Sezioni Unite una legge statistica con coefficiente medio-basso può costituire legge di copertura se corroborata dal positivo riscontro probatorio.

Nel caso di specie, lamenta l’appellante, il Tribunale ha trascurato completamente tutte le evidenze processuali, ha persino svolto un’operazione inaccettabile che è stata quella di valutare separatamente i contributi offerti dalle discipline e dalle scienze che hanno avuto ingresso in dibattimento. Partendo dall’epidemiologia ha operato una scarto progressivo di ciascuna scienza, considerandola isolatamente, ed evitando di fatto quel raffronto tra discipline, che pure esso stesso aveva invocato per il conseguimento di un modello ideale di causalità. Raffronto che avrebbe, invece, consentito il raggiungimento di un primo fondamentale risultato nella scala dei criteri da utilizzare per la spiegazione causale dell’evento: il convincimento che attraverso l’ausilio di quelle scienze, tra loro raffrontate e verificate nei loro concreti risultati, il dibattimento ha permesso di raggiungere un livello di rilevanza causale prossimo alla certezza per quanto riguarda molti degli aspetti considerati.
Si sostiene dunque conclusivamente in diritto sul punto che la tesi sostenuta dall’accusa in relazione alla questione della causalità combacia e coincide proprio con i criteri enunciati dalle Sezioni Unite, dei quali si chiede quindi una corretta e limpida applicazione, mentre, scegliendo il metodo inaccettabile della riduzione dell’accertamento in termini causali alla sola considerazione che vi è incertezza scientifica, il Tribunale ha abdicato al proprio ruolo di “Giudice”, avendo totalmente tralasciato e ignorato l’aspetto centrale del metodo di accertamento, quello relativo allo svolgimento del processo dibattimentale, ignorando che l’accusa aveva corroborato le lamentate (dalla difesa) carenze scientifiche con gli elementi e i riscontri probatori che sono stati forniti nel corso del dibattimento.

 

Controdeducendo su tutti i predetti temi, i difensori degli imputati sostengono peraltro, così come pure sopra ricordato, l’assenza del nesso di condizionamento, la cui prova mai sarebbe stata fornita dal P.M. che ancora nei motivi d’appello non coglierebbe il punto focale del giudizio; da ripudiare essendo la tesi dell’accusa che, ignorando ostentatamente le prescrizioni in diritto, si attesterebbe su un concetto di possibilità o probabilità della condizione necessaria estraneo al principio imperante secondo il quale “in tanto sussiste il rapporto causale in quanto la condotta (azione od omissione) sia condizione necessaria dell’evento lesivo”, e non condizione idonea o condizione dell’aumento del rischio.

Contesta nello specifico la difesa degli imputati l’asserita coincidenza delle tesi di accusa sul nesso causale con i criteri enunciati dalle Sezioni Unite della Corte Suprema, osservando che l’approdo al concettodi condizione necessaria, come condizione dell’aumento del rischio o delle probabilità  del verificarsi dell’evento, o della mancata diminuzione del rischio e delle probabilità sarebbe in realtà in insanabile contrasto con gli enunciati delle Sezioni Unite relativi alla condizione necessaria dell’evento lesivo e al ripudio dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio, criterio estraneo al nostro ordinamento che rifiuta altresì clausole indeterminate e manipolabili, quali quelle relative alle serie o elevate probabilità dell’esistenza del nesso di condizionamento.

Sostiene ancora la difesa che quanto al “passaggio dal piano deterministico a quello probabilistico”, improprio deve appunto considerarsi, come riconosciuto dal Tribunale che avrebbe sul punto anticipato l’insegnamento delle SS.UU., l’uso della probabilità logica o credibilità razionale con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali quali la salute e la vita umana, così erodendo però il paradigma causale che deve fondarsi su parametri logico-scientifici oggettivi, e non su formule indeterminate e indeterminabili, e quindi manipolabili, quali quelle relative al grado di probabilità, ancorché definito alto.

 

E parimenti anticipatoria rispetto alla sentenza delle Sezioni Unite è l’affermazione per la quale “la responsabilità deve essere provata secondo la regola di giudizio dell’oltre il ragionevole dubbio, regola che ormai fa parte del nostro ordinamento” (sentenza, p. 148): le Sezioni Unite diranno che “il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che, in base all’evidenza disponibile, lo avvalorino nel caso concreto ... non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa”.

Errata  sarebbe dunque l’affermazione del P.M., secondo la quale le Sezioni Unite non assumerebbero affatto il “modello causale” invocato dal Tribunale di Venezia (p. 792), giacché, per i giudici di Venezia, sarebbero rilevanti, per la spiegazione dell’evento, anche leggi scientifiche di forma statistica, purché la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza mentre, per le Sezioni Unite, sarebbero sufficienti coefficienti medio bassi di probabilità frequentista.

 

In realtà, sostiene la difesa, il Tribunale avrebbe cercato proprio di individuare un modello causale al tempo stesso compatibile con il nostro ordinamento e idoneo a  includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza, ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca l' approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e l'analisi di tutti i fattori presenti e interagenti (Hempel): in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero  in grado di spiegare che un evento si è verificato a  patto che la frequenza consenta di inferire l'explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione logico-probabilistica” – il Tribunale di Venezia non richiama più il criterio del coefficiente percentualistico vicinissimo a 100, ma si attesta, con decisione, sull’idea di “regola di natura probabilistica” tale da consentire una generalizzazione sul nesso di condizionamento ricavabile dalla epidemiologia, dalla biologia molecolare, dalla tossicologia e dalla medicina legale.

 

Il Tribunale avrebbe d’altra parte tenuto conto dell’evidenza, della certezza processuale per operare le verifiche “attente e puntuali” richieste dalle Sezioni Unite. Anzi la sentenza del Tribunale di Venezia risulta addirittura molto più chiara, corretta e comprensibile della sentenza delle Sezioni Unite. Infatti anche il Tribunale di Venezia non considera inutilizzabili frequenze molto basse nella successione di eventi singoli, come sono quelle relative alla successione tra alte esposizioni a CVM e insorgenza dei singoli angiosarcomi, ma procede necessariamente all’individuazione delle verifiche attente e puntuali: le Sezioni Unite non precisano quali siano queste verifiche, pur ritenendole indispensabili; il Tribunale di Venezia lo precisa, collegando la verifica attenta e puntuale al calcolo della forte associazione tra rischio ed esposizione.

 

 E facendo buon governo della regola, invece fraintesa dal P.M. dell’oltre il ragionevole dubbio: regola probatoria e di giudizio, propria di tutti i sistemi processuali dei Paesi democratici in forza della quale se su una prova, sul riscontro di un fatto, su una conoscenza scientifica (indispensabile per la sentenza di condanna) sussiste un dubbio ragionevole, il giudice non ha alternative diverse dal proscioglimento. E sarebbe altresì sfuggita al P.M. l’importanza della precisazione del Tribunale in ordine alla necessità di verificare, sotto tale ottica, l’affidabilità di una ipotesi scientifica (ad esempio, l’ipotesi formulata da IARC 1979 – 1987 sul legame causale tra CVM e i tre organi bersaglio diversi dal fegato).

E’ un problema non da poco, giacché, se il sapere scientifico di oggi può diventare la favola di domani, il rischio di condannare degli innocenti è sempre incombente quando, tra le prove di un processo penale, debba essere annoverato anche il sapere scientifico.

Premesso quanto sopra in diritto, la difesa sostiene che proprio in ordine alla condizione necessaria l’accusa abbia proposto un “grande buco nero”, mai provando il nesso di condizionamento tra malattie e tumori ed esposizione al cvm, atteso che le stesse diagnosi individuali degli esperti medico-legali si sono limitate alla idoneità lesiva, ancorate quindi alla causalità generale.

Ed ancora nei motivi non esisterebbe neppure l’ombra di un accenno al nesso di condizionamento. Fallito infatti anche il tentativo di ricostruzione della catena causale per l’incertezza scientifica sul punto emersa dall’esame degli stessi consulenti dell’accusa e soprattutto del dott. Simonato, il P.M.  nei motivi butta lì, scritta in grassetto, l’affermazione delle Sezioni Unite, secondo la quale “non potendo conoscere tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il suo effetto, nè potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento, soltanto con una quantità di precisazioni” (p. 793).

 

Per la difesa il P.M. dimostra però di non aver compreso detta affermazione avallando un’interpretazione palesemente erronea del pensiero delle Sezioni Unite. La loro sentenza, infatti, fa una osservazione ovvia e banale: non si può pretendere che il giudice conosca tutte le fasi intermedie e tutta la serie di eventi continui nel tempo e contigui nello spazio che collegano l’evento iniziale con l’evento finale.

Dicendo “tutte”, però, la Corte Suprema vuole dire che è sempre possibile, invece, l’individuazione di alcune fasi intermedie, di alcuni anelli causali. E in effetti sarebbe sempre possibile una spiegazione parziale del “meccanismo del fenomeno”, parziale ma sufficiente per l’attribuzione causale dell’evento lesivo.

Ma nella specie nessun esperto dell’accusa sarebbe riuscito a sostenere di aver individuato “l’anello causale intermedio” che, attraverso una spiegazione parziale, consente l’attribuzione della responsabilità. E così, difettando la prova che l’esposizione a cvm sia condizione necessaria delle patologie non riconosciute dal Tribunale, è un falso problema quella della concausa ancora sostenuto nei motivi di appello dal P.M. cui, si sostiene, sfugge completamente una nozione basilare come è quella che concerne la relazione tra la nozione di condizione necessaria e quella di causa sufficiente. Né potrebbe sostenersi che il ruolo causale del cvm sarebbe fuori discussione, avendo in ogni caso “accelerato i processi patologici sfociati nelle malattie cancerose del fegato e del polmone”. Sarebbe questa un’affermazione del tutto sfornita di prova, ennesima dichiarazione non veritiera del P.M., così come sarebbero sfornite di elementi scientifici di supporto i tentativi del P.M. di ricondurre l’asbesto e il CVM ad un unico meccanismo di azione, e di contestare quanto recepito dal Tribunale in forza dell’evidenza processuale, e cioè che il CVM fosse un cancerogeno iniziante con idoneità lesiva solo ad elevate esposizioni.

 

Ora, queste le posizioni delle parti rispetto ai principi espressi dal Tribunale in ordine alla problematica in oggetto, osserva la Corte come il Tribunale in ordine alla causalità ha seguito pedissequamente la costruzione dogmatica, ma altresì le linee interpretative ed i percorsi di studio dipanatisi anche sull’esperienza e principi ricavabili dalla giurisprudenza, penale e civile, nordamericana, proposte dalla difesa Pisani (non vuole ovviamente essere questa una censura sul metodo motivazionale, atteso che se convinto della bontà di un certo argomentare il giudice può ben farlo proprio e come tale riproporlo, salvo la continenza in relazione alla funzione della motivazione della sentenza che dovrebbe sempre guidare senza indugiare nei percorsi che le tesi dottrinarie riproposte hanno, queste sì legittimamente per la funzione didattica di ampio respiro anche comparativistico, seguito nelle relative opere). Ne dà immediata evidenza la stessa massimazione operata relativamente all’estratto della sentenza di primo grado pubblicata sulla rivista Cassazione Penale (anno 2003, pagg. 267 e segg.), dalla quale si ricavano, praticamente alla lettera, proprio i principi espressi in materia nelle opere dottrinarie fornite, insieme alle memorie, dalla suddetta difesa.

 

 Ed ecco allora che in tale costruzione si comincia con il distinguere la causalità generale dalla causalità individuale. Ora, osserva la Corte, non è che si vuole dare un particolare peso a tale distinzione quasi a volerla ritenere concettualmente non corretta. Ben se ne comprende la ratio di fondo che è certo condivisibile; ma tant’è, nel nostro ordinamento, come ha puntualizzato nella sua arringa il Maestro Marcello Gallo, la causalità, ai fini penali, è una: quella in forza della quale si può dire, ex artt. 40 e 41 c.p., che una determinata azione od omissione, ha determinato, è conditio sine qua non dell’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato; il nesso di condizionamento che collega il comportamento, contestato all’imputato, all’evento integrante il reato.

Si vuole subito ovviamente rendere giustizia anche alla difesa Pisani che ha insistito proprio sulla necessità di provare detto nesso di condizionamento, ma tanto si è voluto precisare perché la Corte parlerà meramente di causalità, di nesso di condizionamento, ben essendo coscienti che punto di partenza, per la verifica della sussistenza di tale elemento, è la verifica dell’idoneità (la causalità generale della difesa Pisani e del Tribunale) del CVM ad arrecare le conseguenze lesive che integrano i reati contestati, idoneità che, ancora come giustamente ad oltranza ribadito dalla difesa Pisani, non è poi esaustiva per attribuire le conseguenze di tal genere, che nella specie interesserebbero le parti offese individuate in imputazione, alle azioni od omissioni degli imputati, se non si prova che proprio dette azioni ed omissioni abbiano determinato l’azione dell’effetto nocivo, nella specie, del CVM, e che di fatto proprio quest’effetto nocivo sia specificamente causa degli eventi dannosi considerati, che per avventura, nella loro specificità e peculiarità, potrebbero essere imputabili ad un diverso fattore causale neppure collegato al CVM. Questi, sinteticamente, i concetti che si ritengono rilevanti e di applicazione nel caso di specie; e questo dunque il punto di approdo della Corte che nulla di originale elabora, onde non occorre certo in questa sede dilungarsi nelle teorie del diritto, tesi ed approcci dottrinari e giurisprudenziali che lo giustificano.

 

Il problema è invece l’accertamento a livello probatorio di detto nesso di condizionamento. Ricordato (ovviamente con una certa approssimazione, giusto per quanto è funzionale allo sviluppo del discorso, ma ben avvertiti che i concetti che seguono hanno ben altri approfondimenti e distinguo) che nella causalità commissiva all’accertamento si perviene con la formulazione di un solo giudizio ipotetico, chiedendosi se senza l’azione l’evento si sarebbe verificato ugualmente, mentre nella causalità puramente omissiva (che è una costruzione giuridica nella quale interferisce altresì l’obbligo di garanzia per cui, per espressa previsione di legge –art. 40, 2° co., c.p.-, si risponde dell’evento solo se si aveva l’obbligo giuridico di impedirlo, con necessità quindi di selezionare ed individuare i titolari della posizione di garanzia con criteri che siano rispettosi dei principi di legalità in materia penale)  si formula un giudizio doppiamente ipotetico, perché ci si domanda se, senza l’omissione, l’evento si sarebbe verificato ugualmente, e poi se il compimento dell’atto dovuto avrebbe scongiurato l’evento lesivo (secondo un ragionamento detto “controfattuale”, aggiungendo cioè mentalmente l’azione comandata ed in realtà non eseguita), soccorrono poi al riguardo, ai fini appunto del concreto accertamento, altri principi, peraltro già ben enucleati dalla giurisprudenza della Suprema Corte che si è interessata della problematica anche a sezioni unite.

Anche al riguardo, ampiamente sviluppata la tematica sia dal Tribunale che dalle parti che hanno cercato, in relazione all’interesse coltivato, di ampliare specifici concetti anche al di là del significato che avevano nel contesto del ragionamento della Suprema Corte, ovvero  di smorzare sul nascere quelli che si ritengono tentativi di fallacie ed anarchie metodologiche coltivate da una serie di sentenze della IV sezione della Corte di Cassazione successive alla pronuncia delle Sezioni Unite, ritiene questa Corte territoriale utile un mero richiamo dei principi espressi dalla variamente citata sentenza Franzese (n. 30328 del 10/7/2002 depositata il 11/9/2002) ai quali si ritiene di rifarsi pienamente.

 

 Diventa dunque poco utile, essendo, si ribadisce, lo scopo della motivazione della sentenza quello di far conoscere il processo logico motivazionale del giudice, discutere sia del percorso dottrinario e giurisprudenziale che ha portato a tale arresto, sia del fatto se sia vero che le sentenze Loi, Orlando, Ubbiali e poi anche Macola, tutte successive alla pronuncia delle Sezioni Unite siano da considerare eretiche nel riproporre un modello, asseritamente, da queste ripudiato (non lo si ritiene, emergendo in realtà un mero approfondimento di concetti già espressi dalle Sezioni Unite, ma tant’è non interessa, una volta che si dice che questa Corte si richiama non alle assunte peculiarità delle sentenze Loi, Orlando, Ubbiali o Macola ma ai puri principi, per tutti, accusa e difesa, sacrosanti nella loro ortodossia rispetto al modello di causalità costruito dal legislatore, letteralmente espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza Franzese).

 

Si vuole soltanto ricordare che la pronuncia delle Sezioni Unite ha intanto avuto come primo rilevante risultato quello di ridare dignità ed autonomia, nell’ambito dell’accertamento del reato quando questo dipende dalla realizzazione di un evento, all’individuazione del nesso eziologico tra le accertate condotte e l’evento stesso, argomento molte volte trattato marginalmente dopo lunga disamina delle condotte tenute ed esposizione di quelle che si ritenevano dovute, e quindi del profilo di colpa (quando invece tale aspetto, relativo all’individuazione dei profili di colpa degli imputati, dovrebbe rilevare solo nel momento in cui si riterrà l’evento causalmente collegato alle condotte degli imputati stessi).

 

 Modo di procedere, non a caso ben stigmatizzato dalle Sezioni Unite penali della Suprema Corte, che per “la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente normativo della causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico”, con conseguente erosione nei reati omissivi impropri, del paradigma causale stesso, giustificata da difficoltà probatorie in uno con gli interessi primari in gioco, che si arresta alla mera verifica dell’aumento del rischio; ma con erosione altresì delle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle ipotesi di reato e della personalità della responsabilità penale. Indirizzo giurisprudenziale peraltro superato proprio dal filone della ormai neppure più recente giurisprudenza della IV sezione della Suprema Corte avallata dalla citata pronuncia a sezioni unite che, in relazione appunto all’accertamento del nesso causale individua i seguenti principi di diritto validi anche nel caso che ci occupa:

a)il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica –universale o statistica-, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta a doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato;

b)non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’;

c)l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

 

Ecco allora che l’insegnamento delle Sezioni Unite appare chiaro e non può essere “tirato per la giacchetta” con il mero richiamo di passaggi che vanno letti nell’insieme, con la fortuna che l’interpretazione viene letteralmente fornita dalle Sezioni Unite stesse con la formulazione dei detti principi che sintetizzano coordinandoli i singoli passaggi argomentativi.

 

E se certo ne emerge che la Suprema Corte non solo ha confermato la necessità che la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc provenga da attendibile  “giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica –universale o statistica-“ che consenta di affermare, secondo un modello causale  idoneo a includere le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza, che l’antecedente può essere considerato condizione necessaria dell’evento se rientra tra quelle condizioni che le indicate leggi di “copertura” (tra le quali a tutto diritto può rientrare anche la semplice regola di esperienza che non è il senso comune inteso come generale credenza pur priva di razionale fondamento ma, come ben coglie la difesa Pisani, espressione abbreviata e familiare di leggi scientifiche) consentono di ritenere aver provocato l’evento, ma,  non ritenendo comunque “ sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”, ha altresì riconosciuto l’utilizzabilità di un modello statistico-induttivo espressamente osservando che seppure “coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta”, peraltro “nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento” laddove al contrario “livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale, pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’”attendibilità” in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile”.

 

Tutto ciò è enunciato e ricordato da tutte le parti, ma sembra con qualche fraintendimento da parte degli appellanti laddove sembra si confonda il concetto del ricorso a leggi statistiche, anche esprimenti coefficienti medio-bassi di probabilità frequentista, con la mancanza di certezza assoluta scientifica, onde non ci si potrebbe fermare all’incertezza scientifica  che a tal punto poco importerebbe in relazione all’accertamento causale che potrebbe ricavarsi dagli elementi e riscontri probatori forniti nel corso del dibattimento e che avrebbero corroborato le lamentate carenze scientifiche. In realtà, riferendosi a legge statistica pur esprimente coefficiente medio-basso di probabilità c.d. frequentista, la Suprema Corte non esclude la necessità che la spiegazione causale dell’evento verificatosi trovi copertura in legge scientifica, solo precisando che quando si tratta di legge meramente statistica e non universale, non è sufficiente il mero richiamo al coefficiente probabilistico, basso, medio o alto, ma occorre che le evidenze probatorie corroborino la conclusione che l’evento di specie sia proprio conseguenza di quell’antecedente che, secondo una legge accettata generalmente dalla comunità scientifica, in una certa percentuale statisticamente può essere causa proprio di un simile evento. L’incertezza scientifica è altra cosa. Significa mancanza di accettazione da parte della generalità della comunità scientifica della validazione di una ipotesi; significa mancanza di legge di copertura sia pure statistica laddove la spiegazione di un nesso tra un dato antecedente ed un evento possa trovare spiegazione solo nella scienza non essendo diversamente percepibile l’immediato o mediato collegamento tra l’un fatto e l’altro.

 

Qui dunque si pone l’aggancio dell’ultimo principio affermato dalle Sezioni Unite, quello secondo il quale “l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva… rispetto…all’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio”.
Ragionevole dubbio che deve portare ad esito assolutorio pur quando una pur esistente legge di copertura statistica sussista ma non sia corroborata dall’evidenza probatoria in ordine alla reale efficacia condizionante dell’antecedente considerato, rispetto al concreto evento di specie che potrebbe trovare diversa spiegazione causale. Vieppiù quando difetti, anche solo perché non generalmente accettata dalla comunità scientifica, una legge di copertura, non potendo sopperire alcuna evidenza probatoria alla mancanza di spiegazione  scientifica dell’evento quando si verte in tipi di evento che necessariamente la richiedano, a meno che ci si trovi di fronte ad una tale evidenza di valore anche scientifico che possa dare a quel punto certezza ad ipotesi scientifiche fino a quel punto incerte (ma la relativa validazione non potrebbe essere  opera del giudice, bensì sempre della comunità scientifica che dovrebbe recepire quell’accertamento processuale e proporlo poi magari per un premio Nobel: sono questi sofismi dei quali subito ci si scusa).

 

Conclusivamente in ordine al modello causale proposto dalle Sezioni Unite, si può citare un passo di un opera di Federico Stella, fornita in atti dal medesimo nella sua veste di difensore, che appare felice sintesi (onde si prende in prestito per non sforzarsi di diversamente dire e magari male la stessa cosa) di quanto sopra esposto:“la causalità non può essere amputata del suo elemento costitutivo, la condizione necessaria, e perciò va ripudiato, come estraneo al nostro ordinamento, il criterio del rischio (del suo aumento e della sua mancata diminuzione); il nesso di condizionamento va accertato ricorrendo al sapere scientifico e alle sue leggi, quando risulti pertinente al caso concreto; possono essere utilizzate anche nude statistiche con frequenze medio-basse, allorché vi sia il riscontro probatorio della sicura esclusione di altre cause; il complessivo assetto probatorio relativo alla causalità…deve risultare immune da ragionevoli dubbi.”

Tenendo quindi in considerazione i principi e modello causale di cui sopra, va poi operata la verifica della bontà o meno, in relazione alle doglianze degli appellanti, del giudizio espresso dal Tribunale in merito al nesso causale tra le contestate azioni od omissioni degli imputati e le conseguenze lesive che nella specie interesserebbero le parti offese individuate in imputazione e che integrano i reati contestati di omicidio colposo e lesione personale colposa, se cioè dette conseguenze lesive possano essere state determinate dagli effetti nocivi del CVM a loro volta consentiti o non impediti dalle azioni od omissioni degli imputati.

 

Tenendo quindi in considerazione i principi e modello causale di cui sopra, va poi operata la verifica della bontà o meno, in relazione alle doglianze degli appellanti, del giudizio espresso dal Tribunale in merito al nesso causale tra le contestate azioni od omissioni degli imputati e le conseguenze lesive che nella specie interesserebbero le parti offese individuate in imputazione e che integrano i reati contestati di omicidio colposo e lesione personale colposa, se cioè dette conseguenze lesive possano essere state determinate dagli effetti nocivi del CVM a loro volta consentiti o non impediti dalle azioni od omissioni degli imputati.

Si è già ricordato come il Tribunale, dopo avere premesso che nella specie proprio la causalità generale da esposizione a clorulo di vinile è stata utilizzata dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della sostanza, ma altresì per indicare gli indici di rischio relativo per ciascuna  neoplasia che si è ritenuta in qualche misura, forte o debole, associata all'esposizione, ritiene, però, che dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività statistica, ma ciò nonostante  sempre e comunque  assunta come ineludibile presupposto della causalità individuale  anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza esplicativa che  sono stati valutati come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sé sufficienti e necessari.

 

Si è pure già analiticamente sopra ricordato come il Tribunale supporti dette conclusioni con disamina approfondita di studi, valutazioni dei consulenti di tutte le parti processuali anche messe a confronto, testimonianze e documenti afferenti la specifica situazione del Petrolchimico di Porto Marghera e dei singoli lavoratori parti offese, disamina cui ci si può senz’altro rifare in quanto puntuale e rispondente alle risultanze processuali. Giova solo, ai fini della comprensibilità del discorso, richiamare solo sinteticamente detto percorso valutativo nei punti di arresto. Ha osservato in particolare il Tribunale, dopo disamina dello sviluppo e degli studi in materia e dei tempi in cui si sostiene essere stata acclarata la cancerogenicità del cloruro di vinile monomero (questione che rileverà ai fini della valutazione dell’elemento psicologico dei reati) che  punto di partenza per le imputazioni e di approdo per le conclusioni del PM sono le conclusioni di IARC 1987, che indicavano una associazione tra esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e carcinomi epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del sistema emolinfopoietico, melanomi.

 

Ma le stesse hanno subito rivisitazioni critiche e ampi aggiornamenti per la maggior parte incorporati nei due studi multicentrici americano ed europeo ( Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di recente (Ward 2000 e Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale. Sulla base di tali studi, considerando anche i risultati dello specifico studio sulla coorte di Porto Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non significatività dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema emolinfopoietico, del fegato diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per la cirrosi epatica e per le malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che gli stessi consulenti  epidemiologici dell’accusa (si cita l’ultima relazione presentata dai consulenti  Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque espresso dubbi e perplessità in ordine alla correlabilita' con le sostanze in considerazione quantomeno dei tumori del cervello, del sistema emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe aggiungere anche del tumore della laringe.

 

Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste patologie, sulla base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e delle più  perentorie conclusioni cui erano pervenuti gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico europeo e del successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento, può affermarsi che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a dire della idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene infatti, che l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più significativi (e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava ”non considerare l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”) individua una associazione forte tra esposizione a c v m e  angiosarcoma epatico e eccessi di rischio nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto riferimento IARC, non sono state confermate.

 

Ma il PM non ne avrebbe tratto le logiche e  conseguenti conclusioni, limitandosi ad eliminare solo tutti i tumori gastrici e del pancreas che erano stati associati alla esposizione a dicloroetano, ed altresì le broncopatie  e le broncopneumopatie (87), nonchè le pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto, quest'ultime indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi epidemiologici è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che supporterebbe l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999 concludeva per "inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le altre  patologie  (neoplastiche e non ) siano state ritenute o non sussistenti a seguito della esame della documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa ovvero non correlate all'esposizione.

 

Né, secondo il Tribunale, la debolezza delle evidenze epidemiologiche può essere supplita, come ha tentato di fare il P.M. facendo ricorso alla biologia molecolare, che pur puntualmente esaminata nei contributi di studi offerti dalle parti, si rtiene offrire allo stato risultati ancora incerti, contraddittori e lacunosi, né ancora potrebbe essere supplita sostenendo, come ha fatto l’accusa, la tesi dell’azione sinergica tra i fattori di rischio noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione che in tal modo assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti lesivi: non considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso statuto epistemologico della causa con la conseguenza che se non è dimostrato che un fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste di concausa. Sulla scorta delle critiche dei consulenti della difesa, metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse dinamiche del processo metabolico del cvm e dell'alcol, si ritiene invero che non sussistano dati scientifici su cui solidamente basare l'esistenza della asserita interazione tra etanolo e cvm e, anzi, l'analisi delle reazioni metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere improbabile l'interazione suggerita dai consulenti del pubblico ministero che non hanno dimostrato come verrebbero a determinarsi gli effetti sinergici tra le due sostanze.

 

Osserva dunque il Tribunale che se l'evidenza epidemiologica e sperimentale indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto dose–risposta, la sua considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi alle esposizioni di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad escludere la rilevanza causale delle esposizioni  successive al 1974.

Infatti in tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i tumori rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in coloro che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti riconducibili ad elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie degli anni '50 '60 e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità della sostanza.

 

E si citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici Simonato, Ward, Mundt, ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può individuare un accordo uniforme e assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente processo, in ordine a tale conclusione. Pacifico, infatti, che nessun angiosarcoma del fegato (che è il tumore tipico da esposizione a c v m) si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella corte europea e successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di Porto Marghera.

Ulteriore conferma deriverebbe dal recente studio di Rozman e Storm (1997) dal quale emerge che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968 ", traendone la conseguenza che " la riduzione delle esposizioni entro il range di 0, 5-5 ppm sembra essere stata fino ad ora adeguatamente protettiva".

In particolare, ricorda il Tribunale come in Italia, dove i contratti collettivi di lavoro erano soliti recepire i valori indicati dalla A.C.G.I.H. (America Conference Governemental Industrial Hygienists) - che sino a tutto il 1974 mantiene un valore di 200 ppm come media giornaliera - nel contratto collettivo di data 12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in quello successivo del 31 ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi il valore di 200 ppm come valore limite di soglia riferito alla media delle concentrazioni per una giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40 ore e tale valore viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17 aprile 1976 anche se la definizione di un valore adeguato alla accertata cancerogenità per l'uomo è in corso di individuazione . Solo con il contratto collettivo del 23 luglio 1979  il limite di soglia TLV-TWA viene fissato in 5 ppm .

 

Tale valore è definito come la “concentrazione media ponderale in una normale giornata lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40 ore, a cui praticamente tutti i lavoratori possono essere ripetutamente esposti, giorno dopo giorno, senza effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro del Lavoro nell'aprile del 1974- su proposta e sollecitazione del prof Maltoni- aveva emanato una raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL come valore di riferimento tendenziale. E solo con la direttiva CEE n° 610/78  recepita con DPR n°962/82 i valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.

In relazione dunque a tali conclusioni in ordine alla nocività, ed alla soglia di nocività del CVM, evidenzia il Tribunale come il primo e fondamentale dato di fatto, che confuta in radice l’accusa, è che, come è documentato in atti, la concentrazione di CVM nei luoghi di lavoro, misurata con i gascromatografi installati nei reparti CV fin dal 1975, è sempre risultata inferiore al valore soglia (3 ppm) stabilito nel 1978 dalla direttiva 78/610/CE, recepita in Italia col DPR 962/1982.

 

Circostanza questa di estremo rilievo se si considera che dagli stessi dati rilevati e riportati in tabella dal consulente del P.M. prof Diego Martines nello studio caso-controllo sui lavoratori della coorte di Porto Marghera affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica e epatopatia cronica si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.

 

Seppur dunque, si evidenzia da parte del Tribunale, l’Unione Europea e l’Organizzazione mondiale della sanità assumono esplicitamente il principio di assenza di soglie per i cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale ha  assunto identica posizione, (la ragione fondamentale della assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la relazione tra formazioni di addotti e dose  di regola è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva incontri il punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole presenti), la stessa OMS stima il rischio cancerogeno anche sulla base di dati  epidemiologici e a tal fine utilizza il parametro della rischio relativo (RR) definito come il rapporto tra il numero di casi osservato e atteso nella popolazione esposta, e dunque, può concludersi, così come fa il centro tossicologico e ecotossilogico europeo dell'industria chimica (ECETOC 1998), nel rapporto dedicato al cloruro di vinile, che "sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli sicuri di esposizione per i cancerogeni genotossici, l'evidenza presentata in questo rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai livelli correnti nel rispetto del limite di 3 ppm  comporti rischi significativi per la salute".

 

E lo stesso professor Zapponi, consulente tecnico dell'accusa privata Presidenza del Consiglio e Ministero dell'Ambiente, pur partendo dalla premessa che non può essere identificata una soglia per i cancerogeni genotossici non essendo possibile definire un livello senza effetto,  passando poi in rassegna le principali stime, su dati epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio cancerogeno per il c v m, trae l’indicazione che che una esposizione  lavorativa presumibilmente priva di un rischio significativo dovrebbe andarsi a collocare a livelli di frazione relativamente piccole di 1 ppm e l'uso del modello a soglia, pur in presenza di un cancerogeno genotossico, ha portato a stime di livelli di esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono valori di un ordine di grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni di rischio che assumono l'assenza di soglia.

 

Ed evidenzia dunque il Tribunale che seppure le scelte politiche portano a opzione di default utilizzate ai fini di aggirare il problema dell'incertezza sui seguenti problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di dati scientifici che correlino in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze chimiche con i rischi per la salute; 2) divergenze di opinioni all'interno della comunità scientifica sul livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza di una conformità nel riportare i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei risultati prodotti dai modelli teorici, operando scelte precauzionali, in realtà nella comunità scientifica e' messo in discussione soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi; ed in proposito si ricorda l’affermazione di un ricercatore di biologia molecolare (Ames) secondo la quale "vi sono sempre più prove che la scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così aumentando in tal modo il rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli studi di Swemberg secondo cui a seguito delle sperimentazioni a basse dosi effettuate "esiste la prova che bassi livelli di esposizione non sono cancerogeni né per gli uomini né per i roditori".

 

Onde nella comunità scientifica si propone una valutazione realistica del rischio che superi il postulato ritenuto estremo e irrazionale che "nessuna dose è sicura" proprio alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere affetto da angiosarcoma, così da far ritenere che  le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente protettive ( Storm-1997). 

In conclusione secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che stanno alla base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni di default, che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati cui è pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati a fini precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni sull’uomo.

 

Invero, dagli studi epidemiologici e dagli stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui risulta per l'appunto che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun angiosarcoma nei lavoratori esposti per la prima volta al c v m a partire dal 1968, gli autori pervengono alla conclusione che la riduzione delle esposizioni entro il range e 0. 5 - 5 ppm possa ritenersi adeguatamente  protettiva.

Da parte del Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere compatibili con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi dell'assenza di soglia e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a quella degli animali non hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati che possono avere validità in un ambito prettamente precauzionale, ma sono smentiti dall’osservazione scientifica, potendosi concludere pertanto che i risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali proprio perché convergenti  hanno una loro rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che peraltro dagli studi analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le basse dosi vigenti successivamente alla conoscenza della  oncogenità del c v m abbiano avuto un qualsiasi effetto su incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.

 

Sulla scorta dei dati e studi di cui sopra posti in relazione ai principi in diritto sopra ricordati ritenuti fondanti il modello causale applicabile, il Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei fatti di cui in imputazione, ricordando e premettendo che comunque la causalità generale, anche là dove ritenuta, non può bastare perché suggerisce inferenze  eziologiche senza però poterle dimostrare in rapporto ai singoli individui; affermazione sulla quale concordano tutti i consulenti anche dell’accusa pubblica e privata.

Si osserva poi che se si considera che la dose cumulativa più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma (oltretutto di tipologia non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm circa di esposizione giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già presenti nella coorte di Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni degli anni successivi, pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e in seguito imposti di 3 ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli stessi come documentato dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta esservi prova di una efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero convergenti anche gli studi tossicologici e di oncogenesi che pure individuano un rapporto dose-risposta per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata accertata  una idoneità lesiva del c v m.

 

Evidenzia il Tribunale che gli stessi consulenti del pubblico ministero relativamente al problema della idoneità lesiva del cvm alle bassi dosi non hanno potuto smentire né i risultati epidemiologici né quelli sperimentali. Si sono limitati ad affermare "che non si può escludere", "che la soglia al di sotto della quale non si sono osservati tumori  non è una soglia effettiva ma una soglia apparente... perché non si possono fare degli studi che dimostrino l'inesistenza di una soglia perché bisogna andare nell'infinitamente piccolo".. (Berrino);  “attualmente una relazione tra esposizione e cancerogenità delle sostanze  genotossiche è troppo confusa per offrire linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità di uscire dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e sul rischio e  quindi accettare che non vi è una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non riesco a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire assolutamente nulla " (Martines).

 

Resterebbe il fatto, e questo rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si osserva infatti che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e nei solo insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica, si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni 50 e 60 e prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate antecedenti alla conoscenza della cancerogenità del cvm.

Nessun tumore del fegato e del polmone ha interessato lavoratori della corte di Porto Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data oramai è trascorso interamente il periodo di latenza non solo medio ma approssimantesi anche alle punte medio-alte rilevate.

 

Conseguentemente si può trarre una prima incontestabile conclusione:  alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità lesiva del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi  mentre non sussiste la prova di una  efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle esistenti dal 1974 in poi.

Le incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza per ulteriori approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in ambito  processuale dove ci si deve attenere ai fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione dunque le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti  in giudizio, sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli eventi.

 

Infatti le condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974. Mentre per il periodo successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte  cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.

Per il Tribunale dunque, tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente, e altresì l’esame dettagliato e la valutazione critica, con specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare con approfondimento delle caratteristiche nosologiche e morfologiche delle neoplasie alla luce dei contributi  dei consulenti medico-legali e anatomo patologi, non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio.

 

E conclude conseguentemente il Tribunale ritenendo non individuati fattori di rischio professionale, né ipotizzabile un ruolo concausale dell’esposizione lavorativa proprio perché non provata la causalità del fattore professionale, per i tumori del laringe, del sistema linfatico e omopoietico, del cervello, per i melanomi, ma anche per i tumori del polmone che gli ultimi studi avrebbero ritenuto non correlabile all’azione del CVM e per i quali, rispetto ai casi in specie contestati, sarebbero emersi fattori di confondimento per la ricorrenza in 11 casi su 12 di una causa nota quale quella del tabagismo, e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma per le incertezze scientifiche non ancora diramate e per la ricorrenza di diversi fattori di spiegazione causale.

 

Osserva infatti il Tribunale, quanto a tale ultima patologia, che intanto all’osservazione epidemiologica gli eccessi significativi che hanno evidenziato un associazione forte riguardano i tumori epatici, angiosarcoma e epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico organo bersaglio del cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori esposti ad elevate concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60, perlopiù svolgenti le mansioni di addetti alle autoclavi.

Precisa tuttavia che le evidenze epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa incidenza dei due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di fattori confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’ epatocarcinoma, rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo una relazione dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di conferme per soddisfare il criterio di riproducibilità del dato. Altresì per quest’ultimo si pone un problema di plausibilità biologica inquantochè non è noto neppure a grandi linee il meccanismo di induzione di tale tumore, che interessa le cellule epiteliali, da parte del cvm che, invece, tipicamente viene a colpire le cellule endoteliali : si dovrebbe dare una spiegazione plausibile della circostanza che una medesima sostanza produce neoplasie nettamente diverse sul piano morfologico ancorché interessanti lo stesso organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta neppure a livello sperimentale.

 

Pertanto trovano spiegazione causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm  solo gli angiosarcomi  (otto) e, tra le patologie non neoplastiche, le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine, le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).

In relazione alle suddette conclusioni del Tribunale si pongono le censure degli appellanti di cui agli specifici motivi sopra analiticamente ricordati, sostenendosi sostanzialmente, come motivo assorbente, che il Tribunale ha gravemente errato nella scelta di affidarsi totalmente ed esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati, omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale probatorio acquisito, dal quale emergerebbe invece la tossicità e cancerogenicità del CVM con riferimento a tutti gli organi indicati dall’accusa  e quindi, secondo il modello proposto dal P.M. appellante peraltro in parte discordante come sopra visto con le stesse indicazioni delle Sezioni Unite cui pur dichiara di rifarsi, la sussistenza del nesso di causalità in questione, per la gran parte negato dal Tribunale.

 

Ma oltre all’applicazione dei principi sulla causalità, si è visto come in particolare il P.M. lamenti, seguito anche dalle parti civili appellanti, l’erroneità della valutazione dei presupposti di fatto, storici e scientifici per giungere ad affermare la penale responsabilità degli imputati consistono nella disamina di epidemiologia e studi epidemiologici, metodologia epidemiologica, studi epidemiologici sul CVM,  studi epidemiologici a Porto Marghera, effetto lavoratore sano rilevato nella coorte di Porto Marghera, cancerogenesi, influenza delle esposizioni a basse dosi, cancerogenesi e organismi internazionali.

Brevemente ricapitolando quanto sopra già analiticamente esposto in ordine ai motivi di doglianza in merito a tale problematica proposti dal P.M., si osserva che, circa il primo punto, sostiene l’appellante che le conclusioni in merito alla cancerogenicità  di una sostanza fatta  da organismi internazionali non potrebbero essere messe in discussione dai risultati di singoli studi, essendo le prime il risultato di un processo di ricerca del consenso nell’ambito di un gruppo di esperti che si raggiunge attraverso procedure standardizzate ed esplicitate, che hanno come oggetto l’esame delle conoscenze scientifiche disponibili al momento della formulazione della valutazione… ed i risultati di singoli studi non mettono in discussione le suddette valutazioni; bensì essi contribuiscono all’insieme delle conoscenze in modo commisurato alla loro qualità.

 

Onde non sarebbe corrispondente a realta’ (Pg. 27) l’affermazione generale che: “Le conclusioni cui era pervenuta IARC nel 1987 sono state poste in discussione  dagli studi epidemiologici successivi . In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999)”. I nuovi studi, per quanto ampi, sarebbero una parte del tutto che si inseriscono nell’alveo di quelli precedenti e di per sé non portano a modifica della precedente valutazione, essendo necessario tutto un meccanismo di approfondimento ai fini della classificazione (o riclassificazione) di una sostanza.

 

Quanto alla seconda questione, sostiene il P.M. che la sentenza sarebbe gravemente viziata per non avere dato contezza delle manchevolezze dello studio Mundt 2000 fondato su carente database del “filone principale” U.S.A., nonostante che in dibattimento i vari consulenti tecnici del P.M. (Berrino, Comba, Pirastu, Mastrangelo) si siano ampiamente soffermati su tale problematica.

Quanto alla terza questione sostiene il P.M. che i tentativi di ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM presenti nella letteratura scientifica sarebbero conseguenza del ruolo svolto dall’industria nella diffusione delle conoscenze sulla cancerogenicità del CVM, nello specifico quella statunitense, ma anche Enichem, con il supporto di noti e ben pagati epidemiologi stranieri, tra cui Richard Doll, al quale Enichem ha dato mandato di sostenere che l’angiosarcoma epatico e’ l’unico tumore causalmente associato con l’esposizione a CVM.

 

E così, riguardo alla metodologia epidemiologica, sostiene il P.M. l’erroneo utilizzo da parte del Tribunale, in uno stesso studio di livelli di confidenza diversi per diverse cause di morte, e non sarebbe accettabile in assoluto nemmeno l’ulteriore affermazione e decisione del Tribunale,  che esclude sempre e per partito preso le situazioni con limitata significatività statistica: a questo proposito richiama ancora l’appellante la recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (nr.27 del 2002: pag.15), dove viene scritto che  “coefficienti medio bassi di pericolosità …. impongono verifiche attente e puntuali …. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia  medico-legale …. possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Riscontro probatorio secondo il P.M. per il caso dei tumori professionali possono essere le evidenze sperimentali sugli animali e su altri modelli di laboratorio.

Lamenta poi il P.M. errori ed errate valutazioni da parte del Tribunale in merito alle conclusioni assunte relativamente ai tumori diversi dall’angiosarcoma con riferimento agli studi epidemiologici sul CVM, sia di corte europea coordinato da IARC (Ward 2001), sia USA (Mundt 2000), ritenendosi invece che una esatta proposizione dei dati stessi porterebbe a diversa conclusione, in particolare relativamente al carcinoma epatocellulare, al tumore al polmone ed alla cirrosi.

 

Richiamando poi il P.M. gli studi epidemiologici a Porto Marghera, lamenta che il Tribunale, pur citando una serie di dati prodotti dai Consulenti Tecnici del PM, che dimostrano come nella coorte di Porto Marghera, oltre all’eccesso degli angiosarcomi epatici,  vi sia stato un significativo eccesso di altri tumori epatici, in particolare per gli autoclavisti, nonché, come emergerebbe dall’aggiornamento 1999, un significativo eccesso di tumori polmonari per i lavoratori che avevano svolto mansioni di insaccatori.

E si sostiene da parte dall’appellante, in tema di causalità generale da esposizione a cloruro di vinile, che, alla luce di quanto scritto, e sopra accennato, in merito agli studi epidemiologici sul CVM, non è assolutamente condivisibile l’affermazione del Tribunale relativa  “all'assenza della prova allo stato delle conoscenze scientifiche della idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone , il carcinoma  epatocellulare e la cirrosi riconoscendo solo la sua associazione causale con l'angiosarcoma , con tipiche epatopatie e con la sindrome di Raynaud”. Lamenta il P.M., che per affermare ciò, il Tribunale avrebbe dovuto prima di tutto affrontare e criticare quanto esposto dall’accusa in senso contrario, esaminando le relazioni finali depositate dal P.M., criticandone l’eventuale metodologia, la logica e le conclusioni.

 

Analogamente, sarebbe del tutto arbitraria l’affermazione del Tribunale secondo la quale “tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente,  non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra CVM-PVC e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio”.

Nello specifico delle singole patologie, sostiene l’appellante, richiamando in particolare gli studi dei propri consulenti, che, quanto al tumore al polmone, “nelle coorti che hanno condotto un'analisi specifica per gli insaccattori, definiti come "solo addetti all'insacco" e " addetti all'insacco "si sono identificati incrementi di mortalità. Pertanto la persuasività scientifica della relazione causale fra l'attività lavorativa che comporta esposizione a polveri di PVC è elevata”.

 

Quanto ai tumori del fegato –angiosarcoma a bassa  esposizione sostiene l’appellante che neppure avrebbe ben compreso il Tribunale i dati emergenti dallo studio europeo WARD 2001, che pur ritiene fondamentale, dati dai quali, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, emergerebbe un rischio di angiosarcoma anche a bassa esposizione, non avendo d’altra parte il Tribunale considerato che era stato discusso dal P.M. un caso di angiosarcoma per un operaio assunto dopo il 1973 (Dalla Verità Domenico, assunto nell’aprile del 1974), ed avendo pure rigettato la richiesta del P.M. di acquisire della documentazione attestante un’altra morte per angiosarcoma a causa del CVM, verificatasi negli USA, per bassissime esposizioni.

 

Quanto al carcinoma epatocellulare si richiamano ancora gli studi e conclusioni dei propri consulenti che suggeriscono che “l’esposizione a   CVM può essere associata anche con questo tumore”. Si ricorda inoltre che valutazioni dell’associazione causale intercorrente fra esposizione a CVM e carcinoma epatocellulare sono state formulate, oltre che da IARC, anche da EPA. Onde anche nel caso secondo il P.M. i criteri di causalità esposti dal Tribunale a pag. 42 siano stati adeguatamente verificati e, quindi, anche in questo caso va affermata la sussistenza del nesso causale.

E così per la cirrosi relativamente alla quale se è vero che nella coorte generale di Porto Marghera la mortalità per tale patologia è inferiore all’attesa, va peraltro rilevato che essa è superiore all’attesa fra gli autoclavisti.

Così non avrebbe adeguatamente valutato il Tribunale l’effetto lavoratore sano nei termini e per gli effetti già sopra esposti, che renderebbe invece possibile rilevare che:

a -                             non c’è alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a partire dal 1974, tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione;

b -                             gli assunti in anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza” necessaria perché si manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a quelle patologie per le quali il periodo di latenza può essere molto lungo);

c -                              non vi è alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni precedenti;

d -  i soggetti esposti nelle mansioni a rischio (autoclavisti e insaccatori) manifestano una mortalità per tutte le cause aumentata e questo rischio appare crescente al crescere della durata di impiego nella mansione a rischio.

 

Così non avrebbe compreso il Tribunale le questioni relative alla carcinogenesi. E riproponendo l’appellante i concetti di genetica molecolare sostiene la correttezza dell’ipotesi di accusa per la quale il CVM è cancerogeno non solo iniziante, come riconosciuto dalla sentenza, ma altresì promovente, onde  non può parlarsi della presenza di una " soglia di sicurezza”.

Quanto poi alle patologie riscontrate a Porto Marghera, ricorda ancora il P.M., contrariamente alle diverse conclusioni del Tribunale, che secondo vari organismi e organizzazioni internazionali, tra cui IARC ed EPA in primo luogo, devono essere considerati come principali organi – bersaglio del CVM il fegato, il polmone, il cervello, il sistema emolinfopoietico. Inoltre, sulla base di singoli studi, devono essere attribuite all’azione del CVM alcune altre patologie, come il tumore del laringe, nonché – come ampiamente illustrato anche nel capitolo 2.3 – il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi.

Nello specifico, si sottopongono a critica anche alcune conclusioni del Tribunale quali l’esclusione della presenza dell’angiosarcoma epatico per Simonetto Ennio su asserito unanime giudizio di tutti i consulenti, quando invece tra i consulenti vi era contrasto sul punto (ma, osserva la Corte, su questo punto neppure si tornerà in quanto la doglianza è frutta di sicura svista dell’appellante atteso che il suddetto caso è tra gli otto casi di angiosarcoma riconosciuti dal Tribunale integranti oggettivamente, per la sussistenza del nesso causale, i contestati delitti di omicidio colposo, esclusi solo per carenza dell’elemento psicologico del reato -si cita il relativo capo di sentenza: “Assolve i predetti imputati dai reati di "omicidio colposo" per angiosarcoma epatico in danno di Agnoletto Augusto, Battaggia Giorgio, Faggian Tullio, Fiorin Fiorenzo, Pistolato Primo, Simonetto Ennio, Suffogrosso Guido e Zecchinato Gianfranco, perché il fatto non costituisce reato”).

 

Quanto all’epatocarcinoma, lamenta l’appellante travisamenti ed erronei apprezzamenti dei contributi scientifici, e dopo aver ancora ribadito la tesi, sostenuta dai propri consulenti, dell’azione sinergica del CVM con gli abusi di alcol e le infezioni  da virus B e C, sostiene che in forza degli atti del processo il carcinoma epatocellulare può essere ascritto all’esposizione a CVM.

Analogamente, anche relativamente alla cirrosi epatica contesta il P.M. come già accennato, le conclusioni del Tribunale, ritenendole, così come sopra nella disamina dei motivi già ricordato non basate sulla realtà dei dati e sulle logiche considerazioni che  ne sarebbero dovute scaturire, come ampiamente presentato in dibattimento.

 

Sempre con riferimento all’organo bersaglio fegato, sostiene infine il P.M. che trattando delle epatopatie riscontrate nei lavoratori del PCV-CVM di Porto Marghera, il Tribunale continua a far confusione tra tossicità e cancerogenicità del CVM. Sostiene dunque l’appellante, dopo richiamo alla già ricordata differenza concettuale e sostanziale tra tossicità e cancerogenicità, e dopo riproposizione dei casi dei lavoratori le cui epatopie sono state escluse dal Tribunale come causate dall’esposizione a CVM, che al riguardo la sentenza ha ripetutamente invocato (fin da pag.9) l’elevato consumo di alcol come “giustificata soluzione alternativa” all’eccesso di tumori del fegato, di cirrosi e di epatopatie. Ma, sostiene l’appellante, l’eccesso osservato negli operai di Porto Marghera è troppo elevato per poter essere spiegato da un eccessivo consumo di alcol.

Lamenta altresì il P.M. che il Tribunale abbia assolto gli imputati amministratori Montedison del periodo 1969 – 1973, non meglio individuati, perché il fatto non costituisce reato, dai cinque casi di epatopatia (Poppi Antonio, Bartolomiello Ilario, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe e Sicchiero Roberto) riconosciuti come causati dal CVM. Non convincenti secondo l’appellante le motivazioni per l’esclusione dell’elemento soggettivo, atteso che il CVM era un noto epatotossico (lo si sapeva dagli anni cinquanta-sessanta e lo si insegnava all’università). Ed a questo proposito e in relazione all’art.437 c.p. (malattie derivate da omissioni del “datore di lavoro”) nulla ha risposto il Tribunale.

Prosegue poi il P.M. sostenendo che le critiche svolte nei confronti della sentenza per la parte concernente le patologie epatiche dovranno sostanzialmente essere svolte anche per le altre patologie, "in primis" quelle polmonari.

 

Si lamentano, infatti, ripetute omissioni in fatto rilevate in motivazione; incompletezza grave nell'esame di tutti gli elementi probatori sottoposti dall'accusa all'esame del Tribunale; distorsione di quanto scritto e segnalato dai consulenti tecnici dell'accusa; accettazione acritica e totalmente immotivata delle tesi della difesa degli imputati.

Conclude, infine, sul punto il P.M. contestando altresì l’esclusione delle patologie degli altri "altri organi" bersaglio del CVM-PVC (laringe - sistema emolinfopoietico -encefalo). Anche al riguardo, ci si lamenta che le motivazioni della sentenza sono del tutto insufficienti e non affrontano nemmeno tutti i dati, gli studi scientifici, le relazioni tecniche e le dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili offerti all'esame e alla valutazione del Tribunale.

 

E una situazione analoga si presenterebbe anche per i melanomi, per i quali sono emersi "eccessi", nonché relativamente alla sindrome di Raynaud per la quale il Tribunale oltre a fornire dati numerici sbagliati rispetto ai casi introdotti dal P.M. nel processo, fa poi confusione sul numero dei casi da lui stesso ammessi, si è completamente dimenticato di Terrin, non ha considerato che il certificato di diagnosi di RAYNAUD per Gabriele Bortolozzo è del 1995, ed inoltre, si è dimenticato dell’accusa di cui all’art. 437c.p..

A fronte delle suddette doglianze sul punto, sostanzialmente analoghe quelle proposte dalle parti civili a quelle del P.M. che, più analitiche, si sono citate, ritiene la Corte, richiamata la ricostruzione degli elementi probatori analiticamente operata dal Tribunale e sopra già riportata, ma che comunque deve intendersi qui integralmente trascritta e fatta propria da questa Corte in quanto rispondente a corretta riproposizione di tutte le risultanze rilevanti ai fini della valutazione e giudizio sul punto, che altresì condivisibili sono le valutazioni, che pure si fanno proprie e debbono qui intendersi riportate, e le conclusioni cui in forza delle stesse il Tribunale è pervenuto nell’individuare gli eventi, tra quelli contestati, che sarebbero causalmente collegati all’azione nociva del CVM con riferimento al periodo temporale fino a tutto il 1973 e quindi alle contestate azioni ed omissioni di chi tra gli imputati, pure correttamente individuati, aveva determinato quelle condizioni di lavoro favorevoli all’aggressione del CVM (profilo, questo, di causalità commissiva), ovvero aveva omesso di intervenire con strumenti prevenzionali e con modifiche di procedure, con opere di risanamento degli impianti e quant’altro idoneo ad evitare le alte concentrazioni di CVM superiori alle soglie di nocività.

 

Solo, diversamente dal Tribunale, si ritiene, atteso quanto poi si dirà, sul punto specifico riformando la sentenza del primo giudice, in ordine alla sussistenza altresì dell’elemento psicologico onde l’impossibilità in ordine ai ritenuti reati di omicidio colposo e di lesioni personali colpose di pervenire ad assoluzione sotto tale profilo, che le ipotesi di reato ex art. 590 c.p. per epatopatie siano da ampliare rispetto ai casi riconosciuti dal Tribunale, attesa la soluzione giudiziaria cui si perviene, che è quella della prescrizione ormai da lustri già intervenuta e che va immediatamente dichiarata attesa la mancanza di evidenza di ipotesi assolutoria che interessa certo gli specifici casi di epatopatie individuati dal Tribunale (in ordine alle quali non vi è gravame circa la riferibilità obiettiva alle condotte degli individuati imputati ritenuta dal Tribunale che assolveva poi per difetto di colpa), ma anche gli ulteriori casi individuati dalla Corte che concernono similari patologie contratte altresì nel periodo di riferimento (fino a tutto il 1973) nel quale gli  ambienti di lavoro erano interessati da alte concentrazioni di tale sostanza e per le quali non può senz’altro escludersi l’azione del cloruro di vinile monomero.

 

Infra comunque meglio si specificherà in ordine a tale statuizione, così come in ordine alla condivisibilità del giudizio del Tribunale in ordine alle altre epatopatie per le quali non vi sono elementi idonei a suffragare l’ipotesi accusatoria e dunque vi è evidenza di insussistenza del chiesto nesso causale e conseguentemente dell’oggettiva insussistenza del reato.

Infondate dunque le specifiche doglianze di cui sopra relative appunto all’individuazione del nesso causale in relazione alle ipotesi di reato per le quali invece non veniva riconosciuto dal Tribunale, giova peraltro osservare, in relazione ai punti salienti di gravame, che parziale è la lettura offerta dagli appellanti che, nel lamentare omissioni e difetto di valutazione da parte del Tribunale di specifiche circostanze o punti argomentativi, si sono ancorati a tale asserite omissioni dimenticando invece tutto il resto nel cui contesto scarsa valenza probatoria avevano le circostanze stesse. Contrariamente invece il Tribunale ha fondato il suo convincimento sul risultato complessivo dell’evidenza probatoria correttamente colto e riproposto e che integralmente viene fatto proprio da questa Corte, per la evidente, tra l’altro, infondatezza delle singole censure.

 

Ed invero, intanto va pur sempre ricordato che comunque, a prescindere anche dalla soluzione della problematica in ordina alla nocività del CVM ed alla sua idoneità a cagionare le patologie contestate, peraltro con ricorrenza frequentista non certo alta rispetto al numero delle persone che possono esservi venuti a contatto, il nesso causale tra l’esposizione e le patologie stesse per come nella specificità insorte in capo alle parti offese indicate in imputazione sarebbe ancora tutto da provare.

A parte infatti le patologie ed i casi riconosciuti compiutamente dal Tribunale e quelli che, per come si vedrà, per la mancanza di evidenza di ipotesi assolutoria, possono portare a declaratoria di prescrizione che si impone con immediatezza senza compiuta disamina degli elementi sia oggettivi che soggettivi del reato, nella specie il nesso di condizionamento tra condotte contestate ed eventi lesivi individuati non risulterebbe neppure provato per difetto di idonei elementi esaustivi non solo medico legali, ma anche indiziari tali che, collegati all’astratta idoneità lesiva della sostanza, possano portare a ritenerne la sussistenza oltre ogni ragionevole dubbio. La prova, si è detto, non può consistere nella mera esposizione al rischio.

Ma tant’è le censure sul punto relativo alla specifica ricorrenza della causalità in merito alle ipotesi di reato contestate sono infondate anche in fatto.

La lunga ed articolata istruttoria dibattimentale ha invero messo in luce, ora su una patologia ora su l’altra, insanabili contrasti tra gli stessi consulenti e testimoni qualificati dell’accusa con il risultato che questa ala fine non avrebbe adempiuto all’onere probatorio non solo in merito alla condizione necessaria dei singoli eventi ma già dell’idoneità della sostanza incriminata a cagionare quelle determinate patologia.

Intanto contrasti in merito all’individuazione degli organi bersaglio diversi dal fegato: il polmone, il sistema emolinfopoietico e il cervello. Se al riguardo Berrino  resta fermo nelle conclusioni cui a seguito dei primi studi era giunta IARC, di diverso parere appare l’altro consulente epidemiologo dell’accusa Carnevale per il quale negli studi successivi all’87, non c’è più evidenza di una associazione con i tre organi bersaglio.

 

Nello specifico poi dei singoli organi, di mera possibilità di un nesso eziologico tra CVM o polveri di PVC e tumore al polmone parlano, ancora in contrasto con Berrino ed altresì con Mastrangelo (che peraltro nella relazione depositata il 19.2.2001 asserisce che, per il ruolo svolto dall’esposizione alle polveri di PVC dei dipendenti delle cooperative, sarebbe eziologicamente rilevante solo il periodo di esposizione fino al 1975 in quanto successivamente al situazione sarebbe migliorata), i consulenti Comba e Pirastu in relazione proprio allo specifico studio di coorte su Porto Marghera, evidenziandosi tra l’altro nell’esame da detti consulenti  che se dallo studio fossero stati esclusi i soci delle cooperative che avevano una età, all’ingresso, estremamente elevata, e costituiscono una popolazione che non è sovrapponibile molto facilmente ad altre popolazioni di lavoratori dipendenti, essendo il dipendente di cooperative uno che lavora “in più siti diversi” onde “non c’è la possibilità di sovrapporre la coorte con la fabbrica”,  per gli insaccatori dipendenti Montedison ed EniChem non emergerebbe alcun eccesso, come ancora puntualizzato da Comba nel suo esame, che precisa in sostanza che nessun elemento nello studio di coorte poteva portare ad affermare con certezza il ruolo eziologico del CVM o del PVC in relazione al tumore al polmone, ruolo eziologico che si limitavano detti autori a “suggerire”, a ritenere “possibile” “perchè, di fatto, si disponeva solo di uno studio americano”, cioè dello studio di Waxweiler del 1981, ben citato già dal Tribunale, che prospettava l’ipotesi, mai confermata, dell’azione del cvm imprigionato nelle polveri di pvc.

 

 Ma un solo studio, ne sono consapevoli gli stessi Comba e Pirastu, non può essere sufficiente non essendosi neppure raggiunta scientificamente la soglia (che richiederebbe comunque delle convalide tali da far ad un certo punto ritenere data per accettata la tesi) per la quale potrebbe poi comunque temersi una falsificazione.

 Restano dunque i dati oggettivi a livello epidemiologico evidenziati dai detti studiosi, e resta soprattutto il dato, espresso nella tabella della relazione Comba-Pirastu, dal quale emerge una relazione inversa tra aumento della latenza e valore del SMR per il tumore al polmone, dato che depone in senso contrario al collegamento eziologico ipotizzato e ben evidenziato dal Tribunale nella sua motivazione non trovando al riguardo idonei argomenti contrari. Invero, come ben ha spiegato, ribadendo il concetto in due udienze diverse (ud. 1/7/98 e ud. 8/7/98), la Pirastu nel suo esame (“ci si aspetterebbe che all’aumentare della latenza, del tempo trascorso dal momento in cui hanno cominciato l’esposizione, questo aumenta il valore dell’SMR, mentre questo nel nostro caso non si verifica”; “quello che si attende per un cancerogeno è che all’aumentare della latenza aumenti anche la nostra stima dell’effetto”).

 

Contraddittorie con la tesi propugnata dal P.M. sono altresì le conclusioni dei suoi consulenti, certo comunque non idonee nel complesso a comprovare l’accusa, per gli altri tumori e malattie.

Quanto agli epatocarcinomi Berrino sostiene che non ci sono evidenze epidemiologiche: gli studi epidemiologici generalmente non sono stati in grado di calcolare un rischio relativo preciso (ud. 12.6.1998). La tesi del P.M. secondo il quale dalle pubblicazioni EPA si evincerebbe che esistono “prove estremamente indicative di una relazione causale con il carcinoma epatocellulare”  non appare invero suffragata in atti da generalizzata accettazione scientifica dell’assunto. Permane, nonostante la classificazione di EPA, incertezza. Sia nella pubblicazione di maggio 1999 che in quella di maggio 2000 EPA compie una revisione della letteratura disponibile. In entrambe le relazioni il sostegno maggiore alla tesi di una associazione tra CVM ed epatocarcinoma proviene da una valutazione dei casi di tumore del fegato dello studio americano (nella prima relazione si tratta dello studio di Wong del 1991 mentre nel secondo caso si tratta dello studio di Mundt del 1999).

 

Secondo gli estensori dei rapporti EPA, dall’analisi delle coorti americane risulterebbe che, una volta esclusi dal calcolo gli angiosarcomi del fegato, tutti gli altri tumori del fegato sarebbero comunque in eccesso indicando quindi un effetto del CVM anche su questo tipo di tumori (e non solo sugli angiosarcomi). Ma, come condivisibilmente rimarca la difesa Pisani, l’argomentazione è molto debole sia perché non è supportata da letteratura sufficiente (nessuno studio epidemiologico aveva ancora affrontato in dettaglio il problema degli epatocarcinomi in quanto tali: ricordiamo che il primo studio che ha esaminato la questione è l’indagine multicentrica europea (Ward, 2000; Ward, 2001) con la valutazione di un numero molto ridotto di casi, indagine non esaminata in nessuno dei documenti EPA citati) sia perché il documento EPA stesso (maggio 2000, p. 11) riconosce gli enormi limiti della analisi condotta, soprattutto laddove indica esplicitamente l’esistenza di una difficoltà diagnostica nella valutazione dei casi di epatocarcinoma e la possibilità che in realtà molti dei casi ritenuti epatocarcinomi possano essere invece degli angiosarcomi mal diagnosticati.

 

D’altro lato, la rilevanza dello studio di Mundt sugli epatocarcinomi è esclusa in radice perché a) gli eccessi non sono statisticamente significativi; b) manca l’analisi dose-risposta.

Pochi e incerti quindi gli elementi a favore di una associazione tra esposizione a CVM ed insorgenza di tumori del fegato diversi dagli angiosarcomi, un incertezza scientifica che non può essere superata, laddove si discute di reati, dalla classificazione EPA che si basa solo su alcuni studi peraltro non scevri da dubbi diagnostici, e pur rimarca assenza di consistente evidenza epidemiologica.

E lo stesso Zocchetti nella memoria del 13.1.1999 concludeva nel senso che “la situazione sembrerebbe pertanto quella tipica in cui si deve dire sospendiamo il giudizio e suggeriamo un supplemento di indagine perché non ci sono elementi sufficienti per dare delle indicazioni esplicite e precise”; e nella memoria del 26.9.2000 si aggiungeva che “bisogna anche osservare, almeno in termini descrittivi, che il piccolissimo numero di casi rappresentato dalla letteratura, non depone certo per una evidenza di effetto, soprattutto se si considera il numero piuttosto elevato di soggetti esposti, anche a dosi molto elevate nel passato, e la frequenza di epatocarcinoma che è certamente superiore a quella degli angiosarcomi. … e che l’epatocarcinoma è correntemente giudicato un tumore dalla eziologia molto variegata”.

Proprio quest’ultima notazione è estremamente significativa e già rilevata dalla difesa Pisani: l’epatocarcinoma non è un tumore raro (almeno in paragone con l’angiosarcoma). Inoltre, in aggiunta e ad ulteriore differenza rispetto all’angiosarcoma, è bene ricordare (come fanno anche i consulenti della accusa nella memoria di sintesi dell’aprile 2001) che l’epatocarcinoma è un tumore che oltre ad ammettere fattori di rischio di tipo professionale (diverse sostanze epatotossiche, come le aflatossine e le nitrosoammine) riconosce ben noti fattori di rischio extraprofessionali, di cui i più importanti sono l’infezione cronica da virus B e C, l’abuso di alcol (nonché alcuni aspetti relativi alla dieta), e la cirrosi.

 

Correttamente evidenziandosi dalla predetta difesa che per l’epatocarcinoma le differenze rispetto all’angiosarcoma del fegato non sono da riferire solo al differente livello della evidenza scientifica presente (più propriamente sarebbe meglio dire assente) in letteratura, ma anche alla differente impostazione del problema eziologico, che vede per l’angiosarcoma un insieme limitato di fattori di rischio noti, mentre per il carcinoma epatocellulare si deve considerare una eziologia chiaramente multifattoriale con particolare rilevanza dei fattori extraprofessionali, e che non esiste un registro degli epatocarcinomi esposti a CVM e pertanto non è possibile definire in maniera precisa le caratteristiche dei casi riscontrati per quanto riguarda, ad esempio, la latenza, il periodo di inizio e la durata della esposizione, la mansione svolta, l’esposizione cumulativa, etc.

 

Quanto alla cirrosi, per Berrino l’evidenza epidemiologica non è chiara, ma è un po’ dubbia; per Comba e Pirastu, i casi di cirrosi sono inferiori all’atteso nella coorte di Porto Marghera. Dalle memorie dei consulenti della difesa Zocchetti del 26.9.2000 e Zocchetti-Dragani del 20.4.2001 emerge poi, sulla base di esame della letteratura e di una valutazione epidemiologica, inesistenza di associazione con l’esposizione a CVM.

Ed invero, correttamente e stato già evidenziato dal Tribunale e dalla difesa degli imputati, che:

gli studi epidemiologici di mortalità per cirrosi non hanno evidenziato rischi significativi; lo studio multicentrico europeo (Simonato 1991-) e quello sulle coorti americane (Wong-1991-) hanno rilevato rispettivamente un RSM pari a 0,88 e a 0,62 e hanno osservato una relazione inversa con l'esposizione a c v m; nell'aggiornamento dello studio europeo (WARD 2000) si sono osservati 50 decessi per cirrosi epatica rispetto ai 64, 62 attesi corrispondenti a un  RSM di 0, 77; in detto studio si afferma che " sebbene vi fosse un deficit significativo della mortalità per cirrosi epatica nell'intera corte tuttavia vi era per un eccesso significativo di mortalità nel gruppo ad elevato rischio relativo: la Norvegia era comunque l' unico paese per il quale il rapporto standardizzato di mortalità, basato su quattro decessi,  era statisticamente significativo; tuttavia non era stato rilevato alcun trend nella mortalità per cirrosi per quanto riguarda il tempo della prima occupazione, l'impiego e la durata dell'impiego; un trend significativo invece era stato rilevato all'aumentare dell'esposizione cumulativa; sebbene coloro che avevano lavorato come autoclavisti avessero il rapporto standardizzato maggiore rispetto a coloro che non avevano mai ricoperto questa mansione tuttavia il RSM per la prima categoria non era statisticamente significativo; la relazione tra esposizione a c v m e insorgenza di cirrosi epatica nella coorte di Porto Marghera è stata analizzata sia nello studio Comba - Pirastu sia nello studio caso controllo di Martines; lo studio generale sulla corte indica tali risultati:  osservati 14; attesi 25, 5 : SMR=55; nello studio caso controllo di Martines vengono considerati 32 casi: di questi per 14 la diagnosi era stata formulata sulla base dell'esame istologico, per gli altri la diagnosi era basata sul quadro clinico.

 

Per il calcolo dei rischi relativi sono stati considerati anche 14 pazienti risultati affetti da epatocarcinoma con segni di precedente cirrosi; come risulta nel capitolo di presentazione dello studio l'unica categoria in cui vi è un rischio relativo in eccesso (2. 38) è quella con esposizioni elevate (1651-10125); anche nel caso di cirrosi i fattori di confondimento appaiono fortemente sottovalutati nonostante fossero presenti in tutti i soggetti: l'infezione virale b o c era presente in 7 soggetti ; il consumo di alcol in tutti e in particolare in 23 elevato e in 14 molto alto (> 120) ; ciònonostante il rischio relativo era calcolato per le due categorie di poco superiore a 1 (1. 05 - 1. 24); l'autore dello studio giustificava la sottostima non solo per aver assunto come categoria di riferimento lavoratori con danno epatico, ma sostenendo che l'obiettivo dello studio non era quello di dimostrare la responsabilità del consumo di alcol e di virus b e c nel determinare la cirrosi epatica (e l'epatocarcinoma) che è ampiamente riconosciuta, ma quello di evidenziare un eventuale effetto aggiuntivo o primario dell'esposizione al c v m;  non si può non rilevare, diversamente la sottostima porta a risultati inaffidabili, che se si intende assumere come ipotesi a priori l'effetto lesivo di una sostanza non si può che esaminare con estrema cautela i risultati ottenuti soprattutto in presenza di fattori causali  non solo noti ma di elevatissima incidenza.come la letteratura già citata mette in chiara evidenza : (virus dell'epatite b e c nel 60% dei casi, abuso di bevande alcoliche nel 30% dei casi); inoltre non si può non rilevare un vizio di impostazione che inevitabilmente porta a effetti distorsivi : proprio perchè l'autore ha assunto come casi i soggetti che, secondo i consulenti medico legali del pubblico ministero erano affetti da cirrosi, non si può non rilevare come vi sia stata una riduzione da parte del pubblico ministero nelle sue conclusioni dei casi di cirrosi, otto dei quali sono stati utilizzati dal dottor Martines per effettuare le sue elaborazioni statistiche.

 

Appare del tutto ovvio che di conseguenza anche per questa ragione vi è stata una sovrastima del rischio relativo; ma anche i fattori virali sono sottostimati posto che circa la metà dei lavoratori  non è stata indagata per la presenza di marcatori dell'epatite c e 14 per la presenza di infezione da virus b; lo stesso autore pare rendersi conto di questi limiti posto che nelle considerazioni conclusive individua un ruolo concausale nello sviluppo di cirrosi solo in  9 dei 22 soggetti facenti parte del gruppo ad alta esposizione  mentre per gli altri pazienti cautamente si afferma che"il ruolo dell'esposizione del c v m nell'insorgenza di cirrosi è più difficile da quantificare ma non può essere escluso"; delle caratteristiche della cirrosi si è già detto nel paragrafo in cui si è trattata la associazione cvm epatocarcinoma : nel paziente cirrotico la persistente proliferazione degli epatociti  è determinata dal persistere di stimoli infiammatori come necrosi e rigenerazione epatocitaria da virus o alcol che incrementano in maniera rilevante il rischio di tale tumore; peraltro non possono non richiamarsi  le puntuali osservazioni sui fattori di rischio illustrate dal consulente epatopatologo della difesa professor Colombo nel corso della sua audizione ( udienza 11 dicembre 1998 );il consulente mette in rilievo la lesività di dosi elevate di alcool che viene sottoposto  a una ossidazione metabolica a tre livelli nella cellula epatica producendo una addotto- l'acetaldeide- assai instabile che si aggrega alle proteine strutturali della cellula epatica che determinano delle lesioni cellulari ovvero producono a loro volta dei composti che suscitano reazioni immunologiche;

la dose pericolosa è individuata in 80 grammi e l'epatopatia alcoolica può portare a morte anche senza evolvere in tumore epatico; il rischio di infezione da epatite b determina cirrosi e come già si è visto e' inesorabilmente connesso con lo sviluppo dell'epatocarcinoma, che peraltro è assai lento, anche se si calcola che milioni di persone all'anno muoiono per tale tumore avente come fattore eziologico l'infezione virale : il virus dell'epatite b determina necrosi e rigenerazione continua degli epatociti e quindi mitosi che amplifica l'eventuale danno genetico : il virus b ha quindi in sé sia la capacità genotossica di ledere il genoma e altresì ha la  capacità di promuovere il tumore con una continua infiammazione degli epatociti;il virus dell'epatite c identificato nel 1989 ha consentito alla comunità scientifica di riclassificare e rivalutare malattie la cui identificazione eziologica era stata problematica;in particolare taluni studi hanno evidenziato che la stragrande maggioranza dei pazienti con cirrosi non classificabile come da virus b o da abuso di alcool avevano la epatite c la quale può evolvere in epatocarcinoma: l'80% dei pazienti italiani con carcinoma  epatocellulare è cronicamente infettato dal virus c che nella fase precedente causa una cirrosi correlata all'epatite virale c;in Italia le persone affette da epatite virale c sono stimate in circa 1 milione ma vi sono dati che indicano che questa stima è conservativa.

 

Peraltro vi sono stime molto più  precise concernenti la cirrosi da virus c che è stata individuata in duecentomila italiani e questa corte di cirrotici genera almeno dieci - ventimila casi di epatocarcinomi (così prof.Colombo ud 22/12/1998); la incidenza di morte per cirrosi è elevata e la probabilità di sopravvivere dieci anni dalla diagnosi iniziale in pazienti con cirrosi compensata e’ di circa il 50%;l'esame istologico dell'accertamento della cirrosi è di assoluta importanza non solo per individuarne l'eziologia ma per individuarne le caratteristiche  e la fase a cui la malattia è pervenuta; tutti i casi di cirrosi osservati nella casistica di Porto Marghera per i quali era disponibile l'istologia hanno mostrato evidenza di processi necroinfiammatori e in tutti i casi l'esame istologico ha consentito anche di identificare l'agente eziologico coincidente con uno dei noti fattori di rischio; in 20 soggetti l'alcool ; in 11 il virus b o c ; in 3 l'emocromatosi.

 

Inoltre 17 cirrosi sono evolute in epatocarcinomi e 7 erano sorrette da epatite virale b o c;  

proprio la presenza di tali fattori di rischio ha indotto i consulenti del pubblico ministero  a ipotizzare comunque solo un ruolo concausale del c v m , peraltro limitato nello studio di Martines a 9 soggetti e del tutto problematico per tutti gli altri.

Ritiene questa Corte corretta la conclusione in ordina al fatto che l’eccesso rilevato in particolare nella coorte di Porto Marghera non può essere ritenuto significativo dal punto di vista statistico, attesa appunto la presenza di fattori di confondimento, quali epatiti e abuso di alcole, e soprattutto per la scarsità di informazioni in  ordine ad una associazione che là dove viene evidenziata, come nello studio Martines, si riporta solo alla categoria dei soggetti con elevata esposizione (esposizione cumulativa maggiore di 1650 ppm). Inoltre nella categoria intermedia di esposizione i valori di OR sono inferiori o uguali ad 1 (e cioè il rischio in questa categoria è uguale o inferiore a quello presente nella categoria con esposizione più bassa), il che significa che il rischio non cresce gradatamente dalla esposizione minore a quella maggiore bensì si innalza improvvisamente, bruscamente, ed anche in termini numericamente molto decisi, solo nella categoria con esposizione molto elevata.

 

Ma, sicuramente non probanti tali dati ai fini della certezza in ordine all’idoneità del CVM a cagionare cirrosi, già si è accennato pure ai contrastanti dati dello studio di coorte di Comba-Pirastu che evidenzia un valore di SMR addirittura inferiore all’atteso.

Per il melanoma, sempre Berrino, assieme a Bai, precisa che ci sono “degli aumenti di mortalità che però si basano su piccoli numeri e sono limitati ad un solo Paese” (ud. 17.6.98), affermazione in linea con tutti gli studi epidemiologici che individuano un eccesso proprio nei paesi del nord Europa, in particolare in Norvegia, come evidenziato anche da Simonato, mentre in Italia sarebbero stati osservati (relazione Vineis-Comba Pirastu del 20/4/2001) due casi su 1,2 attesi, eccesso ovviamente non significativo oltre che isolato.

Nessuna evidenza epidemiologica anche per il tumore al laringe, salvo un solo eccesso a Ferrara (studi Pirastu 1998, 5 osservati su 0,8 attesi), ma non nella corte europea (Simonato 1991), non nelle altre coorti internazionali ed italiane prese in considerazione dove i casi osservati erano nettamente inferiori all’atteso, non soprattutto nella specifica coorte (studi Pirastu 1997) di Porto Marghera con 0 casi osservati su 5,1 attesi);  anche se per Berrino si potrebbe ritenere provato a livello logico il nesso eziologico di tale tumore con il CVM o PVC per il fatto che riconoscendosi la causalità per il tumore polmonare la si potrebbe dedurre anche per il tumore al laringe che “è il tubo dell’aria prima della trachea”.

E nessuna evidenza epidemiologica per i tumori al cervello ed al sistema emolinfopoietico per come chiaramente risulta dall’evoluzione degli studi degli anni novanta dai quali non emerge nessuna evidenza significativa, nemmeno nella coorte di Porto Marghera, e la mancanza di dati significativi emerge altresì dalle testimonianze di Simonato e Boffetta.

 

Per chiudere invero su tale punto relativo alla non conferma probatoria delle ipotesi ancora sostenute dagli appellanti nei rispettivi motivi, grande rilevanza assumono proprio le testimonianze degli scienziati, citati proprio dall’accusa come testi, Simonato e Boffetta, avvicendatisi alla direzione delle ricerche multicentriche per la coorte europea avviate dalla IARC proprio dopo il 1987 (e conclusesi con il rapporto Ward del 2000). Ne emerge, come ben ricordato nella sentenza di primo grado alla cui completa e corretta disamina si rimanda, che l’evoluzione di tali studi ha portato a falsificazione delle ipotesi che IARC nel 1987 dava per acclarate. Si perveniva cioè a conclusione che non esistevano prove sull’effetto cancerogeno del CVM sui tre organi bersaglio diversi dal fegato, ed anche per il fegato mancano evidenze di un aumento del rischio per l’epatocarcinoma in quanto i relativi dati non sarebbero ancora esaustivi, nonché per le epatopatie evolventesi in cirrosi e per la cancrocirrosi.

 

Né può sostenersi, con il P.M. che detti studi non potrebbero sminuire le precedenti conclusioni degli organismi internazionali, trattandosi di studi isolati. Intanto non si tratta di estemporanei isolati studi, ma di ricerche multicentriche coordinate proprio da IARC, così come quella per la coorte americana condotta da Wong ed aggiornata da Mundt 1999), e poi se ne ricava comunque incertezza scientifica, così come potrebbe avvenire se anche un solo studio accertasse, senza generale consenso scientifico, una conseguenza nociva prima non considerata. Per tali motivi tra l’altro, per la mancanza di esaustività e di accompagnamento quindi di una generale e conclamata condivisibilità scientifica, si sono disattese le produzioni degli studi, singoli sì questa volta, indicati dal P.M. che non sarebbero in ogni caso stati decisivi neppure ai fini della dimostrazione dell’idoneità lesiva del CVM relativamente ad ulteriori patologie non considerate dal primo giudice.

Come può dunque il giudice, in un simile contesto sposare l’una o l’altra tesi e condannare un imputato? Non è legittimo in tal caso un ragionevole dubbio? Non si verte nella ipotesi stigmatizzata dalle Sezioni Unite per la quale in caso di insufficienza,  contraddittorietà e incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi di  ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta contestata rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio?

 

Sulla scorta delle medesime considerazioni e con richiamo alle medesime fonti probatorie di valenza scientifica, possono ritenersi destituite di fondamento le doglianze degli appellanti che fanno riferimento alla problematica di lesività del CVM a basse dosi, collegata altresì alla tesi che vuole il CVM cancerogeno promovente e non semplicemente iniziante, nonché alla problematica della concausalità per assunta azione sinergica del CVM con altri riconosciuti fattori causali quali il fumo di sigarette per i tumori al polmone ed epatiti da virus b o c ed abuso di sostanze alcoliche per i tumori al fegato diversi dall’angiosarcoma e, in particolare, per la cirrosi.

 

Quanto alla problematica relativa alla lesività a basse dose o assenza di soglia, esaustive appaiono in realtà le argomentazioni del Tribunale che ancora una volta si è rifatto al complesso delle evidenze probatorie al riguardo, richiamando le testimonianze dei vari esperti. E da tutte, concordemente, emerge che comunque, a prescindere dall’assioma scientifico che per un cancerogeno assume il principio di assenza di soglie (spiegandosi che la ragione fondamentale della assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la relazione tra formazioni di addotti e dose  di regola è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva incontri il punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole presenti), una soglia di fatto esiste per come può ricavarsi da tutti gli studi che mai hanno osservato casi di angiosarcoma a dosi medio-basse (il caso ad esposizione più bassa riguarda un lavoratore della coorte europea con esposizione cumulativa di 288 ppm), e come può ricavarsi dagli stessi dati del consulente del P.M. Martines dai quali, nello studio caso-controllo sui lavoratori della coorte di Porto Marghera affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica e epatopatia cronica, si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.

 

In realtà nella comunità scientifica e' messo in discussione soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi, così come può ricavarsi dai dati forniti questa volta dagli esperti della difesa che, oltre ai risultati degli esperimenti sugli animali, dai quali risulta che nessun angiosarcoma si è verificato al di sotto dei 10 ppm (memoria di Corrado Galli del 19.1.1999 e poi la relazione di Dragani del 9.12.99) hanno fatto riferimento alle ricerche di uno studioso americano, Ames, e ai risultati delle ricerche sperimentali di un altro studioso americano, Swenberg, le cui conclusioni sono nel senso che gli attuali limiti occupazionali sono sicuri, proprio per l’esistenza di una soglia. In particolare Ames, ricercatore di biologia molecolare, afferma che "vi sono sempre più prove che la scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così aumentando in tal modo il rischio di tumori”, affermazione che pare in concordanza con i menzionati dati di Martines dai quali, come ripetutamente ricordato, si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Onde nella comunità scientifica, alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere affetto da angiosarcoma, si propende a ritenere che  le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente protettive ( Storm-1997).

 

Condivisibili dunque appaiono le supportate conclusioni del Tribunale sul punto. E non può poi non osservarsi che comunque nessuna prova del contrario hanno offerto le accuse pubbliche e private ed i loro consulenti, e soprattutto nessun concreto evento dimostra, provato specificamente che sia stato determinato da basse esposizioni a CVM, la rilevanza a tali fini delle basse esposizioni e la concreta assenza di soglia.

Può qui collegarsi anche la tematica dell’assunta natura di cancerogeno promovente del CVM, che così, anche in forza di successive medio-basse esposizioni esplicherebbe i suoi effetti nocivi con accelerazioni dello sviluppo delle patologie e riduzione della aspettativa di vita. Ma anche sul punto le doglianze degli appellanti non sono sorrette da una legge di copertura che possa suffragare l’assunto, in quanto, certamente ormai comprovato che il CVM è un cancerogeno iniziante ad alte esposizioni, della sua efficacia promovente non vi è invece alcuna certezza scientifica, e valga al riguardo l’approfondita disamina del Tribunale.

 

Certo non seguibile il P.M., che nel dolersi che non può affermarsi che non c’è alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a partire dal 1974, tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione, in quanto gli assunti in anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza” necessaria perché si manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a quelle patologie per le quali il periodo di latenza può essere molto lungo), onde non vi è alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni precedenti, porterebbe a ritenere rilevanti nella pronuncia del giudice penale relativa a reati ad evento di danno le prognosi di eventuali danni futuri, cosa che ovviamente è fuori dall’accertamento che ci occupa in relazione ai reati qui in considerazione, anche ove una tale prognosi, ma così non è, fosse legittimata dalle evidenze processuali.

Quanto alla problematica della concausalità per assunta azione sinergica del CVM con altri riconosciuti fattori causali quali il fumo di sigarette per i tumori al polmone e epatiti da virus b o c ed abuso di sostanze alcoliche per i tumori al fegato diversi dall’angiosarcoma ed in particolare per la cirrosi, non si può seguire il P.M. appellante laddove sostiene che nessuno potrebbe dire che, nel procedimento penale in questione, sia stata davvero fornita la prova certa che i tumori al fegato erano stati cagionati esclusivamente dal consumo di alcool, così come che quelli al polmone erano stati cagionati esclusivamente dal fumo di sigaretta, o che i lavoratori deceduti avessero contratto dette malattie a causa di un consumo di alcool e di sigarette avvenuto successivamente alla loro esposizione al CVM. Dunque, secondo il P.M., in nessuno dei casi esaminati dal Tribunale fumo ed alcool avrebbero potuto essere considerati, ai fini della corretta applicazione della legge penale, concausa sopravvenuta degli eventi.

 

Eppure,  nonostante tale indiscutibile evidenza probatoria, il Tribunale si sarebbe ritenuto dispensato dal dover  svolgere quell’accertamento  sul  tema della rilevanza concausale dell’esposizione a CVM che l’accusa aveva prospettato,  avendo postulato quell’apodittica ed erronea affermazione di ordine generale secondo cui  la mancanza dell’idoneità causale rende, per ciò solo, il fattore inidoneo ad essere concausa di un evento, in tal modo sono state ignorate circostanze provate dall’accusa che avrebbero potuto e dovuto essere valutate con attenzione in siffatta ottica di approfondimento del tema. In particolare, evidenzia il P.M. con riferimento agli elementi che dovrebbero ritenersi probanti ai suddetti fini, erano stati dimostrati i ritardi e le omissioni in relazione agli spostamenti dei lavoratori, fumatori o bevitori, che, in passato, erano stati esposti ad alte concentrazioni di CVM. In casi del genere, l’esposizione a CVM oltre che ad essere determinante sotto il profilo concausale avrebbe potuto e dovuto essere considerata dal Collegio anche in relazione agli effetti di accelerazione dell’insorgenza della malattia, così come i Consulenti tencici di parte dell’accusa (in particolare i medici  Bracci, Rodriguez, Bartolucci e sopratutto Martinez) avevano puntualmente, ma inutilmente, evidenziato.

 

Ma, ritiene la Corte, il problema è sempre lo stesso. Seppur infatti potrebbe seguirsi il P.M. laddove censura l’affermazione del Tribunale secondo la quale se non è provato che un fattore sia da solo causa neppure può essere concausa, resta poi da dire e da provare che eventualmente una sostanza pur non avendo da sola capacità lesiva, diventi nociva interagendo con altre sostanze ovvero aumenti la capacità lesiva di altre sostanze; resta cioè da dire e da provare da dove emerge che CVM e alcol o CVM e fumo abbiano capacità di interagire in senso deterministico per tumori al fegato –si intende epatocarcinoma- e tumori al polmone, o per epatopatie o per cirrosi, laddove peraltro manchi prova di idoneità astratta di tale sostanza in ordine a tali patologie e laddove invece non può certo sostenersi che il consumo di alcol o il fumo, di per sé soli e quindi disgiunti ed a prescindere dall’esposizione a CVM, siano privi di efficacia causale in ordine, rispettivamente, alle patologie stesse. Pienamente condivisibile al riguardo è l’osservazione del Tribunale secondo la quale il nostro ordinamento (art 41 c p) non autorizza l’assunzione di un “modello debole “di causalità e lo statuto epistemologico della concausa impone che anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di copertura.

 

In realtà lo stato delle conoscenze  non consente di pervenire a nessuna conclusione in ordine alla sussistenza di tali meccanismi sinergici. E certo non può dirsi che una tale evidenza emerga dalle spiegazioni date dai consulenti dell’accusa, ancorate in realtà a deduzioni più che a dati di osservazione, di sperimentazione o di biologia molecolare di comune interpretazione nella comunità scientifica.

 Ma al di là di ciò, che già tronca ogni possibilità processuale di ritenere una sinergia e quindi un’azione concausale del CVM in patologie relativamente alle quali da sola detta sostanza non risulta idonea ad esplicare effetti deterministici, è poi da censurare il ragionamento degli appellanti che vorrebbero sostanzialmente invertire i termini probatori e di accertamento proposti dalle pluririchiamate Sezioni Unite: il probelma invero non è se nel procedimento penale in questione, sia stata davvero fornita la prova certa che i tumori al fegato erano stati cagionati esclusivamente dal consumo di alcool, così come che quelli al polmone erano stati cagionati esclusivamente dal fumo di sigaretta, o che i lavoratori deceduti avessero contratto dette malattie a causa di un consumo di alcool e di sigarette avvenuto successivamente alla loro esposizione al CVM, dovendo invece emergere la prova del contrario, in forza però di elementi forniti dall’accusa o comunque in ogni caso acquisiti e chiari in atti, e cioè che, assunta comunque una legge anche statistica con ricorrenza frequentista medio-bassa (che nella specie, come già esposto, rispetto alle patologie per le quali il P.M. invoca la concausalità dell’azione del CVM, manca), positivamente si possa escludere un altro possibile fattore causale.

 

Sulla scorta di quanto succintamente sopra osservato, ma con riferimento alla complessità degli elementi dai quali le suddette sintetiche considerazioni sono tratte, e con considerazione altresì delle contrapposte tesi delle parti, ritiene dunque la Corte da confermare il giudizio del Tribunale secondo il quale, come sopra già ricordato, tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente, e altresì l’esame dettagliato e la valutazione critica, con specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare con approfondimento delle caratteristiche nosologiche e morfologiche delle neoplasie alla luce dei contributi  dei consulenti medico-legali e anatomo patologi, non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio, mentre neppure può ritenersi sussistente la prova di una  efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle esistenti dal 1974 in poi.

 

 Dunque sono da tenere in considerazione le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, con le conseguenti implicazioni sia sotto il profilo della riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti  in giudizio, sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli eventi, atteso che le condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974. Mentre per il periodo successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte  cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.

 

Conclusivamente ritiene dunque la Corte insussistenti i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose con riferimento ai contestati casi in cui detti eventi sono conseguenti a tumori diversi dall’angiosarcoma, a cirrosi ed ad epatopatie non caratterizzate da tipiche lesioni da cvm, relativamente alle quali la letteratura esaminata evidenzia associazione non già all’esposizione a cvm, bensì a consumo alcoloico o a epatiti virali.

Né, relativamente a questi eventi, ad una conclusione diversa sotto il profilo causale potrebbe pervenirsi, trascurando il dato dell’assenza di legge di copertura, sulle mere conclusioni dei consulenti dell’accusa. Davvero superfluo a questo punto dilungarsi; pleonastico apparendo pure il ricorso agli stringenti rilievi del clinico epistemologo Federspil, portati in processo dalla difesa Pisani, sulle diagnosi medico-legali dei consulenti dell’accusa, da Bracci a Rodriguez a Bartolucci, ed ai principi scientifici di ricostruzione delle catene causali o di provata concretizzazione della legge universale o statistica di copertura cui si debbono ispirare i medici-legali nelle diagnosi causali.

 

 E così pleonastico è il ricorso ai concetti filosofici che, con l’ampio respiro che ha caratterizzato la trattazione delle problematiche in questo davvero unico processo, sempre la difesa Pisani ha voluto far emergere con il contributo del filosofo della scienza Evandro Agazzi in ordine proprio al problema delle concretizzazioni di leggi universali o statistiche, cioè alle condizioni in forza delle quali si può dire che una legge statistica è capace di spiegare un evento singolo. E’ sufficiente infatti osservare come le diagnosi effettuate in processo siano monche proprio in merito all’accertamento di questa concretizzazione, fermandosi sempre a dare per scontato il nesso causale solo in conseguenza della ritenuta esposizione al rischio.

 

Nello specifico, quanto alle epatopatie, si è già accennato come l’ormai intervenuta prescrizione di tutti i reati di lesioni personali colpose contestate deve portare, a mente dell’art. 129, 1° e 2° co., c.p.p. alla relativa declaratoria tutte le volte che non emerga all’evidenza una causa assolutoria, sia relativa alla sussistenza del reato che alla commissione da parte dell’imputato, che alla imputabilità sotto l’aspetto psicologico.

Una tale pronuncia interesserà dunque, non ricorrendo appunto all’evidenza alcune delle predette ipotesi assolutorie (si riformerà sul punto la sentenza là dove ritiene l’assenza della colpa in merito ai reati di cui si discute) senz’altro i reati stessi relativamente ai casi ai danni di  Bartolomiello Ilario, Poppi Antonio, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe, Sicchiero Giorgio, già riconosciuti dal Tribunale come eziologicamente determinati dall’esposizione a CVM, individuandosi, sulla base degli studi analiticamente esaminati dal Tribunale (alla cui disamina, in effetti puntuale, si rimanda), in capo agli stessi le tipiche lesioni epatiche indotte dalle alte esposizioni a cvm (alterazioni istologiche epatiche, alcune precoci e reversibili, quali la iperplasia focale degli epatociti e dei sinusoidi, altre tardive e irreversibili, quali la fibrosi perisinusoidale e la fibrosi portale e capsulare).

 

Ma analoga declaratoria deve pronunciarsi almeno relativamente alle lesioni personali colpose per le epatopatie cui furono affetti Brussolo Sergio, Granziera Enrico, Foffano Ferdinando, Leonardi Giannino, Pardo Giancarlo e Serena Rino.

Brussolo Sergio, addetto al laboratorio quale analista,è stato esposto dal 1961 al 1974 a concentrazioni elevate e comunque idonee.

Fino al 1975 erano state riscontrate dei lievi  incrementi enzimatici che sono ritornati normali. Nel 1982, e quindi sette anni dopo la cessazione dell'esposizione, subisce un ricovero ospedaliero in cui gli viene diagnosticata una epatopatia tossica da c v m.

L'esame istologico evidenzia una steatosi con accumulo di ferro (siderosi) e insussistenza di fibrosi e quindi l'insussistenza di lesioni tipiche riferibili all'esposizione pure elevata.

 

Granziera Enrico, autoclavista dal 61 al 69 e addetto all’essiccamento dal ‘69 al ‘73 e quindi allontanato, ha avuto una sofferenza biliare manifestatasi nel 1971 e una epatomegalia con aumento di valori di GOT e gGT nell'ambito di un quadro evolutivo di epatite virale b messa in evidenza dall'esame autoptico.

E' deceduto per neoplasia gastrica  ancorché  mai esposto a dicloroetano.

Foffano Ferdinando, addetto all’insaccamento, essicamento, trasferimento resine dal 1964 al 1980; epatomegalia accertata già nel 1972; nel 1980 viene riconosciuta dall’INAIL la natura professionale della malattia.

Leonardi Giannino, autoclavista, addetto all’essiccamento dal 1961 al 1977; danno epatico cronico con minimo grado di fibrosi evidenziato dal 1977.

Pardo Giancarlo, autoclavista dal 1961 al 1978; epatopatia cronica accertata dal 1974 e coesistenza di disturbi circolatori alle mani.

Serena Rino, autoclavista dal 1970 al 1981, nega da sempre consumo di alcool, danno epatico cronico.

 

Ora, osserva la Corte che per i suddetti casi, le alte esposizioni cui furono soggetti tutti fino al 1974 e la natura delle patologie compatibile con quelle ritenute astrattamente riferibile al cvm, seppur possono poi sussistere elementi di contrasto, non consentono di ritenere evidenza di sussistenza d’ipotesi assolutoria, onde si impone, come sopra detto, e come per i casi di epatopatie da CVM riconosciuti dal Tribunale, immediata declaratoria di prescrizione.

Non così per tutte le altre ipotesi di epatopatie contestate per le quale, come ben evidenziato dal Tribunale il cui giudizio sul punto è pienamente condiviso e fatto proprio anche nella motivazione da questa Corte, o non si ravvisano le classiche lesioni da CVM, ovvero sussistono fattori di confondimento, abuso di sostanze alcoliche o epatiti da virus b o c, che rendono del tutto non provata l’ipotesi, neppure potendosi ritenere idonee almeno ai fini di un qualche dubbio le diagnosi dei medici legali dell’accusa, peraltro puntualmente contraddette dagli esperti della difesa, per la non conseguenzialità delle diagnosi stesse puramente ancorate ad assunta esposizione a rischio.

 

Come già osservato dal Tribunale, i consulenti medico legali del pubblico ministero sono infatti partiti dal presupposto che sulla base delle indicazioni precauzionali di IARC 1987, il nesso causale fra esposizione a cloruro di vinile e le patologie in tale pubblicazione individuate dovesse darsi per scontato ("questa non è un indagine fatta per stabilire il nesso causale…perché siamo partiti dal presupposto che ci sia un nesso causale tra esposizione a c v m e una serie di patologie "- così prof. Berrino :ud 17/06/1998 pag. 102 ). Impostazione giustamente non condivisa dal Tribunale, sia perché i fattori noti di epatopatia sono ben più numerosi di quelli indicati dal consulente del pubblico ministero sia perché è viziata da evidente contraddizione laddove si sostiene la associazione concausale di tale sostanza anche in assenza di lesioni tipiche da CVM, e per contro in presenza unicamente di lesioni agli epatociti correlate ad individuati e noti fattori eziologici.

Ed anche nelle diagnosi rinnovate, a seguito dell'intervento del tribunale, che ha disposto la acquisizione di tutta la documentazione medica aggiornata e l'effettuazione di una serie di accertamenti diagnostici sulle parti offese, quando è stato  possibile, non si è abbandonata l'impostazione di partenza, omettendosi, come ancora correttamente osservato dallo stesso Tribunale, doverose valutazioni delle più probabili ipotesi eziologiche alternative rispetto a quelle presupposte e non dandosi il dovuto rilievo alla durata e all'intensità della esposizione, e quindi alla anamnesi lavorativa, che è invece una tappa essenziale nella diagnosi di una malattia a eziologia tossica. Tanto più nel caso di malattie con una eziologia multifattoriale, quali le epatopatie.

 

D’altra parte, ancora rileva correttamente il Tribunale, in quasi tutti gli altri casi esaminati dai consulenti è stato riscontrato quale fattore eziologico un elevato consumo di alcol risultante dall'anamnesi e non messo in discussione dagli esperti del pubblico ministero (35 sono stati ritenuti forti debitori), in un caso una epatite virale b e in sei casi la positività alla anticorpo per l'epatite c ( e tre casi presentavano anche l'associazione con un elevato consumo di alcol).

Ora, si è visto che ricorrere alla concausalità in presenza di fattori causali diversi dal CVM non è nella specie sostenibile, onde neppure in tali casi possono avere valenza probatoria i giudizi dei consulenti dell’accusa.

 

Decisiva poi ai fini della valutazione dei casi di epatopatie insorte successivamente al 1974, l’osservazione che le esposizioni successive a tale periodo, come rilevate dai misuratori personali prima e dai gascromatografi poi non erano idonee a causare malattia epatica professionale e, comunque, a quelle dosi, via via approsimantisi a 5 ppm prima e a 3 ppm poi, non pare a maggior ragione ipotizzabile una qualsiasi interazione che non è risultata scientificamente provata neppure alle alte esposizioni.

Ritiene poi la Corte infondata la censura degli appellanti, P.M. ma anche singole Parti Civili, secondo la quale il Tribunale si sarebbe dimenticato di talune malattie e tumori, avendo in realtà il Tribunale tra i casi per i quali non ha ritenuto oggettivamente integrato il reato per difetto del nesso causale perso in esame posizioni che potevano sembrare più problematiche, per il resto osservando, risolutamente ed in via assorbente per tutti gli altri casi contestati e non ritenuti, che l’ipotesi accusatoria si attestava un, erroneo per quanto premesso in diritto, “giudizio di mera idoneità della sostanza a cui il soggetto è stato esposto, non si faccia cioè solamente ricorso alla criteriologia della capacità lesiva, della contiguità fenomenologica, della idoneità di sede”.

 

Se dunque per tutti i tumori e tutte le malattie non ritenute mancava la prova del nesso di condizionamento, perché i medici legali, come qui sì abbondantemente motivato dal Tribunale e come sopra ricordato da questa Corte, si sono attestati sulla criteriologia della capacità lesiva, era superfluo nelle finalità motivazionali, così come ancora è superfluo, elencare i singoli tumori e le singole malattie per le quali basta tra l’altro fare riferimento alle compiute ed analitiche ricostruzioni in atti. Vieppiù per i singoli tumori e patologie per i quali si era esclusa già la sussistenza di idonea prova in ordine all’idoneità lesiva del CVM.

Comunque, quanto alle epatopatie già si è testé detto in ordine ai casi, tra quelli che secondo il P.M. si dovevano ammettere, che più che completa delibazione di integrazione oggettiva del reato di lesioni personali colpose, possono subire, nella mera delibazione imposta dall’art. 129, 1° e 2° co., c.p.p., declaratoria di prescrizione in aggiunta ai casi già individuati dal Tribunale, riformandosi sul punto la decisione del Tribunale che riteneva insussistente per i reati stessi l’elemento psicologico.

 

Per gli altri casi il quadro offerto dall’accusa e che ancora viene portato a supporto dei motivi di appello sia da parte del P.M. che delle singole Parti Civili è nella sostanza degli elementi fondamentali per ritenere o per poter almeno problematicamente porsi in ordine alla sussistenza oggettiva dei reati, è inconsistente proprio perché manca un idoneo percorso relativo alla catena causale, se non in tutti i passaggi, almeno nella evidenziazione della compatibilità tra il supposto punto iniziale, idoneità lesiva in relazione a quella specifica patologia incorsa nel singolo lavoratore, ed evento di danno lamentato, ovvero, anche ove questo possa affermarsi, che non si versi in situazioni ove sussistano altre autonome spiegazioni causale per le quali alcun concreto elemento in atti può consentire l’esclusione, vieppiù ancora quando l’eventuale astratta idoneità lesiva della sostanza incriminata nel concreto, per i tempi in cui si riferivano le insorgenze delle patologie lamentate, risulta insussistente sulla base di quelle che sono le conoscenze lesive (per intendersi le patologie insorte dopo il 1974 quando in concreto, per l’abbassamento delle esposizioni in limiti ritenuti, come abbondantemente sopra motivato, di sicurezza, non consentono in alcun modo una spiegazione causale alla sostanza stessa riferibile.

Brussolo Sergio, Granziera Enrico, Foffano Ferdinando, Leonardi Giannino, Pardo Giancarlo e Serena Rino.

Oltre ai casi di steatosi, rientrano in questa categoria i casi nominativamente indicati dal P.M.: Bertin Rino (ma è emerso: diabete in famiglia e tendenza all’obesità: Colombo 12.1.2000), Toffanello Adolfo (ma è emerso: diabetico e sovrappeso: Colombo, 29.02.2000), Marini Antonio (ma è emerso: sovrappeso: Colombo, ud. 8.2.2000), Babolin Primo (obeso: Colombo e Colosio, ud. 9.2.1999), Cestaro Rino (diabetico e obeso: Colombo, ud. 20.01.1999), Benin Arnaldo (diabetico: Colombo, ud. 12.1.2000), Scarpa Giampaolo (obesità: Tommasini, ud. 23.10.1998, e diabete: Tommasini, ud. 11.01.2000).

E ben ha evidenziato il tribunale che l’aumento degli enzimi epatici può essere determinato, oltre che da consumo alcolico o da epatiti virali (fattori considerati dai consulenti dell’accusa, pur se solo come concause), altresì da soprappeso corporeo, diabete, steatoepatite non alcolica, accumulo epatico di ferro e celiachia (sentenza, p. 247).

 

Qualche parola infine sulle patologie epatiche “tipiche” non contestate come tali.

Né può poi seguirsi il P.M. laddove sostiene che erano da ammettere come epatopatie i cui casi che erano stati contestati soltanto come epatocarcinomi o cirrosi. Basti al riguardo osservare che il fatto contestato prevedeva quel tipo di lesione (epatocarcinoma o cirrosi) per le quali vi è già pronuncia di insussistenza del reato: diversamente ritenere o meglio prendere in considerazione un’altra lesione integrerebbe vera e propria immutazione non consentita del fatto contestato, perché tra l’altro non è che il ragionamento del P.M. tende a dire che la patologia emersa non era, ad esempio, l’epatocarcinoma o la cirrosi, ma una semplice epatopatia, ma, escluso che le pur sussistenti patologie contestate trovino spiegazione causale nel cvm, ritenete sussistente il reato per una patologia non contestata che una tale spiegazione può trovare.

Trattandosi dunque di eventi diversi non contestati in relazione alle specifiche parti offese che vengono in considerazione.

 

Nessun obbligo di pronuncia sussisteva a carico del Tribunale, non senza comunque evidenziarsi, e tanto è pure sufficiente per ritenere infondata la relativa doglianza del P.M. anche nel merito, che  il Tribunale, correttamente secondo questa Corte come sopra osservato, non ha riconosciuto affatto la causalità generale per le “lesioni epatiche di carattere generale”, ma solo per alcuni particolari tipologie delle stesse, laddove cioè è possibile osservare una iperplasia focale  in assenza di necrosi cellulare, ovvero una  iperplasia e una ipertrofia delle cellule epatiche e delle cellule sinusoidali, con  fibrosi del tutto differente da quella cirrotica che invece procede per necrosi degli epatociti  irreversibilmente verso le complicanze cliniche più severe della malattia e espone a un concreto rischio di sviluppo in  epatocarcinoma. Infatti  la fibrosi epatica che si evidenzia nei sinusoidi -  che è il prodotto di un bilanciato susseguirsi di eventi che determina la produzione di proteine nuove e la loro distruzione  - può provocare ipertensione per la resistenza che il tessuto fibroso contrappone al sangue venoso in arrivo dall'intestino.

 

Più frequentemente provoca ipertensione alla vena porta collegata alle vene gastroesofagee che possono rompersi e sanguinare. Pertanto deve sempre tenersi distinto il concetto di fibrosi epatica e di cirrosi epatica che è una condizione clinicamente e biologicamente distinta anche se le conseguenze possono essere assai simili e difficilmente distinguibili (rottura delle varici esofagee) se non con un attento e accurato esame autoptico che consenta anche di esaminare il tessuto epatico oltre a quello tumorale. (…)

Dunque, pur a voler seguire la tesi del P.M che presuppone la legittimità di un accertamento del reato in relazione ad evento diverso, può comunque osservarsi che nei casi indicatoi dal P.M., 8 casi, di cui 2 cirrosi (Bernardi Narciso, Vanin Loris) e 6 epatocarcinomi (Bonigolo Gastone, Cividale Luigi, Favaretto Emilio, Fusaro Vittorio, Mazzucco Giovanni, Monetti Cesare), vi sono altresì ragioni sostanziali di rigetto della tesi, in quanto non vi è prova in atti che nei soggetti indicati nei quali era comunque insorta la cirrosi o si era manifestato l’epatocarcinoma fossero altresì distinguibili concrete lesioni astrattamente compatibili con l’esposizione al CVM e concretamente, sulla scorta dei paramentri e per la mancanza di elementi di confondimento (che invece pur vi sono, come dall’osservazione della storia clinica dei soggetti interessati –e si rimanda alle consulenze degli esperti del P.M. ma anche della difesa- ben emerge), effettivamente attribuibili alla sostanza in oggetto.

Quanto infine al morbo di Raynaud, parimenti da disattendere sono le censure del P.M. che lamenta lacunosità e contraddittorietà della sentenza e mancato riconoscimento di ulteriori tredici casi da ritenere causalmente collegati all’esposizione a CVM.

Osserva in proposito la Corte che intanto anche in merito a tali patologie si discute di reati ormai prescritti pur nelle nuove prospettazioni del P.M. riguardo a precisazione dei tempi di insorgenza della patologia e dei casi che andrebbero ulteriormente ammessi. Ma è proprio su questo concetto di ammissione che occore nella specie, in presenza di situazioni di prescrizione, fare chiarezza.

 

 Ed invero, già per i dieci casi ritenuti dal Tribunale e per i quali già il Tribunale ha pronunciato declaratoria di prescrizione, sostanzialmente “l’ammissione” è stata effettuata ricorrendo al concetto di probabilità logica, attesi: l’idoneità del CVM alle alte esposizioni degli anni sessanta che interessavano i dieci lavoratori in oggetto a causare detta patologia, la ricorrenza nella specie dei parametri individuati di aggressione di tale morbo ingravescente finchè permanga il contatto ma regredente una volta cessata l’esposizione, la non evidenza di diversa, e pacificamente conosciuta, spiegazione causale, il non confondimento in detti casi con altre diverse patologie che evidenziano simile sintomatologia.

 

Ora, alla luce di tali parametri, che appaiono corrispondenti alle spiegazioni in atti fornite dagli esperti, non si vede come non ritenere evidente la sussistenza invece di ipotesi assolutoria per insussistenza del fatto in relazione ai restanti casi proposti dal P.M. o sostenuti ancora dalle singoli parti civili come, a titolo semplificativo –anche qui non essendo necessario nella finalità motivazionale ricordare ogni singola posizione-, Terrin Ferruccio o Zaganin Silverio o altri pure proposti dal P.M. per i quali i predetti parametri di accertamento neppure ricorrono: contestate già le diagnosi della sussistenza della specifica patologia e comunque non evidenziazione di elementi, quali alte esposizioni, che eziologicamente potrebbero giustificare la natura professionale della malattia, vieppiù osservandosi che in diverse ipotesi addirittura, contro le spiegazioni mediche (vedi ipotesi di Bortolozzo che si vorrebbe ammalato solo nel 1995 quando da almeno cinque anni neppure più lavorava nel petrolchimico –ma la patologia in capo allo stesso era evidenziabile già anni prima e trovava giustificazione nelle elevate esposizioni subite negli anni sessanta), che vogliono il morbo regredire con l’allontanamento dall’esposizione, si sostiene insorgenza di tale malattia pur in periodo di assenza di esposizione.

Giova comunque prendere specificamente in esame il caso di Terrin Ferruccio, che per l’indicato periodo di insorgenza della malattia (1995), non sarebbe neppure stato prescritto al momento della sentenza di primo grado (ma lo sarebbe comunque ora).

 

In realtà, nessuna evidenza processuale può collegare l’assunta patologia del morbo di Raynaud insorta, con primi disturbi in verità già nel 1993 come emerge dalla sua storia clinica e lavorativa ricostruita in atti, in capo al Terrin che solo per brevissimo periodo ai primi anni settanta si era trovato esposto ad alte concentrazioni di CVM, mentre poi ha svolto mansioni prevalentemente di operaio esterno, e comunque si è detto che anche all’interno dei reparti dal 1974 le esposizioni sono da considerare basse e non più lesive. Nel 1995 gli veniva  comunque diagnosticato dall’Istituto di Medicina del Lavoro di Padova un “fenomeno di Raynaud nella cui genesi può aver influito la prolungata esposizione a CVM” evidenziandosi da parte dei sanitari una “sindrome dello stretto toracico da compressione ab estrinseco del fascio vascolo-nervoso bilaterale (...), moderato deficit microcircolatorioarteriolo-digitale e canestro-capillare bilaterale, prevalentemente al secondo dito della mano destra”, e, nella formulazione della ipotesi diagnostica, i medici di Padova sottolineavano comunque la necessità di effettuare ulteriori accertamenti. Solo ipotetica dunque la diagnosi nell’accertamento eziologico (può aver influito), ma in realtà neppure certa nell’individuazione della patologia per la quale si prospettavano ulteriori acertamenti.

 

In ogni caso non solo non vi sono prove del rapporto causale con il CVM, ma addirittura in questo caso emergono elementi contrari, quali un insorgenza moltissimi anni dopo la forte esposizione, sia pure di breve durata, quando invece tale malattia non conosce lunga latenza, e si allevia, fino a sparire, con il cessare dell’esposizione stessa. Ma, come ben evidenziato dalla difesa Pisani sulla scorta delle osservazioni dei propri esperti, proprio questa circostanza, inconciliabile con un’ipotesi diagnostica che voglia ricondurre il morbo di Raynaud da cui è affetto Terrin all’esposizione a CVM, trova invece spiegazione nel momento in cui si considera che, sempre secondo l’Istituto di Medicina del Lavoro di Padova, il sig. Terrin presenta una sindrome dello stretto toracico.

 Ora, osservato che con questa definizione, “si indica un quadro sintomatico secondario alla compressione del fascio neurovascolare nel punto di emergenza della gabbia toracica, in sede giugulare e scapolare (...): nei pazienti compare spesso dolore a livello brachiale e scapolare, con astenia, parestesie, claudicazione, fenomeno di Raynaud, talora necrosi tissutale ischemica e gangrena” (citazione della difesa Pisani da Harrison’s, Principi di medicina interna, XIII ed. it., p. 1296), emerge definitivamente che a livello probatorio l’assunta associazione non può sostenersi.

 

Per quanto riguarda il caso di Bortolozzo Gabriele si è già velocemnte osservato che mentre la patologia già riconosciuta dal Tribunale è evidenziabile per le manifestazioni già avute nel 1965 e compatibili con le esposizioni che allora subiva, del tutto priva di evidenza è poi un assunta insorgenza causalmente collegata al CVM nel 1995 quando da cinque anni aveva addirittura cessato di lavorare all’interno del Petroilchimico e quando neppure risultano elevate esposizioni subite dal 1974 in poi.

Quando al caso di Guerrin Pietro, unico che neppure sarebbe prescritto essendo insorto nel 1998, al di là poi di una eventuale imputabilità a qualcuno degli imputati posto che dal 1993 nessuno degli stessi era più in posizione di garanzia, valgano comunque le medesime osservazioni dell’impossibilità di una sicura attribuibilità causale all’esposizione a CVM in anni in cui, si è detto, tale esposizione è da considerare nei limiti di sicurezza, e permanendo, per tale patologie diverse spoiegazioni causali non certo rare. Tanto vale anche per Silverio Zagagnin e per tutti gli altri casi proposti dagli appellanti P.M. e Parti Civili.

 

La sentenza del Tribunale sul punto va dunque confermata, solo procedendosi ad integrare la pronuncia con declaratoria di prescrizione anche del reato ai danni di Donaggio Bruno, che ritenuto sussistente e riconducibile alle alte esposizioni degli anni ’60, è stato affrontato dai primi giudici nella motivazione della sentenza (sentenza, p. 259), ma poi ne è stata omessa (per mero errore, ma interessando una specifica statuizione si preferisce integrare la pronuncia e non ricorrere alla procedura di correzione di errori materiali) l’indicazione nel capo del dispositivo che riguarda declaratoria di prescrizione per i reati di lesioni personali colpose conseguenti a morbo di Raynud ed acrosteolisi.

Infine, da rigettare per l’evidente infondatezza che non richiede digressioni, le richieste di chi tra le appellanti Parti Civili (vedi ad esempio Giovanni Mazzolin) invoca condanna degli imputati a risarcimento di danni in loro favore pur nella ritenuta insussistenza del reato che li vedeva parti offese per difetto del nesso causale con l’esposizione al CVM, ma per altro danno, morale, per generico danno psicofisico alla salute. Ora, una tale pronuncia non trova alcun supporto una volta assolti gli imputati dallo specifico reato che interessa lo specifico appellante.

 

Ritiene ora davvero conclusivamente la Corte che, assorbite nelle decisioni di cui sopra relative alla sussistenza dei reati in oggetto, tutte le ulteriori doglianze di P.M. e Parti Civili connesse con la tematica testè esaminata e dunque con le statuizioni da adottare per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p, doglianze che dunque appaiono del tutto irrilevanti nell’economia decisionale, resta  da concretamente statuire in ordine ai soli reati di omicidio colposo per gli otto casi di angiosarcoma già riconosciuti dal Tribunale e nei confronti degli imputati già individuati dal Tribunale previa verifica in capo agli stessi altresì della imputabilità delle condotte a titolo di colpa.

Va ricordato che detta riferibilità causale dei reati di omicidio colposo per i riconosciuti casi di angiosarcoma non è gravata da appello alcuno, onde sarebbe sufficiente richiamarsi al giudizio del Tribunale per una sorta di giudicato interno e comunque per mancanza di specifiche censure avanzate con impugnazioni.

 

Giova però rimarcare la bontà della decisione del Tribunale, atteso che nelle loro discussioni le difese degli imputati hanno pure sostenuto la non attribuibilità agli stessi delle condotte incriminate. In verità dette difese si ponevano come subordinate piuttosto in contrapposizione alle richieste di riforma degli appellanti e quindi per le ipotesi che venissero accolte e ritenuti reati anche per periodo successivo al 1974, tant’è che come principale richiesta invocavano pur sempre la conferma dell’impugnata sentenza.

E’ opportuno però rimarcare, sulle generali osservazioni di assenza di responsabilità per gli imputati che si sostiene ricoprire posizione apicale troppo alta addetta a compiti di pura amministrazione, che gli interventi che si pretendevano da parte degli imputati ed omessi fino a tutto il 1973 non erano di ordinaria manutenzione, ma richiedevano modifiche strutturali che interessavano le decisioni dei vertici aziendali tutti ben consci, come di poi si dirà nella verifica dell’elemento psicologico, della situazione di pericolosità che interessava gli impianti per le altissime in quel periodo esposizioni che subivano i lavoratori.

 

 E tra i vertici va considerato anche il Bartalini destinatario in prima persona dell’organizzazione del sistema sanitario già inottemperante alle specifiche norme cautelari in materia, e che, nel compito precipuo di avere a cura che la salute dei lavoratori, se non aveva potere di intervento sugli impianti, aveva però potere di disporre le ulteriori cautele che nello specifico potevano salvaguardare gli operai da prolungate esposizioni (che, si è visto, sono causalmente collegate all’insorgenza della malattia), pretendendo ad esempio, ma anche solo richiedendo (cosa che non risulta abbia fatto nel periodo in considerazione)  allontanamento da specifiche lavorazioni gli operai più esposti, oltre a far rispettare e curare l’obbligo di adeguata profilassi e visite trimestrali.

 

I REATI DI CUI AGLI ARTT. 589 – 590 C.P. : la colpa.

Risolta dunque positivamente l’indagine sull’efficienza causale del cloruro di vinile solo limitatamente agli angiosarcoma, alle epatopatie interessanti l’endotelio ed alle sindromi di Raynaud ed acrosteolisi, il Tribunale ha peraltro ritenuto che, a parte i reati di lesioni personali per sindrome di Raynaud ed acrosteolisi che potevano ritenersi integrati anche nell’elemento psicologico, ma operava la prescrizione, per i casi invece ritenuti di lesioni personali per le individuate epatopatie e per gli omicidi colposi conseguenti ai decessi per angiosarcoma, la riferibilità causale non era accompagnata anche dall’imputazione a titolo di colpa.

Sosteneva in diritto il Tribunale che:

la misura della diligenza dovuta è correlata alla prevedibilità dell’evento e la prevedibilità dell’evento deve riguardare un evento concretamente verificatosi e non già un evento di contenuto generico o realizzabile in via di mera ipotesi…e quindi che il dovere di sicurezza del datore di lavoro, derivante da norme cautelari, non potrebbe operare per qualificare la colpa specifica in un giudizio di responsabilità che concernesse malattie di cui non fosse sufficientemente nota, al momento in cui la norma di igiene deve essere applicata, la correlabilità con la sostanza in questione e, conseguentemente, non potesse essere nemmeno previsto dal datore di lavoro il rischio derivante dall’esposizione.

 

Riteneva dunque il Tribunale che non si poteva eludere il problema della conoscenza o conoscibilità della nocività, e ancor più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso particolare del cvm) in un determinato momento storico sia in ambito scientifico che in quello industriale secondo il modello del c.d. agente modello. Sostiene in sostanza che anche la responsabilità per colpa specifica, e vieppiù ovviamente quella per colpa generica, esige la prevedibilità di eventi tipici, tali essendo quelli la cui possibilità di verificazione fosse nota sulla base di conoscenze scientifiche consolidate. Diversamente si sarebbe dilatato sino alla imputabilità oggettiva il concetto di responsabilità colposa.

 

E dunque analiticamente procedeva il Tribunale all’esame delle conoscenze scientifiche degli anni ‘60 – ’70, richiamando già i primi studi negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi gli studi in Europa  -Mastromatteo e altri 1960, Torkelson 1961, Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi sugli gli studi di VIOLA e MALTONI, esame e valutazione che lo portava a ritenere:

1) che determinanti per la conoscenza della cancerogenità furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola reputati inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e nei polmoni e non già angiosarcomi);

2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60 avevano provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi di acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola era stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che sollecitò l'approfondimento affidato a Maltoni;

3) che i dati degli esperimenti di Maltoni circolarono tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu  altresì autorizzato a visitare il laboratorio di Maltoni e a controllare i protocolli sperimentali;

4) che i risultati, ancorché parziali, furono comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza  e si ridussero alla fine in una moratoria di 15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei risultati alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich evidenziasse i primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti deceduti;

8)     che già si poneva al centro dell'attenzione la individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le imprese dovevano adeguarsi.

 

E dunque per il Tribunale, solo da questo momento, con la conclamata conoscenza della cancerogenicità del CVM, avallata scientificamente dagli studi Maltoni e dagli accertati casi Goodrich, si ponevano gli obblighi di prevenibilità che prima del 1974 invece  non si potevano pretendere per la mancata previdibilità di quegli specifici eventi (prevedibilità e obbligo di prevenibilità invece c’era, secondo il Tribunale, come ricordato, per gli eventi dannosi conseguenti a sindrome di Raynaud e acrosteolisi).

Queste conclusioni, come analiticamente sopra esposto, sono contestate in diritto e in fatto dagli appellanti che ritengono invece le conoscenze, almeno relative alla tossicità della sostanza, risalenti, su indicazioni normative e studi già degli anni trenta-quaranta, almeno agli anni cinquanta, onde andavano rispettate già le norme prevenzionali specifiche di cui ai DD.P.R. n. 547 del 1955 (artt. 236 co. 1 e 4, 244 lettera A, 246, 354 co. 1 e 2, 374, 375, 377, 383, 387, 389, 391) e n. 303 del 1956 (artt. 3, 4, 17, 19, 20, 21, 25, 58, 59) oltre che la generale cogente disposizione di cui all’art 2087 c.c..

 

 Ma anche la conoscenza della cancerogenicità doveva farsi risalire almeno al 1969, con gli studi Viola ben conosciuti in Montedison (Bartalini aveva partecipato ai convegni in cui tali studi erano stati divulgati ed aveva poi presentato Viola a Maltoni). Si evidenziavano dunque profili di colpa specifica e generica.

Di contrario avviso ovviamente la difesa degli imputati che difende la sentenza proprio sul piano delle conoscenze relative non solo alla cancerogenicità del CVM ma anche sulla tossicità, sostenendo che le precedenti conoscenze si riferivano, oltre che all’esplosività della sostanza che non rileverebbe nella specie, solo ad effetti tossici acuti, mentre neppure erano conosciuti in occidente gli studi degli autori dell’est europeo valorizzati dal P.M. relativi appunto alle indagini e conclusioni in merito alla tossicità di detta sostanza (una serie di studi a partire dal 1949 fino a tutti gli anni sessanta), studi che venivano recepiti solo negli anni settanta quando drasticamente, con Maltoni ed i casi Goodrich si poneva l’attenzione anche degli organismi internazionali a tali problematiche.

 

Pur dove poi, secondo la difesa degli imputati (così in discussione in particolare la difesa Grandi-Trapasso-Belloni Gaiba), il legislatore degli anni cinquanta classificando come tossiche le sostanze di cui alla famiglia dei derivati degli idrocarburi alifatici, a cui appartiene il cloruro di vinile, e dettando gli obblighi comportamentali correlati, avrebbe in realtà inteso riferirsi solo a quelle (quali ad esempio il cloroformio) tra queste sostanze, relativamente alle quali erano pienamente noti gli effetti tossici.

Ritiene la Corte sul punto fondati i motivi di censura proposti dagli appellanti contro il pronunciato del Tribunale, errato in punto di diritto, non pienamente rispondente alle evidenze processuali in punto di fatto.

E così infondate appaiono le argomentazioni della difesa degli imputati che ripiegano, con un distinguo tra effetti cronici ed acuti, verso una assunta non conoscenza fino agli anni settanta della tossicità, intesa come effetti cronici (facendo coincidere conoscenze relative alla cancerogenicità e tossicità), e interpretano l’intenzione del legislatore, nella classificazione delle sostanze ritenute tossiche e nell’imposizione dei correlati obblighi prevenzionali, con limitazioni che le norme non consentono.

Ed invero, in diritto, se deve senz’altro condividersi la preoccupazione di evitare che la colpa regredisca verso forme di responsabilità oggettiva, neppure, come ben ha osservato il difensore della Parte Civile Legambiente-Associazione di Protezione Ambientale Comitato Regionale Veneto, si può soggettivizzarla sino al punto di renderla in concreto inapplicabile, di svuotarla di contenuto.

Ma ciò che subito bisogna affermare con chiarezza è che il criterio di accertamento del nesso causale -la sussistenza di una legge scientifica di copertura- non può valere in tema di accertamento della colpa, né specifica né generica. Una volta accertato in forza del modello causale sopra ricordato che una determinata condotta sia condizione necessaria di un determinato evento, ed una volta stabilito che quella condotta o viola specifiche norme prevenzionali o è comunque imprudente, negligente o imperita, si risponderà dell’evento di danno in qualsiasi modo, anche nella sua peculiarità non prevedibile, concretizzatosi. Resta ovviamente da riempire il concetto di colpa specifica o generica nei requisiti di prevedibilità dell’evento, una volta per tutte operata dal legislatore con la previsione della norma cautelare ovvero volta per volta da verificare nei casi di specie, e di prevenibilità con l’adeguamento della condotta alla norma cautelare ovvero, ove norma specifica imponente una determinata condotta non vi sia, alle regole di prudenza, diligenza, perizia recepite dalla generalità.

 

 Ma certo è che nell’ordinamento penale e nello specifico nei reati con evento di danno alla persona, quali l’omicidio colposo o le lesioni personali colpose, la prevedibilità di evento dannoso che spinge il legislatore a dettare la condotta da tenere o l’agente ad uniformarsi ad un comportamento da agente modello, non può essere ritenuta prevedibilità di un evento tipico conosciuto o conoscibile in forza di specifica e conosciuta o conoscibile norma scientifica di copertura generalmente accettata nella comunità scientifica. Intanto ben può il legislatore antinfortunistico avere in considerazione una pura ipotesi di rischio, non dovendo certo aspettare una legge scientifica di copertura pur nella generica previsione di dannosità di un determinato comportamento, e certo la cogenza della norma cautelare imposta  non può essere poi condizionata a leggi scientifiche di copertura: l’agente deve uniformarsi a prescindere da una specifica prevedibilità di un evento tipico non ancora spiegato nella sua correlazione dalla scienza, e risponderà pur se la sua azione ha cagionato una malattia ancora ignota piuttosto che una nota che aveva già spinto il legislatore a dettare la norma cautelare: vi sarebbe il nesso, questo sì spiegato scientificamente con la corroborazione delle evidenze disponibili, vi è la colpa consistita nella violazione di un obbligo comportamentale già mirante ad evitare genericamente danni e non un determinato specifico danno.

 

Ma poi, laddove è in capo all’agente che si impone la ricerca della prevedibilità dell’evento, ciò che occorre cercare è la mera rappresentabilità di un evento generico di danno alla vita o alla salute; nella specie la rappresentazione della potenziale idoneità della sostanza, senza idonee schermature prevenzionali, a dar vita ad una situazione di danno per la salute.

Altrimenti anche in un banale incidente stradale sicuramente determinato magari da mera imprudenza o imperizia, se in conseguenza dell’urto dal quale può normalmente derivare alla vittima la frattura di un osso, ne deriva invece una patologia più grave o la morte per un meccanismo raro (ma ovviamente, pur nella scolastica ipotesi, certo nel suo collegamento causale con l’urto, anche se tale meccanismo viene solo successivamente e magari in occasione proprio del processo acclarato dalla scienza), dovrebbe escludersi la colpa.

Nello specifico delle conseguenze causate dall’azione nociva del CVM, dunque non può ritenersi ai fini della sussistenza del requisito della prevedibilità, la necessità, né nella colpa generica né tantomeno nella colpa specifica, della conoscenza da parte dell’agente dei meccanismi causali della sostanza in oggetto spiegati da una legge scientifica di copertura. In ambito di colpa il parametro è il rischio.

 

Pienamente condivisibile sul punto dunque il P.M. laddove appunto rimarca che se è vero, come affermato dal Tribunale che la colpa, a differenza del nesso causale per il quale si ha riguardo anche a leggi scientifiche scoperte successivamente, va accertata con riferimento alle nozioni conosciute all’epoca in cui è stata posta in essere la violazione della norma cautelare antinfortunistica, questo non significa che non si possa far riferimento a tutte le conoscenze che concorrono a qualificare il rischio conseguente ad una determinata condotta, anche mere, se serie ovviamente (come nella specie certo seri erano gli studi Viola comunicati alla comunità scientifica internazionale) prospettazioni di un rischio da affrontare con l’urgenza del caso. E si ricordi fin d’ora di come certo risultarono allertati ed allarmati i dirigenti Montedison che subito si premurarono di commissionare a Maltoni specifici approfondimenti.

Peccato che intanto non si è operato all’interno degli stabilimenti e verso i lavoratori esposti a quel rischio più che paventato, adempiendo tra l’altro allo specifico, certo generico ma cogente, obbligo imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c di curare la sicurezza, dovere che imponeva agli imputati (quelli sopra individuati che in quel periodo, dal 1969 al 1973, si trovavano, pur nella specificità di ruolo e funzioni, in posizione di garanzia in quanto da ognuno si potevano pretendere interventi) di adottare precisi comportamenti e di apprestare tutti i mezzi (quelli, per non peccare di genericità ed apoditticità, poi adottati ed apprestati a partire dal 1974) necessari per la concreta tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.

 

E’ già, il suddetto, un sussistente profilo di colpa, se si vuole, generica (ma il collegamento alla violazione di cui all’art. 2087 c.c. per alcuni interpreti la rende specifica) in capo agli imputati, i quali appunto, a prescindere dai profili di colpa (questi sì, unanimamente) specifica correttamente individuati dagli appellanti e dei quali subito di poi si dirà, con la divulgazione degli studi Viola (e, si badi, con le specifiche raccomandazioni da questi date in relazione agli urgenti interventi negli ambienti di lavoro pur in situazione non ancora comprovata scientificamente di cancerogenicità della sostanza) dovevano valutare e gestire il rischio che si prospettava ancora maggiore rispetto a quello che già conoscevano, ed anche di questo di poi si dirà, in merito alla nocività del CVM.

 

E per farlo dovevano ricorrere immediatamente, senza aspettare la validazione di Maltoni alle ipotesi Viola, alle cosidette “default opinion”, cioè a dire quell’opzione, come definita dal consulente Lotti, scelta sulla base di una politica di valutazione del rischio che sembra essere la migliore in assenza di dati che dimostrino il contrario. Ipotesi di default che già il Tribunale ha ritenuto non pertinenti all’accertamento del nesso causale, ma qui, ai fini della colpa, come ancora ben colto dal difensore della Parte Civile Legambiente-Associazione di Protezione Ambientale Comitato Regionale Veneto, il rapporto di accertamento è invertito, e bisognava muoversi sulle default opinion, il che vuol dire che sino a quando non si aveva la prova che il cloruro di vinile non è cancerogeno, il datore di lavoro doveva comportarsi esattamente come se lo fosse, cioè doveva agire sull’ipotesi di rischio.

D’altra parte della valenza scientifica degli studi Viola non può seriamente discutersi. Viola, giova ricordarlo anche se questi dati sono ben illustrati nella sentenza del Tribunale, non è un medico che estemporaneamente fa una ricerca senza seguito o ascolti. E’ il medico di fabbrica della Solvay di Rosignano che opera in ambito industriale e che da anni studia sperimentalmente gli effetti nocivi del CVM. I dati della sua ricerca vengono presentati a Tokio nel 1969 ad un congresso di medici del lavoro, e poi, nel 1970 all’importante congresso di Houston dove comunica i risultati di uno studio in cui vengono osservati tumori in topi e ratti esposti per via inalatoria a CVM.

 

Detti dati vengono poi pubblicati, sempre nel 1970, a consacrazione della recezione dello studio da parte della comunità scientifica internazionale, su una rivista scientifica, Cancer and Research. Ma, per noi ancora più rilevante, Viola è conosciuto personalmente dal direttore del servizio centrale del servizio sanitario Montedison, cioè l’imputato Bartalini, che conosce altresì i suoi studi e lo presenterà a Maltoni, incaricato appunto da Montedison di portare avanti la ricerca sulla cancerogenicità del CVM.

In tale situazione, coincidente temporalmente proprio con il momento iniziale della contastazione dell’imputazione, le precedenti inerzie, fuori contestazione ma rilevanti per la valutazione dell’elemento psicologico che sorreggeva le condotte degli imputati nel quinquennio (1969-1973) che qui interessa, perdurarono come se nulla fosse.

 

Inerzie già colpevoli, per la conoscenza che comunque, e si vedrà, si aveva della tossicità della sostanza, e dunque per la prevedibilità, a parte le specifiche violazioni di norme antinfortunistiche che venivano in rilievo già per la natura tossica, e tossica anche per legge, della sostanza, di eventi di danno alla salute dei lavoratori. Inerzia già colpevole per lo stesso Tribunale che ha comunque riconosciuto che effetti acuti, quali nausee e svenimenti erano conosciuti, così come erano conosciute patologie che derivavano dall’esposizione, quali il fenomeno di Raynaud e l’acrosteolisi, peraltro ritenendo la colpa correlabile solo a tali conseguenze e non ad altre ritenute non conosciute.

Ma tutti i vertici aziendali, da quelli operativi a quelli medici ed a quelli di politica industriale, ben si erano resi conto che c’era qualcosa di nuovo che poteva non più lasciar passare quell’andazzo. Allora si attivarono, ma non nel senso dovuto; non ricorrendo ad ipotesi di default; non intervenendo nell’ambiente di lavoro (secondo le varie direttrici poi seguite dal 1974 in poi: abbattere i livelli di esposizione, collocare gli strumenti prevenzionali che di poi si specificheranno nell’esame della fattispecie di cui all’art. 437 c.p., investire in nuove tecnologie, intensificare la sorveglianza sanitaria); non investendo cioè nella sicurezza; ma investendo nella ricerca, così intanto procrastinando i certamente più onerosi interventi in azienda (da rivoltare nelle concezioni lavorative e da rinnovare nelle tecnologie), e poi con la speranza che magari tutto si risolvesse in un fuoco di paglia così da non essere neppure tenuti a modificare nulla, cercando di non diffondere intanto notizie che potevano allarmare il mercato (non nel senso della segretezza sostenuta dall’accusa in quanto comunque nessun vincolo di segretezza era dato a Maltoni, ma solo nel senso di stare zitti fino a dati sicuri, se ne discuterà meglio trattando del reato ex art. 437 c.p.).

 

Intanto i lavoratori continuavano a rimanere esposti alle alte concentrazioni di CVM che, si è accertato, ed a spada tratta lo sostiene la stessa difesa degli imputati ed in particolare la difesa di Smai, Pisani, Patron che più si è occupata della problematica della causalità, proprio nel perdurare di esposizioni ad elevate dosi quali quelle di quel periodo ravvisa quella che chiama causalità generale e cioè potenzialità, conclamata scientificamente, di causare l’angiosarcoma epatico. Un investimento nella sicurezza avrebbe potuto salvare i lavoratori che poi si sono ammalati di angiosarcoma e deceduti (la richiesta prevenibilità).

Ma evidente è altresì la prevedibilità (non di una malattia che si chiama angiosarcoma, ma di un grave danno alla salute, ed a quel punto anche di un rischio, seppur ancora non certezza, di tumori nei lavoratori dovuti a quelle condizioni di lavoro vigenti.

 

Se un tale rischio non fosse stato percepito dai vertici di Montedison, neppure si sarebbero attivati per dare impulso alle ricerche di Maltoni proprio sulla natura cancerogena del CVM. Il fatto è stato giudicato positivamente dal Tribunale, ma processualmente ha solo la valenza di prova della consapevolezza dei potenziali effetti cancerogeni del CVM, che è comunque un grado di conoscenza sufficiente a fondare la colpa, soprattutto se ancorata alla sicura conoscenza sulla tossicità e nocività per la salute dei lavoratori per gli effetti già conosciuti che da soli avrebbero dovuto imporre quegli interventi poi posti in essere a partire dal 1974.

E vediamo dunque queste conoscenze sulla tossicità della sostanza che già avrebbero imposto, nel rispetto delle norme antinfortunistiche invocate dal P.M. e vigenti fin dagli anni cinquanta (colpa specifica), ed altresì nella concreta rappresentazione che già se ne poteva ricavare di un generico danno alla salute (colpa generica), l’eliminazione delle situazioni di rischio imperanti fino al 1974.

In merito, puntuale è la disamina degli appellanti, sia nei dati di fatto che nell’indicazione delle correlate norme cautelari, e possono pertanto essere integralmente recepite le conclusioni degli stessi relative sia alla risalente conoscenza, rispetto al periodo di contestazione, della tossicità della sostanza, sia della riferibilità alla lavorazione di tale sostanza delle norme cautelari specificate in imputazione.

 

Giovano comunque, solo per migliore comprensione delle conclusioni sul punto di questa Corte, brevi notazioni che appaiono maggiormente rilevanti. Intanto, bisogna partire dal dato normativo che include il cloruro di vinile, in quanto derivato  degli idrocarburi alifatici, tra le sostanze tossiche per le quali il legislatore del 1956 (DPR n. 303), nel dettare le norme cautelari, ha considerato non solo effetti lesivi per l’integrità fisica (il CVM è sostanza infiammabile ed esplosiva), ma altresì effetti dannosi per la salute: prova ne sia l’obbligo di visite mediche trimestrali. Il rimedio correlato alla tossicità e quindi nocività della sostanza, cioè specificamente previsto dal legislatore per prevenire i danni alla salute dei lavoratori che l’azione tossica della sostanza può cagionare, è quello previsto dagli artt. 20 e 21 DPR 303/56 che impongono al datore di lavoro l’abbattimento delle polveri e dei gas della cui nocività, quanto al CVM, non può discutersi attesa la classificazione normativa come tossica, basata ovviamente su conoscenze che risalivano a studi ed esperienza dei due decenni precedenti.

Ma quanto alla conoscenza di tale nocività per la salute del CVM, superata pure ogni digressione, comunque compiutamente svolta nei motivi di appello del P.M. e controdedotta dalle difese degli imputati che non negano gli studi citati dal P.M., da Tribuk 1949 fino a Viola, ma ne contestano la conoscenza nel mondo occidentale fino agli anni settanta (dimenticando che tra gli studi elencati ve ne sono pure di autori occidentali), rileva verificare quanto poteva essere noto specificamente in Montedison.

Emerge allora che già sul finire degli anni cinquanta ed inizio anni sessanta i documenti aziendali di Montedison contenevano specifiche prescrizioni di sicurezza sull’utilizzo del CVM, proprio in ragione della sua riconosciuta e specificamente menzionata “tossicità” sia pure a dosi non modeste.

 Questo dato di conoscenza è poi confessato dall’imputato Bartalini che ha riferito che le conoscenze dell’epatotossicità del cloruro di vinile risalivano già al periodo in cui egli compiva gli studi universitari (pacificamente ben prima del periodo della contestazione), ed è testimoniato dal dott. Giudice, medico di fabbrica del Petrolchimico di Porto Marghera, che pure parla di apprendimento della natura epatotossica del cloruro di vinile dai testi universitari (si è laureato, come emerge in atti, nel 1956) e che nella pratica in fabbrica con queste tematiche aveva fatto i conti.

 

D’altra parte emerge da un documento del marzo 1999 dell’APME (Associazione Europea dei Produttori di Materie Plastiche), quindi documento proveniente dall’Industria e non certo da controparti, che il problema della tossicità del cloruro di vinile, quanto alla consapevolezza, viene differenziato in tre periodi: nel primo, tra gli anni trenta e quaranta, “vennero rilevati gli effetti acuti sull’uomo”; nel secondo, tra gli anni cinquanta e sessanta, si evidenziano “alterazioni non specifiche della funzionalità epatica e del sistema digestivo e respiratorio, sindrome di Raynaud nelle mani, lesioni sclerodermiche e alterazioni ossee osteolitiche delle falangi distali. Tutti questi effetti entrarono a far parte di quella che diventò conosciuta come Malattia da cloruro di vinile”; nel terzo periodo, all’inizio degli anni settanta, “si scoprì l’effetto cancerogeno del CVM”.

 

Emerge dunque chiaro dalle risultanze processuali l’erroneo apprezzamento da parte del Tribunale in ordine alla conoscenza della nocività del CVM, attestandosi, pur ancora con riferimento al periodo che si colloca a fine anni sessanta ed i primi anni settanta quando invece già emergeva il rischio (se non ancora un conclamato accertamento) cancerogeno, su una assunta consapevolezza del solo rischio di esplosività della sostanza, oltre che, ma lo tratta come una monade senza trarne alcuna conseguenza, del rischio collegato al fenomeno di Raynaud ed acrosteolisi.

Ritiene invece la Corte, in forza degli elementi solo nei punti salienti qui ricordati, ma più analiticamente sopra evidenziati nella esposizione dei motivi d’appello del P.M, che non può negarsi da parte degli imputati la conoscenza, in tal caso piena e con copertura scientifica e legislativa fin da prima del 1969, della natura epatotossica del CVM, della sua idoneità quindi ad aggredire almeno l’organo del fegato provocandone gravi malattie.

 

E questo è l’evento oggetto della prevedibilità sufficiente ad integrare la colpa ove non si sia tenuto un  comportamento idoneo ad evitare tale specifico rischio. Non si richiede, e si ritorna al punto di partenza in diritto, per ritenere la sussistenza della colpa in capo all’agente per omicidi o lesioni personali aggravati dalla violazione di normativa antinfortunistica, la prevedibilità dello specifico evento morte conseguente a quella specifica malattia o la prevedibilità di quella specifica lesione, ma unicamente la previsione di un grave danno alla salute che nella specie è resa probatoriamente evidente dalle comprovate conoscenze già dell’epatotossicità e poi del rischio cancerogeno del CVM nelle alte esposizioni che interessavano gli ambienti di lavoro fino a tutto il 1973; vieppiù poi imputabili a tale titolo agli imputati detti eventi per la specifica violazione delle norme prevenzionali che nella lavorazione di sostanze tossiche dettava il legislatore del 1956.

 

 Le ha elencate il P,M, nel suo appello ed è qui ormai davvero superfluo analiticamente ricordale atteso che le tematiche in contrapposizione tra le parti non riguardavano tanto i comportamenti in sé, pacificamente omessi fino al 1974, ma la riferibilità degli obblighi alle lavorazioni del CVM sulla quale ci si è testè intrattenuti, ritenendola.

Conclusivamente sul punto dunque la Corte, ricordato che relativamente ai reati di lesioni personali per epatopatie per le quali non emerge altresì all’evidenza già l’esclusione del nesso causale si è sopra detto della necessaria immediata declaratoria di estinzione per prescrizione onde la piena delibazione sulla sussistenza dell’elemento psicologico non rileva perché anche per tale elemento è sufficiente, in presenza di causa estintiva, la non evidenza dell’insussistenza della colpa, quanto invece ai reati di omicidio colposo per i casi riconosciuti di angiosarcoma, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, la riferibilità causale alle contestate condotte degli individuati imputati è accompagnata anche dall’imputazione a titolo di colpa.

Ora, prima di provvedere in merito a detti reati, vanno affrontate le problematiche , sostenute ancora dagli appellanti nei motivi di appello relative alle contestate CONTINUAZIONE, COOPERAZIONE COLPOSA e PRESCRIZIONE, potendo detti istituti avere ovviamente influenza sulle statuizioni da adottare in merito ai reati ritenuti pienamente integrati.

 

Quanto alla continuazione ex art. 81, comma 2, c.p., ritenuta dal P.M. configurabile fra i delitti colposi contestati, in specie: lesioni personali, disastri e strage colposi, nonché reati ambientali vari, osserva la Corte che già in diritto neppure infine si attagliano al caso di specie, le, dal P.M. stesso ricordate come “isolate”, tesi dottrinali e giurisprudenziali che sostengono la piena compatibilità della continuazione con i delitti e i reati colposi. Invero, le ricordate pronunce ( Cass., sez. I, 24 maggio 1985, Sicchiero, che fa espresso riferimento alla possibilità di continuazione nei reati colposi, allorché vi sia  l'aggravante di aver agito nonostante la previsione dell'evento; Cass., sez. I, 10 marzo 1983, Avena, che riconosce la possibilità di ravvisare la continuazione anche quando si abbia la cosiddetta "colpa impropria", che implica, peraltro, un reale contenuto psicologico a base della condotta dell'agente, pur se l'imputazione sia poi a titolo di colpa e non di dolo), ma anche la ricordata tesi dottrinaria (per la quale, in ambiti soprattutto qual è quello in questione, di attività economiche, sarebbe senz'altro compatibile, con il rimprovero di colpa, tanto più se "cosciente", la presenza di un unico "disegno criminoso", realizzato dalle diverse condotte esecutive, attive od omissive, in sé finalistiche, anche se non tecnicamente "dolose" rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo intergrano, dovendosi fare riferimento non all’intera serie di elementi che costituiscono i reati, ma solo alle mere “azioni od omissioni”), intanto pongono dei precisi “paletti”, quali l’agire con dolo o almeno con previsione dell’evento in violazione di norme comportamentali nel perseguimento di uno scopo, che nella specie o non sono pertinenti, si dica dei reati a cosiddetta colpa impropria che implicano una condotta intenzionale in cui la colpa è considerata solo agli effetti sanzionatori, o si sono infine rivelate non sostenibili, si dica dell’aggravante della colpa cosciente già sopra esclusa, ovvero comunque non rinvenibili nell’intera nostra fattispecie per come strutturato l’editto di accusa.

 

 Dovendosi invero fare riferimento pur sempre all’agire dell’imputato e non a teoriche di impresa, il finalistico orientamento delle azioni od omissioni integranti i vari delitti colposi andrebbe comunque ricercato in capo allo stesso. E cioè, l’unicità del disegno criminoso nella perpetrazione delle condotte che realizzano più reati, andrebbe provata, sia nella originaria progettazione (ideazione) che nella deliberazione (volizione) che nello scopo prefisso da realizzare attraverso quei comportamenti pur genericamente preordinati, in capo al soggetto agente che i diversi reati infine ha commesso.

Già è evidente come un simile ragionamento non sia sovrapponibile alle realtà del caso di specie per come costruito nell’editto di accusa, ove i diversi comportamenti, pur ad ammettere realizzati in ossequio a medesima politica aziendale ed addirittura di aziende diverse per le quali neppure è coglibile una comune condivisa progettualità ove non si voglia ritenere sufficiente affermare che lo scopo del profitto è proprio di ogni impresa, sono posti in essere in lungo arco temporale da diversi soggetti su piani ed in tempi diversi. Venuta meno la possibilità di cementare ogni singola violazione di ogni singolo imputato a quelle degli altri attraverso l’istituto della cooperazione colposa, esclusa per quanto sopra già osservato, non si vede, neppure seguendo le minoritarie tesi avvalorate dal P.M., come ravvisare la continuazione tra reati colposi commessi da soggetti diversi anche nel caso di corresponsabilità per il concorso di fattori causali colposi indipendenti.

 

Né, nella specie, la continuazione potrebbe ritenersi sussistente, sempre in forza delle suddette tesi, in capo al singolo imputato eventualmente responsabile di più violazioni integranti reato, facendo perno sul finalistico perseguimento degli scopi aziendali. Ed invero, non potrebbe, anche nel caso di concettuale compatibilità tra continuazione e reati colposi, non valere in questi casi quanto deve ritenersi necessario per la configurabilità stessa del reato continuato: un medesimo disegno criminoso orientato al raggiungimento di un determinato scopo (i sopra ricordati fattori intellettivo, volitivo e finalistico per i quali occorre pure che vi sia prova) che è cosa diversa dell’abitualità a delinquere sia pure nel perseguimento di finalità (ossequio a determinata politica aziendale) che si perpetuano all’infinito e che evidenziano, proprio perché non può formularsi prognosi di cessazione di attività illecita, una pericolosità incompatibile con l’istituto.

Esclusa dunque la configurabilità della continuazione tra i reati in oggetto, nessuna influenza ne può derivare nell’analisi delle vicende giuridiche dei singoli reati stessi (tempo del commesso reato, prescrizione e quant’altro).

Quanto alla cooperazione colposa ex art. 113 c.p., contestata nell'imputazione, non paiono condivisibili già in diritto le argomentazioni dell’accusa appellante avverso l’esclusione della configurabilità della stessa nell’ipotesi di specie sostenuta dal Tribunale, che rimarca appunto che mancherebbero i supposti requisiti della "reciprocità" e "contestualità" della rappresentazione dell'altrui condotta colposa, nei partecipi di questa "anomala" forma di partecipazione al reato, esclusione “logicamente” ricavabile proprio dalla dimensione diacronica enorme, che connota questa vicenda, nonché dalla autonomia dei due "centri decisionali organizzati" che hanno determinato le decisioni di politica d'impresa sub iudice.

 

Si è sopra ricordato come, in contrario, sostengono gli appellanti ed in specie il P.M. che, né nella lettera né nella ratio di disciplina dell'istituto, si rinviene una siffatta restrizione o possibilità di esclusione del suo ambito di operatività, essendo anzi vero il contrario, in quanto il legame di "cooperazione" su cui si fonda l’estensione di punibilità operata dall’art. 113 c.p., non implicherebbe affatto un atteggiamento psicologico reale e contestuale di "consapevolezza reciproca" delle rispettive azioni, essendo sufficiente, in conformità con i requisiti della colpa, la «prevedibilità della condotta altrui, concorrente con la propria», e realizzatrice (o "concretizzatrice") proprio del tipo di rischio che la norma precauzionale violata mirava ad evitare.

Ritiene la Corte che, in conformità a costante e condivisa giurisprudenza di legittimità, la cooperazione colposa nella ricostruzione dell’oggettiva  e psicologica consumazione di un determinato reato, non possa concettualmente prescindere dall’elemento della consapevolezza, da parte di ciascun partecipe, dell’esistenza dell’azione altrui in concomitanza con la propria. E se per concomitanza non deve ovviamente intendersi contestualità, dovendosi ovviamente tenere in considerazione tutto il tempo nel corso del quale si sviluppano le azioni e/o le omissioni che portano all’unico risultato delittuoso, il collegamento psicologico che unisce appunto dette varie azioni e/o omissioni nei delitti colposi relativamente ai quali il legislatore ha così ovviato all’impossibilità di ricorrere all’art. 110 c.p., non può non cogliersi, parimenti a quanto avviene nel concorso ex art. 110 c.p. nei reati dolosi che in più richiede solo l’elemento volitivo in ordine all’evento reato, nella reciproca consapevolezza dei rispettivi comportamenti, così come nel concorso ex art. 110 c.p. è necessario che ogni partecipe con consapevolezza e volontà dia il proprio contributo causale all’azione dei partecipi.

 

Chiara in tal senso la Suprema Corte (vedi SS.UU. 25/11/1998, Loparco, citata anche dalle parti) che rimarca, senza possibilità, come si vorrebbe da parte degli appellanti, di dare alla pronuncia stessa significati che infine annullerebbero quanto con chiarezza enunciato non solo in massima ma anche in motivazione con collegamento al caso di specie in quel processo esaminato, come “la cooperazione nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto”.

Qualora detto requisito manchi, e nella specie in alcun modo emerge, neppure se ridotto a mera conoscibilità dei comportamenti precedenti o prevedibilità dei comportamenti futuri che presupporrebbe peraltro pur sempre un dovere di previsione e conseguente impedimento della ipotetica violazione futura altrui in alcun modo sostenibile nella vicenda in esame, e tuttavia si osserverà che l’evento dipende da diversi contributi causali sviluppatisi nel tempo, non vi sarà più “cooperazione”, ma “concorso di fatti colposi indipendenti”.

 

Tanto, e per i suddetti motivi, si ritiene per le ipotesi di reato ritenute da questa Corte, e nello specifico per il reato per il quale vi è affermazione di responsabilità degli imputati in posizione di garanzia nel periodo in cui il perpetuarsi delle alte esposizioni a CVM cui veniva sottoposto il lavoratore Faggian Tullio, e quindi il concorso dei rispettivi autonomi fatti colposi, le sopra esaminate colpose violazioni, hanno determinato l’insorgere della malattia (angiosarcoma) e quindi l’evento letale pur intervenuto dopo tantissimi anni, nella ormai pacifica dinamica di una tale patologia che ha tempi di latenza anche trentennali. Non occorre, si apra una parentesi, spendere parole per spiegare che non si condannano persone che hanno operato negli anni 60/70 per fatti a loro estranei verificatesi trenta anni dopo, ma per eventi collegati proprio alle loro plurime ed autonome azioni od omissioni temporalmente collegate al periodo in cui operavano. E che le patologie di cui si tratta nella specie abbiano tempi di latenza, rispetto alla causa generatrice, lunghissimi, è nel presente processo dato acquisito da tutti, anche da chi non è medico (e tra gli imputati condannati vi è pure un medico).

 

Quanto in particolare alle tematiche relative alla prescrizione, le stesse risultano superate dalla decisione di merito in ordine alla sussistenza o meno dei reati di cui si discute, alla loro autonomia e precisa collocazione temporale sopra evidenziata.

Così, superate debbono considerarsi le argomentazioni degli appellanti (in particolare P.M. e avv. Zaffalon per le parti civili rappresentate) che ricollegano l’insussistenza della prescrizione per tutti i reati contestati alla tesi che il disastro di cui al primo capo d’imputazione sarebbe un reato eventualmente progressivo nel quale gli eventi si susseguono l’uno a l’altro e ciascuno e tutti ne costituiscono la consumazione, onde il tempo del commesso reato coinciderebbe con l’ultimo evento, collocabile nella specie, per tutti gli imputati, nel 2000, ovvero che la ricollegano alla sostenuta natura di ipotesi autonoma di reato per quanto riguarda quella prevista dal secondo comma dell’art. 437 cp, ed infine al collegamento sotto il vincolo della continuazione di tutti reati contestati.

 

Tutto ciò non ha ormai rilevanza ai fini della decisione, posto invece che, come infra si dirà, il reato di disastro innominato colposo per il periodo successivo al 1973 non è stato ritenuto oggettivamente sussistente, posto ancora che per l’ipotesi ritenuta sussistente di omessa collocazione di dispositivi antinfortunistici dai quali sono derivati infortuni ex art. 437, 1° e 2° co., c.p. per condotte tenute fino a tutto il 1973 dagli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte, che si estenderebbe fino al 1999 (decesso di Faggian Tullio per angiosarcoma contratto in conseguenza delle alte esposizioni senza gli opportuni strumenti e impianti antinfortunistici fino al 1973) si è esclusa la sussistenza dell’elemento psicologico del reato (dolo), e posto che il reato di cui all’art. 437, 1° co., c.p., in relazione all’omessa collocazione di impianti di aspirazione, ascrivibile alle condotte omissive degli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti, D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach, Gaiba, Fabbri, Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, si è ritenuto realizzato fino agli inizi degli anni ottanta quando poi si ovviava all’omissione adeguatamente completando l’installazione di idonei impianti di aspirazione in ogni ambiente lavorativo a rischio, mentre insussistenti sono stati ritenute le ipotesi stesse di reato al di là di tali limiti; e posto infine che, come sopra osservato, la continuazione tra i reati in oggetto ed anche tra i singoli delitti di lesioni o omicidio colposi non è configurabile.

 

CONCLUSIONI IN MERITO AI RITENUTI REATI DI OMICIDIO COLPOSO

Quanto dunque ai reati di omicidio colposo ai danni dei lavoratori Simonetto Ennio, Agnoletto Augusto, Zecchinato Gianfranco, Pistolato Primo, Battaggia Giorgio, Suffogrosso Guido, Fiorin Fiorenzo e Faggian Tullio, deceduti appunto per angiosarcoma epatico contratto in conseguenza delle alte esposizioni a CVM cui venivano esposti dall’epoca dell’assunzione (rispettivamente avvenuta negli anni: 1961, 1955, 1960, 1956, 1956, 1961, 1953, 1967) fino a tutto il 1973, e dunque, per come già ritenuto dal Tribunale e non fatto oggetto di gravame da parte di alcuno in processo, causalmente collegati alle azioni ed omissioni degli imputati sopra individuati, azioni ed omissioni che, come sopra, questa Corte ha ritenuto, così riformando sul punto il giudizio del Tribunale, colpevoli (onde resterebbero integrati i reati stessi sia nell’elemento oggettivo che in quello soggettivo), va peraltro subito rilevato:esclusa come sopra pure già osservato la continuazione, e dovendosi altresì considerare i singoli eventi fattispecie concrete autonome per i contesti di tempo e di luogo in cui nello specifico si consumavano le singole vicende sia pure in conseguenza di azioni ed omissioni che, sempre le stesse, si reiteravano e perpetuavano in quel periodo, con esclusione quindi dell’ipotesi di cui all’art. 589, 3° comma, c.p. che, particolare figura di concorso formale di reati unificati quoad poenam, è incompatibile con la pluralità, autonomia e diversa collocazione temporale delle condotte e degli eventi di cui sopra,  gli omicidi colposi ai danni di Simonetto (deceduto nel 1972) e di Agnoletto (deceduto nel 1973) sono ormai prescritti pur nei termini della contestazione, essendo decorsi oltre ventidue anni e mezzo dal dì della consumazione.

Quanto ai restanti casi, ritiene intanto la Corte debbano essere escluse, oltre, come sopra osservato, la continuazione e la configurazione dell’ipotesi di cui al terzo comma dell’art. 589 c.p., le contestate aggravanti di cui all’art. 61, nn 1, 3, 5, 7, 8 e 11 c.p.. Ed invero, all’evidenza insussistente nella specie, con specifico riferimento ai reati di omicidio colposo, l’aggravante della colpa cosciente, atteso che i termini stessi in cui è stata riconosciuta la colpa, alle cui considerazioni sopra svolte si rimanda, non consentono poi di ritenere altresì in capo agli (rectius a ciascuno degli) imputati la previsione dell’evento morte (che è qualcosa in più della prevedibilità dell’evento dannoso, seppur non specificamente individuabile, che è sufficiente, in uno con gli altri elementi richiesti, per la configurabilità della colpa) per la possibile contrazione da parte di qualche lavoratore di una patologia letale, l’angiosarcoma epatico, che neppure scientificamente in quell’epoca si sapeva sicuramente riferibile all’esposizione a CVM.

 

 Ma insussistenti altresì nella specie le ulteriori aggravanti citate, o perché nella intrinseca loro natura richiedono (e sempre da provare in capo a ciascun imputato che ha posto in essere un antecedente causale) una sostanziale intenzionalità finalizzata o strumentalità cosciente (l’agire per motivi abietti o futili, l’approfittare di circostanze di tempo di luogo o di persone tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, l’abusare, usare cioè con finalità distorte, della propria autorità e delle condizioni di prestazione d’opera) che mal si conciliano con la natura colposa dei reati che ci occupano, e che comunque non si colgono nelle specifiche condotte dei singoli imputati; o perché razionalmente non collegabili al delitto di omicidio (l’avere cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante entità, laddove per persona offesa deve intendersi la vittima, per il quale non può discutersi di danno patrimoniale, e non gli altri possibili danneggiati); o perché di fatto neppure determinate nella loro concretezza le specifiche azioni poste in essere da ciascun imputato dopo la consumazione di ogni singolo fatto-reato  che ne avrebbero aggravato le conseguenze.

 

A tal punto, escluse anche le suddette aggravanti e residuando dunque singoli reati di omicidio colposo con la sola aggravante di cui all’art. 589, 2° comma, c.p., per la violazione di norme per la prevenzione di infortuni sul lavoro, ne deriva altresì la prescrizione, per il decorso del termine massimo di quindici anni, dei reati ai danni di Zecchinato Gianfranco (deceduto nel 1986) e Pistolato Primo (deceduto nel 1988), e ne va senz’altro pronunciata la relativa declaratoria.

Residuano i casi ai danni di Battaggia Giorgio, Fiorin Fiorenzo, Suffogrosso Guido e Faggian Tullio per i quali sono responsabili, secondo i criteri sopra esposti che hanno fatto riferimento alle loro specifiche azioni ed omissioni causalmente e colpevolmente collegate ai delitti stessi, gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte.

 

Possono peraltro concedersi ai predetti imputati attenuanti generiche. In tal senso depongono le condizioni soggettive (soggetti immuni da precedenti che possano evidenziare capacità a delinquere) e, soprattutto, il fatto che in un contesto di rilevante attività d’impresa in epoca immediatamente susseguente al grande sforzo economico di ripresa nel secondo dopoguerra, e nel quale tutte le componenti sia politiche che sociali che di categoria, non solo dunque l’industria grande o piccola, avevano a cuore e privilegiavano problematiche occupazionali e di sviluppo piuttosto che la sicurezza ambientale o dei luoghi di lavoro, gli imputati non agivano in disarmonia con tale scarsa sensibilità: il condizionamento dei tempi può dunque essere considerato elemento che sminuisce le personali responsabilità consentendo appunto la concessione di attenuanti generiche alle persone fisiche che dei reati debbono rispondere. Attenuanti che in forza delle stesse considerazioni possono ritenersi prevalenti sulla sussistente aggravante di cui al secondo comma dell’art. 589 c.p. contestata.

 

Ora, la concessione delle predette attenuanti con giudizio di prevalenza, comporta immediata declaratoria di estinzione per prescrizione anche per i reati ai danni di Battaggia Giorgio (deceduto nel 1990), Fiorin Fiorenzo (deceduto nel gennaio 1997) e Suffogrosso Guido (deceduto nel 1990), riducendosi il termine prescrizionale massimo ad anni sette e mesi sei, ormai decorso.

Gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte, già individuati dal Tribunale (e sul punto, non oggetto peraltro di impugnazione alcuna, si richiama e fa propria la motivazione della sentenza di primo grado) come responsabili (incolpevoli secondo il Tribunale, ma colpevolmente a giudizio di questa Corte come sopra motivato), nelle rispettive posizioni di garanzia, delle violazioni ed omissioni causalmente collegate all’insorgenza, per le alte esposizioni cumulative cui venivano sottoposti i lavoratori dal 1969 a tutto il 1973, dei riconosciuti casi di angiosarcoma, vanno dunque dichiarati colpevoli, esclusa come sopra osservato la cooperazione colposa ex art. 113 c.p. ed applicato l’art. 41 c.p., e condannati per il residuo caso di omicidio colposo ex art. 589, 1° e 2° co., c.p., ai danni di Faggian Tullio, deceduto appunto nel 1999 (reato quindi ancora non prescritto) per angiosarcoma epatico contratto, tenuto conto del periodo di latenza che per tale patologia, si è ricordato e ben lo ha esposto il Tribunale nella disamina delle conoscenze scientifiche in materia, può anche superare i trent’anni, per le alte esposizioni cui veniva sottoposto nei primi cinque sei anni dall’assunzione (1967), e per quello che interessa in relazione all’imputazione, dal 1969 a tutto il 1973.

 

Pertanto, tenuto conto delle concesse attenuanti generiche, ritenute, come sopra già esposto, prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 589, 2° co., c.p. mentre le ulteriori aggravanti contestate sono state escluse, e valutati tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. (da un lato la sicura estrema gravità del fatto: per il contesto in cui avveniva in ambiente lavorativo che dovrebbe essere vocato a soddisfare esigenze di vita dei lavoratori al riparo da rischi non consentiti, per le irreparabili conseguenze dannose che ne sono derivate, e per la colpa certo non lieve degli autori del reato; ma da altro lato la scarsa capacità a delinquere degli imputati stessi desumibile dai buoni precedenti penali e dai successivi comportamenti non improntati a spregio delle regole del vivere civile), si stima equa per gli imputati di pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno (pena base anni due e mesi tre di reclusione, ridotta di un terzo per le generiche), oltre al pagamento delle spese processuali dei due gradi di giudizio.

Ritenuto che gli imputati, considerate le loro condizioni di vita e l’assenza di indici rivelatori di capacità a delinquere, si asterranno nel futuro dal commettere altri reati, si concedono loro i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna.

I medesimi predetti imputati, nonché il responsabile civile Edison S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, vanno conseguentemente condannati al risarcimento, in solido, dei danni subiti dalle costituite parti civili prossimi congiunti di Faggian Tullio, da liquidarsi in separata sede, ove potranno con precisione puntualizzarsi e quantificarsi le singole voci di danno, la cui sussistenza non può comunque essere posta in dubbio.

 

Emergono peraltro in atti con evidenza prove in ordine alla gravità dei danni, morali e materiali, subiti dai due figli di Faggian Tullio, Stefano, che era ancora convivente al momento del decesso del genitore, e Alessandro, pur non più convivente, solo a considerare che entrambi sono portatori di handicap (sordomuti) e quindi vieppiù possono avere subito sia a livello di sostegno morale che materiale la perdita del padre; onde si giustifica nei loro confronti l’assegnazione della complessiva somma di euro 50.000,00 (cinquantamila) ciascuno, a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva ex lege; mentre già la sola considerazione del danno morale consente di assegnare ad analogo titolo ai fratelli e sorelle costituiti (Faggian Guido, Faggian Guerrino, Faggian Liliano, Faggian Luciano, Faggian Maria e Faggian Elisa) la somma di euro 8.000,00 (ottomila) ciascuno.

I predetti imputati ed il responsabile civile Edison S.p.A. vanno condannati altresì in solido alla rifusione delle spese di costituzione ed assistenza nel presente giudizio delle parti civili medesime, che si liquidano in complessivi euro 19.718,30 comprensivi di onorari, diritti, spese, accessori e IVA, come da relativa parcella.

 

STRAGE COLPOSA EX ARTT. 449-422 C.P.

Quanto allo specifico motivo di gravame avanzato dall’Avvocato dello Stato (sul punto il P.M. non ha proposto gravame, acquietandosi alla decisione del Tribunale) sulla esclusione della configurabilità nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage colposa secondo appunto l’originaria impostazione accusatoria da ritenersi punita "dall'articolo 449 in riferimento all' articolo 422 c p", osserva la Corte che del tutto infondate appaiono le proposte doglianze sopra analiticamente ricordate, laddove invece insuperabile, e la lamentata sinteticità sul punto costituisce al contrario motivo di pregio del passo di sentenza, appare  l’argomentazione del Tribunale secondo la quale il dato testuale dell'articolo 449 c p, nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un richiamo selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo, individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione di genere " disastro".

Ha individuato nominativamente l'incendio perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione delle norme relative ai "disastri" e costituisce anche il limite iniziale della serie delle disposizioni richiamate.

Ribadisce dunque ancora questa Corte che nessuna rilevanza, ai fini della configurabilità giuridica di un tale delitto, possono avere le osservazioni dell’appellante che ritiene ancorabile l’interpretazione proposta al dato testuale che fa riferimento a tutti “disastri” di cui al capo primo, titolo VI, libro II c.p. senza alcuna limitazione laddove il legislatore se ha voluto escludere una qualche previsione lo ha detto espressamente come per la ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 423bis c.p.; e che sostiene in astratto la conciliabilità del reato colposo con la previsione di dolo specifico nel corrispondente delitto doloso; ovvero che sostiene la non rilevanza ai fini di diversa interpretazione di incongruità nel regime sanzionatorio che sarebbero frutto non già dell’originale disegno codicistico, quanto, piuttosto, delle modifiche settoriali di volta in volta apportate, richiamando d’altra parte l’appellante anche un’ulteriore sviluppo interpretativo, e cioè la tesi, in dottrina, in ordine alla possibile qualificazione degli eventi mortali di cui al delitto ex artt. 449 – 422 c.p. come “condizioni di maggiore punibilità”, che porterebbe a concludere per un concorso tra l’omicidio colposo plurimo e la realizzazione colposa di una “strage” sviluppatasi in più eventi, che sarebbe idoneo in quanto tale a risolvere ogni argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio; e che ancora si richiama allo sviluppo non solo  interpretativo ma anche normativo che il bene incolumità pubblica ha conosciuto nel corso del tempo, potendosi oggi ritenere che tale nozione sia idonea ad abbracciare interessi rilevanti e strettamente connessi quali la salubrità ambientale e la salute pubblica, soprattutto laddove, come nel caso di specie, “atti tali da porre in pericolo” (ex art. 422) gli interessi suddetti si accumulino nel corso del tempo in un progressivo acutizzarsi dei profili offensivi ed in un conclusivo materializzarsi, accanto ad un evento di pericolo ed al corrispondente disvalore, di un evento di danno (morte di una o più persone, più eventi di morte, nonché ancora alla definizione giurisprudenziale del “disastro”, la cui ampiezza si rivela del tutto conciliabile con le caratteristiche della nuova fattispecie colposa generata dalla combinazione delle suddette norme (art. 449 e 422 cp).

 

Ritiene invero la Corte che il tutto resta superato dalla assorbente considerazione che la previsione di cui all’art. 449 cp non riguarda ogni delitto di cui al capo primo, titolo VI, libro II c.p. bensì solo i delitti di danno nello stesso capo considerati, e nello specifico appunto le ipotesi, e solo, di “disastro”.

Ecco perché nell’indicazione si cita l’incendio (che segue immediatamente la previsione del delitto di strage), che ben può essere considerato sistematicamente in tale capo capofila degli altri disastri previsti. Il delitto di strage non è reato di danno, bensì reato di attentato  che si consuma, una volta realizzata la condotta tipica (compimento di atti aventi obiettivamente l’idoneità a creare pericolo alla vita e alla integrità fisica della collettività) indipendentemente dal cagionamento effettivo della morte o lesione di alcuno -ed ecco perché neppure è configurabile il tentativo in quanto già la costruzione del delitto consumato risponde ad esigenza di tutela anticipata dell’interesse protetto-, indipendentemente cioè dal concretizzarsi di un effettivo danno del quale, nel concetto stesso di disastro oltre che ovviamente nelle, del tutto coerenti con tale concetto, ipotesi di disastri tipici enumerati dal legislatore, non si può prescindere.

 

La stessa sentenza citata dall’appellante (la sentenza del 16/07/1965, n.949, della Sezione IV della Corte di Cassazione), ricorda come la nozione di disastro, in relazione ai delitti contro l’incolumità pubblica, implica un evento grave e complesso, che colpisca le persone e le cose. E’ questo, in effetti, l’elemento fattuale imprescindibile, sul quale poi innescare la valutazione della suscettibilità a mettere in pericolo la pubblica incolumità. Ora è chiaro che la strage può realizzarsi anche attraverso una condotta che di per sé costituirebbe disastro (il crollo di un palazzo minato che si sa essere abitato da svariate persone –ed è il dolo specifico l’elemento in più specializzante) ma non necessariamente (già la mera condotta di minare il palazzo che si sa abitato e con il fine di uccidere gli occupanti, integra il delitto di cui all’art. 422 cp). Nella strage il macroevento di danno è eventuale, nel disastro essenziale. E dunque nulla centra la strage con il reato colposo costruito dall’art. 449 c.p. che nell’elemento oggettivo richiede imprescindibilmente il danno proprio del “disastro”. Sul punto va dunque confermata l’impugnata sentenza.

IL REATO DI CUI ALL’ART. 437, 1° e 2° co., C.P..

Largo spazio nei motivi di appello hanno dato sia il P.M. che le Parti Civili all’esame della fattispecie di reato prevista dall’art. 437, 1° e 2° co., c.p., lamentando erronea interpretazione giuridica della norma da parte del Tribunale, ed evidenziando censure sia in ordine all’asserita insussistenza del reato sul piano oggettivo che in ordine all’asserita insussistenza del reato sul piano soggettivo. I motivi sono comuni pressoché a tutti gli appellanti, ma il P.M. li sviluppa ulteriormente in discussione richiamando a sostegno delle proprie tesi e conclusioni copiosa giurisprudenza.

Osserva preliminarmente la Corte che, per quanto di poca pregnanza in ordine alla problematica su tale figura criminosa, che di poi si affronterà sia nella sua ricostruzione astratta sia nella verifica di integrazione nella specie, frutto di mera svista nella lettura del dispositivo di primo grado è la doglianza del P.M., seguita anche da altre Parti Civili, relativa a presunta omessa statuizione in ordine al reato in oggetto per il periodo precedente al 1974 pure compreso nell’imputazione, asserendosi appunto che il Tribunale dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437 (omissione dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per condotte tenute in un'epoca successiva al 1973 ".

 

In realtà il Tribunale non si è dimenticato di tale periodo, ma ha dichiarato insussistente detto reato senza limitazioni o precisazioni temporali (assolve tutti gli imputati di cui al capo primo dai reati di "lesioni personali colpose" e di "omicidio colposo" riferiti alle ulteriori persone offese, nonché dai reati di "omissione dolosa di cautele", di "strage colposa" e di "disastro innominato colposo" per  condotte tenute in epoca successiva all'anno 1973 perché il fatto non sussiste), cogliendosi chiaramente che, nel contesto del capo del dispositivo in cui si assolve per insussistenza del fatto dai diversi reati specificati, la precisazione "per condotte tenute in un'epoca successiva al 1973” si riferisce al solo reato di “disastro innominato colposo”, ed essendo vieppiù chiaro questo se si pone mente che in un capo precedente del dispositivo il Tribunale aveva adottato diversa formula assolutoria proprio per il reato di "disastro innominato colposo" per periodo fino al 1973.

 

Tutto ciò, già chiaro dal dispositivo, è poi avvalorato dalla motivazione dalla quale non può sorgere possibilità di equivoco alcuno sul fatto che il reato in oggetto sia stato ritenuto insussistente per tutto il periodo in contestazione; così come d’altra parte anche il reato di "strage colposa", sia pure questo per motivazioni che attengono alla non configurabilità di una simile figura nell’ordinamento positivo, che se si seguisse invece la lettura degli appellanti dovrebbe pure essere stato escluso solo per il periodo successivo al 1973: chiaro che non è così e che la lettura è quella sopra precisata.

Parimenti, frutto di svista deve ritenersi la doglianza del P.M per la quale il Tribunale avrebbe immotivatamente assolto dalle contravvenzioni che si dice contestate nel primo capo d’imputazione e riferite alla normativa antinfortunistica (DD.P.R. 547/55 e 303/56). In realtà non vi è alcuna statuizione in merito a dette contravvenzioni, né vi doveva essere in quanto nel primo capo d’imputazione non formano oggetto di autonoma contestazione ma fungono da concretizzazione delle condotte prevenzionali omesse che si ritengono oggettivamente integrare la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. e da parametro di colpa per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose.

 

Ancora preliminarmente giova pure precisare che neppure può ritenersi meramente conseguenziale la sussistenza del reato di "omissione dolosa di cautele" al fatto che siano stati ritenuti sussistenti dei reati di lesioni colpose per i quali il Tribunale aveva applicato la prescrizione; la verifica dev’essere sempre quella consueta, scolastica: è stato integrato nella sua materialità il reato? Sussiste il richiesto elemento psicologico in capo agli imputati eventualmente responsabili della materiale violazione? E se proprio si vuole partire dai reati di lesioni personali ritenuti sussistenti, ma a tal punto, per quanto ritenuto da questa Corte, anche dai reati di omicidio colposo per i decessi dovuti ad angiosarcoma epatico oggettivamente e psicologicamente imputabili agli imputati in posizione di garanzia fino al 1973, ci si deve poi domandare se detti eventi lesivi siano causalmente collegabili ad una violazione inquadrabile nella previsione di cui al primo comma dell’art. 437 c.p., ed ancora se detta eventuale violazione sia stata posta in essere dolosamente.

 

 Fin d’ora si rimarca infatti che una eventuale violazione pur inquadrabile nella fattispecie di cui all’art. 437, 1° co., c.p., se posta in essere per mera colpa generica o specifica, potrà portare, ove si collochi nella catena causale che ha portato all’infortunio, a mera affermazione di responsabilità per il reato colposo che ne è conseguito (ad esempio, lesione o omicidio colposo), ma non ad affermazione di penale responsabilità per il concorrente reato di "omissione dolosa di cautele"  che richiede appunto il dolo nei termini che di seguito si preciseranno.

Ora, attese le doglianze relative già alla ricostruzione astratta della fattispecie di reato che ci interessa, sia nella statuizione del primo comma che nella statuizione del secondo comma, è bene previamente delineare i contorni astratti della fattispecie. Brevemente, ovviamente, tanto per far intendere e consentire il controllo (si rammentino i proponimenti di argomentare solo ai fini di far conoscere il procedimento logico decisionale del giudicante) sull’interpretazione della norma che dà questa Corte in relazione a quelli che sono i punti interpretativi e ricostruttivi della fattispecie proposti dagli appellanti e, in termini diversi, dalle difese degli imputati.

 

Già nell’esposizione dei motivi di appello e delle controdeduzioni difensive si sono richiamate le tesi delle parti e specifiche ricostruzioni della fattispecie proposte. Giova ora sinteticamente ricordare che gli appellanti sostanzialmente lamentano, e lo hanno ribadito anche in discussione, che il Tribunale, sul piano oggettivo, nella ricostruzione della fattispecie ignora la norma di cui all’art. 2087 c.c. e le fondamentali norme speciali in materia di sicurezza ed igiene dei luoghi di lavoro che sono state contestate agli imputati, saltando a piè pari il loro indispensabile collegamento logico e giuridico con l’art. 437 c.p., finendo così con lo svuotare ingiustificatamente la norma penale dell’essenziale suo fondamento precettivo e sanzionatorio, e giungendo arbitrariamente a restringerne l’operatività interpretando riduttivamente, contro le prevalenti dottrina e giurisprudenza, i concetti di “impianti” e “apparecchi”, oltre ad operare ancora ingiustificata selezione delle violazioni ritenendo rilevanti solo quelle “aventi particolare serietà”.

 

Sul piano soggettivo avrebbe invece ignorato il Tribunale i molteplici elementi probatori dimostrativi della consapevolezza da parte degli imputati non solo dell’esistenza delle norme antinfortunistiche, ma delle stesse conoscenze scientifiche acquisite sugli effetti tossici e cancerogeni del CVM-PVC e delle conoscenze tecnologiche destinate a prevenire gli effetti lesivi della sostanza chimica.

 Nel richiamarsi al capo d’imputazione nel quale tutte le disposizioni normative in esso previste sarebbero riferite all’art. 437 c.p., costituendone, le singole violazioni di dette norme, l’oggetto dell’imputazione penale, gli appellanti, partendo dal generale dovere di sicurezza che incombe ex art. 2087 c.c. ed in forza dei DD.P.R. 547/55 e 303/56 sul datore di lavoro, propongono in definitiva, come rimarcato ovviamente contestandola da parte della difesa degli imputati, un’interpretazione dell’art. 437 come fattispecie omnicomprensiva, che sanziona come delitto qualsiasi violazione dolosa del dovere di sicurezza, sotto qualsiasi aspetto.

Una tale interpretazione, che prescinde dalla specificazione delle violazioni incriminate operata dalla norma in esame, pur esse ovviamente razionalmente aventi origine nel generale dovere di sicurezza scaturente dalla cogente disposizione di cui all’art. 2087 c.c., non appare corretta.

 

Ritiene infatti la Corte che se può ritenersi che una qualsivoglia violazione al dovere di sicurezza, tipizzata o genericamente ancorabile ai doveri di diligenza e prudenza, può, oltre che eventualmente integrare una specifica contravvenzione, costituire parametro di valutazione della colpa ove si verifichi nell’ambiente di lavoro un evento lesivo eziologicamente attribuibile ad azioni od omissioni del datore di lavoro, con chiarezza va pure affermato che non tutte le violazioni del dovere di sicurezza rientrano nel tipo di delitto specificamente profilato dall’art. 437 CP; vi rientrano solo quelle concernenti specificamente la collocazione di apparecchiature prevenzionali, così come emerge dalla stessa copiosa giurisprudenza citata dal P.M. e dall’Avvocato dello Stato (della quale ci si esime da analitico esame al riguardo essendo sufficiente evidenziare come l’omissione di efficienti impianti o apparecchiature prevezionali sia sempre il presupposto degli ulteriori concetti sviluppati), e così come correttamente sostenuto dalla difesa degli imputati, che condivisibilmente osserva come la selezione operata dalla norma penale corrisponde a criteri di tassatività e di sussidiarietà, e che è stata operata dal legislatore in modo esplicito, in quanto l'art. 437 cp è l'unica figura di delitto doloso appartenente al sistema di tutela della sicurezza del lavoro, e quella che comporta le pene più gravi.

 

Alla norma è dunque assegnata una funzione di più severa repressione di violazioni del dovere di sicurezza particolarmente gravi, selezionate mediante una duplice caratterizzazione del fatto punibile. Sul piano soggettivo, la responsabilità è ancorata al dolo (la colpa non basta); sul piano obiettivo vengono in rilievo violazioni del dovere di sicurezza specificamente tipizzate in ragione di una loro particolare gravità”.

La particolare gravità è quindi il criterio che avrebbe orientato il legislatore nell’individuare le specifiche violazioni così sanzionate, non certo il criterio che deve soggettivamente seguire l’interprete nella valutazione delle violazioni eventualmente ravvisabili.

 

L’interprete deve solo verificare che trattasi delle violazioni tipizzate dal legislatore nella fattispecie di cui all’art. 437 c.p., e cioè l’omessa collocazione, che dev’essere dolosa, di impianti, apparecchi o segnali (e per capire di che cosa si tratta non può prescindersi dal significato letterale dei termini stessi) prevenzionali, cioè che abbiano, anche se non esclusiva, finalità (destinati a) di prevenire disastri o infortuni; laddove poi per disastro deve intendersi la figura delittuosa, tipica o innominata, individuata dallo stesso legislatore nel medesimo capo I, titolo VI, libro II del Codice Penale ove è pure inserito l’art. 437, e quindi un macroevento di danno con pericolo per la pubblica incolumità; e per infortunio deve intendersi, così come sul punto condivisibilmente sostenuto dal P.M. sulla scorta di ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che dà corpo alla nozione di infortunio dettata dall’art. 2 T.U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali approvato con il DPR n. 1124 del 30/6/1965, un qualsiasi fatto lesivo dovuto a causa violenta in occasione di lavoro; non solo quindi i fatti traumatici dovuti all’azione immediata di agenti meccanico-fisici, in quanto “il concetto di causa violenta” deve intendersi “comprensivo di tutte le possibili forme di lesività tali da produrre un danno al lavoratore, e quindi quelle, ad esempio, bariche, elettriche, radioattive, chimiche, eccetera”, onde “rientrano tra gli infortuni le ‘malattie-infortunio’, così intendendosi le sindromi morbose imputabili alla azione lesiva di agenti diversi da quelli meccanico-fisici, purchè insorte in occasione di lavoro”. Vedi Cass., 9/7/1990, Chili, che per prima ha così approfondito il concetto di infortunio, seguita poi da ulteriori pronunce della Suprema Corte in tal senso – vedi Sez. 1^ del 20.11.98 nr. 350  imp. Mantovani, nonchè la recente sentenza  del 6.2.2002 Sez. 1^, imp. Capogrosso con la quale ancora viene spiegato in maniera molto chiara il percorso logico per cui si arriva a dire che le malattie-infortunio coincidono, ai fini del 437, con il concetto di infortunio rammentando che la “giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito che il concetto di infortunio va identificato con riferimento alle cause e modalità di determinazione di sindromi  morbose e non anche alle caratteristiche di tali sindromi, istantanee, permanenti o a insorgenza graduale e differita, elaborando la categoria di “malattia-infortunio” distinta da quella di malattia professionale “tout court”- mentre non risulta una successiva contrastante interpretazione.

 

 La stessa difesa tecnica dell’imputato Smai, pur analiticamente commentando la detta sentenza Chili del 9/7/1990, evidenzia contrasti dottrinari, mentre a livello giurisprudenziali ricorda contrasti precedenti alla sentenza Chili, ma nessuna contrastante pronuncia successiva.

Tanto precisato in diritto, resta ovviamente da individuare se nella specie risultino omessi nell’ambito dei reparti lavorativi del Petrolchimico di Porto Marghera impianti, apparecchi o segnali prevenzionali, o meglio, dovendosi ovviamente avere a riferimento l’imputazione, quelli così qualificabili tra le contestazioni; poi se tali eventuali omissioni abbiano determinato disastri o infortuni nel senso sopra specificato; infine se le stesse omissioni, non l’evento lesivo eventualmente derivatone, siano dolose.

 

Al riguardo si osserva intanto che, se non condivisibile in quanto eccessivamente restrittiva è la posizione del Tribunale che ritiene che la condotta di omessa collocazione possa essere correlata soltanto a quei sistemi o quegli apparecchi la cui collocazione sia obbligatoria sulla base di una specifica norma di prevenzione di disastri o d’infortuni, ritenendosi al contrario sufficiente, e lo riconosce la stessa difesa Smai, per porre i presupposti dell’obbligo di attivarsi, il dovere generale di sicurezza, nella parte, si intende, in cui tale dovere si specifichi come dovere di collocazione di impianti, apparecchi, segnali, ritenendosi quindi rilevante qualsiasi omissione di apparecchiature prevenzionali, quindi necessarie (pur se non individuata la condotta in specifica norma antinfortunistica che già sanziona a titolo contravvenzionale la violazione) per evitare infortuni sul lavoro, anche se individuali, non occorrendo che l’omissione concerna apparecchi, impianti e segnali di importanza fondamentale per la sicurezza nell’ambiente di lavoro, può comunque seguirsi il Tribunale relativamente al punto di partenza interpretativo là dove afferma che sotto il profilo oggettivo, la definizione di “impianti” individua delle installazioni caratterizzate da stabilità, così come il concetto di “apparecchi” qualifica delle attrezzature aventi una certa complessità tecnica, diretta specificamente alla prevenzione summenzionata; del resto, correlativamente, il termine “collocazione” corrisponde ad un’attività avente ad oggetto una cosa dotata di stabilità strutturale.

 

Non coseguenziale appare però il Tribunale nella specifica individuazione, rispetto al caso di specie ed alle concrete violazioni contestate dal P.M. come omissioni di cautele prevenzionali, di cosa possa essere considerato apparecchio o impianto ai fini di cui sopra. Se infatti è vero che nel variegato elenco degli addebiti contestati la quasi totalità sono irrilevanti ai fini dell’art. 437 (si condividono in particolare le conclusioni del Tribunale per quanto attiene agli addebiti di omessa sorveglianza sanitaria, di omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti procedure, di omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di omessa separazione delle lavorazioni insalubri, trattandosi di addebiti relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed antinfortunistica), errata appare peraltro la conclusione del Tribunale là dove esclude possano essere considerati apparecchi o impianti prevenzionali i dispositivi di protezione individuale e le parti d’impianto (valvole, rubinetti) che si dice funzionali al ciclo produttivo laddove la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. si riferirebbe a strumenti aventi specificamente ed unicamente la destinazione  alla sicurezza”.

 

Ed invero, al riguardo basti ricordare  quanto  già osservato e reiteratamente affermato anche dalla Suprema Corte (vedi le copiose produzioni di massime effettuate dal P.M.), e cioè che è rilevante qualsiasi omissione di apparecchiature prevenzionali, quindi necessarie per evitare infortuni sul lavoro, anche se individuali, non occorrendo che l’omissione concerna apparecchi, impianti e segnali di importanza fondamentale per la sicurezza nell’ambiente di lavoro. Non si vede dunque come possano escludersi in via generale gli strumenti di protezione individuale, senza badare alla natura dello strumento e cioè se possa magari costituire proprio un apparecchio, quale può anche essere una maschera di protezione dai gas.

 

E non si vede come possano escludersi installazioni impiantistiche, dotate dunque di stabilità, solo perché facenti parte di più complessi impianti produttivi, quando comunque assolvano a finalità prevenzionali. Nello sforzo riduttivo della fattispecie di cui all’art. 437 cp il Tribunale pretende infatti un requisito, l’esclusiva destinazione dello strumento alla sicurezza, che in alcun modo può ricavarsi dalla norma, che anzi, se si pone mente alla ratio e finalità, non può subire una tale limitazione. Quello che è necessario accertare è che comunque l’impianto o parte di impianto, pur se funzionale anche ad altre esigenze, sia altresì di fatto rilevante nella prevenzione di infortuni sul lavoro. Ed allora non si vede come possano escludersi le parti di impianto, valvole, rubinetti e tenute, che avevano anche la funzione di (e quindi possono anche ritenersi destinati a) impedire fuoriuscite di gas, laddove il rischio specifico era proprio quello di diffusione nell’ambiente di lavoro del gas (si voglia parlare di esplosività, intossicazione cronica o acuta o di quant’altro di nocivo ne poteva derivare).

 

Non è ben comprensibile poi il perché il Tribunale escluda anche gli strumenti di monitoraggio dal novero di strumenti prevenzionali (dice che l’omessa collocazione di tali strumenti “non appare” rientrarvi, abbandonando comunque la questione perché “in ogni caso, anche a ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi tra le apparecchiature summenzionate, … i medesimi sono stati effettivamente collocati nel contesto dei singoli reparti, in termini di certa tempestività e con efficacia sicuramente appropriata a controllare le singole zone di lavoro”). In realtà, ritiene questa Corte, una volta chiaro che nella tipizzazione dei presupposti dell’integrazione della fattispecie oggettiva di cui all’art. 437 c.p. si ha riguardo a dispositivi ‘di sicurezza’, nel senso che, si cita ancora la difesa Smai, l’obbligo di collocarli è legato a specifiche situazioni di rischio, nelle quali l’apprestamento di un dato dispositivo costituisca l’adempimento di un preciso ‘dovere di sicurezza’, da adempiere hic et nunc,  in vista della prevenzione di dati eventi incidentali, evidente che assolvono a tale funzione, e quindi vanno considerati ricompresi nel novero degli strumenti considerati dalla norma in esame, gli strumenti di monitoraggio, costituiti appunto da specifiche apparecchiature in più stabilmente collegati in un vero e proprio impianto dotato di stabilità.

D’altra parte basti ricordare che nessuno dubita della finalità prevenzionale di tali impianti una volta conclamata la pericolosità della diffusione nell’ambiente di lavoro del gas oggetto di causa e quindi la necessità di monitorare l’ambiente stesso per prendere alla bisogna le iniziative del caso, tanto che ampiamente si controverte in processo se gli impianti poi installati dopo il 1973 siano idonei o meno allo scopo.

Dunque, ben separato il concetto se piena consapevolezza di tali finalità prevenzionali soddisfabili con detti impianti sussistesse, e magari da quando può ritenersi dovesse sussistere con piena coscienza, concetto che attiene alla sussistenza dell’elemento psicologico richiesto, l’oggettiva riferibilità, in relazione alla specificità dei rischi di cui all’ambiente di lavoro di cui trattasi, dell’omessa collocazione di tali strumenti alla previsione di cui alla norma sanzionatrice in oggetto è da affermare con certezza. Non chiara ancora è la mancata considerazione da parte del Tribunale degli impianti di aspirazione, che pacificamente debbono ricomprendersi nella previsione di cui all’art. 437 c.p.: sembra in realtà che l’esclusione in questo caso sia in fatto, ritenendosi da parte del primo giudice che detti impianti in realtà sussistessero.

 

Ma una tale conclusione è in contrasto con le risultanze processuali, sia testimoniali (quasi tutti i testi escussi sul punto –e vedi le corrette citazioni operate dal P.M. nei motivi di appello- hanno affermato che almeno per quanto riguarda il periodo fino a tutti gli anni settanta gli ambienti di lavoro erano interessati da un inferno di polvere per la lavorazione del PVC), sia documentali (le stesse commesse pur analizzate dal Tribunale evidenziano che interventi concernenti la collocazione di cappe di aspirazione venivano posti in essere a partire da metà degli anni settanta –vedi la relativa documentazione e la stessa analitica disamina fatta dalla difesa Diaz).

Ora, precisato quanto sopra, è agevole concludere relativamente al caso di specie, che tra le violazioni contestate dal P.M. come integranti l’oggettivo precetto di cui all’art. 437 c.p., vengono in rilievo senz’altro le eventuali omesse, ed ovviamente poi da determinare fino a quando omesse, collocazioni di apparecchiature di protezione individuale quali le maschere da utilizzare da parte degli esposti in situazioni di allarme o in lavorazioni di per sé rischiose (quali l’ingresso in autoclave), l’omessa collocazione di idonei parti di impianto produttivo (valvole, rubinetti e tenute) aventi altresì destinazione prevenzionale per  la loro funzione di impedire dispersioni di gas nell’ambiente, l’omessa collocazione di idoneo impianto di monitoraggio della concentrazione del gas nell’ambiente di lavoro, l’omessa collocazione di impianti di aspirazione. Per le ulteriori violazioni contestate valgano le considerazioni sopra svolte che le escludono, sul punto condividendosi il giudizio del Tribunale, dalle condotte tipizzate dall’art. 437 c.p.

 

Ora, emerge con evidenza in atti, ed al riguardo si richiama la ricostruzione operata dal Tribunale non contestata dalla difesa degli imputati e comunque rispondente alle evidenze processuali ed avvalorata da tutta la serie di commesse ed interventi specifici su tali problematiche, analiticamente ricordate dal Tribunale ma anche dalla stessa difesa di parte Montedison (vedi in particolare memorie della difesa dell’imputato Diaz), che solo a partire dal 1974 con una certa efficacia hanno ovviato alle carenze del periodo precedente, che almeno fino a tutto il 1973 i suddetti strumenti prevenzionali non risultano predisposti in modo assoluto o almeno in modo idoneo allo scopo.

Il fatto integra oggettivamente la fattispecie di cui all’art. 437, 1° co., c.p., ma riveste altresì efficienza causale in merito agli infortuni, decessi per angiosarcoma e lesioni personali per epatopatie, sindromi di Raynaud ed acrosteolisi già sopra ritenute causalmente collegate alle alte esposizioni a CVM perduranti fino a tutto il 1973, alte esposizioni favorite appunto  nell’azione dannosa nei confronti dei singoli specifici lavoratori interessati, dalla mancanza dei suddetti impianti o apparecchi prevenzionali.

 

 E dunque il fatto integra altresì, sempre negli elementi materiali, la previsione di cui al secondo comma della norma incriminatrice medesima, in via concorrente, come da consolidato orientamento giurisprudenziale e come la diversità del bene protetto legittima, con i reati di omicidio colposo e di lesione personale colposa ritenuti.

Ma se per i detti reati di cui agli art. 589 e 590 c.p. l’indagine sull’elemento psicologico si è fermata alla verifica della sussistenza, ritenuta, della colpa, il reato che ora ci occupa richiede necessariamente in capo agli imputati il dolo. Come infatti già osservato, diverso il concetto se piena consapevolezza di tali finalità prevenzionali soddisfabili con detti impianti sussistesse, e magari da quando può ritenersi dovesse sussistere con piena coscienza, rispetto invece alla sufficienza, ai fini dei reati meramente colposi, di un comportamento che si ritiene imprudente, negligente o non rispettoso di specifiche prescrizioni cautelari di fronte ad un rischio che si pretende il datore di lavoro deve cogliere e considerare atteggiandosi di conseguenza.

 

Al riguardo, quanto appunto al dolo richiesto dalla fattispecie di cui all’art. 437 c.p., basti ricordare come la costante giurisprudenza della Suprema Corte (si vedano per tutte le sentenze Tartaglione, Martini ed altre ancora citate e fornite in atti dal P.M.) in modo chiaro affermi, principio non contestato da alcuna parte processuale, che: “per la sussistenza del dolo non è affatto necessaria, la provata intenzione di arrecare danno ai dipendenti, ma è sufficiente  la coscienza e volontà di omettere le cautele, accompagnata dalla conoscenza della destinazione alla prevenzione dei dispositivi e attività omesse”.

Occorre dunque, ai fini della verifica della sussistenza dello stato psicologico richiesto dal reato (il dolo), che in capo all’imputato possa ravvisarsi, come ben sintetizzato dalla stessa difesa Smai, a) la consapevolezza dei presupposti fattuali dell’obbligo, cioè d’una specifica situazione di rischio non schermata; b) la conseguente consapevole volontà di astenersi dal collocare impianti o apparecchi o segnali, positivamente rappresentati come necessari a neutralizzare la conosciuta situazione di rischio.

 

Ora, pur considerando tutte le difficoltà che probatoriamente possono incontrarsi da parte dell’accusa nel fornire in relazione alla condotta di ciascun imputato gli indici rivelatori esterni necessari per valutare lo stato psicologico vieppiù nei reati omissivi, nella specie si vede come già lo sforzo argomentativo degli appellanti, sia P.M. che Parti Civili,  è fermo alla indicazione degli elementi, conoscenza della tossicità della sostanza e poi della cancerogenicità del CVM fin dal 1969 ed esistenza di specifica normativa che imponeva determinati comportamenti prevenzionali ancorabili a tali rischi, desumendone poi semplicemente la doverosità dell’intervento.

Afferma infatti il P.M.: “Il processo di primo grado ha provato che gli imputati erano consapevoli della situazione di grave pericolo in cui versava lo stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera, una situazione dunque affatto rispondente alle esigenze di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, in ragione della ormai acclarata e dimostrata pericolosità del CVM-PVC. A fronte di questa conoscenza avrebbero dovuto attivarsi usando le tecnologie esistenti al fine di predisporre i mezzi di tutela e di prevenzione che la legge loro imponeva; eliminando tutte le situazioni lesive determinate da impianti irrecuperabili o bisognosi di manutenzione, fonti di rischio continuo per chi vi lavorava; predisponendo mezzi e sistemi di protezione, prevenzione e controllo come quelli di cui dà ampia descrizione l’imputazione ad essi ascritta.

 

Tutto questo non è stato fatto”. Ma, osserva la Corte, mentre le omissioni in relazione ad un dovere di intervento  e specificamente di collocazione di impianti apparecchi o segnali prevenzionali attengono alla condotta oggettivamente integrante il reato che ci occupa e magari causalmente collegabile anche ad ulteriori eventi delittuosi che ne possano derivare, e mentre anche la sola conoscenza di una situazione di pericolo che imporrebbe una tale attivazione ancora non disvela il dolo (potendo l’inerzia attribuirsi a mera negligenza, a concreta, anche se colpevole, non percezione di quanto occorre fare per ovviare al pericolo), ciò che occorre ben individuare in capo a ciascun imputato è la rappresentazione del dovere di attivarsi collocando i mezzi di protezione che specificamente si impongono e di converso la volontà di astenersi da tale condotta.

 

Nella specie in realtà l’accusa pubblica e privata largo spazio e significato danno, ai fini proprio della dimostrazione della volontarietà delle omissioni, al c.d. “patto di segretezza” che avrebbe vincolato le industrie chimiche a livello internazionale, e la Montedison in prima fila, per occultare le conoscenze sugli effetti cancerogeni dell’esposizione a CVM. In realtà, se non può ritenersi come ha fatto il Tribunale che tale “patto” non avrebbe in realtà avuto la finalità di occultare i dati della ricerca, ma era piuttosto finalizzato ad un reciproco controllo tra le imprese interessate in ordine alla pubblicizzazione dei dati per evitare il rischio di essere posti fuori mercato o comunque di ritrovarsi in gravi difficoltà operative a seguito di iniziative unilaterali e non concordate, va peraltro osservato che eccessiva importanza probatoria, ai fini della valutazione dei comportamenti degli imputati e dei loro stati psicologici, è stata data alla circostanza dagli appellanti che hanno forzato, travisandolo, il significato stesso di tale “patto”.

Intanto, emerge chiaro dalla documentazione fornita dal P.M.  al riguardo, non di un vero “patto” si può parlare, inteso nel senso di accordo per tenere segrete conoscenze note solo all’interno dell’industria, bensì sollecitazioni e risoluzioni, certo determinate da preoccupazioni produttive e di mercato, di non allarmare, o pur se si vuole benevolmente, di non allarmismo, dopo le ricerche ed esperimenti Viola ed i primi dati Maltoni sui possibili effetti cancerogeni dell’esposizione a CVM. Ma i dati Viola, già esposti in pubblici congressi, non erano certo di dominio esclusivo dell’industria chimica, mentre gli ulteriori studi specifici, commissionati proprio da Montedison a Maltoni, nel periodo interessato dalla documentazione che fa riferimento a segretezza sulla questione, non erano definitivi.

 

 L’obiettivo finale non era certo dunque quello di tenere segrete le conoscenze che si andavano approfondendo, essendo d’altra parte comprovato in atti dalla testimonianza di Maltoni che nessun vincolo di segretezza la committente aveva imposto allo studioso che poi, difatti, puntualmente rendeva pubblici i suoi studi pur prima di definitiva conclusione. Bisogna allora dare il giusto significato e valore al c.d. patto di segretezza che era quello, nell’allarme insorto nell’industria chimica in conseguenza dei primi dati Viola circa gli effetti cancerogeni del CVM e dello svilupparsi degli studi Maltoni che avvaloravano tali conclusioni con riferimento all’uomo, di non creare, fintanto che il dato non fosse definitivamente acclarato dal punto di vista scientifico (ed in verità la falsificazione di ipotesi non sufficientemente sperimentate ed approfondite è circostanza non rara nel mondo scientifico), allarmismo, certo avendosi a cuore le esigenze della produzione e del mercato e la necessità a tali fini di sfruttare il tempo che gli esperimenti ancora in corso lasciavano per prepararsi ad ormai, ove appunto confermate le ipotesi, ineludibili interventi di sicurezza senza vantaggi concorrenziali per l’una o l’altra impresa.

 

Tutto ciò vale ai fini della valutazione della colpevolezza o meno del comportamento tenuto (e lo si è fatto, nell’analisi dell’elemento psicologico dei reati colposi), ma non se ne può dedurre consapevole volontà di omettere gli specifici interventi prevenzionali sopra individuati come integranti oggettivamente la fattispecie incriminatrice in esame. Difettano dunque idonei indici rivelatori esterni dai quali dedurre che, non solo conosciuta una situazione di pericolo, e non solo rappresentata la necessità di specifico intervento precauzionale consistente in collocazione di impianti, apparecchi o segnali, vi sia stata poi cosciente volontà da parte di ciascun imputato di omettere un tale intervento. Omissioni che appaiono invece frutto del colpevole atteggiarsi dei vertici industriali in quei tempi laddove rischi che pur si paventavano, anche se non delineabili ancora con precisione, non venivano precauzionalmente schermati per l’incuria (ma l’incuria è negligenza, è colpa) verso tali tematiche: la sicurezza non era primario obbiettivo e neppure veniva rivendicata con decisione dalle stesse organizzazioni sindacali dei lavoratori.

 

Ritiene dunque la Corte che, non sufficiente affermare, per ritenere il dolo, che le misure cautelative necessarie non sono state adottate “intenzionalmente”, “perché non è stato voluto”, se non si indicano poi idonei elementi anche solo indizianti, in base ai quali svolgere una qualsivoglia argomentazione probatoria riferita agli specifici imputati che ricoprivano posizioni di garanzia nel periodo interessato dalle suddette omissioni (dal 1969 a tutto il 1973), e cioè, come sopra già precisato, gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte che dunque, parzialmente riformandosi sul punto l’impugnata sentenza, vanno assolti dal reato di omissione dolosa di cautele da cui sono derivati infortuni ex art. 437, 1° e 2° co., c.p. per condotte tenute fino a tutto il 1973, perché il fatto non costituisce reato.

 

Quanto al periodo successivo pure in contestazione, va intanto osservato che fin dai primi interventi posti in essere a partire dal 1974, quando era ormai conclamata la cancerogenicità del CVM e quindi il presupposto fattuale (in realtà già prima sussistente e conosciuto almeno per quanto concerneva gli effetti nocivi dovuti alla tossicità della sostanza) che rendeva impellenti, non procrastinabili specifici interventi prevenzionali con piena consapevolezza non più schermata a livello decisorio da andazzi e negligenze frutto di scarsa coscienza dei doveri di sicurezza, si provvide intanto con tempestività a munire gli ambienti di lavoro di impianti di monitoraggio delle concentrazioni di CVM nell’aria.

Subito, nel 1974, il sistema a pipettoni, poi e definitivamente dal 1975, il sistema di monitoraggio sequenziale mediante gascromatografi relativamente al quale il Tribunale, con giudizio che integralmente questa Corte fa proprio per essere fondato su esatta ricostruzione delle relative evidenze processuali e che non appare scalfito dalle doglianze sul punto proposte dagli appellanti, ha riconosciuto:

- che il sistema di monitoraggio sequenziale mediante gascromatografo, con sistema pluricampanelle, installato nei reparti CV del Petrolchimico di Porto Marghera, era del tutto coerente con la disciplina di cui  al DPR 962/1982, la quale prevedeva espressamente un monitoraggio mediante gascromatografo, di zona, che analizza sequenzialmente i campioni provenienti dalle varie linee nel tempo massimo di 20'  (p. 425s.); in particolare, l’opzione per il sistema pluricampanelle è del tutto coerente con la norma legislativa per un monitoraggio d’area;

- che il sistema installato era del tutto rispondente a quanto prescritto dalla normativa anche  in termini di copertura sia spaziale (le sonde coprivano l’intero reparto produttivo) sia temporale (l’effettuazione di analisi ogni 20 minuti è in accordo con quanto previsto dalla normativa per il metodo permanente sequenziale);

- che Il sistema era senz’altro idoneo ad assicurare gli obiettivi posti dalla normativa, cioè: a) stimare il livello di esposizione al CVM degli operai attraverso il monitoraggio della concentrazione di CVM in ambiente di lavoro;  b)  evidenziare eventuali aumenti anormali di concentrazione di CVM al fine di mettere in atto le idonee  misure di protezione degli operatori e procedere all’identificazione delle cause ed alla rimozione della perdita.

- che le direttive tecniche specificate dallo stesso DPR 962/19882 (numero di linee asservite al gascromatografo, durata dell’analisi, sensibilità analitica, frequenza di campionamento) appaiono ben soddisfatte dall’impianto di monitoraggio presente presso il petrolchimico di Porto Marghera;

- che l’impianto è stato complessivamente mantenuto in buono stato di efficienza (p. 438);

- che le linee di campionamento “hanno un comportamento passivo sul campione, non alterandone significativamente la qualità: ciò che viene campionato dalle campanelle, viene misurato correttamente” (p. 438);

- che, pertanto, il sistema è stato in grado di “evidenziare i dati espositivi realmente sussistenti negli impianti di Porto Marghera”.

Un tale quadro, ritiene la Corte, non appare scalfito in ordine alla sua effettività dalle doglianze degli appellanti.

 

Sostiene in particolare il P.M. che  la struttura del sistema di monitoraggio in funzione nei reparti CV sarebbe non conforme alla legge e comunque inadeguata sia nella determinazione della concentrazione di CVM in ambiente di lavoro, sia nella rilevazione di eventuali fughe, per l’adozione appunto di un  sistema multiterminale che avrebbe deliberatamente portato a “tagliare i picchi di concentrazione” abbassando quindi notevolmente i livelli di concentrazione registrati, e che inoltre sarebbe stato usato fraudolentemente con l’utilizzo di dispositivi appositamente introdotti per alterare i dati escludendo la rilevazione di quelli più sgraditi.

 

Ora, relativamente a tali censure, osserva la Corte che intanto la conformità del sistema adottato alla previsione di legge (DPR n°962/82), non consente di addebitare presunte, e peraltro tecnicamente non convincenti, manchevolezze del sistema stesso rispetto ad altri che si ritengono migliori (al riguardo non ci si dilunga ritenendo non rilevante la questione ai fini della sussistenza del reato che ci occupa, cioè quello di cui all’art. 437 c.p., ma si rimanda comunque alle puntuali controdeduzioni contenute nelle memorie della difesa Smai e della difesa Diaz che smentiscono, convincentemente, gli assunti di sostanziale inidoneità del sistema, laddove l’affidabilità è peraltro, all’evidenza, confermata dal confronto con il sistema di monitoraggio monoterminale e con spettrometro di massa, sempre puntualmente e correttamente riproposto dalle difese citate alle cui memorie si rimanda).

E così non rilevanti, ai fini del reato di omessa collocazione di impianti o apparecchiature prevenzionali, sono le argomentazioni degli appellanti (P.M. e Avvocato dello Stato in particolare) che attengono alla regolarità o meno del sistema monitoraggio, di per sé considerata (ma anche sul punto in fatto le accuse non paiono suffragate da convincenti dati tecnici muovendo o da sospetti non comprovati –l’asserito utilizzo di un dispositivo per eliminare rilevazioni non gradite-, o da erronea interpretazione di dati –quale quella operata dall’avvocato dello Stato su una presunta considerazione nella elaborazione dei dati di valori 0 che si riferivano a giornate in cui il sistema non aveva funzionato, laddove è da osservare invece che per le stesse giornate il numero di prelievi era pure 0 onde, atteso che i valori rilevati venivano nell’elaborazione della media divisi non per il numero di giorni ma per il numero di prelievi non si vede quale alterazione può esserne derivata, tra l’altro in quei pochi casi in cui nell’arco di cinque lustri questo sarebbe avvenuto-, o ancora da peculiari situazioni che, in numero minimale rintracciate dagli appellanti ed in particolare ancora dall’Avvocato dello Stato, potevano verificarsi nel funzionamento del sistema).

 

Per concludere sul punto giova poi ricordare le osservazioni del Tribunale che correttamente basa il suo giudizio di idoneità del sistema altresì nella conferma, come chiede la normativa, con i dati ottenuti con campionatori personali che si riferivano al periodo temporale marzo 1976 – luglio 1980 e provenivano da un campionatore indossato da vari operatori, aventi incarichi differenti ed appartenenti a vari reparti, cioè dei reparti CV24, CV6, CV14 e CV16. I risultati erano pressoché, e generalmente, sovrapponibili a quelli ottenuti con il sistema automatico, giacché pure i dati conseguenti ai prelievi con campionatori personali, come quelli ricavabili dalla media delle misurazioni con gascromatografi, si attestavano a valori intorno ad 1 ppm (corrispondente -ma questo non rileva ai fini dell’efficienza dell’impianto e quindi ai fini di cui al reato di cui all’art. 437 c.p., bensì per le tematiche di salubrità dell’ambiente di lavoro in relazione alle sopra svolte tematiche sulla causalità- al valore raccomandato dall’OSHA ad inizio dell’anno 1976, raggiunto già in quell’anno, pure nella zona autoclavi).

 

Né possono valere a minare l’efficienza del sistema nella normalità gli sporadici casi evidenziati dal P.M. con supporto documentale (documento del 14/7/80 e documento del 16/2/81, rispettivamente allegato 32 e allegato 33 della relazione dei CC.TT del P.M. dell’agosto 1999) nei quali emergerebbe discrasia, laddove poi numerosissimi rilievi (vedi allegato 4.52 alla Relazione 5.2.00 Foraboschi) effettuati tramite campionatore personale nei reparti CV6 e CV24, quindi nei reparti di maggiore rischio, indicano valori di esposizione molto bassi, mediamente sotto 1 ppm in accordo con i dati di monitoraggio automatico. Né ancora a livello probatorio a diversa conclusione possono portare gli ulteriori documenti indicati dal P.M. (documenti del 28/5/76 e del 31/8/77 allegato 34 della medesima relazione dei CC.TT. del P.M.) non emergendo, ai fini del necessario confronto, dati rilevati con il diverso sistema automatico nelle medesime circostanze. Ma ancora si tratta di sporadici casi. E così infondate sono le ulteriori censure circa l’idoneità del sistema. In particolare va osservato che rispondente a logica di maggiore prudenza è l’abbassamento della soglia di allarme, che imponeva specifiche procedure di salvaguardia, a 25 ppm, e conforme alla normativa è la mancata considerazione nel calcolo della concentrazione media annua dei valori eccedenti la soglia di allarme, atteso appunto che quando si raggiungeva tale soglia venivano poste in essere le specifiche procedure a tutela della salute dei lavoratori interessati.

 

Conclusivamente può dunque ritenersi che a partire dal 1974 la violazione di omessa collocazione di apparecchiature prevenzionali con riferimento all’impianto di monitoraggio è insussistente, e così è insussistente la violazione stessa con riferimento alle omesse collocazioni di apparecchiature di protezione individuale quali le maschere da utilizzare da parte degli esposti in situazioni di allarme o in lavorazioni di per sé rischiose (quali l’ingresso in autoclave), ed all’omessa collocazione di idonei parti di impianto produttivo (valvole, rubinetti e tenute) aventi altresì destinazione prevenzionale per  la loro funzione di impedire dispersioni di gas nell’ambiente.

 

Quanto agli strumenti di protezione individuale, e specificamente, per quanto sopra precisato in relazione alle violazioni rientranti nella fattispecie di cui all’art. 437 c.p., alle maschere di protezione dal gas e vapori nocivi, si osserva che già con la modifica delle procedure intervenute nel 1974, così come emerge documentalmente dalle stesse schede lavoro indicate dal P.M. e comunque testimonialmente, erano state fornite maschere per la protezione dai gas da utilizzare per gli ingressi in autoclave, finchè, ma non per molti anni ancora, la pratica continuava, e da utilizzare nei casi di fughe di gas. In particolare erano a disposizione degli operatori (il dato è documentale emergendo dalle schede lavoro) l’autorespiratore, Dac 70, oltre alle mascherine con filtro.

Altra cosa se poi in concreto i lavoratori facessero corretto uso di tali strumenti (in effetti è emersa trascuratezza al riguardo), non potendo integrare una tale violazione (il controllo dell’uso da parte dei lavoratori cui pure erano forniti degli strumenti antinfortunistici di protezione individuale, peraltro certamente neppure addebitabile a consapevole volontà degli imputati che ricoprivano posizioni apicali nell’azienda) il fatto (omessa collocazione) previsto dalla norma incriminatrice in esame.

Quanto poi alle parti di impianto produttivo (valvole, rubinetti e tenute) aventi altresì destinazione prevenzionale per  la loro funzione di impedire dispersioni di gas nell’ambiente, va intanto ricordato il fondamentale dato di fatto, documentato in atti dai rilevamenti con i gascromatografi della cui affidabilità si è sopra detto, per il quale la concentrazione di CVM nei luoghi di lavoro è sempre, almeno dal 1975 in poi, risultata inferiore al valore soglia (3 ppm) stabilito nel 1978 dalla direttiva 78/610/CE, recepita in Italia col DPR 962/1982.

 

Un tale dato avvalora l’efficienza delle valvole, rubinetti e tenute dell’impianto produttivo che impedivano dispersioni di gas nell’ambiente, contribuendo quelli nuovi installati appunto a partire dal 1974 a ridurre drasticamente appunto le concentrazioni di CVM nell’ambiente di lavoro. Nell’insieme dunque queste parti d’impianto hanno svolto idonea funzione prevenzionale, ed a nulla potrebbe rilevare la circostanza che magari qualche singola valvola fosse ancora di concezione e tecnologia più remota, come le valvole con tenuta a baderna, non particolarmente efficaci nell’evitare perdite ma “ancora installate  negli anni ’90, sulle autoclavi del reparto CV24” come segnalato dal P.M. e ribadito anche dalla difesa di alcune Parti Civili.

 

Quello che rileva è che tutta una serie di commesse ha portato all’adeguamento dell’impianto con installazione, a parte qualche singola valvola che poi bisognerebbe in concreto avere la prova della sua inefficenza, di quelle parti che appunto rilevano ai fini della violazione di omessa collocazione prevenzionale. Già il Tribunale, la cui sentenza integralmente si è detto deve intendersi recepita nella presente e fatta propria dalla Corte nelle parti che portano ad analogo giudizio, ha analiticamente ricordato le singole commesse ed i tempi di realizzazione delle installazioni in questione, ed analitica e documentata disamina in relazione proprio agli interventi dal 1973 al 1978 è svolta dal consulente della difesa Foraboschi alla quale pure si rimanda, non senza osservare che l’entità di tali interventi è altresì comprovata testimonialmente anche in merito alle qualità caratteristiche tecniche ed efficienza delle parti di impianto che qui interessano (vedi dichiarazioni sul punto del teste Ferro, che ha lavorato proprio a partire dai primi anni ’70 nel reparto CV24, ma anche del teste Paolini che riferisce degli studi ed impegno aziendale che portò alle numerosissime sostituzioni).

 

Giova comunque a titolo esemplificativo solo ricordare, come punti salienti, che nel reparto CV24, tale intervento è stato realizzato con la commessa, già segnalata appunto dal Tribunale, 1102.09 del 1.9.1975, relativa a:

-                     installazione di rubinetti sul circuito del CVM e dello slurry;

-                     installazione di soffietti per le valvole di regolazione sul circuito del CVM e dello slurry;

-                     sostituzione delle tenute delle pompe per CVM e slurry;

-                     sostituzione delle tenute dei compressori Bosco.

 

Mentre nel reparto CV6 gli interventi sono stati posti in essere con la commessa 1099 (autorizzazione 28/5/75, fine lavori ottobre 1976) che, come ancora ricordato dal Tribunale, ha riguardato “sostituzione della rubinetteria esistente con altra idonea a contenere le perdite a valori minimi e installazione di soffietti sugli steli delle valvole di regolazione sulle linee di CVM liquido a pressione”, ed ha consentito, si cita ancora il Tribunale “di ridurre notevolmente la fuoriuscita accidentale di CVM. Infatti, dopo l’esecuzione di tale commessa solo lo 0,1%  dei rilievi effettuati negli ambienti di lavoro superava 25 ppm, mentre prima nel 2% dei rilievi vi erano concentrazioni superiori a 50 ppm.  In sostanza, l’operazione integrò l’acquisto e l’installazione di circa n. 380 rubinetti stagni in sostituzione del valvolame esistente, nonché di 20 soffietti per le valvole di regolazione ; vennero altresì sostituite le tenute delle 8 pompe del lattice, delle 5 del germe, degli 8 agitatori delle autoclavi e di quelle dei 2 compressori del CVM di recupero, con tenute meccaniche idonee a garantire la totale segregazione all’interno delle apparecchiature del CVM liquido o gassoso”.

Ed ancora giova ricordare che, in via generale e come emerge ancora da quanto analiticamente descritto dal consulente Foraboschi sulla scorta di specifica documentazione ed accertamenti, nel periodo 1973 – 1978 si sostituirono:

nella zona dei serbatoi della torbida:

                               le tenute a baderna degli agitatori dei serbatoi dello slurry con tenute idrauliche con acqua a perdere nelle torbide,

                               le tenute delle pompe del CVM e dello slurry e dei compressori del CVM/R e le valvole, eliminando così ogni possibile fonte di inquinamento;

nella sezione autoclavi:

                               tutte le guarnizioni sulle autoclavi e sulle tubazioni di collegamento,

                               le tenute a premistoppa con soffietti sulle valvole di regolazione,

                               le valvole a baderna con rubinetti,

                               le tenute a baderna con tenute meccaniche su compressori a pompe.

 

In un tale contesto, appare correttamente adempiuto da parte dei destinatari l’obbligo di collocazione di impianti prevenzionali a partire dal 1974 relativamente appunto agli strumenti di cui sopra, risolvendosi, le ulteriori segnalazioni di perdite o rotture ancora segnalati dagli appellanti, come episodi normali nella vita impiantistica attinenti a meri interventi manutentivi.

Insussistente dunque la violazione contestata per il periodo successivo al 1973, con riferimento, tra gli impianti o apparecchi che nello specifico si sono individuati, tra le violazioni contestate, rientranti negli strumenti prevenzionali considerati dalla norma incriminatrice in esame, all’impianto di monitoraggio, ai considerati strumenti di protezione individuale ed alle parti di impianto aventi finalità prevenzionali, resta da dire degli impianti di aspirazione di polveri, gas e vapori nocivi, e verificare relativamente agli stessi se violazioni vi siano state per detto periodo successivo al 1973 quando, come sopra già osservato, la consapevolezza della necessità della collocazione di tali strumenti era ormai patrimonio di tutti i soggetti destinatari dell’obbligo di garanzia che non potrebbero trincerarsi dunque dietro una mera negligenza e imprudenza.

In proposito va subito, osservato, funzionalmente alla concretezza e sviluppo stesso delle argomentazioni che seguiranno strettamente connesse con la necessità di motivare il giudizio, che in relazione all’accusa contestata qui viene in rilievo solo la mera ipotesi di omessa collocazione dolosa di cautele prevenzionali di cui al primo comma dell’art. 437 c.p., atteso che già si è detto sopra che nessun infortunio (tra quelli ovviamente contestati), ed infra si preciserà pure nessun disastro, si è poi verificato causalmente collegato ad omissioni di cautele poste in essere dopo il 1973, e nello specifico all’omessa collocazione di impianti di aspirazione.

 

Tanto ricordato, va pure subito precisato che nemmeno l’accusa seriamente e specificamente sostiene che una tale violazione sia stata posta in essere negli ultimi quindici anni, palesemente infondata per la sua irrilevanza essendo la notazione del P.M. secondo la quale il problema delle cappe d’aspirazione sarebbe rimasto tra i problemi irrisolti ancora negli anni ’90, traendo spunto dalla relazione del suo consulente Scatto circa un accertamento effettuato sull’impianto di condizionamento del reparto CV24 il 26.6.1998, quando si verificava una fuga di gas per asserita inidoneità dell’impianto risalente al 1974, atteso appunto che in primis questo problema attiene non alla collocazione di uno strumento di aspirazione di polveri, gas o vapori da apprestare nei luoghi di lavoro, bensì un impianto di condizionamento che è cosa diversa, e poi la problematica evidenziata dal consulente attiene alla ormai intervenuta obsolescenza di detto impianto (che comunque giova ricordare era stato installato sempre nel 1974, a riprova che in quest’anno vi era stata una generale presa di coscienza delle problematiche non solo di sicurezza ma anche di benessere sul luogo di lavoro) evidenziata dall’episodio verificatosi in periodo non più di competenza, e da tempo, di alcun imputato.

 

Onde, se negli ultimi quindi anni non si ravvisa alcuna violazione in proposito, si imporrebbe comunque una declaratoria di prescrizione, chiaro essendo che anche nel presente processo vale la norma di cui all’art. 129 c.p.p. che impone una tale immediata pronuncia in mancanza di evidenza di ipotesi assolutoria.

Ora, ritiene la Corte che, pur a sostenere che in realtà secondo l’ipotesi accusatoria specifiche violazioni di tale obbligo sarebbero rinvenibili anche negli anni ’90, dovendosi però correttamente considerare il solo periodo per il quale può ritenersi estesa la contestazione, cioè fino all’ultimo momento in cui qualcuno tra gli attuali imputati ricopriva posizione di garanzia ed era dunque destinatario dell’obbligo in questione, vi è in realtà in atti evidenza che con adeguata completezza almeno dai primi anni ’80 gli impianti di aspirazione erano stati collocati in tutti gli ambienti a rischio di polveri ed esalazioni nocivi.

Ed invero, in tal senso depongono con chiarezza non solo le commesse ed i relativi lavori di installazione eseguiti in forza delle commesse del novembre e del dicembre del 1980 ed infine del dicembre del 1981 (vedi le specifiche elencazioni già operate dal Tribunale) che seguivano i lavori effettuati già negli anni ’70 quando vennero installate, nell’anno 1976, cappe di aspirazione per ciascuna delle sale pesatura degli additivi utilizzati nella polimerizzazione (commessa n. 84046, fine lavori nel dicembre 1976), ma anche le dichiarazioni dei testi evocati dall’accusa (in particolare Biasiolo, ma anche De Stefani, e lo stesso Zoccarato) che se da un lato evidenziano che ancora negli anni settanta l’ambiente di lavoro era un inferno di polveri, riconoscono poi che la situazione era completamente diversa a partire dagli anni ottanta, testimonianze che ben si integrano, portando alla richiesta evidenza per una pronuncia assolutoria piena nel merito, con le richiamate commesse in materia. Va quindi confermata l’assoluzione pronuncita dal Tribunale per insussistenza del fatto anche per mancata collocazione di impianti di aspirazione per periodo successivo al 1980.

 

Non altrettanto può dirsi per tutti gli anni ’70 e specificamente, attesa la presa già in considerazione con relativa pronuncia del periodo fino a tutto il 1973, per il periodo dal 1974 al 1980 compreso (si ricordi che le commesse specifiche richiamate che modificavano la situazione sono del novembre e dicembre 1980 seguite poi da commessa del dicembre 1981). Gli stessi elementi sopra considerati, svilupparsi dei lavori di posa in opera degli impianti che qui rilevano e testimonianze non solo dei testi sopra ricordati ma della quasi totalità dei testi sentiti sul punto specifico, dimostrano che di evidenza di insussistenza del fatto per detto periodo non si può parlare, non essendo ovviamente sufficiente ad escludere la violazione nel complesso degli ambienti di lavoro la commessa del 1976.

 Né, per quanto sopra osservato quando si è discusso del dolo nel reato in considerazione, può ormai seriamente parlarsi di eventuale evidenza di assenza del necessario elemento psicologico in capo agli imputati che in questi anni, dal 1974 al 1980 si sono succeduti o hanno concomitantemente ricoperto posizioni di garanzia, e cioè  gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti, D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach, Gaiba, Fabbri, Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, nei cui confronti va dichiarato non doversi procedere in ordine al reato di cui all’art. 437, 1° co., c.p., in relazione appunto all’omessa collocazione di impianti di aspirazione dal 1974 al 1980, perché estinto per prescrizione.

 

IL REATO DI DISASTRO NELL’IMPUTAZIONE DI CUI AL PRIMO CAPO D’IMPUTAZIONE.

Le conclusioni di cui sopra in merito al reato di cui all’art. 437 c.p., con assoluzione per carenza dell’elemento psicologico in merito all’omissione, fino a tutto il 1973, delle individuate cautele prevenzionali integrante dal punto di vista oggettivo la previsione di cui al secondo comma dell’art. 437 c.p. in quanto causalmente collegate alle malattie-infortunio ritenute appunto determinate dalle alte esposizioni al CVM non schermate da detti strumenti prevenzionali, e con esclusione poi dell’ipotesi stessa di cui all’art. 437, 2° co., c.p. per il periodo successivo al 1973, svuotano ed assorbono ogni motivo d’appello relativamente all’ipotesi di disastro formulata dal P.M. con la modifica delle imputazioni: un unico disastro che avrebbe interessato, assorbito il reato di cui agli artt. 449-434, 2° co., c.p. nella previsione di cui al capoverso dell’art. 437 c.p., l’interno dello stabilimento con le centinaia di infortuni verificatisi ai danni dei lavoratori, ed avrebbe interessato (e qui, se il disastro è unico. il passaggio dall’ipotesi di cui agli artt. 449-434, 2° co., c.p. a quella del capoverso dell’art. 437 c.p. non è neppure astrattamente ben chiara) l’ambiente esterno lagunare e della circostante terraferma per le immissioni in atmosfera, discariche e scarichi inquinanti che avrebbero causato, inquinamento, avvelenamenti delle acque di falde ed adulterazione del biota lagunare con conseguente pericolo per la pubblica incolumità.

 

Ora, tanto già osservato, e se di un unico disastro interno ed esterno causato dall’omessa collocazione all’interno dell’ambiente di lavoro di apparecchi, impianti o segnali prevenzionali non può parlarsi, ritiene comunque la Corte (tornando praticamente all’ipotesi originaria della formulazione di accusa che, anche ad essere rigorosi in tema di correlazione tra sentenza ed imputazione, può trovare spazio essendo l’ipotesi di disastro, comunque la si voglia rubricare, tema delle imputazioni e potendone il giudice, rispetto alla più ampia estensione del fenomeno in imputazione, delimitarne diversamente, se nell’ambito dei fatti contestati, i contorni se ne ravvisa gli estremi) che neppure di unico disastro può parlarsi in quanto già l’ipotesi in fatto attenente al primo capo d’imputazione –disastro interno-, e dopo si dirà dell’ipotesi di disastro innominato colposo di cui alle contestazioni specificamente contenute nel secondo capo d’imputazione, è insussistente.

 

Rimanendo dunque per ora alle contestazioni di cui al primo capo, pur rubricabili, come originariamente in imputazione, sotto gli artt. 449- 434, 2° co., c.p., si osserva che a fronte delle statuizioni ed argomentazioni del Tribunale che, come sopra già citato, ha ritenuto che elementi costitutivi del disastro sono la gravità e la diffusività degli eventi nell'ambito di una comunità estesa, così da essere idonei a concretamente porre in pericolo la pubblica incolumità, eventi determinati da condotte anche protratte nel tempo che hanno, ciascuna con efficienza causale, realizzato con attività predisponente o aggravante la situazione di rischio che nel caso che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati , le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci sindromi di Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle mansioni più a rischio, onde esclude il Tribunale completamente la configurabilità dei delitti contestati in relazione alle condotte successive al 1973, osservandosi che, per come emerso dall’istruttoria dibattimentale, l’accertata drastica riduzione delle esposizioni a partire appunto dal 1974, avrebbe fatto venir meno l’idoneità lesiva della sostanza ed ogni situazione di rischio per l’incolumità pubblica, il P.M. nei propri motivi di appello, sostenendo peraltro ancora la sussistenza del disastro innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437 c.p. e ferme restando le critiche in fatto sulle epoche individuate come  discrimine della lesività o meno del CVM, censura comunque la pronuncia assolutoria alla quale il Tribunale sarebbe pervenuto sulla base di una interpretazione non corretta della fattispecie contestata.

 

Sostiene infatti l’appellante, come pure già sopra citato, che il Tribunale, secondo il quale  il reato di disastro andrebbe inteso "come evento di danno caratterizzato nel suo manifestarsi dalla gravità, complessità, estensione e diffusività", ha operato una indebita sovrapposizione tra l'evento di  pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli eventi di danno a quel pericolo conseguiti. assumendoli quali elementi costitutivi della fattispecie colposa; mentre avrebbe dovuto configurarli come condizione di punibilità dell'ipotesi aggravata di disastro considerata al comma secondo dell' art. 434 cp.. Ovviamente sostiene poi l’appellante, e così anche le parti civili appellanti, la permanenza anche dopo il 1974 del pericolo di lesività per le esposizioni a CVM i cui crolli di concentrazione nell’ambiente di lavoro contesta e comunque assumendone lesività anche a basse dosi.

 

Ora, ritiene innanzitutto la Corte occorra fare chiarezza sui concetti di cui sopra di danno e pericolo in relazione al reato di disastro, e soprattutto va con chiarezza ricordato di quale reato qui si discute. Mai è stato contestato il doloso delitto di cui all’art. 434 c.p., che effettivamente anticipa la tutela penale al pericolo del disastro (quindi ad un mero comportamento che di per sé non integra un evento di danno dal quale derivi concreto pericolo per la pubblica incolumità e cioè la materialità del disastro) e relativamente al quale si può poi discutere (ma qui non interessa) se nella previsione del secondo comma l’intervenuto disastro  con i connaturati eventi di danno e di pericolo eventualmente in concreto conseguenti appunto alla mera condotta astrattamente pericolosa considerata nel primo comma abbia natura giuridica di condizione di punibilità piuttosto che di elemento costitutivo dell’ipotesi aggravata.

 

Quello che è stato contestato, superata e lasciata ormai da parte l’ipotesi del secondo comma dell’art. 437 c.p., è un disastro  colposo ai sensi dell’art. 449 c.p. che si collega, non essendo nella specie riferito ad alcuna delle ipotesi tipiche previste dal legislatore e quindi essendo innominato, alla corrispondente ipotesi dolosa di cui all’art. 434, ma secondo comma. Non è invero considerata dal nostro ordinamento una ipotesi colposa della mera previsione di cui all’art. 434, 1° co., c.p., atteso che tale norma, come osservato anticipa la tutela alla commissione dolosa di fatti diretti a cagionare un disastro a prescindere che questo poi si verifichi (e se si verifica soccorre il secondo comma), mentre la previsione colposa di cui all’art. 449 c.p. concerne la condotta di chi, per colpa, cagioni un disastro.

Ecco allora che indiscutibilmente in tale ipotesi il disastro  è elemento costitutivo del reato, è l’evento che deve conseguire alla condotta dell’agente. Ciò ancora non risolve il problema, perché poi occorre chiarirsi che cosa sia un disastro, attese le confusioni concettuali tra pericolo concreto o astratto o presunto, danno, situazione di danno precedente al pericolo e dalla quale appunto derivi il pericolo, concreto conseguente danno concretizzazione del pericolo per l’effettiva lesione del bene della pubblica incolumità.

Ora, non si vuole certo qui ripercorrere teorie ed arresti dottrinari o giurisprudenziali, ma sempre al fine di far comprendere il percorso decisionale è bene puntualizzare i concetti ritenuti in diritto da questa Corte, che peraltro nulla di nuovo afferma.

 

Invero, i reati che richiedono come evento materiale costitutivo il disastro, e quindi anche quello colposo di cui all’art. 449 c.p. con riferimento al disastro innominato di cui al secondo comma dell’art. 434 c.p., sono reati di danno essendo in sé il disastro nella sua materialità un evento dannoso; un evento dannoso che però per qualificarsi come disastro deve avere una gravità, complessità e diffusività investendo cose e persone indeterminate tali da mettere in concreto pericolo la pubblica incolumità, e cioè i beni della vita, dell’integrità e della salute pertinenti alla singola persona umana ma anteriormente e comunque a prescindere dal loro individualizzarsi in uno o più soggetti determinati. Non può prescindersi dunque da una situazione fattuale di danno, si dice un macroevento di danno, che deve concretamente sussistere ed individuarsi, sia un incendio che devasta quanto incontra, sia il naufragio di una nave, la caduta di un aeromobile, il deragliamento di un treno, il crollo di un edificio, o quant’altro abbia appunto queste caratteristiche che i casi tipici individuati dal legislatore fanno cogliere.

 

Ecco allora chiarirsi i termini della questione: se è vero infatti che sarebbe censurabile il ragionamento del Tribunale ove avesse operato una indebita sovrapposizione tra l'evento di  pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli eventi di danno a quel pericolo conseguiti assumendoli quali elementi costitutivi della fattispecie colposa, censura che in realtà non appare meritare il Tribunale che però ne ha dato origine soffermandosi proprio sui concreti eventi lesivi dei beni integranti la pubblica incolumità per dare per dimostrato il disastro e poi per escluderlo là dove concrete lesioni a tale bene non si ravvisino, neppure può seguirsi il P.M. laddove ritiene sufficiente il mero pericolo, una mera situazione di rischio con la concretizzazione del disastro che fungerebbe solo da condizione di punibilità. Il disastro deve invece sussistere nella sua materialità già per potersi dire integrato oggettivamente il reato; e perché sussista occorre individuare un macroevento di danno con potenzialità gravemente lesiva per la pubblica incolumità nei termini sopra definiti.

 

Dall’evento di danno che innesca la situazione di pericolo non si può quindi prescindere. Irrilevanti sono invece gli ulteriori danni che concretizzano quello che si poteva già paventare: eventuali effettive lesioni dei beni vita, integrità o salute di qualche, a quel punto individuata, persona, fatti che integrerebbero diverso e concorrente reato (omicidio colposo o lesione personale colposa).

Ora, sulla scorta di tali premesse in diritto, è agevole rilevare intanto che neppure si è affannata l’accusa pubblica ma anche quella privata, forte dell’impostazione da entrambe sostenuta che riteneva sufficiente il mero pericolo per la pubblica incolumità per integrare il delitto in esame, ad individuare il concreto macroevento di danno potenzialmente lesivo per la pubblica incolumità. In realtà l’elemento fattuale, che pur può realizzarsi progressivamente, deve essere ad un tal punto ben individuabile.

 

Nella specie il tutto è vago, sapendosi solo che negli anni precedenti il 1974 gli operai nelle specifiche lavorazioni si trovavano esposti ad alte concentrazioni di CVM. Ma il dato non fa cogliere comunque uno specifico ben delimitabile evento dannoso, confondendosi effettivamente il danno che dovrebbe stare a monte del pericolo con il rischio in sé derivante dal permettere le lavorazioni in quel contesto; sicuramente poi non è coglibile un evento di danno nella situazione degli ambienti di lavoro dopo il 1973, attesa la riduzione di concentrazione di CVM nell’aria ai limiti di ritenuta non pericolosità e quindi il venir meno della stessa situazione rischiosa.

Ritiene dunque la Corte che da disattendere sono le censure degli appellanti relativamente al suddetto reato nella previsione fattuale contestata nel primo capo d’imputazione.

SECONDO CAPO DI IMPUTAZIONE

Premessa

In relazione al secondo capo di imputazione il P.M. ha contestato in principalità il reato di disastro “innominato” colposo con riferimento agli eventi di danno concernenti diversi comparti ambientali

e l’ecosistema nel suo complesso provocati nel corso degli anni dalle condotte degli imputati ritenute inosservanti di varie norme di prevenzione.

A tale contestazione il P.M. ha affiancato anche quella di “avvelenamento” e “adulterazione” colposa di sostanze e di acque destinate all’alimentazione con riferimento al biota vivente nel sedimento contaminato dei canali dell’area industriale e alle falde acquifere sottostanti alcune aree destinate a discarica all’interno e all’esterno dell’insediamento del Petrolchimico.

 

Secondo il P.M. le indagini svolte avevano permesso di accertare che gli imputati elencati alla lettera A) del capo secondo ( Cefis, Grandi, Gatti, Porta, D’Arminio Manforte, Calvi, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach, Sebastiani, Marzollo, Fabbri e Zerbo) avevano realizzato, nel periodo compreso fra il 1970 ed il 1988 una serie di discariche di rifiuti di ogni genere, ed anche di rifiuti tossico\nocivi, alcune all’interno della zona di insediamento del Petrolchimico ed altre anche all’esterno di tale zona.

Nella lettera B) del capo secondo venivano poi elencati gli imputati (Porta, Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri, Burrai, Parillo, Patron e Necci) che, consapevoli della attività illecita posta in essere nel periodo anteriore all’assunzione da parte loro del potere d’impresa e del conseguente degrado ambientale, avevano continuato a comportarsi in maniera illecita.

 

In particolare gli stessi si erano disinteressati dei rifiuti tossico\nocivi contenuti nelle discariche precedentemente create, omettendo di adottare qualsiasi iniziativa di bonifica dei siti inquinati e continuando, al contrario, a stoccare altri rifiuti tossico\nocivi senza la prescritta autorizzazione.

Con tali condotte gli imputati avevano così provocato la dispersione nel suolo e nelle acque di falda sottostanti dei residui tossico\nocivi e delle acque di rifiuto non trattate.

A ciò si doveva aggiungere che gli imputati avevano effettuato nelle acque lagunari scarichi che superavano per alcuni parametri i limiti di accettabilità di cui alle tabelle allegate al D.P.R. 962\1973 (“Tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque”).

Per tutte le condotte sopra descritte il P.M. contestava agli imputati di aver così cagionato eventi di danno consistiti in una grave contaminazione di diversi comparti ambientali con conseguente alterazione dell’ecosistema lagunare prospiciente la zona industriale sì da configurare il reato di disastro innominato di cui agli artt.434 e 449 c.p.

 

Secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, le condotte degli imputati avevano provocato la contaminazione, con elevante concentrazioni di diossine e di altri composti tossici, dei sedimenti dei canali e delle acque antistanti le zone industriali di Porto Marghera e avevano gravemente compromesso il suolo, il sottosuolo e le acque di falda sottostanti varie aree interne ed esterne allo stabilimento con l’accumulo incontrollato di grandi quantità di rifiuti provenienti dalla stessa attività industriale in ben ventisei discariche analiticamente indicate negli allegati al capo d’imputazione.

Inoltre a tutti gli imputati veniva addebitato di aver causato e, comunque, incrementato il progressivo avvelenamento (ex artt.439 e 452 c.p.) delle acque di falda, utilizzate anche per uso domestico ed agricolo, sottostanti l’area del Petrolchimico ed altre aree vicine e l’adulterazione (ex artt.440 e 452 c.p.) di risorse alimentari costituite dalla ittiofauna presente nei sedimenti e nelle acque dei canali lagunari prossimi alle zone industriali. Tale diffusa contaminazione si era trasmessa dagli scarichi nelle acque e dalla percolazione delle discariche ai sedimenti dei canali e, da questi, alle specie viventi.

 

Da ciò un grave pericolo attuale per l’incolumità pubblica e la permanenza in atto.

A fronte di tali gravi contestazioni però, il giudice di primo grado, all’esito di una lunga e laboriosa istruttoria dibattimentale, aveva assolto tutti gli imputati da tutti gli addebiti perché il fatto non sussiste. Anche questa parte della sentenza, concernente il secondo capo d’imputazione, è stata impugnata dal Pubblico Ministero, dall’Avvocato dello Stato in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, nonché da varie altre parti civili ( Regione Veneto, Comune di Venezia, Comune di Campagnalupia, Comune di Mira, Comitato Regionale del Veneto di Lagambiente, Associazione nazionale per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della Nazione Italia Nostra O.n.l.u.s., Provincia di Venezia, Associazione Italiana per il World Wilde Fund  for Nature, Medicina Democratica e la Federazione di Venezia della Associazione Lavoratrici Lavoratori Chimici Affini).

Dal punto di vista metodologico si ritiene opportuno precisare in questa sede che le doglianze avanzate dagli appellanti saranno prese in esame seguendo puntualmente lo schema dei motivi d’appello presentati dal P.M. in quanto sono indubbiamente quelli più completi ed esaustivi, tanto che molte altre parti appellanti non hanno potuto fare altro che riportarsi integralmente a tali motivi nei rispettivi atti di impugnazione.

Ovviamente, per ogni singolo capo, verranno riportate anche le argomentazioni degli altri appellanti se risulteranno diverse o più approfondite rispetto a quelle esposte dal P.M. nei suoi motivi.

Fatta questa breve premessa, si può ora passare ad esaminare le varie doglianze  prospettate dagli appellanti per valutare se sono fondate o meno.

 

CAPITOLO  3.1 APPELLO P.M.

LA  DEFORMAZIONE DELL’ACCUSA OPERATA DAL TRIBUNALE

I motivi d’appello presentati dal P.M. prendono l’avvio dall’affermazione che il Tribunale avrebbe deformato l’ipotesi accusatoria giungendo alla conclusione errata che le contestazioni avevano assunto un contenuto generico e generalizzato al punto da apparire infondate e non provate.

Un esempio di tale deformazione è costituito dal fatto che il Tribunale ha costantemente parlato, nella motivazione della sentenza, di zona industriale nel suo complesso, di decenni di catabolismo industriale, di decenni di gestione del plesso produttivo, ingenerando così l’idea di un processo promosso nei confronti di un certo tipo di gestione industriale anziché nei confronti di ben individuate persone in relazione a precise responsabilità personali.

Sul punto la doglianza del P.M. appare fondata.

In vero il capo d’imputazione risulta formulato in modo sufficientemente analitico malgrado la vastità dell’oggetto del procedimento dal punto di vista sia temporale, sia spaziale.

Bisogna infatti dare atto che il P.M. nel suo capo d’imputazione ha contestato ai singoli imputati, ben identificati con l’indicazione anche dei periodi per i quali avevano assunto posizioni di garanzia nell’ambito delle rispettive organizzazioni aziendali, fatti o comportamenti omissivi determinati che, secondo l’ipotesi accusatoria, avevano dato origine o, comunque, incrementato l’inquinamento con riferimento a precisi siti di discarica, alle sottostanti acque di falda, ai sedimenti e alle acque dei canali prospicienti Porto Marghera.

I dati di fatto sopra indicati sono analiticamente elencati negli allegati al capo di imputazione che, ovviamente, ne fanno parte integrante.

 

Indubbiamente nel corso dell’istruttoria dibattimentale di primo grado e durante la discussione finale, sia in primo che in secondo grado, il P.M. si è soffermato prevalentemente sugli argomenti di carattere generale nel tentativo di dimostrare la fondatezza delle proprie tesi, lasciando in secondo piano le posizioni dei singoli imputati, ma da ciò non può dedursi la genericità o la indeterminatezza delle accuse.

Come si è sopra detto, i numerosi problemi affrontati nel corso del processo, l’ampiezza del periodo temporale preso in esame, la necessità di sintetizzare le argomentazioni per renderle adeguatamente comprensibili e inquadrabili in schemi logici quanto più possibile chiari e memorizzabili, hanno inevitabilmente portato il P.M. a generalizzazioni e a sintesi che possono aver erroneamente indotto a ritenere che il processo avesse come oggetto un certo modo di svolgere attività industriale anziché ben individuati imputati per singole e personali responsabilità.

 

Tuttavia questo Collegio ritiene che le contestazioni effettuate dal P.M. abbiano i caratteri della concretezza e della specificità necessariamente richiesti per la validità di qualsiasi capo d’imputazione e che consentono di esaminare e valutare la posizione dei singoli imputati in relazione agli addebiti mossi a ciascuno.

I fatti risultano in effetti contestati in modo specifico con l’indicazione dei luoghi in cui si sono verificati gli inquinamenti delle acque e dei sedimenti e per ogni imputato appaiono indicati con sufficiente precisione i relativi addebiti con riferimento ai periodi in cui ciascuno aveva svolto il proprio incarico all’interno delle aziende.

L’appellante lamenta poi il fatto che la sentenza impugnata abbia erroneamente ritenuto che il P.M., con la modifica dell’originario capo d’imputazione effettuata all’udienza dibattimentale del 13\12\2000 e consistita, per quanto ora ci interessa, nell’aggiungere quale specificazione del tempus commissi delicti l’espressione “permanenza in atto”, abbia contestato a tutti gli imputati un disastro innominato permanente.

Precisa ora il P.M. che in realtà si voleva contestare la permanenza in atto degli effetti e non delle condotte degli imputati (oltre alla permanenza dei reati contravvenzionali).

Tale precisazione appare quanto mai opportuna e chiarificatrice dato che l’espressione “permanenza in atto” non poteva che essere interpretata letteralmente come contestazione del reato di disastro innominato permanente.

In questa sede si deve ora prendere atto di quanto espressamente è stato chiarito dal P.M. e quindi tener conto del fatto che la permanenza di cui si parla nel capo d’imputazione è riferita agli effetti del reato contestato e non alle condotte degli imputati.

 

Il P.M. rileva poi come il Tribunale, dopo aver affermato con varie ordinanze dibattimentali che il capo d’accusa era sufficientemente determinato ed aver enunciato, per quanto riguarda l’impostazione giuridica del “disastro innominato”, una serie di principi generali condivisibili come quello secondo cui “ la rilevanza dell’apporto del singolo imputato (o di imputati agenti in epoca coeva)….. può essere pensata anche in termini di efficienza causale avuto riguardo a condizioni di aggravamento di un evento di danno ambientale già prodottosi (aggravamento, come ovvio, adeguato alla gravità e alla complessità del danno alle cose e al dato di pericolo per l’incolumità pubblica che il disastro porta con sé)” (Sentenza, pag.483), era poi tornato sui suoi passi continuando ad impostare la deformazione dell’accusa.

Infatti l’appellante evidenzia che subito dopo la sentenza “ha assunto la rilevanza del problema di condotte determinative di condizioni di aggravamento di un evento già verificatosi, aggravamento di un evento di danno ambientale, è evidente, di significato adeguato alla complessità dell’evento tipico ed adeguato alla condizione di pericolo per l’incolumità pubblica che del disastro c.d. innominato costituisce requisito di fattispecie” (Sentenza, pag.483).

 

In questo modo il Tribunale aveva accolto un concetto di disastro unico, onnicomprensivo e di dimensioni tali che qualsiasi contributo individuale non poteva incidere in modo efficace e penalmente rilevante.

Il P.M. aveva invece contestato specifici contributi da parte dei singoli imputati alla causazione ed all’incremento di diversificati inquinamenti ed avvelenamenti riferiti in particolare all’attività degli specifici impianti del ciclo del cloro.

Si tratta di danni nuovi e diversificati rispetto a quelli generici e generali di cui parla la Sentenza di primo grado.

Ad avviso di questo Collegio anche questa doglianza del P.M. appare in linea astratta fondata, ma si dovrà in seguito valutare se i contributi dei singoli imputati contestati nel capo d’imputazione siano risultati provati alla luce delle emergenze processuali.

 

Identiche considerazioni devono farsi anche in relazione all’altra “deformazione dell’accusa” lamentata dal P.M. con riferimento alle affermazioni della Sentenza di primo grado che a pag.485 parla di “condotte…indistintamente avvinte in un addebito di cooperazione colposa, dove ciascun cooperante assume corresponsabilità per l’insieme delle conseguenze (asseritamene) prodotte dal catabolismo del plesso industriale. Quello di decenni”, giungendo così alla conclusione che “l’aggravamento preesistente non è rilevante” e che “ogni garante risponde per come ha adempiuto alla garanzia di lui dovuta e nei limiti dell’apporto recato.Rimane fermo che l’antecessore può essere chiamato a rispondere degli effetti penalmente rilevanti della sua condotta, pure di quelli successivi alla cessazione sua nella posizione di garanzia.

Ma l’imputato non potrà essere chiamato a rispondere di fatti (anteriori, concomitanti o successivi) cagionati da altri, senza alcun rapporto con la sua sfera di attività, senza relazione con la garanzia dovuta, senza accertamento di un nesso di causa tra condotta (sua propria, non dell’azienda di appartenenza) ed evento”.

Il rappresentante della Pubblica Accusa, a fronte delle sopra citate affermazioni del giudice di primo grado, evidenzia che nel capo d’imputazione era contestato, oltre all’art.113 c.p., anche l’art.81, commi 1° e 2° c.p. nonché l’art.437 c.p. nel suo complesso per cui era compito del Tribunale accertare una responsabilità dei singoli imputati sia come cooperazione colposa, sia come concorso di cause colpose indipendenti tra loro, sia come risultato dei comportamenti di cui all’art.437 c.p.

Anche in questo caso la doglianza del P.M. appare astrattamente fondata, salvo accertare nel merito la sussistenza della responsabilità degli imputati in base a quanto emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale.

L’ultima deformazione dell’accusa denunciata  dal P.M. riguarda il fatto che il Tribunale non avrebbe preso in considerazione il disastro contestato ai sensi dell’art.437 c.p. non spendendo una sola parola sull’argomento.

In effetti la sentenza di primo grado, nella parte relativa al capo secondo dell’imputazione, non parla mai dell’art.437 c.p.

La circostanza risulta sicuramente spiegabile in considerazione del fatto che il primo giudice, dopo aver preso in esame l’accusa di omissione di cautele antinfortunistiche nella parte della sentenza concernente il primo capo d’imputazione, aveva assolto tutti gli imputati da tale accusa con formula ampia escludendo l’esistenza di omissioni di cautele antinfortunistiche rilevanti per una condanna.

Su tale premessa era quindi una logica conseguenza che il Tribunale non prendesse più in esame il reato di cui all’art.437 c.p. come presupposto del disastro ambientale di cui al capo secondo dell’imputazione.

 

Questo Collegio ha invece ritenuto la sussistenza del reato di cui all’art.437 c.p.(pur dichiarandolo prescritto) in relazione all’omessa collocazione di impianti di aspirazione negli ambienti di lavoro nel periodo compreso fra il 1974 ed il 1980.

Si può fin da ora rilevare che la mancanza di impianti di aspirazione non appare idonea a provocare l’evento di disastro “ambientale” comunque qualificato e sicuramente non risulta acquisita alcuna prova che tale omissione abbia avuto conseguenze penalmente rilevanti al di fuori dell’ambiente di lavoro coinvolgendo persone esterne ai singoli reparti presi in considerazione con conseguente pericolo per la pubblica incolumità.

Ora è possibile passare all’esame dei motivi d’appello concernenti i vari punti della sentenza impugnata.

 

CAPITOLO  3.2  APPELLO P.M.

LE NORME ESISTENTI PRIMA DEL 1970

IL DIVIETO DI SCARICO DEI RIFIUTI INDUSTRIALI

In primo luogo il P.M. prende in esame il capo della sentenza in cui si respinge l’accusa rivolta agli imputati di cui alla lettera A) dell’imputazione di aver concorso a provocare l’inquinamento e, di conseguenza, il progressivo avvelenamento delle acque di falda e delle acque dei canali lagunari prospicienti il Petrolchimico, mediante condotte poste in essere in epoca precedente all’entrata in vigore del D.P.R. 10\9\1982 n.915 e consistite nella realizzazione e gestione di discariche abusive in assenza di opportune cautele.

Il primo giudice aveva infatti ritenuto che l’attività di gestione dei rifiuti da parte degli imputati prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 non fosse disciplinata da alcuna norma specifica e che, di conseguenza, non era individuabile una “norma agendi” da valutare come parametro al quale la condotta degli imputati avrebbe dovuto attenersi per risultare esente da colpa.

 

Secondo il Tribunale gli imputati avevano gestito i rifiuti industriali con modalità non dissimili da quelle utilizzate da coloro che in quel periodo svolgevano le stesse attività; a conferma di ciò vi era la circostanza che la pubblica amministrazione aveva, di fatto, consentito che varie aree situate all’interno e all’esterno dell’insediamento del Petrolchimico fossero dedicate al deposito e alla gestione dei rifiuti industriali, non intervenendo in alcun modo.

Sul punto il P.M. evidenzia che già prima dell’entrata in vigore della disciplina generale sui rifiuti di cui al D.P.R. 915\82 il deposito di rifiuti sul suolo e, quindi, la realizzazione di discariche era soggetta a divieti e limitazioni normativi.

L’appellante ricorda:

1) la legge regionale del Veneto del 6\6\1980 n.85 il cui art.38 vietava “…di abbandonare e depositare rifiuti di qualsiasi genere su aree pubbliche o private, nonché scaricare o gettare rifiuti nei corsi d’acqua, canali, laghi, lagune o in mare”;

2) la legge 5\3\1963 n.366 il cui art.10 stabiliva che “ è vietato di scaricare o disperdere in qualsiasi modo rifiuti o sostanze che possono inquinare le acque della laguna…”. “Entro l’attività lagunare non possono esercitarsi industrie che refluiscano in laguna rifiuti atti ad inquinare o intossicare le acque”;

3) l’art.17 della legge 20\3\1941 n366 che vietava in modo assoluto “il gettito dei rifiuti ed il temporaneo deposito di essi nelle pubbliche vie e piazze…,nei terreni pubblici e privati”;

4) gli artt. 9 e 36 del R.D. 8\10\1931 n.1604 che prevedevano la necessità per gli stabilimenti industriali, prima di versare rifiuti nelle acque pubbliche, di ottenere il permesso dal Presidente della Giunta Provinciale il quale doveva anche prescrivere gli eventuali provvedimenti atti ad impedire danni all’industria della pesca.

 

Il P.M. ricorda poi anche i Regolamenti d’Igiene dei Comuni di Mira (pubblicato in data 30\7\1954) e Venezia ( approvato con determinazioni Podestarili 16\2\1928 e 8\6\1929), nei cui territori si trovavano buona parte delle discariche elencate in imputazione, che vietavano esplicitamente il getto e l’accumulo di rifiuti e immondizie su qualsiasi area scoperta, sia pubblica che privata sancendo che gli stessi dovevano essere portati fuori dall’abitato nei luoghi e depositi stabiliti dall’Autorità Comunale.

Di conseguenza, secondo il P.M., l’ordinamento prevedeva, anche prima del D.P.R. 915\82, “dei precisi divieti che non consentivano la realizzazione delle discariche oggetto di imputazione, e quindi non essendo queste in alcun modo autorizzate, le stesse dovevano considerarsi contra legem” .(Appello P.M., pag.1100).

 

Alle sopra riferite argomentazioni del Pubblico Ministero, ribadite in sede di discussione dal Procuratore Generale nella memoria depositata il 6\7\2004 (pagg. 8 e 9), si è associata anche la parte civile Provincia di Venezia che, nella memoria depositata il 2\12\2004, aggiunge alle disposizioni di legge e regolamentari indicate dal P.M. una serie di altre leggi che, già all’epoca, si preoccupavano di salvaguardare la salubrità dell’ambiente e di preservare l’ecosistema da ogni forma di inquinamento.

La parte civile Provincia di Venezia ricorda infatti la Legge 2\3\1963 n.397 “Nuovo ampliamento del porto e zona industriale Venezia – Marghera” che imponeva il rispetto delle esigenze di sicurezza, di igiene pubblica e di incolumità degli abitanti nella attuazione del piano di ampliamento della zona industriale di Porto Marghera; la Legge 13\7\1966 n.615 che recava Provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico, e il successivo D.P.R. 15\4\1971 n.322 esecutivo di tale legge limitatamente al settore industriale; la Legge 16\4\1973 n.171 Interventi per la salvaguardia di Venezia; il D.P.R. 20\9\1973 n.962 sulla Tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque; la Legge 10\5\1976 n.319 Norme per la tutela delle acque dall’inquinamento.

 

Rileva questo Collegio che, indubbiamente, le norme indicate dagli appellanti offrono un panorama dei più significativi tentativi fatti dal legislatore dell’epoca per tutelare e salvaguardare la salubrità dell’ambiente e per proteggere il territorio dalle varie forme di inquinamento.

Tuttavia nessuna delle disposizioni indicate sembra dare una risposta adeguata al problema che oggi si deve risolvere e cioè se nel periodo anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 fosse in qualche modo individuabile una norma agendi alla quale i nostri imputati avrebbero dovuto attenersi nell’attività di deposito e gestione dei rifiuti.

Tale norma agendi non può certo ricavarsi dalle leggi indicate dalla sola parte civile Provincia di Venezia che prevedono disposizioni di carattere generale tendenti a prevenire fenomeni di inquinamento della più varia origine, ma che nulla dicono circa le modalità di gestione dei rifiuti industriali.

 

Invece le norme indicate dal P.M. nei suoi motivi d’appello contengono sicuramente delle prescrizioni relative alla gestione dei rifiuti, ma si tratta con tutta evidenza di prescrizioni assolutamente generiche che non forniscono alcuna regola di condotta alla quale gli imputati avrebbero potuto e dovuto attenersi.

Troviamo infatti sempre generici divieti di getto, deposito o dispersione di rifiuti in aree pubbliche o private o in acque pubbliche, ma nulla si dice circa le modalità da seguire per una corretta gestione dei rifiuti stessi da parte di privati che si trovavano nella necessità di liberarsi di notevoli quantitativi di rifiuti industriali.

In altre parole bisogna prendere atto che all’epoca il problema di una corretta gestione dei depositi di rifiuti non era sentito come particolarmente pressante nella coscienza sociale non essendo ancora ben conosciuti i pericoli insiti nella presenza sul territorio di grandi masse di sostanze tossiche e nocive abbandonate perché non più utilizzabili.

 

Le Autorità Pubbliche si preoccupavano essenzialmente di regolare il trattamento dei rifiuti al solo fine di evitare che venissero abbandonati in modo incontrollato su aree pubbliche e private con conseguenti problemi di natura igienica ed “estetica”; nessuno si era ancora posto il problema di regolamentare tutte le fasi dello smaltimento dei rifiuti e, tanto meno, di fissare disposizioni e regole per garantire che i luoghi usati come discariche fossero individuati e organizzati in modo tale  da fornire la sicurezza che nel tempo il percolato non mettesse in pericolo le falde acquifere sottostanti o i terreni circostanti.

Quindi, il Tribunale, dopo aver preso atto della mancanza di norme specifiche che fornissero un parametro per valutare le condotte degli imputati che avevano creato e gestito le discariche prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 915\82, è giunto alla conclusione che le uniche disposizioni che in qualche modo, all’epoca, regolavano la materia delle discariche erano quelle di cui al Testo Unico delle Leggi Sanitarie (R.D. 27\7\1934 n.1265) con particolare riferimento all’art.216 che conteneva la prescrizione di isolare le lavorazioni insalubri nelle campagne, lontano dalle abitazioni o con speciali cautele per la incolumità del vicinato.

 

Nel territorio del Comune di Venezia la prescrizione dell’art.216 T.U.LL.SS. era stata recepita con le Norme tecniche di attuazione del Piano Regolatore Generale del 1956 che all’art.15 prevedeva che: “Nella zona industriale troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano sostanze velenose, che producono vibrazioni e rumori”.

Gli appellanti sostengono che le disposizioni di cui all’art.216 T.U.LL.SS. e all’art.15 N.T.A. del P.R.G. di Venezia del 1965 non possono ritenersi idonee a legittimare le condotte di realizzazione delle discariche in imputazione in quanto la prima norma si riferiva unicamente alle manifatture e alle fabbriche (e non alle discariche), mentre la seconda norma aveva natura prettamente urbanistica e, comunque, non prevedeva la possibilità di creare nell’area di Porto Marghera zone di scarico e gestione di rifiuti.

Rileva questo Collegio che effettivamente l’art.216 del T.U.LL.SS. si riferisce esplicitamente alle “manifatture o fabbriche” e non parla di discariche, ma esaminando l’elenco delle industrie insalubri allegato al T.U. troviamo tra le Attività industriali indicate alla lettera C della Parte I il riferimento agli “Inceneritori” e al “Deposito e demolizione di autoveicoli ed altre apparecchiature elettromagnetiche e loro parti fuori uso”. Si tratta con tutta evidenza di attività relative al trattamento di materiali destinati alla eliminazione e, quindi, estremamente simili a quelle attività connesse allo smaltimento dei rifiuti veri e propri.

 

Da ciò può desumersi la volontà del legislatore di regolamentare tutte le attività il cui svolgimento comportasse l’emissione di vapori, gas o altre esalazioni insalubri (come appunto il trattamento dei rifiuti), indipendentemente dal fatto che si trattasse di “manifatture o fabbriche” in senso tecnico, quanto meno fino al momento in cui entrò in vigore una disciplina organica concernente i rifiuti con il D.P.R. 915\82. Fatte queste osservazioni si deve quindi concludere che correttamente il Tribunale ha ritenuto di escludere qualsiasi addebito di colpa per gli imputati che crearono e gestirono le discariche di cui all’imputazione prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 915\82.

 

CAPITOLO  3.3  APPELLO  P.M.

RIFIUTI  TOSSICO NOCIVI E SCARICHI IDRICI

3.3.1 ILLECITO SCARICO DI RIFIUTI ANCHE DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEL D.P.R. 915\82

La sentenza impugnata, continuando ad esaminare il problema delle discariche interne ed esterne al Petrolchimico, afferma anche che le prove raccolte in dibattimento non consentono di giungere alla conclusione che anche dopo il 1983 (anno di entrata in vigore del D.P.R. 915\82) gli imputati che all’epoca esercitavano potere d’impresa abbiano continuato a gestire le discariche stesse in violazione delle disposizioni concernenti la materia dei rifiuti.

In base alle testimonianze rese in dibattimento e alla documentazione acquisita agli atti si era infatti accertato che (alla data di entrata in vigore del D.P.R. 915\82) buona parte delle discariche indicate nel capo d’imputazione non erano più utilizzate e che, per quelle ancora in attività, era stata richiesta ed ottenuta l’autorizzazione allo stoccaggio provvisorio di rifiuti tossici e nocivi.

Il Pubblico Ministero, il Procuratore Generale e la parte civile Provincia di Venezia contestano le conclusioni sul punto del primo giudice.

 

Gli appellanti sostengono che proprio le dichiarazioni testimoniali richiamate nella sentenza e la documentazione acquisita, se correttamente valutate ed interpretate, dimostrerebbero che anche dopo il 1982 erano continuati i conferimenti abusivi di rifiuti nelle discariche.

In particolare i testi Spoladori, Gavagnin e Pavanato, citati dalla sentenza impugnata a riprova delle proprie conclusioni, non avevano affatto escluso che dopo 1982 non vi fossero più stati conferimenti abusivi di rifiuti.

Il teste Gavagnin, all’udienza del 16\3\2001, si era limitato ad affermare che dopo il 1982 erano cessati i fenomeni più macroscopici; il teste Pavanato, Dirigente del Settore Politiche Ambientali della Provincia di Venezia, aveva precisato di non essere in grado di escludere ogni possibile attività illecita dopo il 1982 in quanto il servizio di vigilanza non poteva effettuare controlli sufficientemente efficienti per mancanza di mezzi e di personale; il teste Spoladori, Ispettore del Corpo Forestale, non aveva affatto fornito elementi a sostegno delle conclusioni del primo giudice, ma, al contrario aveva confermato che almeno in due discariche l’attività illecita era continuata dopo il 1982 (nelle isole 31 e 32 c.d. “Katanga” fino al 1987\89 e nella discarica Moranzani fino al 1989).

 

In realtà un esame attento delle deposizioni testimoniali non consente di ritenere fondate le doglianze degli appellanti.

Iniziando da quanto dichiarato dall’Ispettore Spoladori si rileva che il teste non ha affatto affermato che nelle discariche “Katanga” e Moranzani il conferimento dei rifiuti si era protratto oltre il 1982, al contrario il teste ha precisato all’udienza del 7\11\2000 che per la c.d. “Katanga” l’inizio dello scarico si poteva datare intorno al 1976 e che aveva avuto fine attorno al 1982, mentre per la discarica Moranzani ha dichiarato che l’area era stata utilizzata da Montedison tra 1965 ed il 1975 per scaricare rifiuti provenienti dalla produzione dell’acetilene e dell’acido fluoridrico. Lo stesso teste, quando ha poi parlato delle stesse discariche con riferimento ad epoca successiva al 1982 ha fatto riferimento ad attività dirette alla messa in sicurezza delle stesse e non certo ad attività di utilizzazione abusive.

 

Per quanto riguarda i testi Pavanato e Gavagnin è vero che gli stessi non sono stati tassativi nell’affermare la cessazione di attività abusive dopo il 1982 in quanto non avrebbero potuto farlo date le loro rispettive possibilità di conoscenza dei fatti; tuttavia dalle loro dichiarazioni si evince con sicurezza che dopo il 1982 non si verificarono violazioni macroscopiche della normativa regolante lo smaltimento dei rifiuti.

Sarebbe stato compito della pubblica accusa provare il contrario, ma ciò non è stato fatto.

Risulta quindi condivisibile l’affermazione del primo giudice che non esiste prova certa e convincente che dopo il 1983 vi sia stata da parte degli imputati una abusiva gestione delle discariche di cui all’imputazione.

Gli appellanti lamentano poi il fatto che la sentenza di primo grado, dopo aver dato atto della acquisizione delle autorizzazioni rilasciate dall’autorità competente per lo stoccaggio provvisorio dei rifiuti, non ha individuato per ogni singola discarica quale specifica autorizzazione era stata rilasciata.

 

Si tratta di una doglianza generica e indeterminata che non consente alcuna valutazione, mentre sarebbe stato necessario per le accuse pubblica e privata indicare espressamente eventuali carenze o cause di illegittimità delle singole autorizzazioni.

 Astrattamente fondata appare invece la doglianza degli appellanti relativa al tipo di autorizzazione richiesta e rilasciata dall’Autorità competente per le discariche in imputazione.

Risulta infatti pacificamente che nel caso in esame si trattava di smaltimento definitivo di rifiuti nelle discariche che richiedeva quindi l’autorizzazione indicata alla lettere d) dell’art.16 del D.P.R.915\82 e non certo quella di cui alla lettera b) dello stesso articolo prevista per lo stoccaggio provvisorio.

Le condizioni e le cautele richieste per i due tipi di autorizzazione sono sostanzialmente diverse, come ha giustamente evidenziato la parte civile Provincia di Venezia nella memoria depositata il 2\12\2004 (pag.29-32), in considerazione della diversa natura del tipo di attività che si intende svolgere.

 

Ciò significa dal punto di vista astratto che gli imputati che all’epoca svolgevano funzioni di garanzia si sarebbero resi responsabili della violazione del disposto degli artt. 16, comma 1° lett.d) e 26 D.P.R. 915\82 avendo chiesto ed ottenuto per le discariche autorizzazioni diverse da quelle prescritte dalla legge.

Tuttavia su tali contravvenzioni non è possibile alcuna pronuncia, neppure di prescrizione, perché non sono mai state formalmente contestate.

In vero, a parte il generico riferimento alle norme incriminatici (artt.16 e 26 D.P.R. 915\82) contenuto nel capo d’imputazione, il P.M. non ha mai formalmente contestato, neppure nel corso della fase dibattimentale, agli imputati di aver gestito discariche con titolo autorizzativo diverso da quello specificamente previsto dalla legge in relazione alla effettiva natura dell’attività di smaltimento rifiuti svolta.

 

Si tratta infatti di un argomento sollevato per la prima volta con la redazione dei motivi d’appello e, di conseguenza, gli imputati non sono mai stati messi in condizione di svolgere le proprie difese su tale addebito.

Per gli stessi motivi la condotta illecita di cui ora ci occupiamo non può essere neppure valutata come addebito di colpa in relazione ai delitti di disastro innominato, avvelenamento e adulterazione; si tratterebbe comunque di una inutile argomentazione in quanto, come si vedrà in seguito, la prospettata illecita gestione delle discariche non produsse, per una fortunata serie di circostanze, conseguenze giuridicamente rilevanti sullo stato delle acque di falda, dei canali industriali, dei sedimenti e del biota lagunare.

A conclusione di questo capitolo si deve quindi affermare (a conferma di quanto sostenuto dal Tribunale) che non esiste prova che dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 vi sia stata, da parte degli imputati che all’epoca rivestivano funzioni di garanzia, conferimento di rifiuti nelle discariche che formalmente risultavano ormai chiuse.

 

3.3.2 OMESSA APPLICAZIONE DELLA NORMATIVA CONCERNENTE LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI IN RELAZIONE AGLI APPORTI IDRICI TALI DA QUALIFICARSI RIFIUTI TOSSICO- NOCIVI E\O RIFIUTI PERICOLOSI, CON CONSEGUENTE DIVIETO DI LORO SVERSAMENTO NELLE ACQUE DELLA LAGUNA DI VENEZIA.

In questo capitolo viene affrontato un problema molto dibattuto nel corso del giudizio di primo grado e cioè quello della normativa applicabile ai reflui liquidi scaricati dal Petrolchimico nelle acque della laguna.

Si deve ricordare che, secondo l’ipotesi accusatoria, gli scarichi delle acque di processo provenienti dai reparti CV 22\23 e CV 24\25 contenevano Cloruro di Vinile Monomero e confluivano nel flusso in uscita dagli scarichi SM2 ed SM15 del Petrolchimico finendo nelle acque dei canali lagunari.

La presenza del CVM nelle acque di processo dei reparti CV 22\23 e CV 24\25 conferiva all’intero flusso in uscita dagli scarichi principali sopra indicati il carattere di “rifiuto tossico e nocivo”.

 

Conseguentemente, secondo l’accusa, tutti i reflui provenienti dal Petrolchimico avrebbero dovuto essere trattati come rifiuti “tossico – nocivi” nel rispetto delle disposizioni di cui al D.P.R. 915\82, anziché come semplici scarichi idrici regolati dalle disposizioni della Legge 10\5\1976 n.319 con l’osservanza dei parametri di accettabilità di cui al D.P.R. n.962\1973, legge speciale “ratione loci”.

Il Tribunale, all’esito della approfondita istruttoria dibattimentale, aveva invece ritenuto infondata la tesi accusatoria sul punto in esame in quanto i flussi in uscita dagli scarichi del Petrolchimico non potevano essere in alcun modo qualificati come rifiuti tossico-nocivi e, di conseguenza, non avrebbero dovuto essere gestiti, trattati e smaltiti secondo le norme del D.P.R. 915\82 in quanto in realtà assoggettabili alla disciplina dello scarico delle acque, in fatto sicuramente rispettata dato che tutti gli scarichi erano risultati debitamente autorizzati.

Anche tale parte della sentenza di primo grado è stata oggetto di specifici motivi d’appello, sia da parte del P.M., sia da parte dell’Avvocato dello Stato che, sull’argomento, si è particolarmente cimentato anche con memorie depositate nel corso della discussione.

Alcune delle doglianze avanzate dagli appellanti sono una mera riproposizione degli argomenti esposti nel corso del giudizio di primo grado a sostegno della tesi accusatoria, ma ritenuti infondati dal Tribunale con motivazione pienamente condivisibile.

In primo luogo, infatti, gli appellanti sostengono che in base alla  normativa vigente all’epoca dei fatti qualsiasi scarico idrico, dovendo essere considerato una “….sostanza…derivante da attività umane……destinata all’abbandono” (art.2 D.P.R. 915\82) rientrava astrattamente nella previsione del D.P.R. sopra citato, salvo verificare caso per caso la sussistenza delle condizioni che eventualmente legittimassero l’applicazione delle discipline normative relative agli scarichi nelle acque (Legge 319\76 e D.P.R. 962\73).

 

Secondo tale tesi sarebbe la reale “tipologia del refluo” a definire se ad uno scarico sia applicabile la legge 319\76 (e nella laguna di Venezia il D.P.R. 962\73) o se invece sia applicabile la normativa generale sui rifiuti di cui al D.P.R. 915\82.

Ciò premesso, risulta quindi necessario far ricorso alla normativa tecnica e di attuazione del D.P.R. 915\82 per accertare quali scarichi rientrino nella previsione della legge 319\76 e quali invece nell’ambito della più severa normativa concernente i rifiuti.

La Deliberazione 27\7\1984 del Comitato Interministeriale previsto dall’art.5 D.P.R. 915\82 sancisce che possono essere regolati dalla Legge 319\76 tutti gli scarichi che non derivano dalle attività produttive che figurano nell’elenco 1.3 della stessa Deliberazione, mentre per quelle attività che figurano nel citato elenco il soggetto obbligato deve dimostrare positivamente che i rifiuti prodotti non sono classificabili tossici e nocivi provando che i reflui non contengono una o più sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite indicati nella stessa tabella e\o una o più delle altre sostanze appartenenti ai gruppi di cui all’allegato al D.P.R. 915\82 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite.

Nel caso in esame i reflui dei reparti CV 22\23 e CV 24\25 provengono da attività riconducibili a quelle indicate nella tabella 1.3 della Deliberazione del Comitato interministeriale 27\7\1984 trattandosi di acque reflue di impianti di produzione dei clorurati organici; conseguentemente gli imputati, per potersi avvalere del regime più blando previsto dalla normativa per gli scarichi idrici, avrebbero dovuto dimostrare che i reflui non contenevano sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazione superiore alla concentrazione limite.

 

Tale prova non era stata fornita dagli imputati, al contrario era stata accertata la presenza di CVM negli scarichi anche in concentrazioni superiori ai limiti.

Tutto ciò, secondo la tesi accusatoria, dimostrava che tutti i reflui convogliati negli scarichi del Petrolchimico avrebbero dovuto essere considerati come rifiuti tossico\nocivi e smaltiti tramite termodistruzione come previsto dal D.P.R. 915\82.

Ad avviso di questo Collegio il Tribunale ha giustamente disatteso le argomentazioni della pubblica accusa.

E’ noto il travaglio giurisprudenziale e dottrinale che per molti anni ha caratterizzato la trattazione del problema in esame.

I criteri fondamentali da adottare per definire i campi di intervento delle due discipline normative fondamentali in materia ambientale (D.P.R. 915\82 in materia di rifiuti e Legge 319\76 in materia di scarichi idrici) sono stati finalmente precisati e riassunti nella pronuncia delle Sezioni Unite  della Corte di Cassazione del 27\10\1995 ripetutamente richiamata da tutte le parti processuali a sostegno delle rispettive tesi.

 

In realtà una corretta e lineare interpretazione di tale importante decisione della Suprema Corte consente di risolvere in modo chiaro anche il problema che tanto si è dibattuto nel presente procedimento.

Dalla lettura di tale sentenza si rileva in primo luogo che il D.P.R. 915\82 regola l’intera materia dei rifiuti al cui interno si inserisce “come cerchio concentrico minore” la normativa relativa agli scarichi e cioè la Legge 319\76 e la legge speciale “ratione loci”  D.P.R. 962\73.

Dal punto di vista delle caratteristiche fisiche delle sostanze destinate all’abbandono vi è poi la distinzione fra le sostanze solide, per il cui smaltimento si deve far ricorso alla disciplina fissata dal D.P.R. 915\82, e le sostanze liquide o a prevalente contenuto acquoso, comunque convogliate o convogliabili in condotte, la cui disciplina si ricava dalle disposizioni della Legge 319\76 e altre norme speciali ratione loci.

Inoltre, ai sensi dell’art.2, comma 6° D.P.R. 915\82, sono soggetti alla disciplina degli scarichi anche lo smaltimento nelle acque, sul suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi, compresi quelli residuati da cicli di lavorazione e da processi di depurazione, a condizione che non appartengano alla classe dei rifiuti tossico\nocivi. Infatti se i liquami e i fanghi di cui sopra risultano essere tossico\nocivi si deve applicare allo smaltimento degli stessi la normativa del D.P.R. 915\82.

L’ultimo principio ricavabile dalla normativa e accuratamente evidenziato dalla sentenza della Suprema Corte è quello per cui il D.P.R. 915\82 disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento dei rifiuti prodotti da terzi con esclusione delle fasi concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili come i fanghi e i liquami non appartenenti alla classe dei rifiuti tossico\nocivi).

 

Alla luce di tali principi è inevitabile giungere alla conclusione che non può essere applicata la normativa sui rifiuti ai reflui provenienti dai reparti CV del Petrolchimico.

E’ pacifico e non contestato dalle parti che nel caso in esame le sostanze destinate all’abbandono non sono solide e, conseguentemente, non rientrano “per natura” nella disciplina del D.P.R. 915\82.

Si tratta, al contrario, di sostanze liquide convogliate di fatto in condotta ed immesse direttamente, senza soluzione di continuità, nel corpo recettore previo trattamento e abbattimento del carico inquinante; quindi, “per natura”, la disciplina applicabile è quella degli scarichi di cui alla Legge 319\76 e, ratione loci, al D.P.R. 962\73.

Fatta questa premessa, si tratta ora di appurare se i reflui dei reparti CV possano rientrare nella categoria dei “fanghi e liquami” per la quale è previsto il particolare regime di cui al comma 6° dell’art.2 D.P.R. 915\82 con la conseguente necessità di accertare se si tratta di rifiuti tossico\nocivi per poter determinare il regime di smaltimento al quale devono essere sottoposti.

Sembra evidente che i reflui del Petrolchimico non possono definirsi “fanghi” stante la loro natura essenzialmente “liquida”.

Secondo gli appellanti si tratterebbe di “liquami”, ma la tesi non appare accoglibile.

Dal complesso normativo preso in esame si ricava in modo evidente che il legislatore, ricorrendo al termine “liquame” abbia voluto far riferimento a quei rifiuti liquidi o semiliquidi che vengono smaltiti in forma non canalizzata.

Significativa in tal senso risulta la terminologia usata dal legislatore per indicare il modo con il quale il liquame viene disperso nel corpo recettore dato che sia nell’art.2 lett.e) punto 2 della Legge 319\76, sia nell’art.2, comma 6° D.P.R. 915\82, usa il termine “smaltimento nelle acque, sul suolo e nel sottosuolo” e non già il termine “scarico”.

 

E’ noto che il termine “smaltimento” viene usato per indicare qualsiasi modalità di sversamento di rifiuti liquidi o semiliquidi nel corpo ricettore, mentre il termine “scarico” indica tecnicamente la specifica modalità di sversamento effettuata mediante canalizzazione continua e stabile.

In conclusione si può quindi affermare che i liquami sono rifiuti liquidi o semiliquidi smaltiti in modo diverso dallo scarico nel corpo recettore tramite canalizzazione.

Sul punto gli appellanti hanno sostenuto che nel caso in esame non si potrebbe parlare di scarico effettuato senza soluzione di continuità, ma di scarico indiretto e, conseguentemente, i reflui dei reparti CV dovrebbero essere considerati rifiuti liquidi per i quali sarebbe necessario accertare se sono tossico\nocivi o meno per valutare la disciplina normativa applicabile.

 

L’argomentazione degli appellanti si basa sul fatto che i reflui provenienti dai reparti CV 22\23 e CV 24\25 del Petrolchimico confluiscono nell’impianto di trattamento denominato SG 31 prima di essere scaricati in laguna; risulta altresì pacificamente che l’impianto SG 31 è gestito da un soggetto giuridico diverso dal titolare dello stabilimento Petrolchimico, di conseguenza il rapporto diretto tra le acque dei reparti CV ed il corpo recettore risulta interrotto dall’attività di un soggetto diverso dal produttore dello scarico.

Ci si trova quindi in presenza di un c.d. “scarico indiretto” che, ai sensi del D.Leg.vo 152\99, non può essere regolamentato dalla normativa sugli scarichi idrici, ma da quella sullo smaltimento dei rifiuti.

Rileva questo Collegio che effettivamente il D.Leg.vo 152\99, ridisegnando tutta la normativa sulla tutela delle acque dall’inquinamento, ha fornito all’art.2, comma 1° lett. bb) una precisa definizione del concetto di “scarico” precisando che si tratta di “.qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili…” statuendo così che gli scarichi indiretti sono esclusi dalla disciplina degli scarichi e assoggettati a quella dei rifiuti.

Tuttavia la distinzione fra scarico diretto e scarico indiretto è chiaramente riferita alla conformazione naturalistica dello scarico in esame.

Lo scarico è diretto quando non vi è soluzione di continuità nella canalizzazione che porta il refluo dal luogo di produzione e quello di immissione nel corpo recettore.

 

Lo scarico è indiretto, e quindi assoggettato alla disciplina sui rifiuti, quando non vi è una canalizzazione continua fra luogo di produzione e luogo di immissione del refluo; in altre parole la trasformazione del refluo in rifiuto liquido, con conseguente applicazione della disciplina dei rifiuti, presuppone “l’interruzione funzionale del nesso di collegamento diretto fra la fonte di produzione del refluo ed il corpo recettore” (Cass. Sez. III, 24\2\2003 n.8758) attraverso il trasporto extrafognario del refluo ( un esempio classico è costituito dal trasporto dei reflui mediante autobotte o bettoline).

Non è possibile, invece, ritenere uno scarico “indiretto” per il semplice fatto che una persona (fisica o giuridica) diversa dal produttore del refluo sia titolare in tutto o in parte dell’impianto di depurazione o della canalizzazione.

L’accoglimento di simile tesi porterebbe infatti a conseguenze assurde ed inaccettabili; basta pensare a tutti coloro che si servono di un impianto di trattamento o depurazione consortile che si troverebbero in aperta violazione della norma penale perché smaltiscono senza autorizzazione rifiuti liquidi.

 

Riassumendo quanto fin ad ora esposto si deve quindi convenire con quanto affermato dal Tribunale sul punto in esame e cioè che le tesi di accusa sulla necessità di qualificare i reflui di derivazione da alcuni reparti del Petrolchimico come rifiuti tossico\nocivi sono infondate.

Si tratta infatti di reflui che per la loro natura fisica (liquidi) e per le modalità di smaltimento (mediante canalizzazione stabile e continua dal luogo di produzione a quello di sversamento nel corpo recettore) devono essere regolati dalla normativa sugli scarichi idrici (Legge 319\76 e D.P.R. 962\73 ratione loci).

Per le argomentazioni sopra esposte si deve altresì escludere che gli stessi reflui rientrino nell’eccezione prevista dal comma 6° dell’art.2 del D.P.R. 915\82 con la conseguente necessità di accertare se si tratti di rifiuti tossico\nocivi o meno al fine di determinare la disciplina applicabile per lo smaltimento degli stessi. Infatti gli scarichi idrici sono regolati dalle disposizioni della Legge 319\76 ( e del D.P.R. 962\73) indipendentemente dalla qualità e dalla quantità di sostanze inquinanti che contengono purché vengano rispettati i limiti tabellari previsti per ciascuna sostanza al momento della confluenza dello scarico nel corpo recettore.

 

Quest’ultima affermazione ha trovato una precisa conferma normativa nel disposto dell’art.2, comma 1° lett. bb) del D.Leg.vo 11 maggio 1999 n.152 che ha definito “scarico”: “qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione”.

Gli imputati non avevano quindi alcun onere di provare che i reflui non contenevano le sostanze indicate nella tabella 1.1 della Deliberazione 27\7\1984 del Comitato Interministeriale in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite, né le altre sostanze di cui all’allegato al D.P.R. 915\82 proprio perché tali reflui non erano assoggettabili alla disciplina relativa ai rifiuti, ma a quella concernente gli scarichi idrici.

Si deve a questo punto ricordare che l’Avvocato dello Stato, con una memoria depositata all’udienza del 26\11\2004, dopo aver riproposto le tesi e gli argomenti discussi in primo grado e dei quali si è sopra detto, ha voluto ricordare che i reflui derivanti dagli impianti CV sono da vari anni, e cioè dal 1997, facilmente individuabili nel Catalogo Europeo dei Rifiuti in cui essi sono identificati in relazione alla loro provenienza e alle loro caratteristiche con uno specifico codice (CER), senza dimenticare che in precedenza (fin dal 1994) gli stessi reflui erano identificati e qualificati come rifiuti liquidi nel Codice Italiano Rifiuti definito dalla Legge n.70\94.

La classificazione dei reflui in questione come rifiuti confermerebbe quindi per l’Avvocato dello Stato che gli stessi dovevano essere smaltiti secondo le norme concernenti i rifiuti e non già in base a quelle regolanti gli scarichi idrici.

Ad avviso di questo Collegio anche questa argomentazione dell’accusa non risulta fondata. Risulta infatti evidente che i codici richiamati dall’appellante hanno il compito di definire la tipologia delle varie sostanze che in precedenza siano già state classificate come rifiuti e non già per determinare il confine fra l’applicazione della disciplina dei rifiuti e quella delle acque.

Lo stesso Magistrato alle Acque, autorità preposta istituzionalmente alla vigilanza sugli scarichi e sulla tutela della laguna, con interpretazione corretta e puntuale della normativa vigente in materia, non ha mai posto agli imputati il problema della eventuale applicazione della disciplina dei rifiuti agli scarichi del Petrolchimico, avendo sempre rilasciato autorizzazioni allo scarico ai sensi della disciplina sulle acque di cui prima alla Legge “Merli” n.319\76 e poi al D.Leg.vo 152\99.

Giunti a queste conclusioni appare logico non occuparsi in questa sede della complessa discussione sorta tra le parti processuali nel corso del giudizio di primo grado e riproposta nei motivi d’appello circa gli accertamenti fatti sui reflui in questione dal dr. Cocheo, consulente dell’accusa privata rappresentata dall’Avvocato dello Stato.

 

Il dr. Cocheo, nel corso del giudizio di primo grado, aveva infatti riferito di aver accertato, utilizzando i rilievi effettuati da un gascromatografo che controllava la concentrazione di CVM sulla vasca di neutralizzazione posta immediatamente prima dell’impianto di depurazione SG 31, la presenza in tale vasca di CVM in concentrazioni superiori al limite fissato dalla Delibera 27\7\1984 del Comitato Interministeriale perché il rifiuto debba essere considerato tossico\nocivo in almeno dieci occasioni.

Sulle affermazioni del consulente Cocheo si è svolta una accanita battaglia processuale in quanto i consulenti delle Difese hanno contestato i risultati degli accertamenti sostenendo che il dr. Cocheo aveva effettuato i suoi calcoli applicando una legge della termodinamica sbagliata (la legge di Raoult anziché la legge di Henry) e di conseguenza aveva calcolato erroneamente le concentrazioni di CVM nelle acque di scarico giungendo a risultati enormemente superiori a quelli che si sarebbero ottenuti applicando la legge della termodinamica corretta.

Come si è detto, le parti si sono ripetutamente scontrate sui risultati dei rispettivi consulenti circa la presenza o meno nelle acque di scarico del Cloruro di Vinile Monomero e circa il superamento o meno delle concentrazioni limite.

Ad avviso di questo Collegio la soluzione di tale problematica appare assolutamente inutile ai fini della decisione.

 

Una volta appurato che i reflui dei reparti CV erano e sono soggetti al regime degli scarichi idrici e non a quello dei rifiuti, risulta inutile sapere se gli stessi contenevano CVM e in che quantità, tenuto conto del fatto che comunque la presenza di CVM non avrebbe imposto una modifica del regime normativo applicabile agli scarichi che avrebbero continuato ad essere regolati dalle disposizioni della Legge 319\76 e del D.P.R. 962\73.

In conclusione l’eventuale presenza di CVM nei reflui dei reparti CV non risulta aver alcuna rilevanza circa la sussistenza di violazioni penalmente rilevanti del D.P.R. 915\82, non applicabile agli scarichi idrici, ma risulta irrilevante anche come addebito di colpa in relazione ai contestati delitti di disastro innominato, avvelenamento e adulterazione.

 

Occorre premettere sul punto che non risulta acquisito agli atti alcun bollettino di analisi attestante la presenza di CVM nelle acque di scarico, ma, anche se si volesse ritenere provato tale fatto, resta comunque il dato incontroverso che il CVM non ha contaminato né le acque della laguna, né i sedimenti dei canali, né il biota.

L’accusa pubblica e le accuse private non hanno mai prospettato un inquinamento della laguna, dei sedimenti e del biota ad opera del CVM e ciò per motivi scientifici precisi riferiti in dibattimento dallo stesso dr. Cocheo, consulente dell’accusa, nel corso dell’udienza del 15\5\2001.

Il CVM è un gas che immesso in acqua evapora dopo un breve tempo; conseguentemente non può oggettivamente accumularsi né in acqua, né nei sedimenti, né nei pesci.

La tesi accusatoria circa la presenza di CVM negli scarichi idrici del Petrolchimico risulta quindi irrilevante rispetto alla contestazione di disastro o di avvelenamento e adulterazione in quanto l’asserito omesso trattamento e smaltimento dei reflui che si pretendono contaminati da CVM nelle forme previste dal D.P.R. 915\82 non risulta comunque correlabile ad alcun evento rispetto al quale abbia un senso porre il problema della colpa per violazione di regole a contenuto cautelare.

A questo punto bisogna però ricordare che il Procuratore Generale, con memorie depositate il 6\7\2004, ha sostenuto che la scelta operata dagli imputati di smaltire come scarichi idrici, anziché come rifiuti tossico\nocivi, i reflui provenienti dagli impianti di CV aveva comunque provocato un incremento della contaminazione dell’ambiente lagunare da rame e da diossine tenuto conto del fatto che nel ciclo produttivo del CVM ottenuto presso il reparto CV 22 dal cracking del 1,2-Dicloroetano si ha la formazione, a seguito di reazioni parassite, di PCDD (Poli Cloro Dibenzo Diossina) e di PCDF (Poli Cloro Dibenzo Furani) e che il cloruro di rame, supportato su matrice di allumina, costituisce il catalizzatore utilizzato presso il reparto CV 23 nel processo produttivo del 1,2-Dicloroetano.

 

Sulla base della relazione tecnica depositata il 30\3\2001 dai consulenti Roberto Carrara e Luigi Mara, nonché di uno studio effettuato da P. Isosaari a proposito di un impianto di produzione di CVM  situato in Finlandia, si era calcolato l’incremento dell’inquinamento da Rame e da PCDD\PCDF dei diversi comparti ambientali derivante dalla produzione di CVM presso il Petrolchimico di Marghera.

In conclusione era stato possibile stimare che per ogni 100.000 tonnellate di CVM prodotte a Marghera si erano formate una quantità di PCDD\F corrispondente a un valore I-TEQ di 69,48 grammi nel periodo compreso fra il 1980 e il giugno 2003.

Le stime delle quantità di diossine e di rame prodotte e scaricate dal Petrolchimico nel corso degli anni, così come sono state prospettate ed esposte dal P.G., hanno subito aspre critiche da parte dei difensori degli imputati.

In primo luogo si è evidenziato da parte della Difesa che le stime dei Consulenti del P.M. erano state ottenute trasponendo in modo assolutamente acritico alla realtà di Porto Marghera i dati pubblicati nello studio di Isosaari a proposito di un impianto finlandese.

Sul punto le parti hanno molto discusso anche in sede di esame delle istanze di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ed è stato possibile accertare che l’impianto di Porto Marghera e quello Finlandese potevano essere difficilmente comparati essendo molto diverse le modalità di gestione dei residui della produzione e del trattamento delle acque reflue che in Finlandia venivano lasciate sedimentare in due laghetti situati presso l’impianto, mentre a Marghera venivano sottoposte a trattamento di strippaggio dei clorurati a piè di impianto e poi a trattamento chimico – fisico – biologico ed i fanghi di risulta venivano inviati a incenerimento e non abbandonati sul terreno come in Finlandia.

 

A parte tali considerazioni che rendono poco accettabile il confronto fra i due impianti di produzione del CVM, bisogna anche ricordare che la Difesa ha contestato i risultati dell’indagine prospettati dal P.G. anche perché in palese contrasto con quanto riportato in letteratura.

L’avv. Mucciarelli, nella memoria depositata in data 1\12\2004, evidenzia che: “Dall’inventario delle emissioni annuali di PCDD\F degli impianti di produzione di DCE e CVM per gli anni 1995-1998 si ricava per l’intera produzione USA, Giappone e Belgio e per i vari comparti ambientali (atmosfera, acqua, suolo) un valore di 35,05 grammi di I-TEQ anno a fronte di un valore stimato dai consulenti dell’accusa di 69,48 grammi I-TEQ per 100.000 t di CVM prodotto….Nella pubblicazione di Caroll ed altri (“Organohalogen Compounds 1999”) prodotta dal P.M. nel processo di primo grado si legge testualmente che “supponendo che tutti i siti PVC degli USA emettano PCDD\F alla concentrazione media riportata per i sei siti inclusi in questo studio, le emissioni totali di PCDD\F sarebbero all’incirca di 0,011 grammi o 0,15 grammi per anno. Analogamente le emissioni totali annue dalle acque di scarico trattate dagli impianti di produzione DCE, CVM e DCE\CVM\PVC statunitensi sono stimate a 0,032 o 0,17 grammi.”

 

I quantitativi di PCDD\F stimati dall’accusa come prodotti dagli impianti del CV 11 CV22 e CV 23 del Petrolchimico sarebbero di gran lunga superiori a quanto riportato in letteratura per impianti simili e risultano incompatibili con le emissioni di PCDD\F a livello internazionale riportate nella letteratura scientifica”.(pagg.21 e 22).

A fronte di questo evidente e macroscopico contrasto fra i dati forniti dall’accusa e quelli forniti dalla difesa circa i quantitativi di PCDD\F stimati come prodotti dagli impianti CV del Petrolchimico bisogna anche rilevare che si parla sempre di quantitativi di diossine prodotte e non già di quantitativi effettivamente scaricati in laguna.

Il P.G. nella memoria tecnica depositata il 13\5\2004 e nella memoria depositata il 6\7\2004 mette in rilievo la circostanza che i reflui dei reparti CV confluivano nell’impianto di trattamento centralizzato chimico – fisico – biologico SG 31 pacificamente inidoneo ad effettuare una qualche biodegradazione – depurazione dei composti organici clorurati ecopersistenti come le PCDD\F.

Da ciò si dovrebbe dedurre che tutta la diossina prodotta finisca nelle acque della laguna, ma ciò non è risultato vero.

Infatti se è vero che il trattamento biologico non è in grado di abbattere direttamente le diossine è altresì vero che lo stesso trattamento biologico favorisce l’assorbimento delle diossine nei fanghi che ne trattengono la quasi totalità; i fanghi impregnati di diossine vengono poi inviati all’inceneritore per la distruzione.

Ciò spiega perché lo stesso Ministero dell’Ambiente con il Decreto del 26\5\1999 individuando e prescrivendo le migliori tecnologie disponibili da applicare agli impianti industriali di Porto Marghera ha inserito fra le migliori tecnologie per l’abbattimento delle diossine (PCDD equivalenti) proprio il trattamento biologico.

 

Tornando ora al problema della individuazione dei quantitativi di diossine effettivamente sversate in laguna si deve prendere atto che l’accusa non ha fornito elementi concreti e precisi, vi sono però dei dati ufficiali forniti da pubbliche autorità e che, dal punto di vista processuale, assumono una rilevanza determinante.

Vi è in primo luogo il Decreto 26\5\1999 del Ministero dell’Ambiente che, con particolare riferimento all’area di Porto Marghera, indica l’apporto totale di diossine in laguna attraverso gli scarichi del Petrolchimico nell’ordine di una decina di mg\anno e l’apporto complessivo di tutte le fonti di contaminazione per l’intera area di Porto Marghera nell’ordine delle decine di milligrammi l’anno.

 

Né possiamo dimenticare la “Relazione sulle caratteristiche degli scarichi idrici dell’area di Porto Marghera – Dati relativi al 1999” del Magistrato alle Acque che dopo aver segnalato che “i microinquinanti organici (diossine, IPA, PCB) sono stati ricercati solo nei principali scarichi del Petrolchimico (SM 15, SM 22, SM 2), negli scarichi della raffineria Agip Petroli e nello scarico dell’impianto di depurazione ASPIV” conclude affermando che “alla luce di valutazioni derivanti da campagne svolte negli anni precedenti la stima del carico inquinante totale per l’intera area di Porto Marghera potrebbe essere per le diossine delle decine di milligrammi, espressi come fattore di tossicità equivalente (I-TE)”.

Si tratta di valori enormemente inferiori rispetto alle stime dei consulenti dell’accusa e non rilevanti penalmente ai fini delle contestazioni dei reati di disastro innominato, di avvelenamento e di adulterazione.

 

Il P.G. ha anche fatto riferimento ad un incremento della contaminazione da rame, ma si tratta di un argomento che non sembra avere alcun rilievo processuale in quanto non è mai stato contestato agli imputati di aver effettuato scarichi contenenti rame in quantità superiore ai limiti di concentrazione posti dalla legge né di aver provocato l’avvelenamento o l’adulterazione delle acque, dei sedimenti e del biota con un eccesso di rame.

Nel merito basterà ricordare che lo stesso Ministero dell’Ambiente nel Decreto del 26\5\1999, già più volte citato, precisa che: “Il rame è un elemento comune nell’acqua potabile e deriva in parte dall’erosione delle rocce e in parte da fonti artificiali (industria ma soprattutto dall’erosione dei componenti di trasporto dell’acqua e dai sali di rame usati per il controllo delle alghe). L’indagine dell’USEPA assegna una concentrazione media nell’acqua che viene distribuita alle utenze pari a 45 microgrammi per litro. Il rame è un elemento chiave nella dieta con un’ingestione suggerita di almeno 2 milligrammi al giorno. Il rame in eccesso viene normalmente espulso ma, ad alte dosi, può determinare irritazione del tratto gastrointestinale. Il rame non è ritenuto cancerogeno”.

 

Con ciò si può quindi escludere che eventuali apporti di rame da parte del Petrolchimico alle acque della laguna abbiano una qualche rilevanza al fine di decidere il presente procedimento.

A conclusione di questo capitolo si deve quindi confermare la sentenza del Tribunale anche nella parte in cui ha ritenuto applicabile ai reflui provenienti dai reparti CV del Petrolchimico la normativa concernente gli scarichi idrici anziché quella relativa ai rifiuti.

CAPITOLO 3.4   APPELLO  P.M.

OBBLIGO DI ATTIVARSI PER I SITI INQUINATI DA TERZI ANTECESSORI

A proposito dell’argomento trattato in questo capitolo dei motivi d’appello del P.M. bisogna ricordare che nel capo d’imputazione viene, fra l’altro, contestato agli imputati indicati alla lett. B) (Porta, Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri, Burrai, Parillo, Patron e Necci) una responsabilità penale, a titolo di concorso nei contestati reati di disastro e avvelenamento, in relazione al fatto che, una volta subentrati nelle rispettive cariche all’interno della società, avevano omesso di effettuare interventi di bonifica o di messa in sicurezza di quelle discariche realizzate e gestite in passato dai propri predecessori ed ormai chiuse.

La contestazione, basata su una ipotesi di responsabilità per omesso impedimento dell’evento ex art. 40 cpv. c.p., si fonda sulla asserita sussistenza di un obbligo giuridico di attivarsi in relazione a siti contaminati da terzi antecessori.

 

Il Tribunale ha ritenuto infondato l’assunto accusatorio affermando il principio che il mero mantenere nell’area rifiuti scaricati o fatti scaricare da altri, quando ormai la discarica sia stata chiusa non rientra nel concetto di gestione di discarica penalmente rilevante.

Il primo Giudice è giunto a tale conclusione facendo proprie le argomentazioni sul punto della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 5\10\1994.

La Suprema Corte, chiamata a dirimere un contrasto giurisprudenziale sulla questione se i reati di gestione e realizzazione abusiva di discarica, nel sistema del D.P.R. 915\82, fossero reati istantanei o permanenti e, in quest’ultima ipotesi, quale fosse la portata della permanenza, aveva con estrema chiarezza statuito che: “ La gestione di discarica senza autorizzazione presuppone l’apprestamento di un’area per raccogliere i rifiuti e consiste nell’attivazione di una organizzazione, articolata o rudimentale non importa, di persone, cose e\o macchine diretta al funzionamento della discarica. Il reato è permanente per tutto il tempo in cui l’organizzazione è presente e attiva.

 

Il fatto però che il reato di discarica sia permanente non significa che esso comprenda anche il mero mantenere nell’area i rifiuti scaricativi o fattivi scaricare da altri, quando ormai la discarica sia stata chiusa o soltanto disattivata. Con la conseguenza che è estraneo al reato chi sia subentrato e si trovi l’area con i rifiuti ammassativi da quegli che in precedenza vi aveva gestito la discarica…All’attuale detentore non è fatto alcun obbligo di controagire e cioè di intervenire per la rimozione dei rifiuti dal terreno entrato nella sua disponibilità”.

Si ricorda che la sopra citata sentenza delle Sezioni Unite si inseriva nel solco di una preesistente giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass.14\2\1992; Cass.29\1\1993 e Cass. 5\11\1993).

Gli appellanti P.M. e Avvocato dello Stato contestano le conclusioni alle quali è pervenuto il Tribunale seguendo fedelmente i principi fissati dalla Cassazioni a Sezioni Unite.

 

In primo luogo, da un punto di vista testuale, si sostiene che nei concetti di “gestione di discarica” e di “smaltimento di rifiuti tossici” non possono includersi il solo conferimento e accumulo dei rifiuti senza ricomprendervi il mantenimento degli stessi.

Secondo gli appellanti sarebbe sufficiente scorrere il dettato degli artt.10 e 16 del D.P.R. 915\82 per rendersi conto che nel concetto di “gestione della discarica” e di “smaltimento dei rifiuti tossici” sono state sempre ricompresse non solo le fasi del conferimento e deposito dei rifiuti, ma anche quelle successive all’esaurimento dell’impianto, necessarie per il controllo e la messa in sicurezza del medesimo.

In particolare l’art.16 del D.P.R. 915\82 precisa che l’autorizzazione allo stoccaggio definitivo in discarica dei rifiuti tossico\nocivi deve contenere “le modalità e le cautele da osservare per l’esercizio della discarica controllata anche dopo la sua chiusura”.

 

Dal dettato della norma si desume che anche dopo la cessazione del conferimento dei rifiuti vi è comunque un esercizio, una gestione della discarica e che anche tale fase della gestione risulta talmente delicata e fondamentale da imporre puntuali prescrizioni autorizzatorie da parte dell’autorità di controllo; alcune di tali cautele gestionali relative alla fase “post-operativa” o “passiva” del sito sono addirittura specificamente indicate negli artt.16 e 10 del D.P.R. 915\82 come ad esempio la ricopertura della discarica e il riutilizzo dell’area nei modi e nei tempi stabiliti nella stessa autorizzazione.

Si deve inoltre ricordare la Delibera Interministeriale 27\7\1984 (contenente disposizioni per la prima applicazione del D.P.R. 915\82) che al punto n.4.2 con riferimento allo stoccaggio definitivo in discariche stabiliva testualmente che: “ i sistemi di drenaggio e captazione del percolato, nonché l’eventuale impianto di trattamento del medesimo dovranno essere mantenuti in esercizio anche dopo la chiusura della discarica stessa, e a carico del gestore di quest’ultima, per il periodo di tempo che sarà stabilito dall’autorità competente”, ponendo così a carico del gestore della discarica un evidente obbligo positivo di attivarsi per impedire lo sversamento di percolato in discariche già esaurite.

 

Anche la successiva normativa sui rifiuti introdotta dal D.Lgs.vo 5\2\1997 n.22 aveva confermato le prescrizioni sopra indicate nel punto in cui, fornendo la definizione di “gestione dei rifiuti” (art.6 lett.d), vi includeva espressamente “il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura”.

Per gli appellanti la corretta interpretazione ed applicazione della normativa evidenziava che la condotta omissiva integrante i reati di cui agli artt.25 e 26 D.P.R. 915\82 non era tanto il semplice mantenimento o la mancata rimozione dei rifiuti accumulati su una determinata area, quanto la mancata attuazione di tutte quelle cautele gestionali, imposte dalla normativa tecnica, necessarie per prevenire l’inquinamento provocato dagli stessi rifiuti.

 

Secondo il P.M. tale “interpretazione della normativa statale si impone anche alla luce della disciplina comunitaria recepita nel nostro Paese con il D.P.R. 915\82, dapprima, e con il D.Lgs. n.22\1997, successivamente”. In particolare l’art.4 della Direttiva 75\442\CE stabilisce che gli Stati membri devono adottare “le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e in particolare senza creare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo..

Sulla base di tale disposizione la Corte di Giustizia C.E., con decisione del 9\11\99, aveva desunto l’obbligo, in capo al detentore di un’area utilizzata in passato come discarica abusiva, di adottare le misure necessarie per impedire la protrazione del persistente degrado ambientale.

 

Rileva questo Collegio che in realtà gli artt. 10 e 16 del D.P.R. 915\82 e le disposizioni della Delibera Interministeriale 27\7\1984 stabiliscono il contenuto tassativo delle autorizzazioni prevedendo una serie di “prescrizioni” che devono essere indicate nelle autorizzazioni stesse, ma non fissano direttamente degli “obblighi” in capo al titolare della discarica, ma dei meri oneri di gestione il cui mancato rispetto viene sanzionato dall’art 27 D.P.R. 915\82.

Le disposizioni di cui al D.Lgs. 22\97 non sembrano confermare la tesi degli appellanti. Infatti l’art.17 del citato Decreto introduce in Italia per la prima volta “gli obblighi di bonifica e ripristino ambientale” che vengono però posti a carico di “chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti” di contaminazione del sito “ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi….”

 

Quindi neppure il D.Lgs. 22\97 prevede obblighi di bonifica a carico del proprietario in quanto tale, al di fuori dell’ipotesi di concorso nel fatto dell’inquinamento. In questo senso si è subito orientata la giurisprudenza della Suprema Corte che ha puntualizzato che anche ai sensi del decreto Ronchi non integra il reato di “realizzazione” o di “esercizio” di discarica abusiva la condotta di chi, avendo la materiale disponibilità di un’area sulla quale altri abbiano abbandonato in epoca pregressa rifiuti, si limiti a non attivarsi perché vengano rimossi (Cfr. Cass. III, 2\7\1997); e successivamente stabilendo con riferimento all’art.51 bis D.Lgs. 22\97 – che punisce chi cagiona l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, previsto dall’art.17 – che tale norma non è applicabile a chi rivesta la qualità di proprietario senza aver posto in essere alcuna condotta incidente sul pericolo di inquinamento del sito, a questi può applicarsi esclusivamente la responsabilità solidale in sede amministrativa e civile per l’onere reale derivante dai commi 10 e 11 dell’art.17 (Cfr. Cass. III, 28\4\2000).

Non sembra possibile, poi, desumere un obbligo giuridico di attivarsi in capo al detentore di un’area utilizzata in passato come discarica abusiva dai principi fissati dall’art.4 della Direttiva 75\442\CE, così come è stato prospettato dagli appellanti.

 Si tratta, in vero, di una normativa comunitaria che ha per destinatari esclusivamente gli Stati membri e dalla quale non può farsi discendere direttamente la sussistenza nel nostro ordinamento di un obbligo giuridico di attivarsi per l’attuale titolare di un’area inquinata dai suoi predecessori; inoltre la norma citata dagli appellanti prescrive genericamente l’adozione di misure necessarie senza determinarne il contenuto concreto proprio in considerazione del fatto che si tratta di una disposizione di natura meramente programmatica.

 

Il richiamo fatto dal P.M. alla sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea del 9\11\99 non appare idoneo a fornire elementi per risolvere la questione della responsabilità omissiva del proprietario subentrante dopo la cessazione dell’attività di discarica.

Infatti è vero che nella sentenza citata la Corte europea aveva statuito che la Repubblica italiana non aveva correttamente e integralmente attuato l’art.4 ed altri principi della Direttiva 75\442\CE in relazione ad un’area ove vi era uno scarico di materiali biologici e chimici provenienti da strutture ospedaliere, omettendo di adottare “le misure necessarie per obbligare il gestore della discarica abusiva a consegnare i rifiuti ad un raccoglitore privato o pubblico o ad un’impresa di smaltimento”, ma è facile rilevare che nella sentenza si parla, con riguardo alla stessa persona, di “gestore” della discarica e di “detentore” dei rifiuti e da ciò si ricava che le due qualità erano compresenti nello stesso soggetto. Situazione, quindi, completamente diversa da quella di cui dobbiamo occuparci.

 

Tutte le norme citate dagli appellanti sono dirette a regolare un ambito ben definito e cioè il tipo e l’estensione degli oneri inerenti la gestione di una discarica autorizzata dopo che la stessa venga a cessare l’attività in quanto è evidente che chi smette l’esercizio di una discarica non può disinteressarsi degli eventuali effetti nocivi provocati dai rifiuti che vi sono contenuti.

Non appare invece legittimo vincolare a questi stessi oneri chi, come nel caso in esame, sia subentrato nella proprietà di terreni occupati da una discarica non sottoposta a controllo e senza averla mai gestita, dopo che l’attività della stessa è ormai cessata.

Utilizzare le norme indicate per ricavarne obblighi penalmente rilevanti con riferimento ad una situazione diversa (anche se simile) da quella che vi è espressamente disciplinata e nei confronti di soggetti (proprietari subentranti) diversi dalle persone (gestori della discarica) cui quelle norme si rivolgono finirebbe per estendere gli estremi del fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice in aperta violazione del principio di tassatività del precetto sancita dall’art.25 della Costituzione e dall’art.1 c.p.

 

La questione è stata affrontata espressamente nella citata sentenza 5\10\94 della Cassazione a Sezioni Unite che, proprio al fine di definire e delimitare il contenuto del concetto di “gestione” di discarica, ricorda che l’avverbio “espressamente” contenuto nell’art.1 c.p. : “lungi dall’essere pleonastico, impone all’interprete di attenersi alla dizione della norma, che si suppone chiara, senza indulgere a interpretazioni analogiche, e, ove chiara non sia, gli impedisce comunque di adottare interpretazioni che si discostino dal dettato della norma stessa. E ciò al fine di evitare che il cittadino si trovi esposto a responsabilità di maggior ampiezza rispetto alla responsabilità cui era espressamente chiamato”.

Il P.M. e l’Avvocato dello Stato hanno poi sostenuto che la sentenza 5\10\94 delle Sezioni Unite non avrebbe avuto l’avvallo della giurisprudenza successiva che, al contrario, avrebbe confermato le tesi degli appellanti e, sul punto, sono state citate varie decisioni di merito e di legittimità.

Anche tale assunto non è risultato fondato.

 

E’ stata ricordata la sentenza 31\1\95 del Pretore di Terni nella quale il giudice, pur dichiarando di aderire ai principi di diritto fissati dalla sentenza 5\10\94 delle Sezioni Unite, ha anche affermato la necessità di accertare con particolare rigore, sotto il profilo soggettivo, il comportamento del nuovo proprietario di un’area che trova in loco i rifiuti smaltiti abusivamente, precisando che devono considerarsi quali comportamenti attivi di gestione di una discarica ormai esaurita anche comportamenti apparentemente passivi, ma di fatto commissivi, come ad esempio la semplice custodia dell’area già adibita a discarica.

In realtà il Pretore si era limitato a rilevare che da un comportamento di mero subentro passivo nella titolarità del sito (ritenuto non sufficiente ad integrare una condotta di gestione abusiva di discarica), si doveva tenere distinta una condotta soltanto apparentemente passiva, ma che in realtà nascondeva una “sotterranea attività gestionale di fatto della discarica; magari anche come semplice custodia per il futuro, dopo la iniziale realizzazione e gestione attiva in senso stretto”.

La sentenza citata conferma quindi il principio che il reato in esame può integrarsi solo con una condotta commissiva anche se dissimulata dietro ad un comportamento solo apparentemente passivo. Il P.M. cita poi, a sostegno della sua tesi, la sentenza 4\11\94 della Cassazione, Sez.III, per la quale: “ il concetto di gestione di discarica abusiva ex art.25 D.P.R. 915\82 deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto reato, strutturalmente permanente”.

Appare difficile considerare la sentenza sopra citata come una aperta presa di posizione contraria ai principi fissati dalle Sezioni Unite in quanto si tratta di sentenza pronunciata prima del deposito di quella delle Sezioni Unite avvenuto il 28\12\94. Comunque la sentenza della Sezione III aveva per oggetto condotte diverse da quelle contestate agli odierni imputati e cioè l’aver “consentito e tollerato” la gestione di rifiuti in discarica; si trattava cioè di condotte concomitanti alla gestione della discarica e non successive ad essa.

 

 E’ infatti evidente che per tutta la durata della gestione attiva della discarica possono assumere rilievo, a titolo di concorso, anche condotte di natura omissiva che si concretizzino, ex art.40 cpv. c.p. nella violazione di precisi obblighi di intervento previsti dalla norma. Ma si tratta di situazione diversa rispetto a quella di chi, subentrato nella titolarità di un sito contaminato in precedenza da altri con attività ormai cessata, ometta di attivarsi per rimuovere i rifiuti o per bonificare l’area.

Argomentazioni analoghe valgono in relazione al contenuto della sentenza 17\12\96 della Cassazione citata dal P.M. a pagina 1141 dei suoi motivi in quanto relativa al comportamento omissivo del titolare di un sito che in tal modo agevolava la gestione “in corso” di una discarica.

 

Più interessante appare invece il richiamo alla sentenza 11\4\97 della Sez.III della Cassazione ove si esprime un giudizio critico sulla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite del 5\10\94 in quanto avrebbe reso “ondivago” il termine di cessazione della permanenza del reato ancorandolo alla emissione o meno da parte del Sindaco di un provvedimento di rimozione dei rifiuti senza includere nella nozione di gestione della discarica il mantenimento della stessa senza alcun conferimento ovvero l’obbligo di rimessione in pristino. La sentenza però risulta pronunciata nell’ambito di un procedimento penale in cui l’imputato era il gestore attivo di una discarica ed il rilievo mosso alla decisione delle Sezioni Unite appare come una obiezione ad una soluzione formulata in forma ipotetica dalle stesse Sezioni Unite circa un possibile rimedio ad eventuali vuoti di tutela e cioè la via di un eventuale provvedimento di rimozione dei rifiuti nei confronti di chi succeda nella disponibilità del sito contaminato da altri antecessori.

 

Per completare l’esame della giurisprudenza ritenuta dagli appellanti in contrasto con i principi fissati dalla sentenza 5\10\94 delle Sezioni Unite si deve ora ricordare che l’Avvocato dello Stato, nella memoria depositata in data 2\12\2004, ha ricordato la sentenza 14\5\2004 della Cassazione Sez.III che ha statuito : “In tema di smaltimento dei rifiuti, integra il reato omissivo punito dall’art.50, comma 2° del D.Lgs. 22\97, la mancata osservanza dell’ordinanza sindacale emanata ai sensi dell’art.14, comma 3° del citato decreto, con la quale si intima al proprietario (o possessore) dell’immobile, ove risulta giacente un deposito incontrollato di rifiuti, la rimozione degli stessi, senza che possa avere rilevanza il fatto che l’accumulo dei rifiuti non sia ascrivibile al comportamento del destinatario dell’intimazione o risalga a tempi antecedenti l’acquisto dell’immobile stesso”.

 

Anche in questo caso si tratta di una situazione diversa da quella che ora interessa in quanto l’obbligo giuridico di bonificare l’area gravante in capo al proprietario incolpevole del sito trova una fonte precisa e legittima nell’ordinanza sindacale e non nella semplice detenzione dei rifiuti.

In conclusione si può affermare che la giurisprudenza successiva alla decisione delle Sezioni Unite non si è mai discostata in modo sostanziale dai principi di diritto fissati in tale decisione ed è anzi possibile ricordare anche varie sentenze perfettamente conformi agli stessi principi (Cfr Cass.2\7\97 n.8944; App. Catanzaro 3\6\98, Caputo).

A conclusione di quanto detto fin ora si può quindi affermare l’insussistenza di un obbligo di controagire, sulla base della normativa vigente, in capo a chi sia subentrato nella titolarità di un sito contaminato dai suo predecessori e ciò comporta che non lo si può ritenere responsabile né di violazioni contravvenzionali, né di disastro innominato, né di avvelenamento o adulterazione.

 

La posizione di garanzia è un elemento costitutivo della fattispecie penale e deve trovare fondamento in specifiche norme di legge che regolino tassativamente il caso previsto.

L’obbligo giuridico rilevante ai sensi dell’art.40, comma 2° c.p. non può essere desunto dallo spirito di altre norme.

Giustamente il P.M. ha rilevato come possa apparire paradossale la circostanza che non siano punibili persone consapevoli (come nel caso in esame) di una situazione di fatto antigiuridica per la presenza di numerose discariche abusive di rifiuti tossici e del conseguente rischio di contaminazione del suolo, del sottosuolo e delle falde idriche e che non abbiano posto in essere alcuna attività per porre termine o per limitare le conseguenze negative di tale situazione.

In effetti la mancata previsione di obblighi di bonifica e di messa in sicurezza di siti contaminati in capo a chi ne acquisisce la proprietà rappresenta una grave lacuna legislativa che però non può essere colmata avvalendosi di procedimenti analogici.

 

Un argomento nuovo a sostegno della tesi accusatoria è stato proposto dal Procuratore Generale nella memoria depositata il 2\12\2004 ove, parlando della questione della successione di posizione di garanzia e, quindi, dell’obbligo gravante su chi subentra in essa di porre nel nulla le situazioni di pericolo create dal predecessore, fa ricorso ad una diversa e nuova figura di posizione di garanzia cui ha riguardo l’art.40 cpv. c.p. completamente svincolata da norme, anche non scritte, di diritto privato o di diritto pubblico, ma in una semplice situazione di fatto, per precedente condotta illegittima e non soltanto per condotta attribuibile a quello stesso soggetto garante, ma anche quella attribuibile ad un diverso soggetto che lo abbia preceduto nella medesima posizione di garanzia; tutto ciò in nome dei “principi solidaristici che impongono (oggi anche in base alle norme contenute negli artt. 2, 32 e 41, comma 2° Cost.) una tutela rafforzata e privilegiata di determinati beni”.

La tesi del P.G. appare estremamente interessante in quanto effettivamente esiste una giurisprudenza di legittimità citata nella memoria in esame (Cass. Sez.IV 8\10\2003, Corinaldesi) secondo la quale “la posizione di garanzia può trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima, che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l’evento”.

 

Si deve tuttavia rilevare che tale posizione di garanzia svincolata dal riferimento a precise norme giuridiche trae origine da precedenti comportamenti dello stesso soggetto tenuto all’azione impeditiva e non da comportamenti tenuti in precedenza da altri senza nessun concorso del soggetto asseritamene tenuto; si tratta della categoria dell’”azione propria precedente” come risulta dalla lettura della sentenza citata concernente la responsabilità del conducente di uno scuola-bus che, dopo aver accompagnato a destinazione una bambina dodicenne, non aveva impedito che questa attraversasse imprudentemente la strada, finendo investita da una vettura.

 

Ad avviso di questo Collegio non è possibile passare dalla posizione di garanzia per azione propria precedente ad una posizione di garanzia che coinvolga la responsabilità degli imputati per comportamenti tenuti in precedenza da altri senza nessun concorso degli imputati stessi facendo un semplice riferimento ai principi solidaristici di rilievo costituzionale.

 

I principi solidaristici possono avere rilievo giuridico solo quando si concretizzano in norme giuridiche che impongano specifici obblighi di attivarsi, altrimenti si corre il rischio che l’ambito delle posizioni di garanzia potrebbe essere liberamente individuato sulla base di letture soggettive delle norme costituzionali e non sarebbe possibile individuare in modo certo gli obblighi impeditivi specifici gravanti sui destinatari delle norme penali chiamati a sventare i pericoli creati da altri.

 

A conclusione di questo capitolo devono di conseguenza essere rigettate le doglianze degli appellanti tendenti ad ottenere il riconoscimento della sussistenza delle contravvenzioni al D.P.R. 915\82 e l’integrazione delle condotte tipiche dei reati di disastro, avvelenamento e adulterazione in relazione al comportamento di quegli imputati che, subentrati nelle rispettive cariche all’interno della società, avevano omesso di effettuare interventi di bonifica o di messa in sicurezza di discariche realizzate e gestite in passato dai propri predecessori.

 

CAPITOLO  3.5   APPELLO P.M.

ERRONEA, CONTRADDITORIA ED ILLOGICA ESCLUSIONE DEL REATO DI AVVELENAMENTO COLPOSO

In questo capitolo il P.M. contesta, con argomenti identici a quelli proposti dall’Avvocato dello Stato nei suoi motivi d’appello, la sentenza di primo grado nella parte in cui ha escluso la sussistenza del reato di avvelenamento colposo.

Gli appellanti partono dalla premessa che il delitto di avvelenamento rientra pacificamente nella categoria dei reati di pericolo astratto per i quali la pericolosità è generalmente insita nel fatto tipico.

In altre parole nei reati di pericolo astratto la stessa norma indica i fatti che il legislatore ritiene – secondo l’id quod plerumque accidit – abbiano un carattere di generale pericolosità. Tale indicazione può aver luogo mediante riferimento a termini significativi e pregnanti come appunto il termine avvelenamento nel reato di cui ora ci occupiamo.

 

Il P.M. sostiene poi che “nel caso previsto dall’art.439 c.p. non deve essere provato l’effettivo (concreto) verificarsi del pericolo per la salute pubblica, ma pur sempre si è tenuti  a fornire la prova che le acque e sostanze alimentari sono state avvelenate, cioè che sono state contaminate da sostanze tossiche, anche non letali, in concentrazioni tali da poter comunque danneggiare l’organismo umano.” (pag.1148).

Nel caso in esame “il pericolo è stato contestato in ragione dell’avvelenamento delle acque e delle sostanze alimentari, vale a dire in una modificazione prodotta mediante immissione di veleni o di sostanze tossiche, capace di introdurre sostanze dannose in un sistema biologico, alterandone seriamente le funzioni” (pag.1154).

A questo punto si ricorda che una rilevanza decisiva ed esclusiva dovrebbe essere riconosciuta alla pericolosità generalmente, normalmente insita nel fatto tipico di avvelenamento secondo l’id quod plerumque accidit; ciò, non certamente per negare l’utilità della scienza nella prova del pericolo, ma solamente perché la prova scientifica non può mai essere ontologicamente certa.

Nel rispetto di tale premessa gli appellanti sostengono di aver provato, nel corso del giudizio di primo grado, che i mitili ed i pesci della laguna erano contaminati e che i contaminanti avevano causato delle mutazioni.

 

In base agli accertamenti svolti era stato possibile appurare la presenza di “addotti” e di “micronuclei” (cioè alterazioni del DNA) nei mitili e nei pesci della laguna e tale presenza era da considerarsi una chiara manifestazione di danno genetico provocato dalle sostanze immesse nelle acque dal Petrolchimico.

Da ciò si dovrebbe ragionevolmente dedurre che un rischio analogo di modificazione genetica sussista anche per la collettività umana esposta direttamente o indirettamente alle stesse sostanze tossiche che si è dimostrato essere state immesse nell’ambiente dallo stabilimento.

Secondo gli appellanti, alla luce di tali accertamenti, il Tribunale avrebbe dovuto chiedersi che cosa accade non solo nei molluschi e nei pesci la cui contaminazione ed i cui effetti sul DNA sono stati appurati, ma anche alla popolazione che di essi si nutre, con particolare attenzione agli effetti indotti da tale consumo sulla salute umana.

 

Secondo le leggi della biologia si può parlare di non impossibilità di danno genetico, di possibili risposte biologiche negative.

Non ci troveremmo di fronte, quindi, ad un “pericolo congetturale”, ma a una condizione di fatto molto concreta che individua un fattore di rischio (e quindi di pericolo) per la salute dell’uomo derivante dalla contaminazione delle acque e degli alimenti (pesci e molluschi); circostanza ignorata dalla sentenza di primo grado.

Rileva questo Collegio che in realtà il problema ora in esame era stato affrontato e ampiamente discusso anche nel corso del giudizio di primo grado con un approfondito confronto fra i consulenti delle parti e con la citazione di numerosi studi scientifici.

All’esito di tale approfondimento scientifico non è stato possibile giungere a conclusioni che confermino la tesi accusatoria.

In primo luogo la tecnica usata dalla consulente Venier per misurare gli “addotti” non permette di identificare le sostanze responsabili della loro formazione; la circostanza è confermata dalla stessa Venier che nella sua relazione del 6\4\2001 precisa: “ ..la tecnica di postmarcatura con 32P rileva molecole aromatiche stericamente ingombranti e DNA-reattive andate a bersaglio sul DNA qualunque esse siano, senza specifici standard analitici…”. Quindi se è provata la presenza di “addotti” nei mitili della zona di Marghera, non sappiamo quali sostanze ne abbiano provocato la formazione.

Non è stato inoltre possibile accertare in quale segmento del DNA si sono formati gli addotti; la circostanza è particolarmente rilevante in quanto vi sono parti del DNA che non hanno funzioni particolari per cui viene meno qualsiasi rischio di mutazione genetica. La stessa dott.ssa Venier all’udienza del 17\10\2000 ha ammesso che: “…quindi la presenza di addotti può determinare mutazioni…..dipenderà dal tratto di DNA coinvolto”.

 

A tutto ciò si deve aggiungere che la possibilità che un addotto possa portare ad una mutazione dipende dalla persistenza dell’addotto stesso durante un periodo di proliferazione cellulare; in assenza di qualsiasi informazione sul tipo di addotto rilevato nei mitili e nei pesci, sul tipo di danno in ipotesi prodotto al DNA e sui meccanismi di riparazione del DNA, non è stato possibile attribuire un significato qualunque alla presenza di tali addotti in relazione ad un eventuale ipotetico danno allo stesso DNA.

L’unico dato certo ed incontestato è che gli addotti al DNA rappresentano misure di esposizione, cioè indicano che è avvenuta una esposizione ad agenti genotossici, ma non indicano un danno biologico vero e proprio.

 

Considerazioni identiche si possono fare anche in relazione alla presenza di micronuclei nei mitili e nei pesci della laguna. La stessa dott.ssa Venier ha riferito che i “composti che danno micronuclei sono dei più vari, questo è quindi aspecifico come indice” (Udienza 17\10\2000); inoltre i micronuclei sono stati osservati anche in assenza di esposizione, in individui e animali perfettamente sani, manca quindi la prova che i micronuclei siano provocati dagli inquinanti della laguna.

In conclusione i dati certi sui quali si basano le doglianze degli appellanti consistono nella constatata presenza nei mitili e nei pesci della laguna di addotti e micronuclei in moderato eccesso rispetto ad individui raccolti in zone diverse ma nei quali erano comunque egualmente presenti sia gli addotti, sia i micronuclei.

 

Manca invece la prova che la presenza di addotti e di micronuclei sia dovuta alle sostanze immesse in laguna dal Petrolchimico.

Mancano elementi scientificamente fondati per affermare che addotti e micronuclei abbiano effettivamente provocato mutazioni fino al punto di poter essere valutati come lesioni promutagene.

L’argomentare della pubblica accusa diventa ancora più problematico e privo di certezze nel momento in cui sostiene la trasferibilità all’uomo in termini anche solo di rischio delle osservazioni fatte per i pesci e i mitili.

Come si è più sopra accennato, il P.M., nei suoi motivi, sostiene che “…se nei mitili il danno genetico causato da esposizione alle sostanze inquinanti scaricate e\o immesse dallo stabilimento del Petrolchimico è stato accertato al di là di ogni ragionevole dubbio, allora si dovrebbe con ragionevolezza affermare che un rischio analogo di modificazione genetica sussista per la collettività esposta…….In questo caso, sono le leggi della biologia che provano la non-impossibilità del danno nel caso concreto e consentono, su tale base, la legittima configurazione di un pericolo scientificamente supportato.” (pag.1157-1158).

 

Ma a questo punto si pone il problema di accertare come in concreto gli addotti e i micronuclei presenti nei mitili e nei pesci possano trasferirsi agli uomini.

Non certo per via alimentare in quanto le più elementari leggi della genetica escludono tale possibilità; è infatti notorio che il materiale genetico è qualcosa di altamente specifico, assolutamente non trasferibile per via alimentare da un organismo all’altro. La via usuale di scambio genetico è la riproduzione tra individui della stessa specie. Si deve quindi concordare con il consulente della Difesa, dr. Dragani, il quale ha precisato che la presenza di addotti al DNA non comporta alcun pericolo tossicologico perché “essi rappresentano prodotti che hanno già reagito con il DNA del prodotto alimentare e quindi non sono in grado di reagire con il DNA umano.”

Si potrebbe sostenere che i contaminanti che possono provocare una alterazione genetica nei molluschi potrebbero provocare analoghe alterazioni nell’uomo, ma non è stata acquisita alcuna prova di un qualche aumento di danno al DNA in persone esposte ai livelli di inquinanti riscontrati a Porto Marghera in quanto nessun operaio dello stabilimento e nessun abitante risulta essere stato sottoposto ad analisi di danni al DNA.

Nessun elemento a sostegno dell’ipotesi accusatoria può ricavarsi dalla pacifica diversità delle reazioni metaboliche degli invertebrati rispetto a quelle dell’uomo; indubbiamente l’essere umano possiede vie metaboliche più complesse ed efficienti di quelle dei mitili, ma da ciò non può dedursi che “le nostre reazioni metaboliche producono più quantità di intermedi reattivi capaci di formare addotti sul nostro DNA” (Motivi P.M. pag.1167); è solamente possibile affermare che la trasformazione di una determinata sostanza avverrà in modo diverso.

 

In ultima analisi si può giungere alla conclusione che non esiste una legge scientifica sulla base della quale si possa sostenere in termini oggettivamente validi e ripetibili che vi è nesso causale fra la presenza di contaminanti nei pesci e nei mitili e l’insorgere negli stessi di addotti e micronuclei; né che vi sia nesso causale fra gli addotti e micronuclei presenti nei pesci e nei mitili e quelli ipotizzati come presenti negli esseri umani abitanti nella zona, né che vi sia nesso causale fra i contaminanti presenti nelle acque e nei pesci della laguna e l’eventuale presenza di addotti e micronuclei nell’uomo.

Si tratta di semplici ipotesi formulate dagli appellanti ispirandosi ad un criterio di “ragionevolezza” che non ha trovato alcun riscontro o sostegno in leggi scientifiche.

 

A sostegno della tesi accusatoria non è possibile far ricorso al “principio di precauzione” che non si basa su criteri scientifici, ma è la manifestazione di decisioni di carattere precauzionale adottate da organi politico-amministrativi con finalità di prevenzione e senza valenza scientifica.

Il delitto di avvelenamento è pacificamente un reato che ha lo scopo di prevenire un pericolo per la salute pubblica, ed è altresì pacifico che il pericolo è presunto in via assoluta dalla legge perché l’art. 439 c.p. non richiede la prova che sia sorto un effettivo pericolo per le persone.

Tuttavia il pericolo che la norma vuole prevenire deve essere un pericolo reale, individuato o individuabile attraverso norme scientifiche di copertura, non un pericolo supposto o immaginato come nel caso in esame.

Conseguentemente anche questa doglianza degli appellanti deve essere rigettata.

 

CAPITOLO   3.6   APPELLO  P.M.

ERRONEA, CONTRADDITORIA ED ILLOGICA ESCLUSIONE DELLA SUSSISTENZA DEGLI ESTREMI COLPOSI DI CUI AGLI ARTT. 440 – 452 C.P.

In questa parte dei motivi d’appello il P.M. contesta la sentenza del Tribunale nel capo in cui ha escluso la sussistenza del reato di adulterazione colposa delle acque, in diritto e in fatto.

Vengono poste delle premesse in diritto sulla struttura del reato nelle quali l’appellante accoglie in parte le conclusioni del Tribunale sul punto.

In particolare si concorda con il primo giudice che il delitto di adulterazione è un reato di pericolo concreto per la cui sussistenza è necessario che il giudice accerti la possibilità di un danno alla salute pubblica, mentre non è necessaria la prova di una effettiva lesione della stessa.

Però, secondo il P.M., la prova del pericolo non può consistere nella dimostrazione scientifica della certezza di conseguenze dannose per la salute dell’uomo quale effetto della condotta adulterante.

Il pericolo è il risultato di un giudizio ex ante che consenta di ritenere prevedibile che dalla situazione in esame derivi un futuro evento dannoso.

 

L’appellante si pone poi il problema di individuare gli elementi sulla base dei quali il giudice può formulare il giudizio di pericolosità in concreto e mette in rilievo che secondo varie decisioni della Cassazione il convincimento del giudice si può basare su qualsiasi mezzo di prova consentito in quanto la pericolosità dell’acqua o degli alimenti non deve necessariamente essere accertata a mezzo di analisi chimiche o di indagini peritali.

In particolare il giudizio di pericolosità  può basarsi su parametri normativi quando esiste una disposizione che riconosce una specifica pericolosità (intesa come attitudine generica a ledere la salute) ad alimenti che si trovino in particolari condizioni o che presentino certe caratteristiche.

Si giunge così alla problematica del significato giuridico da riconoscere agli standars di qualità di un prodotto o di un alimento previsti dalle leggi speciali.

 

Secondo l’appellante l’orientamento ora prevalente della giurisprudenza sarebbe nel senso che la responsabilità penale presuppone sempre la violazione degli standards perché si tratta di limiti imposti dal legislatore a tutela della salute umana il cui superamento comporta necessariamente il verificarsi di una situazione che il legislatore stesso considera – in base a dati scientifici ormai acquisiti – di rischio per la salute.

Per quanto riguarda le acque di falda oggetto nel presente procedimento del contestato reato di adulterazione un preciso indice normativo di pericolo è fornito dai valori di concentrazione massima ammissibile stabiliti dal D.P.R. 24\5\1988 n. 236 per le acque destinate al consumo umano.

 

Con le disposizioni sopra richiamate il legislatore nazionale, in attuazione della direttiva CEE n.80\778, ha fissato i requisiti di qualità delle acque destinate al consumo umano sulla base dei valori e delle indicazioni relativi ai parametri elencati nell’allegato I ed ha ribadito che ogni superamento del valore di concentrazione massima ammissibile fissato per ogni parametro tra quelli indicati nell’allegato I rappresenta sempre un fattore di rischio per la salute dell’uomo e che deroghe possono essere consentite solo quando non comportino un rischio inaccettabile.

Il giudice ha quindi a disposizione un preciso elemento di carattere normativo da utilizzare per valutare la significatività del rischio per la salute pubblica conseguente alla adulterazione (in questo caso) delle acque di falda, non essendo vincolato agli esiti di una dimostrazione scientifica in concreto del rischio esistente e del suo livello. Ad avviso di questo Collegio non può essere condivisa la tesi del P.M.

Seguendo tale tesi, in caso di insufficienza delle leggi scientifiche come metro del giudizio di pericolosità si potrebbe far ricorso al metro alternativo costituito dai parametri normativi dei limiti-soglia previsti dalla legislazione speciale al cui superamento verrebbe attribuita una presunzione assoluta di pericolosità.

 

Occorre però tener presente che i limiti-soglia sono fissati dal legislatore in vista di misure di tutela ultracautelare del bene protetto al fine di prevenire ed evitare qualsiasi ipotesi di rischio.

Non possiamo inoltre dimenticare che il reato di adulterazione è, pacificamente, un delitto di pericolo concreto per la pubblica incolumità, e che l’accertamento del pericolo concreto impone sempre una dimostrazione reale e non ipotetica della pericolosità della condotta tipica.

La prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito riconosce la completa autonomia strutturale tra le fattispecie di avvelenamento e adulterazione e le diverse ipotesi contravvenzionali o di illecito amministrativo previsti dalla legislazione speciale degli alimenti e dell’ambiente e conseguenti al superamento dei limiti-soglia.

Sul punto appare estremamente chiarificatrice la sentenza della Suprema Corte che ha affermato che: “ …la nozione di pericolo per la salute pubblica va oltre la semplice finalità di prevenzione propria delle contravvenzioni ed implica l’accertamento di un nesso tra consumo e danno alla salute fondato quanto meno su rilievi statistici che valgano a costituire un rapporto tra due fatti in termini di probabilità” (Cass. 30\5\1997, Rigoni).

 

Anche la Corte Costituzionale, chiamata ad intervenire proprio sul rapporto tra il delitto di adulterazione e la contravvenzione prevista dall’art.3 del D.Lv. 27\1\1992 n.118 relativa al divieto di somministrazione di talune sostanze ad azione ormonica e tireostatica nella produzione di animali, ha evidenziato: “…la reciproca autonomia e la diversità dei tipi di illecito”, sottolineando in particolare “…il diverso requisito costitutivo del reato consistente, nella disposizione del codice penale, nel pericolo concreto per la salute pubblica, che non si riscontra in quella impugnata (contenuta nella legge speciale) fondata sulla generica previsione del pericolo astratto” (Corte Cost. 21 luglio 1993 n.326).

 

Si deve quindi giungere alla conclusione che per la sussistenza del reato di adulterazione è comunque necessario accertare l’esistenza di un pericolo concreto per la pubblica incolumità; a tal fine può essere utile, ma non sufficiente, il ricorso ai limiti-soglia fissati dalla legislazione speciale in quanto l’eventuale superamento degli stessi configura il reato contravvenzionale o l’illecito amministrativo, ma deve essere affiancato da un ulteriore accertamento circa la concreta messa in pericolo del bene protetto.

Giustamente, quindi, il Tribunale ha recluso la sussistenza del reato di adulterazione contestato evidenziando che nel caso in esame le acque di falda, pur risultando inquinate per la presenza di varie sostanze in misura superiore ai limiti di concentrazione massima ammissibile previsti dal D.P.R. 236\88, non rappresentavano, in concreto, un pericolo per la pubblica incolumità perché oggettivamente non idonee ad essere destinate al consumo umano e quindi non utilizzabili.

Il P.M. impugna però anche quest’ultima affermazione del Tribunale perché basata su erronei presupposti di fatto.

Prima di passare all’esame di queste ulteriori doglianze dell’appellante appare opportuno presentare un quadro d’insieme delle circostanze di fatto di cui ci occupiamo in questo capitolo.

Agli imputati viene contestato di aver provocato l’adulterazione delle acque di falda non impedendo il percolamento dei rifiuti stoccati nelle varie discariche create nel corso degli anni sia all’interno che all’esterno dello stabilimento.

Si deve quindi distinguere fra discariche esistenti all’interno dell’area del Petrolchimico e discariche esistenti all’esterno di tale area.

 

Le prove raccolte nel corso del giudizio di primo grado hanno permesso di definire, in modo non contestato, la posizione e la distinzione dei corpi acquiferi presenti nelle due aree entro i primi 30 metri di profondità.

 

I)                                Partendo dall’alto vi è un primo strato costituito in gran parte da materiali di riporto fino ad una profondità di circa 5 metri ove raggiunge il livello limoso-argilloso (caranto) che fa da tetto al secondo strato. All’interno di questo primo strato non vi è una vera e propria falda (anche se impropriamente viene chiamata “falda superficiale”), ma sono presenti acque di impregnazione di origine meteorica e pressoché stagnanti. Tali acque sono risultate molto inquinate.

II)                               Vi è poi il primo acquifero contenuto fra il caranto ed il primo livello impermeabile situato a circa 15 metri di profondità. In questo secondo strato vi è la prima vera falda acquifera risultata inquinata in modo apprezzabile soltanto in corrispondenza ad aree ristrette corrispondenti ai luoghi di deposito dei rifiuti.

III)                             Giungiamo infine al secondo acquifero situato tra il primo livello impermeabile ed una formazione argillosa-limosa a bassa permeabilità individuata ad una profondità media superiore ai 22 metri. In questo strato si trova la seconda falda acquifera che mostra localmente ed esclusivamente per qualche sostanza concentrazioni sensibili.

 

Le emergenze processuali avevano indotto il Tribunale a ritenere che nell’area all’interno del Petrolchimico non era in alcun modo ipotizzabile l’utilizzo delle falde acquifere entro i primi trenta metri di profondità per la loro scarsissima portata e per la elevata salinità che le rendeva inidonee a qualsiasi uso antropico. Quindi l’assetto idrogeologico della penisola del Petrolchimico evidenziava l’assenza di un requisito indispensabile per la sussistenza del delitto di adulterazione e cioè quello della attingibilità almeno potenziale delle acque di falda impedendo così il verificarsi anche della semplice ipotesi di un pericolo per la pubblica incolumità.

 

Per quanto riguarda le acque di falda sottostanti le aree esterne al Petrolchimico bisogna ricordare che il Tribunale aveva escluso che l’inquinamento delle acque sottostanti le discariche situate all’interno dello stabilimento potesse essere veicolato verso i canali lagunari stante le bassissime velocità di falda, l’ostacolo costituito dai movimenti mareali e dall’ingressione di acqua marina che determinava una grossa diluizione degli inquinanti. Anche l’ipotesi del trasferimento della contaminazione verso l’entroterra era stata esclusa in quanto le falde erano orientate a scendere verso la laguna; inoltre le analisi effettuate sull’acqua dei pozzi situati fuori dal plesso industriale avevano evidenziato l’assenza di inquinanti di origine industriale. Infine non era stata acquisita alcuna prova di contaminazione delle falde acquifere sottostanti le discariche esterne al Petrolchimico.

 

 In primo luogo il P.M. rileva che dalle schede di autodenuncia acquisite con ordinanza in data 8\5\2001 risulta l’esistenza di numerosi pozzi che pescano nelle prime falde del sistema idrogeologico veneziano; il dato appare confermato da uno studio della Provincia di Venezia – Settore Ecologia e Ambiente – Servizio Programmazione Ambientale e cioè dall’ “Indagine idrogeologica del territorio provinciale di Venezia” del 1998 dal quale risulta l’esistenza nel territorio della Provincia di 463 pozzi noti.

Tutto ciò dimostrerebbe come le falde oggetto del presente procedimento risultino normalmente sfruttate per uso umano. In verità le conclusioni del P.M. appaiono infondate.

Si deve infatti rilevare che tutti i pozzi ad uso industriale-alimentare risultanti dalle schede di autodenuncia acquisite con ordinanza dell’8\5\2001 sono lontani diversi chilometri (comunque mai inferiore ad una distanza di 2 Km.) dall’area dello stabilimento e dalle discariche esterne o si trovano al di là dei canali industriali che circondano lo stabilimento che costituiscono un limite invalicabile per le acque della falda del Petrolchimico. Di conseguenza i pozzi in questione pescano in falde il cui inquinamento ad opera dello stesso Petrolchimico non risulta provato.

 

Per quanto riguarda lo studio della provincia di Venezia pubblicato nel 1998, bisogna ricordare che si tratta di uno studio parziale confluito in quello più generale pubblicato nel 2002 con il titolo “Indagine idrogeologica del territorio provinciale di Venezia” dal quale emerge in modo inequivocabile che le falde della provincia diminuiscono naturalmente la loro qualità man mano che si avvicinano alla laguna e, di conseguenza, non sono idonee per scopi idropotabili per la presenza di ferro e ammoniaca di origine naturale nonché, in prossimità della costa, di cloruri.

Tutto ciò conferma la non utilizzabilità delle acque di falda sottostanti l’insediamento industriale.

Relativamente all’area del Petrolchimico risulta in modo pacifico che non vi sono mai stati pozzi con profondità inferiore ai 30 metri che potessero pescare nelle falde inquinate, mentre ne esistevano 16 con profondità compresa fra i 91 e i 312 metri che però erano stati chiusi fin dal 1964 a seguito di una ordinanza del Genio Civile tendente ad evitare il fenomeno della subsidenza.

 

L’appellante contesta poi l’affermazione del Tribunale che aveva escluso un rilevante trasferimento orizzontale degli inquinanti presenti nelle acque di falda sottostanti le discariche interne al Petrolchimico in direzione dei canali lagunari in considerazione del basso coefficiente di permeabilità del sottosuolo. Rileva il P.M. che il primo giudice aveva erroneamente indicato il coefficiente di permeabilità in cm\s mentre la dimensione normalmente usata era in m\s.

In realtà qualsiasi misura di velocità lineare può essere espressa indifferentemente sia in m\s sia in cm\s perché la correttezza del risultato dipende unicamente dall’uso della stessa unità di misura all’interno dei calcoli che vengono effettuati.

 

Dal punto di vista sostanziale appare incontestabile che il valore di permeabilità indicato dal primo giudice relativamente agli acquiferi contenenti la prima falda risulta corretto; si tratta infatti di un acquifero costituito prevalentemente da sabbie fini limose la cui granulometria comporta una permeabilità pari al valore indicato nella sentenza di primo grado. Infatti le diverse prove di permeabilità effettuate nell’area del Petrolchimico e lo stesso consulente del P.M. prof. Nosengo, concordano nell’indicare bassi valori di trasmissività e permeabilità dei materiali di riporto e degli acquiferi superficiali in accordo con le granulometrie dei terreni dedotte dalle stratigrafie.

 

 L’appellante sostiene poi che non risponde a verità l’affermazione del Tribunale secondo cui le acque di falda sottostanti l’area del Petrolchimico sarebbero sostanzialmente stagnanti in quanto si riverserebbero in laguna in una misura stimata in 4 litri al secondo da tutto il complesso dei terreni.

Secondo il P.M. il dato di 4 l\s riguarderebbe solamente le acque di impregnazione e non già la prima falda, inoltre anche una tale fuoriuscita non può considerarsi indifferente dato che corrisponde ad un apporto annuo di 126 milioni di litri.

 

In primo luogo si deve escludere che il dato di 4 l\s che definisce l’apporto stimato delle acque di falda alla laguna si riferisca alle sole acque di impregnazione. Si deve ricordare che tale stima venne proposta in prima battuta in una memoria della difesa Montedison depositata il 20\4\2001 nella quale si faceva esplicito riferimento alla prima falda e non già alla falda superficiale (o acque di impregnazione) che veniva considerata come stagnante; il consulente del P.M. prof. Nosengo ha riconosciuto l’esattezza della stima facendo ovviamente riferimento allo stesso dato fornito dalla difesa Montedison. Appare quindi certo che il dato di 4 l\s concerne l’apporto in laguna delle acque della prima falda perché quelle della falda superficiale restano sul posto essendo stagnanti, mentre quelle della seconda falda non possono finire in laguna trovandosi ad una profondità superiore rispetto al fondo della laguna stessa per cui, eventualmente, defluiranno in mare aperto.

Il secondo argomento dell’appellante consiste in buona sostanza nell’affermazione che: “ il quantitativo di 4 litri al secondo, espresso in questa unità temporale, tende ad essere percepito come molto piccolo” (motivi P.M. pag. 1208), ma in realtà appare rilevante se il medesimo dato viene espresso su base giornaliera o annuale.

In realtà si tratta di un artificio numerico che non sposta i termini della questione principale e cioè l’apprezzamento e la valutazione del contributo percentuale degli apporti delle acque provenienti dalla falda sottostante il Petrolchimico rispetto all’apporto degli altri afflussi che si riversano in laguna calcolati in misura pari a 50.000\55.000 litri al secondo. Ciò che veramente rileva ai nostri fini è il raffronto tra gli apporti che si riversano in laguna e non il valore assoluto di ciascuno di essi.

In conclusione si può ribadire che l’apporto della falda del Petrolchimico è assolutamente insignificante e trascurabile.

 

Giustamente, quindi, il Tribunale ha escluso che l’inquinamento esistente nel sottosuolo dell’area di insediamento del plesso industriale possa aver raggiunto i sedimenti e le acque dei canali lagunari in concentrazione tale da provocarne la contaminazione, dopo essere stato veicolato dalle acque di falda.

Il confronto tra le portate in entrata in laguna da parte dei più vari afflussi  e la portata massima stimata delle acque provenienti dalla falda sottostante il Petrolchimico evidenzia che queste ultime subiscono una enorme diluizione ad opera delle altre acque in arrivo in laguna per cui, qualunque fosse la concentrazione delle sostanze inquinanti eventualmente presenti nelle acque provenienti dal sottosuolo del Petrolchimico, proprio il fenomeno della diluizione sopra descritto permette di escludere la rilevanza di un qualsiasi contributo alla contaminazione della laguna attribuibile a questa fonte.

 

L’appellante esclude anche che le acque delle falde sottostanti il Petrolchimico non siano utilizzabili perché sature di cloruri; si rileva in proposito che non vi è prova che anche la seconda falda sia costituita da acque salmastre e che comunque le acque salmastre possono essere utilizzate anche per alcune coltivazioni ( “le piante tollerano sali fino a 900 mg\l, certe colture possono essere irrigate con acque contenenti fino a 3500 mg\l. All’occorrenza persino l’uomo può bere senza danno acque salate fino a 2500 mg\l.”). Anche a tali obiezioni la risposta risulta facile.

 

E’ pacifico in causa il fenomeno della miscelazione delle acque salate di provenienza marina con le acque continentali delle falde situate fino a 30 metri di profondità: Dalle cartografie esistenti emerge che il tenore di cloruri caratteristico delle acque marine superiore a 10 g\l si trova nei piezometri che attraversano la prima falda in tutto il Petrolchimico. Per quanto riguarda la seconda falda la tabella 6.6\4 allegata allo studio “Aquater Basi 96” indica concentrati di cloruri paragonabili a quelli della prima falda.

Risulta quindi provato che tutte e due le falde sottostanti il Petrolchimico hanno una salinità simile a quella dell’acqua marina superiore a 10 g\l.

 

Si tratta di acque sicuramente non utilizzabili a fini antropici perché i 10 g\l non consentono neppure quelle utilizzazioni indicate dal P.M. nei motivi d’appello.

Infatti, trasformando in grammi i milligrammi che figurano negli esempi fatti dal P.M. risulta che l’uomo può bere senza danni acque salate fino a 2,5 g\l, le piante tollerano sali fino a 0,9 g\l e certe colture possono essere irrigate con acque contenenti cloruri fino a 3,5 g\l, tutti valori di molto inferiori ai 10 g\l contenuti nelle acque di falda del Petrolchimico.

Il P.M. definisce poi “apodittica ed indimostrata” la conclusione cui è pervenuta la sentenza di primo grado nel punto in cui ha affermato che: “ le falde entro i primi 30 metri di profondità nell’area del Petrolchimico (quelle considerate in tesi d’accusa) sono da ritenersi non sfruttabili dal punto di vista idraulico, a causa del ridotto spessore degli acquiferi che non permettono di estrarre portate utili per un uso antropico”.

 

La doglianza dell’appellante non appare fondata in quanto le conclusioni del primo giudice sul punto risultano adeguatamente provate da indagini dirette condotte nell’area. Vi è in primo luogo l’indagine Aquater del 1995 sull’intervento di messa in sicurezza delle isole 31 e 32, in cui si precisa che durante le prove di emungimento si è notato che, con portate di soli 0,14 l\s, il piezometro si svuota. La successiva indagine Aquater 2000 ha confermato la insignificante produttività degli acquiferi con indagini dirette condotte nell’area, infatti riassumendo i risultati di 9 prove di pompaggio effettuate nel primo acquifero all’interno del Petrolchimico, aveva evidenziato portate estraibili molto basse ( in genere non superiori a 0,1 – 0,2 l\s).

 

Si deve poi ricordare un altro documento elaborato per conto del Comune di Venezia e cioè la “Analisi di rischio” – seconda fase, luglio 1999 – sulla discarica 43 ettari inserita all’interno del polo industriale costiero di Porto Marghera, in cui testualmente si dice: “ dato lo scarso interesse che rivestono le falde più superficiali a scala provinciale, non si fa riferimento ai dati di bibliografia, praticamente inesistenti”.(Cap.4, pag.12).

Anche un teste dell’accusa Chiozzotto, tecnico esperto del Comune di Venezia, ha confermato lo scarso interesse idraulico delle acque di falda entro 30 metri di profondità dichiarando: “ …se io le guardo dal punto di vista idraulico esclusivamente, potrei dire è carente, ha scarsa importanza..” (Ud. 27\3\2001).

 

In fine il P.M. censura la sentenza di primo grado nel punto in cui afferma che il Petrolchimico non può rappresentare una fonte di inquinamento rispetto alle falde dell’entroterra perché le acque di falda si muovono da monte verso la laguna e non viceversa.

L’appellante lamenta il fatto che il primo giudice aveva omesso di prendere in considerazione l’andamento centrifugo delle falde sottostanti il Petrolchimico rilevato in una carta ad isofreatiche del 1995 predisposta da Aquater Basi 1996.

In realtà il consulente della difesa prof. Dal Prà ha messo in discussione l’attendibilità di tale carta ad isofreatiche evidenziando come fosse in aperto contrasto con una analoga carta di provenienza Aquater del 1991 dalla quale emergeva una direzione di deflusso delle acque di falda dall’entroterra verso la laguna sempre con riferimento alla stessa zona.

 

Comunque anche volendo ritenere corretta la carta ad isofreatiche del 1995 si rileva che l’andamento centrifugo della falda ivi segnalato riguarda un’area molto ristretta dalla quale può derivare soltanto un flusso in grado di fuoriuscire per pochi metri dai confini del Petrolchimico per poi defluire inevitabilmente verso i canali industriali a seguito di assorbimento da parte della direzione di flusso regionale della falda che impedisce la risalita verso monte e l’uscita della falda dall’area.

Un riscontro in tal senso viene dalla carta isofreatica e dalla carta piezometrica redatte dalla Regione del Veneto – Segreteria Regionale per il Territorio, Dipartimento per l’Ecologia – sulla base dei rilievi sperimentali del 1983 le quali mostrano che per tutte le falde (sia freatiche, sia profonde) le direzioni di deflusso si sviluppano da nord-ovest verso sud-est e cioè dall’entroterra verso la laguna.

 

In conclusione si può affermare che le falde sottostanti l’area del Petrolchimico sono di dimensioni modeste, poverissime di acqua con alto contenuto di cloruri e praticamente stagnanti dati i bassi valori di permeabilità. Tali caratteristiche delle falde le rendono totalmente inadatte a qualunque tipo di ragionevole sfruttamento.

In altre parole le acque in questione sono risultate, per tutti i motivi sopra elencati, non attingibili (neppure in linea teorica) per qualsiasi uso e ciò esclude la sussistenza di qualunque pericolo per la pubblica incolumità ex art.440 c.p.

Si è altresì accertato che gli inquinanti contenuti nelle acque di falda vengono trasferiti ai canali lagunari circostanti in misura tale da non apportare un apprezzabile contributo alla contaminazione dei sedimenti e del biota.

 

Risulta provato che gli inquinanti contenuti nelle acque di falda e provenienti dalle discariche sovrastanti non potevano essere trasferiti a zone esterne e a monte del Petrolchimico essendo ciò impedito dall’andamento regionale delle falde stesse.

Per quanto riguarda le aree esterne al Petrolchimico manca qualsiasi prova che le discariche in imputazione abbiano provocato un inquinamento apprezzabile delle falde sottostanti e delle acque dei pozzi che vi pescano..

Tutti questi dati di fatto confermano la conclusione del Tribunale circa la insussistenza del reato di adulterazione contestato agli imputati.

 

 

 

CAPITOLO 3.7  APPELLO  P.M.

IMPIANTI VECCHI E OBSOLETI A PORTO MARGHERA

LE MIGLIORI TECNOLOGIE DISPONIBILI

 

3.7.1 La mancata adozione di dispositivi blow down sugli scarichi di emergenza degli impianti.

Secondo il P.M. e l’Avvocato dello Stato (pag.217 e segg. motivi d’appello) il tema delle emissioni in atmosfera non sarebbe stato adeguatamente affrontato dal Tribunale malgrado avesse una importanza rilevante rispetto alla contestazione di disastro colposo (così come integrata nel corso dell’udienza del 13\12\2000) verificatosi all’esterno dello stabilimento non solo con riferimento alle condotte descritte originariamente nel secondo capo d’imputazione, ma anche in relazione alla contaminazione dell’atmosfera provocata dalle emissioni non consentite di gas tossici nell’ambito dello stabilimento e, di conseguenza, delle zone circostanti.

 

Ora la questione viene riproposta dal P.M. nei motivi d’appello che, in primo luogo ricorda come tutti i recipienti chiusi contenenti fluidi pericolosi devono essere dotati di dispositivi (sfiati di emergenza) idonei ad evitare pericoli di scoppio; nel momento in cui tali dispositivi entrano in azione il contenuto dei recipienti viene rilasciato e, ovviamente, deve essere convogliato in un sistema di raccolta (Blow- down) per impedirne la dispersione.

Negli impianti del Petrolchimico lo scarico diretto in atmosfera degli sfiati di emergenza, anziché in un apposito sistema di raccolta, era la regola almeno fino al 1993. Tale soluzione era in aperto contrasto con i principi di buona tecnica in quanto non garantiva né il contenimento, né l’abbattimento degli inquinanti pericolosi per la loro tossicità e cancerogenicità e ciò con particolare riferimento agli impianti della filiera 1,2-DCE\CVM\PVC.

 

Evidenzia l’appellante che la tecnologia per l’installazione di idonei sistemi di Blow-down era disponibile fin dagli anni ’60 ed era nota al gruppo Montedison che li aveva adottati presso gli impianti micropilota e pilota del Centro Ricerche di Castellana e presso lo stabilimento di Ferrara negli anni ’70.

Il P.M. rileva ancora che il negativo impatto ambientale provocato dagli impianti CV22 – 23 si sarebbe potuto ridurre notevolmente attraverso l’adozione dell’Ossigeno puro in luogo dell’Aria nel processo produttivo dell’1,2 DCE (Dicloroetano). Infatti il 1,2 Dicloroetano viene prodotto presso il reparto CV23 del Petrolchimico di Marghera attraverso la reazione di ossiclorurazione di Acido cloridrico, Etilene e Aria. Tale processo produttivo dà luogo alla formazione di residui consistenti in sottoprodotti clorurati, acqua di reazione e gas.

 

Da oltre venti anni è stata realizzata ed applicata in U.S.A. e in Giappone una modifica del processo produttivo con la sostituzione dell’Aria con Ossigeno puro e si è ottenuta una riduzione degli effluenti gassosi, degli scarichi liquidi, dei residui, delle scorie e dei rifiuti di processo con aumento della resa produttiva. Malgrado ciò nel Petrolchimico di Marghera si era continuato e si continua a produrre con il vecchio processo ad Aria con il suo maggiore impatto ambientale.

Rileva questo Collegio che in realtà la sentenza di primo grado ha dato una risposta anche ai problemi sopra elencati, pure se in  modo indiretto, esaminando la questione del contributo del fall-out atmosferico alle immissioni in laguna.

 

La trattazione del problema non risulta particolarmente approfondita per un motivo abbastanza evidente. Il primo giudice, giunto alla conclusione (per i motivi esposti in altre parti della sentenza) che la concentrazioni di sostanze inquinanti nei sedimenti e nel biota della laguna, non superavano i limiti di qualità e i limiti soglia fissati dalle varie organizzazioni internazionali e dalla legislazione vigente, ha ritenuto il problema del fall-out atmosferico non particolarmente rilevante ai fini della decisione. All’udienza del 3\10\2000 il Tribunale ha preso in esame i dati sul fall-out forniti dal consulente tecnico dell’accusa dott. Guerzoni e derivanti da una sperimentazione descritta nel Rapporto finale al Magistrato alle Acque nell’ambito del Progetto 2023 in tema di “Nuovi interventi per la salvaguardia di Venezia – Programma generale delle attività di approfondimento del quadro conoscitivo di riferimento per gli interventi ambientali” (Consorzio Venezia Nuova, 1999).  Il consulente Guerzoni, esaminando i dati della sperimentazione sopra indicata, aveva ipotizzato una relazione tra deposizioni al suolo di diossine (PCDD\PCDF) ed emissioni da impianti del Petrolchimico; tale ipotesi era stata criticata dai consulenti della Difesa.

Si era comunque giunti alla conclusione che pur assumendo il dato di valori massimi di ricaduta degli inquinanti riportati dal consulente Guerzoni ed attribuendoli tutti al Petrolchimico, “le conseguenze in termini di impatto ambientale risulterebbero essere trascurabili, in assoluto, e, per i loro significati in termini di rilevanza causale” (Sentenza pag.715) in relazione all’ipotizzata alterazione dei valori dei sedimenti lagunari o di altri comparti ambientali.

 

Mancando quindi la prova che le emissioni di entità pari a quelle calcolate dal dott. Guerzoni come attribuibili al Petrolchimico abbiano avuto un qualche effetto significativo sulla contaminazione dei sedimenti e del biota, non può logicamente considerarsi come addebito di colpa rilevante in relazione ai contestati reati di disastro, avvelenamento e adulterazione, la mancata o tardiva adozione di dispositivi di blow down sugli scarichi di emergenza o di modifiche di processo che comunque non avrebbero inciso in modo apprezzabile sul tasso di contaminazione.

Il P.M. contesta poi al Tribunale di non aver tenuto conto dell’addebito di colpa consistito nella mancata adozione della migliore tecnologia disponibile negli impianti di produzione di cloro-soda sostituendo il processo con celle a catodo di mercurio prima con quelle a diaframma e, poi, con quelle a membrana.

 

E’ provato in causa che i primi impianti di produzione di cloro-soda realizzati a Marghera tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta (CS3 e CS4) utilizzavano celle a catodo di mercurio che erano pacificamente molto inquinanti; il processo di produzione comportava un pesante impatto ambientale in considerazione della emissione di rilevanti quantità di reflui di processo fra cui anche fanghi mercuriali contenenti alti tassi di Mercurio che venivano tumulati in varie discariche esterne al Petrolchimico.

Nel 1971 i vecchi impianti erano stati chiusi e la Montedison, in quello stesso anno aveva realizzato un nuovo impianto di cloro-soda sempre a celle di mercurio.

 

Agli imputati di pertinenza Montedison si contesta quindi di aver fatto tale scelta malgrado vi fosse la possibilità di adottare celle a diaframma che avrebbero evitato il problema del catabolismo del mercurio.

Questo Collegio non ritiene di dover giudicare negativamente la scelta fatta dagli imputati che all’epoca rivestivano posizione di garanzia per due ordini di motivi.

In primo luogo si deve ricordare che il consulente della difesa, dott. Pasquon, ha evidenziato che l’impianto di cloro-soda realizzato nel 1971 aveva caratteristiche tecniche idonee a ridurre alla fonte il catabolismo del mercurio rispetto agli impianti precedenti tanto che durante gli anni settanta era la soluzione di più frequente realizzazione nei paesi a tecnologia avanzata.

 

Sul punto le affermazioni del dott. Pasquon non risultano essere state contestate, ma anche se non si volesse tener conto di quanto sostenuto dal consulente della Difesa, si deve comunque considerare che nelle celle a diaframma quest’ultimo era costituito a base di fibre di amianto e, quindi, probabilmente più pericolose per l’ambiente e per la salute umana di quelle a mercurio.

A questo punto però l’appellante obietta che da oltre 25 anni vi era sul mercato la disponibilità di celle a membrana nel processo cloro-soda che non presentavano le controindicazioni delle cellule a diaframma o di quelle a mercurio e che già a metà degli anni settanta erano state usate in impianti di produzione di cloro-soda.

 

In realtà le affermazioni del P.M. risultano parzialmente smentite dalle emergenze processuali. E’ stato infatti provato che all’inizio degli anni sessanta la società USA Dupont annunciò la messa a punto del “Nafion” e cioè del materiale potenzialmente idoneo ad essere impiegato per le membrane nelle celle del processo cloro-soda; tuttavia ancora nel 1978 gli studi sulle applicazioni industriali delle celle a membrana erano ancora in corso di perfezionamento. Nel 1981 esistevano impianti sperimentali ed esperienze “pilota” per studiare la resistenza delle membrane alla corrosione chimica.

Il primo impianto industriale per la produzione di cloro-soda con celle a membrana negli USA è del 1983, mentre nel 1989 ne esistevano ancora solamente sette (Cfr. “Enciclopedia of Chemical Technology).

In Europa la situazione era analoga, dato che nel 1986 erano in attività solo 10 impianti con celle a membrana su oltre 100 esistenti (75 dei quali con celle a mercurio).

Se si considera che gli impianti della Montedison di cui ora ci occupiamo entrarono in attività nel 1971, risulta condivisibile l’opinione del primo giudice che al momento del fatto l’evoluzione tecnologica della cella a membrana non era tale da consentirne una tranquillizzante applicazione di serie nella produzione industriale.

Di conseguenza non appare legittimo addebitare agli imputati a titolo di colpa il non aver adottato tecniche di produzione che non avevano ancora superato il limite della fase conoscitiva e sperimentale e non potevano ancora essere ritenute idonee e mature per una immediata applicazione industriale.

 

Il P.M. passa poi ad esaminare il problema dell’impianto di depurazione dei reflui derivanti dal processo cloro-soda, il c.d. impianto di demercurizzazione delle acque collaudato nel dicembre 1982.

L’appellante prende le mosse dalla descrizione di tale impianto fatta dal consulente della Difesa, prof. Pasquon, nel corso dell’udienza del 15\11\2000.

In quella occasione il Consulente aveva messo in evidenza la circostanza che l’impianto in questione era il primo del genere a livello mondiale e consentiva di raggiungere limiti di concentrazione di Mercurio nelle acque dopo la depurazione inferiori a 5 parti per miliardo.

Secondo l’appellante fin dall’inizio degli anni ’60 era disponibile la tecnologia impiantistica che consentiva la depurazione delle acque reflue in questione fino a limiti di concentrazione finale di 5 ppb di Mercurio e anche meno; appare quindi colpevole il ritardo con il quale è stato attivato a Marghera un simile impianto di depurazione.

L’affermazione del P.M. appare però priva di riscontri probatori; risulta invece dall’istruttoria dibattimentale che solo nel 1973 la Montedison depositò il brevetto per la realizzazione di un processo di abbattimento del mercurio per via chimica e che nel 1974 era iniziata a Porto Marghera la realizzazione dell’impianto di “demercurizzazione” ultimato due anni dopo e cioè nel 1976, quando era stato attivato.

 

E’ vero che l’impianto risulta essere stato collaudato solo in data 15\12\1982, ma dalla lettura dell’atto di collaudo ( e cioè di un atto redatto in epoca non sospetta) emerge che: “la costruzione dell’impianto è stata iniziata nel 1974 e lo stesso è entrato in funzione nel marzo 1976” (pag.5 atto di collaudo).

In base a tali dati di fatto si può rilevare che fra la messa a punto di un idoneo trattamento delle acque mercuriose (1973) e la sua applicazione pratica (1976) non trascorse un lasso di tempo di molto superiore a quello strettamente necessario per progettare e costruire l’impianto stesso.

Di conseguenza anche l’addebito di colpa inerente alla tardiva realizzazione dell’impianto di trattamento delle acque mercuriose risulta infondato.

 

3.7.2       La tecnologia per la realizzazione degli impianti di trattamento chimico-fisico-biologico   delle acque reflue industriali era disponibile negli anni ’50.

 

Il P.M., nei motivi d’appello, e la parte civile Medina Democratica, nella memoria depositata il 2\12\2004,  ripropongono la tesi che il “depuratore biologico” (SG31) per le acque reflue industriali avrebbe potuto essere realizzato già negli anni ’50, mentre, con colpevole ritardo, era invece diventato operativo nello stabilimento di Porto Marghera solo poco dopo il 1980.

Gli appellanti rilevano sul punto che il Tribunale aveva escluso tale tesi sostenendo che “un depuratore biologico di uno stabilimento chimico, della entità e della complessità di quella considerata, era in quegli anni una applicazione inedita nel contesto italiano” senza però dire nulla sulla documentazione che il Pubblico Ministero aveva illustrato nel corso della discussione e che provava come la tecnologia per la realizzazione di tale impianto fosse disponibile da lungo tempo.

Le doglianze risultano fondate in quanto nella sentenza appellata non figura alcun riferimento alla documentazione prodotta a sostegno della tesi d’accusa.

In primo luogo vi sono gli Atti del Convegno dell’Associazione Nazionale di Ingegneria Sanitaria – A.N.D.I.S. tenutosi a Bologna il 20-24 aprile 1961 dalla lettura dei quali emerge, in linea generale, che le industrie, i tecnici e i ricercatori, le istituzioni a tutti i livelli erano già pienamente consapevoli della gravità del problema dell’inquinamento causato dagli scarichi industriali.

In merito alle soluzioni tecniche relative al trattamento delle acque reflue, nel corso del convegno sopra citato il Prof. Luigi Mendia aveva fatto una relazione ( “Aspetti tecnici del problema degli scarichi industriali”) nel corso della quale aveva presentato, fra le varie soluzioni, anche lo schema dell’ “Impianto consorziale del bacino del Niers” che era un impianto a fanghi attivi particolarmente idoneo all’epurazione di grandi volumi di scarico (come quelli del Petrolchimico di Marghera).

Vi sono poi gli Atti del Convegno Internazionale di Studio su “Le acque industriali: aspetti tecnologici” tenutosi a Milano – Museo della Scienza e delle Tecnica dal 30 maggio al 2 giugno 1960 nel corso del quale il dottor Luigi Morandi, vice presidente della Società Chimica Italiana e presidente della Sezione Lombardia, tenne una relazione affermando, fra l’altro, che: “L’acqua industriale è una grande malata. …….i mezzi tecnici per la depurazione delle acque di rifiuto sono oggi perfettamente conosciuti. Il problema quindi è essenzialmente economico e può essere agevolmente risolto, specialmente quando si può contare su sovvenzioni statali o regionali”.

 

Osserva questo Collegio che in base alla documentazione sopra indicata emerge chiaramente che già all’inizio degli anni ’60 la gravità del problema posto dagli scarichi industriali era ben nota e che era diffusa la consapevolezza di dover adottare idonee misure per tutelare l’ambiente.

Non risulta invece provato che esistesse la necessaria tecnologia per attuare impianti di depurazione adeguati ad uno stabilimento delle dimensioni di quello operante in Porto Marghera.

Vi è in vero la generica dichiarazione del dottor Morandi al Convegno tenutosi a Milano fra il 30 maggio e il 2 giugno 1960 circa una perfetta conoscenza dei mezzi tecnici per la depurazione delle acque di rifiuto, ma tale dichiarazione non è supportata da indicazioni tecniche che consentano di risolvere il problema della esistenza o meno di conoscenze scientifiche immediatamente applicabili ai processi produttivi del Petrolchimico.

 

Più concreto appare invece il richiamo fatto dal relatore Mendia nel Convegno A.N.D.I.S. del 1961 all’impianto consorziale del bacino del Niers idoneo alla depurazione di grandi volumi di scarico.

In realtà l’impianto di Niers trattava acque dolci, mentre l’impianto da costruire a Marghera avrebbe dovuto trattare (come in effetti poi avvenne con l’impianto SG31) acque salmastre.

Risulta quindi evidente che la tecnologia adottata a Niers non avrebbe potuto essere applicata direttamente a Marghera; era necessaria una adeguata sperimentazione per valutare e controllare il funzionamento di un impianto destinato a operare con acque salmastre non essendo disponibili nella letteratura tecnica dati sufficienti per la sua progettazione.

E’ infatti pacifico che l’impianto SG31 è stato uno dei primi impianti del genere ad essere stato realizzato in Europa.

Di conseguenza non è possibile parlare di colpevole ritardo nella attuazione dell’impianto biologico del Petrolchimico di Porto Marghera.

 

La parte civile Medicina Democratica, nella memoria depositata il 2\12\2004, dopo aver ribadito che non tutte le acque clorurate provenienti dai vari impianti del Petrolchimico erano sottoposte al trattamento di strippaggio prima di pervenire al depuratore biologico in quanto quelle in uscita dai reparti CV10-11 non subivano tale trattamento, ha evidenziato che l’impianto chimico-fisico-biologico SG31 non era e non è in grado di trattare i composti organoclorurati e in modo particolare le diossine (PCDD) e i furani (PCDF) essendo stato progettato per la sola biodegradazione delle sostanze organiche carbonacee.

La tesi della parte civile risulta smentita da una fonte ufficiale al di sopra di ogni sospetto e cioè dal Decreto Ministeriale 26\5\1999 avente ad oggetto la “Individuazione delle tecnologie da applicare agli impianti industriali ai sensi del punto 6 del decreto interministeriale del 23\4\1998 recante requisiti di qualità delle acque e caratteristiche degli impianti di depurazione per la tutela della laguna di Venezia”.

 

Nella tabella allegata al citato decreto ministeriale, ove vengono riepilogate le migliori tecnologie disponibili per l’abbattimento degli inquinanti nelle acque, si afferma esplicitamente che il trattamento biologico costituisce la migliore tecnologia disponibile per l’abbattimento delle diossine nelle acque reflue secondo gli Universal Standards dell’EPA.

Nel Documento tecnico di supporto alla redazione dello stesso Decreto Ministeriale si fornisce anche la spiegazione tecnica della conclusione sopra riportata in quanto si precisa che: “ un trattamento di chiariflocculazione ben effettuato si può ritenere che sia in grado di abbattere i solidi sospesi fino a qualche ppm, con presumibili abbattimenti dei microinquinanti organo clorurati adesi intorno al 95%”.

A chiarimento di quanto sopra riferito bisogna ricordare che l’impianto biologico SG31 del Petrolchimico prevede il trattamento di chiariflocculazione citato nel Documento tecnico come risulta dalla descrizione dell’impianto stesso contenuta nell’allegato al Decreto Ministeriale 26\5\1999 Parte I.

In altre parole il Decreto Ministeriale conferma che un comune impianto di trattamento chimico\fisico delle acque (come quello del Petrolchimico) può essere in grado di abbattere quasi interamente (attorno al 95%) i microinquinanti organoclorurati e le diossine presenti nelle acque attraverso l’eliminazione dei solidi sospesi a cui le diossine tendono ad aderire.

In conclusione anche questa doglianza della parte civile Medicina Democratica è risultata quindi infondata.

 

3.7.3   Gli scarichi idrici.

Si deve ora procedere all’esame delle doglianze avanzate dalla accusa pubblica e dalla accusa privata nei confronti della affermata infondatezza, da parte della sentenza appellata, di due addebiti di colpa relativi agli scarichi idrici e cioè la negazione della tesi accusatoria secondo cui gli scarichi sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di “diluizione” e dell’altra tesi accusatoria secondo cui il superamento dei parametri di accettabilità previsti dal D.P.R. 962\1973 avrebbe determinato condizioni peggiorative dello scarico nelle acque.   

Prima di iniziare l’esame di questa parte dei motivi d’appello sembra opportuno delineare in maniera succinta la situazione degli scarichi idrici del Petrolchimico tenuti al rispetto dei limiti di accettabilità previsti dal D.P.R. 962\73.

 

Al momento della entrata in vigore dei limiti di accettabilità sopra citati (1\3\1980) gli scarichi di acque reflue con recapito in laguna tenuti al rispetto di tali limiti erano i seguenti:

I)                                SM 15, con recapito nel canale Malamocco-Marghera, nel quale confluivano acque di processo ed altre correnti interne costituite da acque di raffreddamento e di lavaggio, nonché la corrente SM 22 proveniente dall’impianto chimico-fisico-biologico (SG31) che però doveva rispettare i limiti di accettabilità prima della immissione nello scarico principale. Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 133\92 due delle altre correnti interne confluenti nello scarico principale furono assoggettate al rispetto dei limiti di accettabilità direttamente a piè di reparto e cioè le correnti SI 1 (acque mercuriose che erano il refluo dell’impianto di demercurizzazione) ed SI 2 (acque contenenti composti organoclorurati che erano il refluo dell’impianto CS 30);

II)                               SM 2 con recapito nel Canale Lusore-Brentelle, nel quale confluivano le correnti interne SA 9 e SC 25;

III)                             SM 7 con recapito nel Canale Industriale Sud;

IV)                           SM 8 con recapito nel canale Industriale Ovest, nel quale confluiva anche la corrente interna SA 9;

V)                            SM 9 con recapito nel Canale Industriale Ovest.

 

 Il Magistrato alle Acque aveva quindi rilasciato le prescritte autorizzazioni per gli scarichi sopra indicati senza imporre alcuna specifica prescrizione per le correnti interne confluenti nei cinque scarichi principali, fatta eccezione, come si è detto, per la corrente SM 22 e, successivamente, per le correnti SI 1 ed SI 2, confluenti nello scarico SM 15.

A fronte di questa situazione di fatto, sostanzialmente incontestata, già in primo grado l’accusa aveva sostenuto che stante l’incontroversa confluenza nello scarico SM 15 di acque di processo e di altre correnti recapitate da scarichi parziali, sarebbe stata realizzata una diluizione vietata consentendo così di scaricare quantità di inquinanti che non sarebbe stato consentito immettere nel corpo ricettore se ciascun flusso di acque fosse stato scaricato separatamente e se i limiti di concentrazione di sostanze inquinanti fossero stati applicati a ciascun flusso separatamente prima della miscelazione.

Il Tribunale aveva rigettato la tesi accusatoria con motivazione pienamente condivisibile in quanto basta su una corretta interpretazione delle norme vigenti.

In vero le norme speciali per la tutela della laguna (D.P.R. 171\73 e D.P.R. 962\73) non contenevano norma specifiche sul problema della diluizione e sulla confluenza di più correnti in uno scarico finale con recapito in laguna, conseguentemente la disciplina applicabile era quella dettata dalla Legge 10\5\1976 n.319 ( c.d. legge Merli) la quale stabiliva all’art.9, comma 4, che “i limiti di accettabilità non potranno in alcun caso essere conseguiti mediante diluizione con acque prelevate esclusivamente allo scopo”.

Il significato della norma appare evidente nel senso che la diluizione vietata è esclusivamente quella realizzata mediante miscelazione delle acque reflue industriali con acque prelevate espressamente e specificamente allo scopo di diluire il refluo per conseguire fraudolentemente il rispetto del limite di accettabilità allo scarico.

Risulta al contrario consentita la miscelazione con acque che, funzionalmente, attengono, anche se in modo indiretto, al processo produttivo e cioè quelle acque che sono utilizzate per il funzionamento degli impianti come, nel nostro caso, erano sicuramente le acque di raffreddamento e di lavaggio (notoriamente gli impianti industriali necessitano di acque per raffreddare le parti degli impianti soggette ad atrito o per lavare macchinari e contenitori).

 

Le acque di raffreddamento e di lavaggio non possono certo definirsi come acque prelevate al solo scopo di diluire le acque di processo.

La conferma di tale interpretazione della norma in esame proviene anche dai commi 6° e 7° dello stesso art.9 della legge Merli il primo dei quali prevedeva la possibilità per l’autorità di controllo di “richiedere per gli scarichi parziali contenenti le sostanze di cui al punto 10 delle tabelle A e C allegate alla presente legge (sostanze estranee al presente procedimento), subiscano un trattamento particolare prima della loro confluenza nello scarico generale”; mentre il comma 7° statuiva che “non è comunque consentito diluire con acque di raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali contenenti le sostanze di cui al n.10 delle tabelle A e C prima del trattamento degli scarichi parziali stessi per adeguarli ai limiti previsti dalla presente legge”.

 

Dal complesso normativo sopra esposto si evince quindi chiaramente che la legge Merli non solo non vietava, ma dava anzi per scontata la possibilità di una confluenza degli scarichi parziali nello scarico generale prevedendo una disciplina più rigorosa solo per gli scarichi parziali contenenti delle sostanze diverse da quelle scaricate dal Petrolchimico.

Si deve inoltre rilevare che con la disposizione del comma 7° dell’art.9 il legislatore ha evidenziato di aver ben presente la differenza concettuale fra acque di raffreddamento o di lavaggio e acque prelevate esclusivamente allo scopo di diluire i reflui.

 

La disciplina normativa prevista sul punto dalla legge Merli è stata poi integralmente confermata dal D. Lgs. 11\5\1999 n.152 che ha integralmente abrogato e sostituito la legge Merli.

L’art. 28, commi 4° e 5° del D.Lgs. 152\99 confermano integralmente le disposizioni della legge Merli sulla diluizione facendo però una precisazione che conferma l’interpretazione data dal Tribunale alla normativa in esame. Si deve infatti rilevare che l’art. 28, comma 5° del D.Lgs. 152\99 dispone testualmente che: “ l’autorità competente, in sede di autorizzazione, può prescrivere che lo scarico delle acque di raffreddamento, di lavaggio, ovvero impiegate per la produzione di energia, sia separato dallo scarico terminale di ciascun stabilimento”.

Ciò conferma che di regola la confluenza di diverse correnti (acque di processo, di raffreddamento, di lavaggio o altre acque) nello scarico generale all’interno di un determinato complesso industriale è perfettamente consentita, salvo che si tratti di scarichi contenenti particolari sostanze (che non riguardano il nostro processo) o che vi sia un esplicito provvedimento dell’autorità amministrativa (che non risulta essere mai stato emesso nel caso in esame).

 

In sede di giudizio d’appello le accuse pubbliche e private hanno insistito nel sostenere una interpretazione particolarmente rigida della normativa facendo rilevare che la disciplina specifica e più rigorosa di quella generale prevista per alcuni scarichi parziali in ragione del loro contenuto non faceva venir meno il carattere assoluto ed inderogabile del divieto di diluizione, previsto dal comma 4° dell’art.9 della legge Merli e, poi, dal comma 5° dell’art.28 del D.Lgs.152\99, dal quale deriverebbe un divieto egualmente assoluto ed inderogabile di miscelazione delle acque di raffreddamento e di lavaggio con le acque di processo. 

Il P.G., a sostegno di questa interpretazione della normativa, ha anche citato alcune pronunce giurisprudenziali (Cass. Sez.III, 21\7\1988 n.8331 e Cass. Sez.III, 19\1\1994 n.439) nelle quali si era sostenuto che il divieto di diluizione imposto dalla legge Merli aveva un carattere assoluto ed inderogabile e aveva vietato qualsiasi forma di miscelazione dei reflui dello specifico ciclo produttivo con altre correnti interne.

Si tratta di un orientamento giurisprudenziale già noto a questo Collegio, ma che appare espressione di una eccessiva forzatura del significato letterale della norma che arriva ad essere interpretata in via di analogia.

Le citate decisioni della Cassazione avevano l’evidente scopo di raggiungere obbiettivi di tutela ambientale in casi limite nei quali la possibilità di miscelare acque di processo con acque di raffreddamento e di lavaggio aveva consentito fraudolenti superamenti dei limiti di accettabilità.

Indubbiamente la normativa vigente consentiva che un imprenditore di pochi scrupoli potesse modulare il quantitativo delle acque di lavaggio o di raffreddamento immesse nello scarico finale non in funzione delle esigenze effettive degli impianti e del ciclo produttivo, ma in relazione alla necessità di ridurre la concentrazione degli inquinanti presenti nel refluo entro i limiti di accettabilità.

 

Anche in presenza di tali situazioni è facile replicare che in linea di principio non è necessario forzare l’interpretazione della legge in quanto le acque prelevate in eccesso rispetto a quelle effettivamente necessarie ai fini di raffreddamento e di lavaggio e poi scaricate allo scopo di diluire i reflui sono sicuramente acque prelevate esclusivamente allo scopo di diluizione per le quali è pacificamente applicabile la disciplina dettata dall’art.9, comma 4° legge Merli nell’interpretazione data dal Tribunale e condivisa da questo Collegio, senza ricorrere a forzature interpretative del dettato letterale.

Indubbiamente nei casi sopra indicati si verificavano in pratica grosse difficoltà di accertamento e di prova.

 

Il legislatore si è reso conto di tale problematica e, come si è già detto, vi ha posto rimedio prevedendo, con la disposizione dell’art.28, comma 5° del D.Lgs. 152\99, che “l’autorità competente , in sede di autorizzazione, può prescrivere che lo scarico delle acque di raffreddamento, di lavaggio, ovvero impiegate per la produzione di energia, sia separato dallo scarico terminale di ciascun stabilimento”; mentre un obbligo di separare le acque di raffreddamento e meteoriche da quelle di processo è stato previsto per la prima volta e soltanto per gli scarichi che recapitano nella Laguna di Venezia con il Decreto Ministeriale Ronchi-Costa del 30\7\1999 con decorrenza dal 1\1\2002.

 

Tornando ora all’oggetto del presente procedimento penale, resta da rilevare che non è stata acquisita alcuna prova che gli imputati abbiano fraudolentemente aumentato le portate delle acque di raffreddamento e lavaggio per diluire i reflui contenuti nello scarico principale ed è pacifico che l’autorità amministrativa non ha mai prescritto (nel periodo temporale in esame) la separazione delle acque di raffreddamento e lavaggio da quelle di processo.

Per tali motivi non può quindi parlarsi, nel caso in esame, di abusiva diluizione delle acque di scarico sulla base della semplice circostanza che negli stessi scarichi confluivano acque di processo e acque di raffreddamento in quanto tale miscelazione era consentita dalla normativa vigente.

 

Sempre a proposito degli scarichi idrici del Petrolchimico gli appellanti contestano la sentenza di primo grado nella parte in cui ha negato che il semplice superamento dei parametri di accettabilità più volte riscontrato documentalmente abbia determinato condizioni peggiorative delle acque lagunari rilevanti ai fini dei reati contestati di disastro, adulterazione e avvelenamento.

Il P.M. parte dalla premessa che nel corso dell’istruttoria dibattimentale erano stati acquisiti tutti i bollettini interni delle analisi compiute sugli scarichi del Petrolchimico; dall’esame di tale grande mole di documenti era emerso che gli scarichi idrici dello stabilimento avevano presentato rilevanti frequenze di superamento dei limiti stabiliti dalla legge per diversi tipi di inquinanti.

La frequenza temporale di tali casi di superamento era andata decrescendo dagli anni ’80 agli anni ’90 per poi attestarsi negli ultimi anni su una percentuale superiore all’1%.

Nel corso del giudizio di primo grado i consulenti delle parti avevano molto discusso sulle modalità di rilevamento e di calcolo dei superamenti, ma in questa sede tali problemi non hanno più interesse.

 

La questione posta dagli appellanti nei motivi è infatti di carattere generale dato che si sostiene che i superamenti dei limiti tabellari, indipendentemente dal loro numero e dalla loro frequenza, avrebbero comunque determinato un peggioramento delle condizioni delle acque lagunari rilevante ai fini dell’accertamento dei reati di disastro, avvelenamento e adulterazione contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale.

Secondo il P.M. la normativa sulla tutela delle acque dall’inquinamento ha sempre previsto, come elemento basilare, un sistema di valori limite della concentrazione degli inquinanti negli scarichi idrici stabiliti in opportune tabelle; si tratta di limiti di concentrazione massima che non possono essere superati in alcun caso.

La scelta del legislatore è stata precisa e pienamente consapevole delle conseguenze, per cui non è possibile negarla perché altrimenti verrebbe negata o stravolta la norma.

 

Tale stravolgimento era stato appunto operato dal Tribunale nel momento in cui aveva ritenuto, aderendo alle tesi difensive, che i valori limite fossero da riferirsi alle concentrazioni medie (addirittura medie annue).

Si rileva che accogliendo la tesi delle difese si giungerebbe a conseguenze assurde in quanto uno scarico potrebbe, per periodi limitati, presentare concentrazioni di inquinanti così elevate da costituire un vero e proprio veleno per la vita acquatica del corpo recettore, e poi ridurre nel corso dell’anno le concentrazioni in modo da non superare il valore limite medio.

Comunque se il legislatore avesse inteso stabilire dei valori limite medi (giornalieri, mensili o annui) lo avrebbe detto espressamente come ha in effetti fatto in materia di tutela contro l’inquinamento atmosferico fissando anche i tempi su cui si devono mediare le concentrazioni (un anno per i microinquinanti, una settimana per altri inquinanti).

 

Ad avviso di questo Collegio la tesi accusatoria non appare condivisibile.

Indubbiamente il sistema normativo di tutela delle acque dall’inquinamento è basato sui limiti di concentrazione previsti nelle apposite tabelle; il superamento di tali limiti ha immediato rilievo penale nel senso che comporta l’applicazione delle sanzioni previste dalle varie contravvenzioni in materia indipendentemente da qualsiasi accertamento sugli effetti negativi cagionati in concreto dall’inquinante sul corpo recettore.

In questa sede, però, non ci stiamo occupando di contravvenzioni, ma dei contestati delitti di disastro, avvelenamento e adulterazione; dobbiamo cioè accertare se la condotta degli imputati (concretizzatasi nel superamento dei limiti tabellari) abbia cagionato gli eventi costitutivi dei delitti in esame.

 

In altre parole dobbiamo accertare se a seguito degli accertati superamenti dei limiti di concentrazione si sia verificato un obiettivo peggioramento della qualità delle acque del corpo recettore con conseguente danno per i sedimenti, per il biota e per l’ambiente in generale.

Tale accertamento può essere effettuato solo in un modo e cioè calcolando quanto inquinante poteva essere legittimamente immesso in laguna, in un certo periodo di tempo, rispettando istante per istante i parametri tabellari e confrontando il risultato con il quantitativo di inquinante effettivamente immesso nello stesso corpo ricettore nell’identico periodo di tempo.

Solo da tale confronto si potrà dedurre se vi sia stato un peggioramento della qualità del corpo ricettore rispetto a quanto previsto dalle norme di tutela e si potrà valutare l’entità e la gravità di tale eventuale peggioramento.

 

Nel presente procedimento il consulente della difesa prof. Foraboschi ha elaborato i dati a disposizione calcolando i valori medi di concentrazione degli inquinanti per cinque anni tenendo conto di tutti i parametri per i quali si era verificato un superamento e per tutti gli scarichi giungendo alla conclusione che non si era mai ottenuto un valore medio di concentrazione nell’anno superiore al corrispondente limite annuo calcolato sulla base delle tabelle di legge.

La conclusione è che se uno scarico, nel suo complesso, si attesta su valori medi inferiori ai valori soglia, produce un impatto complessivo corrispondente a quello di uno scarico che sia stato regolare in ogni momento.

Ai fini della decisione che si deve prendere in questa sede non si può prescindere dalla valutazione del contributo all’inquinamento del corpo idrico  e cioè del carico inquinante complessivo riversato nel corpo ricettore dagli scarichi in esame.

La valutazione del contributo all’inquinamento del corpo idrico è una cosa diversa dal controllo del rispetto dei limiti di accettabilità e la sua rilevanza non è una invenzione delle difese degli imputati o del Tribunale, ma trova riscontri in vari riferimenti normativi.

Basterà ricordare che l’Istituto di Ricerca sulle Acque del Consiglio Nazionale delle Ricerche nel Quaderno 100 pubblicato nel 1994, trattando dei metodi di campionamento, precisava che: “fra i diversi obiettivi da perseguire nel campionare le acque di scarico si possono indicare come più frequenti i seguenti: - controllo dei limiti di accettabilità previsti da leggi e regolamenti – valutazione del contributo all’inquinamento del corpo idrico e più in generale del sistema ricettore…”.

 

Vi è poi il D.Lgs.152\99 che richiede la “stima dell’inquinamento in termini di carico e la stima dell’impatto” (all.4) e indica il carico massimo ammissibile come elemento centrale per la determinazione proprio dei valori limite di emissione in funzione della tutela delle acque, consentendo alle Regioni di fissare tali valori con riferimento alla “quantità massima per unità di tempo” immessa nel corpo idrico, per ogni inquinante e per gruppi o famiglie di inquinanti (art.28, commi 1° e 2°); il Decreto Ministeriale 23\4\1998, relativo ai requisiti di qualità delle acque e caratteristiche degli impianti di depurazione per la tutela della laguna di Venezia, che richiede la valutazione dei “carichi massimi ammissibili complessivi di inquinanti in laguna”; ed in fine il D.P.C.M. 27\12\1988 (Norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale e la formulazione del giudizio di compatibilità di cui all’art.6 Legge 8\7\1986 n.349, adottate ai sensi dell’art.3 del D.P.C.M. 10\8\1988 n.377), che richiede la “stima del carico inquinante” per le analisi concernenti i corpi idrici.

 

In conclusione appare condivisibile la decisione del Tribunale di ritenere infondata la tesi dell’accusa secondo cui il superamento dei parametri di accettabilità verificatosi in alcune occasioni negli scarichi idrici del Petrolchimico avrebbe determinato condizioni peggiorative delle acque della laguna rilevanti ai fini dei reati contestati in quanto tale valutazione può essere fatta solo in base ad una stima del carico inquinante complessivo e del relativo impatto sul corpo ricettore calcolato sulla base di valori medi rilevati nel corso di un periodo di tempo determinato.

E’ sicuramente vero che il ricorso ai valori medi di concentrazione comporta il pericolo che uno scarico possa sversare in un periodo di tempo limitato altissime concentrazioni di inquinanti costituenti un vero veleno per la vita acquatica e poi rientrare nei limiti in modo tale da non superare il valore limite medio calcolato nell’anno; ma identico pericolo sussiste con il criterio dei valori limite di concentrazione in quanto uno scarico anomalo può verificarsi in tutti i momenti in cui non vengono effettuati i prelievi per le analisi di controllo.

Bisogna comunque evidenziare che nel caso in esame nessuno delle migliaia di bollettini di analisi acquisiti agli atti attesta sversamenti di inquinanti in misura così elevata da potersi definire come episodio di grave inquinamento.

 

3.7.4   Rifiuti e inceneritori.     

In questo paragrafo il P.M. non espone dei veri e propri motivi di impugnazione limitandosi a svolgere considerazioni di carattere generale a chiarimento del suo totale dissenso rispetto alle tesi sostenute dalle difese degli imputati e accolte dal Tribunale.

Si rileva che l’Italia, sollecitata dalla Comunità internazionale, aveva adottato normative specifiche allo scopo di ottenere il contenimento dell’inquinamento delle acque proprio a salvaguardia di Venezia e del suo ambiente e si cita in particolare la Legge 16\4\1973 n.171 ( “Interventi per la salvaguardia di Venezia”) che prevedeva un serrato programma di interventi a carico delle istituzioni nazionali, regionali e locali in quanto le stesse avrebbero dovuto stabilire: “ limitazioni specificamente preordinate alla tutela dell’ambiente naturale, alla preservazione dell’unità ecologica e fisica della laguna, alla preservazione delle barene ed all’esclusione di ulteriori opere di imbonimento, alla prevenzione dell’inquinamento atmosferico ed idrico e, in particolare, al divieto di insediamenti industriali inquinanti, ed ai prelievi e smaltimenti delle acque sopra e sotto suolo” (art. 3, comma 2° lett.c, Legge 171\73).

A fronte di queste precise disposizioni l’adeguamento degli scarichi idrici ai limiti di legge lo si era ottenuto solo nel 1983 e cioè con dieci anni di ritardo rispetto alla promulgazione della legge.

A questo rilievo si deve però replicare che il ritardo nell’adeguamento degli scarichi idrici non appare attribuibile agli imputati se si tiene conto che i principi generali fissati con la Legge 171\73 si erano concretizzati in più precise disposizioni di carattere pratico con il D.P.R. 20\9\1973 n.962 che prevedeva in una apposita tabella i limiti di accettabilità applicabili agli scarichi idrici in laguna e che tali limiti erano entrati effettivamente in vigore solo in data 1\3\1980.

L’appellante contesta poi l’affermazione del Tribunale secondo cui “in materia di gestione dei rifiuti, accanto a forme di smaltimento in discarica (come d’uso in allora), furono impiegate tecnologie avanzate” e ricorda in proposito che l’impianto CS 28 di incenerimento dei residui clorurati aveva evidenziato fin dall’inizio forti carenze a causa dell’utilizzo di materiali inadeguati in relazione alla corrosività dei fluidi trattati.

 

Tali carenze erano spiegabili solo con scelte di risparmio economico in quanto la Montedison, all’epoca, gestiva numerosi impianti che trattavano fluidi corrosivi ed era sicuramente a conoscenza della esistenza di materiali disponibili sul mercato e resistenti alla corrosione acida.

 Sul punto specifico le affermazioni del P.M. appaiono smentite dalla descrizione dell’impianto contenuta nel documento di collaudo dal quale si rileva che per la costruzione di varie parti dell’impianto stesso furono utilizzati: acciai ebanitati, rivestimenti antiacido, teflon, grafite, Hastelloy. Nella relazione di collaudo si specifica anche che: “Ben noto è infatti l’elevato potere corrosivo dell’acido cloridrico per cui solo taluni materiali, quali grafite, teflon, hastelloy, acciaio ebanitato o altri rivestimenti antiacido, a seconda della condizione, danno sufficienti garanzie di resistenza”.

Risulta quindi che furono impiegati nell’impianto in questione proprio quei materiali ritenuti all’epoca più idonei per quel tipo di uso.

 

Infine il P.M. segnala che la sentenza impugnata nulla ha detto di altri impianti di incenerimento di rifiuti come quello di incenerimento di reflui liquidi del reparto TD del quale erano state evidenziate in aula le carenze impiantistiche o dell’impianto di incenerimento del nerofumo del reparto AC1 privo di sistemi di abbattimento degli inquinanti.

In realtà il silenzio della sentenza di primo grado sui due impianti sopra indicati trova la sua spiegazione nella circostanza, in precedenza già ricordata (V. par. 3.7.1), che le immissioni in atmosfera di inquinanti sono risultate irrilevanti ai fini dell’accertamento della sussistenza dei reati di disastro, avvelenamento e adulterazione.

L’appellante accenna anche all’impianto di produzione di cloro-soda con celle a catodo di mercurio e ai connessi problemi di formazione e rilascio in ambiente di rilevanti quantità di residui tossici e reflui contenenti mercurio e diossine, ma anche questa questione è stata esaminata e trattata nel paragrafo 3.7.1.

 

CAPITOLO   3.8    APPELLO P.M.

CRITICA ALLA SELEZIONE DEI DATI DI FATTO DA PARTE DEL TRIBUNALE

LE CONSULENZE TECNICHE DEL PUBBLICO MINISTERO

L’ACCERTAMENTO DEL LABORATORIO M.P.U. DI BERLINO

 

3.8.1  Rapporto tra prima e seconda zona industriale.

Come è stato già ricordato nella parte relativa alla esposizione dei fatti, la sentenza di primo grado ha rigettato la tesi accusatoria che indicava nel Petrolchimico l’unica fonte dell’inquinamento riscontrato in laguna precisando che in realtà un ruolo determinante era stato individuato in un fenomeno di inquinamento di vecchia data proveniente dalla prima zona industriale e diffusosi in laguna attraverso i dragaggi dei canali, il movimento dei natanti a motore e, soprattutto, a seguito di vasti imbonimenti della Seconda Zona Industriale ove poi era sorto il Petrolchimico.

 

A proposito dell’imbonimento la sentenza affermava: “E’ acquisizione probatoria sicura che il sottosuolo della Seconda Zona Industriale, per l’estensione di alcune centinaia di ettari (ad est dell’alveo del Canale Bondante) è costituito da rifiuti di antica derivazione dalle produzioni insediate nell’ambito della Prima Zona Industriale. Rifiuti che con valutazione tecnica e normativa dell’oggi diremmo tossico-nocivi. Allora ritenuti dalla mano pubblica una risorsa preziosa per strappare terra alle acque e sostenere la vocazione industriale di Venezia. E’ acquisizione certa che nello zoccolo di questa enorme massa di rifiuti sono stati scavati interamente il Canale Industriale Sud, il Canale Industriale Ovest e, in parte, il Canale Malamocco-Marghera (Seconda Zona Industriale)” (Sentenza pag.656-659).

Gli appellanti contestano le conclusioni del Tribunale sul punto mettendo in discussione la cronologia dell’opera di imbonimento dell’area destinata alla Seconda Zona Industriale evidenziando l’esistenza di mappe e foto aeree dalle quali emerge che già negli anni ’40 – ’50 gran parte della seconda zona industriale era già bonificata con ampi spazi agricoli e che nella stessa area erano state create discariche di rifiuti provenienti dal Petrolchimico prima del 1970 e fino alla fine degli anni ’80.

Le obiezioni degli appellanti risultano però chiaramente smentite da varie prove acquisite nel corso del giudizio di primo grado. Vi è un primo documento che attesta l’inizio dell’imbonimento addirittura negli anni ’30 con materiali di risulta delle produzioni della prima zona industriale ed è la convenzione tra il Magistrato alle Acque, il Corpo Reale del Genio Civile, la Provincia di Venezia, l’Ufficio di Venezia con la ditta Ettore Levi datata 30\3\1929, con la quale quest’ultima concedeva che una parte dei terreni barenosi  di sua proprietà siti in corrispondenza dell’attuale seconda zona industriale venissero adibiti a sacca di deposito di rifiuti delle lavorazioni industriali che dovevano essere spianati alla quota di m.1,50 sopra il medio mare e poi ricoperti con uno strato di materiale proveniente dagli scavi del Porto Laguna di Venezia.

Il Piano Direttore del 2000 della Regione Veneto attesta che “le aree industriali di Porto Marghera sono state realizzate innalzando e consolidando il terreno naturale barenoso fino a quota +2.00 – 2,50 m  s.l.m., sia mediante l’impiego di materiali dragati, sia utilizzando rifiuti e residui di lavorazione industriale, Tutta l’area è stata interessata, a partire dagli anni ’20, dal riporto di rifiuti e di residui di lavorazioni industriali per imbonimento; questa pratica si è protratta fino agli anni ’70 fino a raggiungere spessori medi di riporto di 2,5-3 m.”

 

Vi sono altri documenti che confermano le stesse cose e tra questi possiamo ricordare l’ “Indagine sulle risulte industriali di Porto Marghera”, Consorzio Venezia Nuova del 1996; l’ “Analisi di rischio dell’area 43 ettari” realizzata dal Comune di Venezia nel 1999; il “Progetto generale di arresto e inversione del degrado lagunare” redatto nel 1993 dal Magistrato alle Acque.

Oltre alla prova documentale vi è anche una prova testimoniale proveniente da uno dei testi chiave dell’accusa e cioè il teste Chiozzotto, tecnico del Comune, il quale all’udienza del 27\4\2001 ha testualmente riferito che: “…una volta realizzate le prime aziende, la volontà di allargare il polo industriale ha comportato l’opportunità ritenuta allora evidentemente ottimale dell’impiego di determinati materiali per recuperi altimetrici per quanto riguarda i terreni di gronda, cioè, vale a dire, quei terreni che sono a est del Canale Bondante….i materiali di risulta delle attività produttive della prima zona industriale …”.

 

Questo quadro probatorio certo, coerente e univoco non può certo essere inficiato dalla circostanza che dalle mappe e dalle foto aeree le aree in questione apparivano, negli anni ’40 –’50 coltivate o comunque coperte da vegetazione; infatti i primi imbonimenti erano iniziati negli anni ’30 con materiali provenienti dalla prima zona industriale che poi venivano ricoperti con altri materiali provenienti dagli scavi del Porto di Venezia (come previsto dalla Convenzione Levi del 1929) e ciò consentiva il successivo utilizzo dei terreni così ottenuti ad uso agricolo in attesa dei nuovi insediamenti industriali.

Risulta altresì pacificamente provato che parte delle aree ottenute con l’imbonimento furono utilizzate anche per creare delle discariche utilizzate per i rifiuti del Petrolchimico prima dell’entrata in vigore della normativa generale sui rifiuti, ma la circostanza non contrasta affatto con il precedente imbonimento del terreno nei tempi e nei modi sopra indicati.

 

Il P.M., sempre nel tentativo di evidenziare l’erroneità delle conclusioni del Tribunale sul punto in esame, ricorda che il Canale Brentella e il Canale Industriale Nord (situati nell’ambito della Prima Zona Industriale) erano stati dragati negli anni ’60 e che, successivamente, vi era stata riscontrata la presenza di sedimenti contaminati che ovviamente vi si erano depositati dopo tale data.

“Dato che le impronte – secondo il Collegio – sarebbero quelle tipiche del catabolismo della prima zona industriale, evidentemente c’è qualcosa che non torna nel ragionamento fatto dal Collegio stesso (e mutuato esattamente dalle argomentazioni della difesa). Per l’accusa la questione è più semplice: si tratta dell’ennesima prova che dimostra come anche attualmente vengano prodotte impronte di vario genere come detto e come si dirà” (motivi P.M. pag.1319).

L’osservazione dell’appellante potrebbe avere grande rilievo se veramente l’inquinamento proveniente dalla Prima Zona Industriale si fosse fermato negli anni ’50, ma ciò non risponde a verità. I consulenti della difesa Colombo e Bellucci hanno infatti riferito che nella prima zona industriale l’attività di decuprazione delle ceneri di pirite fosse continuata fino ai primi anni ’70 e che la lavorazione dell’alluminio si era protratta fino ad anni recenti; precisando che i reflui di tali lavorazioni erano stati scaricati direttamente nel canale Brentella e nel canale industriale Nord provocandone così l’inquinamento anche dopo i dragaggi degli anni ’60.

Le affermazioni dei due consulenti non sono state smentite da nessuno in sede processuale e vanificano anche questa doglianza del P.M.

Gli appellanti insistono comunque nel sostenere che il massimo della contaminazione è stato raggiunto con le lavorazioni della seconda zona industriale e, quindi, del Petrolchimico e ricordano che: “le barene campionate a S.Erasmo e Fusina, così come presentate dal Consulente Tecnico di EniChem dr.Frignani (sigla M1 e M2) hanno la concentrazione massima della asserita – dalla difesa – impronta della prima zona industriale in strati che loro stessi dicono corrispondere agli anni ’60-’80 e questo vuole dire che erano emissioni di quegli anni (quindi lavorazioni prodotte dalla seconda zona industriale), che possono essere arrivate là solo attraverso l’atmosfera. Non esiste infatti nessuna possibilità che rifiuti solidi, come quelli che sarebbero stati prodotti (con quell’impronta) prima del 1940, si siano potuti ridistribuire sulle barene a quella distanza!” (motivi P.M. pag.1287).

 

Anche a questo rilievo si può replicare, come è stato fatto per il precedente, evidenziando che le attività inquinanti della prima zona industriale continuarono fin oltre gli anni ’70 per cui la presenza di alte concentrazioni di inquinanti in strati corrispondenti agli anni ’60 – ’80 risulta perfettamente compatibile con la tesi della provenienza dalle industrie della prima zona industriale.

A ciò si deve aggiungere che, come ha evidenziato la difesa degli imputati in varie memorie, i consulenti Frignani e Bellucci avevano analizzato anche i sedimenti di barena e dalle cronologie era emerso con chiarezza come l’inquinamento da metalli e da inquinanti organici precedeva l’inizio delle attività del Petrolchimico e che i massimi di contaminazione risalivano agli anni ’50 – ’60 e non agli anni ’60 – ’80 come sostenuto dall’accusa (Cfr. doc. 0 allegato alla memoria Colombo-Bellucci).

 

La circostanza di cui sopra è confermata anche dal Programma 2023 – Linea C nell’ambito del quale erano state studiate due barene (M3 ed M4) che integrano le informazioni ottenute dalle barene M1 e M2 (studiate da Frignani); anche le cronologie dei sedimenti di queste barene rivelano nuovamente che i valori massimi di Diossine e Furani sono stati raggiunti negli anni ’50 – ’60 e le massime concentrazioni di Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) risalgono agli anni ’60. In questi stessi siti le concentrazioni di contaminanti nei livelli più superficiali e, quindi, più recenti del sedimento, sono invece prossime ai valori di fondo.

A questo punto il P.M. ripropone nei motivi d’appello l’argomento dell’ “impronta delle diossine”, ampiamente discusso anche nel corso del giudizio di primo grado.

 

Bisogna premettere che la famiglia delle diossine e dei furani (PCDD e PCDF) è composta da 210 “congeneri”; di questi usualmente vengono analizzati i diciassette “congeneri” dalla tossicità più elevata; questi 17 “congeneri” possono essere riuniti per “grado di clorurazione” in base agli atomi di cloro presenti nella molecola e così, con questa ulteriore operazione, i “congeneri” vengono ridotti da 17 a dieci “omologhi” e cioè: tetra-, penta-, esa-, epta- e octa- diossine; e tetra-, penta-, esa-, epta-, e octa-furani. 

Quando varia il processo produttivo che genera le diossine e i furani varia in qualche misura anche la proporzione fra i dieci gruppi di PCDD\PCDF sopra elencati.

In buona sostanza è possibile individuare una “impronta” ( o “profilo”) delle PCDD\PCDF e associarlo ad un determinato processo chimico.

Esistono studi che indagano i “profili” delle PCDD\F e che cercano di associare un tipo di “impronta” a tipi di produzione.

Di conseguenza trovando in un campione di sedimento contaminato un “profilo” (o “impronta”) simile ad uno dei “profili” noti è possibile associare quella contaminazione al processo produttivo in grado di determinarla anche se in maniera non scientificamente certa.

Il Tribunale, dopo aver preso in esame lo studio del confronto delle impronte della contaminazione da PCDD\F su campioni prelevati in diverse zone della laguna e nei canali della prima e della seconda zona industriale effettuato dal consulente della difesa prof. Vighi, aveva ritenuto la sussistenza di una sostanziale differenza tra le caratteristiche del sedimento della prima zona industriale ( in particolare canale Brentella e canale industriale Nord) e quelle dei campioni prelevati nel canale Lusore-Brentelle ove pacificamente il Petrolchimico effettuava i suoi scarichi prima della regolarizzazione.

Tale evidente differenza rendeva altresì palese che le due aree erano soggette a fonti diverse di contaminazione da PCDD\F.

Il P.M. contesta le conclusioni del primo giudice evidenziando che “il ciclo di lavorazione DCE-PVC-CVM produce non uno solo, ma almeno due (se non di più) diversi tipi di impronta”.

Non si può parlare, secondo l’appellante, di impronte relative alla prima zona industriale diverse da quelle della seconda zona industriale in quanto la diversità delle impronte è provocata anche da diverse modalità di produzione.

A sostegno di tale affermazione il P.M. ha evidenziato che facendo la media delle impronte dei fanghi prelevati da ARPAV, Enichem e Chelab dai pozzetti fognari interni al Petrolchimico si ottiene un’impronta sovrapponibile a quella dei “fanghi rossi” presenti all’esterno dell’impianto.

 

A parte ogni considerazione circa la provenienza dei “fanghi rossi” che, come si vedrà in seguito, risultano reflui di produzioni diverse da quelle del Petrolchimico, è lecito dubitare della validità scientifica della operazione consistita nel mediare le impronte dei fanghi dei pozzetti.

Si è già detto dei dubbi scientifici che si nutrono sulla validità del procedimento con il quale si giunge a determinare i “profili” di congenere; ovviamente tali dubbi aumentano quando addirittura si pretende di ricavare delle “medie” dai profili stessi.

 

Resta da ricordare che l’esame di due carote di sedimento prelevate nel canale Lusore-Brentelle, (le carote C9 e C11) ove il Petrolchimico aveva sempre scaricato in precedenza i suoi reflui, ha permesso al consulente della difesa prof. Vighi di dimostrare che l’impronta di PCDD\F nei sedimenti (completamente diversa dall’impronta “media” indicata dal P.M.) si è mantenuta sostanzialmente costante nel tempo. Ciò esclude che nel ciclo produttivo dello stabilimento si siano verificati nel tempo cambiamenti tali da modificare in modo sensibile le caratteristiche delle emissioni la cui impronta risulta diversa, anche per il passato, da quella della prima zona industriale.

 

3.8.2       Peci clorurate (prodotte da vari impianti), fanghi rossi e pirite, come supposte fonti della contaminazione da diossine.

 La sentenza di primo grado, dopo aver esaminato la questione dei rapporti fra la prima e la seconda zona industriale, è giunta alla conclusione che per almeno cinquanta anni ( a partire dagli anni ’20 e fino a tutti gli anni ’70) le industrie insediate nella prima zona industriale avevano scaricato tutti i rifiuti liquidi nelle acque dei canali industriali stante l’assenza di norme relative alla tutela dell’ambiente; i rifiuti solidi provenienti dalle stesse industrie erano stati invece utilizzati per innalzare il terreno ove poi sarebbe sorta la seconda zona industriale.

Queste circostanze di fatto fornivano una spiegazione logica ad un’altra importante circostanza emersa nel corso dell’istruttoria dibattimentale e cioè che la contaminazione dei canali decresce costantemente man mano che ci si allontana dai canali della prima zona industriale (canale Brentella e canale industriale Nord) per arrivare a quelli della seconda zona industriale (canale Ovest, canale Malamocco-Marghera, canale Sud) per finire ai bassi fondali situati a sud del Petrolchimico.

 

La conclusione logica era, secondo i primi giudici, che le sorgenti della contaminazione dei sedimenti dei canali dovevano individuarsi nella prima zona industriale dato che proprio nei canali di tale zona si erano riscontrati i valori massimi di tutte le sostanze che contaminano i sedimenti e cioè diossine, Bifenili Policlorurati (PCB), Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) e metalli pesanti.

In conclusione la contaminazione dei sedimenti non poteva essere imputata al Petrolchimico, né per quella riscontrata nei canali della prima zona industriale ove non aveva scarichi, né per quella (molto bassa) riscontrata nei canali confinanti lo stesso insediamento industriale perché provocata per la massima parte dai rifiuti solidi delle industrie della prima zona industriale utilizzati per imbonire il terreno e soggetti a evidenti fenomeni di erosione da parte delle acque dei canali stessi.

Il P.M. non condivide questa conclusione e nei motivi d’appello ripropone la questione delle peci clorurate già posta in primo grado.

Secondo le risultanze processuali nel Petrolchimico il reparto di produzione del dicloroetano (DL2) aveva come residui della lavorazione peci clorurate per un quantitativo di circa 300 ton\mese.

Secondo il Tribunale tutte le peci venivano trattate nell’impianto CS28; in realtà quest’ultimo impianto bruciava soltanto le peci liquide, mentre le peci solide venivano stoccate in serbatoi riscaldati (Kettle), trasferite in fusti e poi smaltite al di fuori dello stabilimento in alcune discariche.

Dato il rilevante quantitativo di peci da smaltire non si poteva escludere che parte di tale rifiuto fosse stato scaricato, per mezzo di bettoline e camion, nei canali della prima zona industriale; l’ipotesi formulata dal P.M. trovava supporto in un documento del Magistrato alle Acque (Biotecnica, 1996) che confermava tale possibilità.

Alla obiezione formulata dalla difesa che aveva evidenziato come in nessun luogo della prima zona industriale si era riscontrata l’associazione tra diossina e clorurati (come sarebbe stato logico attendersi se veramente fossero state scaricate peci clorurate), ma solo associazione tra diossina e metalli pesanti, il P.M. aveva replicato facendo presente che le peci, durante la fase di riscaldamento perdevano per evaporazione i clorurati ed era quindi possibile trovare diossine senza i clorurati.

 

Il Tribunale aveva comunque rilevato che l’ipotesi formulata dal P.M. di un trasporto di peci a mezzo autobotti nei canali della prima zona industriale era rimasta una semplice congettura non suffragata dal più labile indizio.

La tesi accusatoria viene ora riproposta dal P.G. il quale sostiene che lo scarico di peci clorurate mediante autobotti rappresenta una realtà operativa pienamente in atto ancora nel 1978 ed anche in epoche successive; la prova di ciò è rappresentata addirittura da un documento Montedison e cioè da una scheda datata 28\3\1978 del manuale operativo del reparto CV11 relativa alle “operazioni sulla rampa di carico peci su autobotti”.

La difesa ha replicato producendo la relazione tecnica del 25\6\75 allegata alla commessa 1514 concernente la rampa di carico sopra citata e da tale relazione si rileva che: “Il reparto CV11 produce circa 10 tonnellate\die di sottoprodotti altobollenti che devono essere trasferiti al reparto CS28 per essere distrutti……Il trasferimento dal reparto CV11 al reparto CS28 di questo prodotto viene fatto a mezzo autobotti”.

 

Ad avviso di questo Collegio non sembra proprio che il documento indicato dal P.G. provi la circostanza che le peci venivano scaricate nei canali industriali; ma solamente che venivano caricate su autobotti per essere portate alla distruzione nel reparto CS28, o per essere depositate nelle discariche esterne di Dogaletto e Moranzani (dove in effetti sono stati individuati i solventi clorurati che caratterizzano le peci in questione).

Continua invece a mancare qualsiasi prova che le autobotti scaricassero le peci nei canali della laguna.

 

L’appellante contesta poi l’affermazione fatta dal primo giudice che i c.d. “fanghi rossi”, affioranti lungo le sponde dei canali della seconda zona industriale, derivino dalle lavorazioni della prima zona industriale e non da quelle del Petrolchimico.

Il primo giudice aveva infatti affermato che: “le elevate concentrazioni di alluminio e di arsenico nei campioni di fanghi rossi consentono di associare i campioni di tale rifiuto alle tipologie produttive che li hanno originati: a) cinque di essi, come è evidente, alla lavorazione della bauxite (tale attribuzione è confortata, naturalmente, da informazioni bibliografiche, tra le quali, ad esempio, le concentrazioni medie di Al, Cd, e Cu dei fanghi rossi bauxitici riportate nel Piano Direttore 2000 della Regione Veneto, citato in precedenza); b) uno di essi, come è altrettanto chiaro, alla decuprazione delle ceneri di pirite, in tale campione l’arsenico essendo presente in concentrazioni di tre ordini di grandezza superiori a quello contenuto negli altri campioni” (Sentenza pag.662).

 

A queste osservazioni del Tribunale il P.M. replica nei motivi d’appello rilevando che i valori di alluminio trovati nei campioni esaminati sono uguali o inferiori ai valori di alluminio di sedimenti non inquinati dell’Adriatico e non possono ritenersi indicativi di presenza di bauxite.

Tale rilievo non appare determinante in quanto risulta scientificamente erroneo paragonare le concentrazioni di alluminio presenti in sedimenti naturali, come le rocce disciolte nei fondali dell’Adriatico, con quelle rilevate in rifiuti industriali quali sono i fanghi rossi.

Si deve inoltre ricordare che la provenienza dei fanghi rossi dalle industrie della prima zona industriale risulta confermata dal dott. Ferrari, consulente del P.M., che nella relazione del 10\4\2001, riportando i dati dell’ufficio Escavazione Porti, riferisce: “L’ufficio Escavazione Porti ha potuto constatare, durante gli scavi eseguiti dai propri mezzi effossori, la presenza di fanghi rossi non solo sul fondo del passo navigabile del canale-porto di Lido, ma anche di altri canali lagunari. I rapporti percentuali di fanghi rispetto al quantitativo totale del materiale di escavo presentavano i massimi valori nel canale Nord di Marghera (13,3% nel 1947) e di S. Giuliano (14,0% nel 1951). Tali forti quantità osservate sono da attribuirsi principalmente ai notevoli scarichi di materiale in detti canali durante il periodo bellico in seguito alle difficoltà di poter eseguire lo scarico stesso in mare”.

Ciò conferma che la maggiore quantità di fanghi rossi era presente proprio nei canali della prima zona industriale quando ancora il Petrolchimico non era stato costruito.

Infine il P.M. ed il P.G. rilevano che la tipologia produttiva che utilizzava la bauxite per ottenere l’alluminio attraverso il processo Haglund non poteva produrre diossine perché in tale processo manca il cloro.

 

In realtà, secondo i più accreditati studi in materia, anche una minima presenza di cloro, quale impurità presente nei reagenti del processo Haglund, è sufficiente per la formazione di diossina. E’ pacifico che a Porto Marghera l’industria dell’alluminio ha utilizzato composti clorurati fino agli anni ’70 (in particolare esacloroetano) nel processo di raffinazione, composti che determinano la formazione di elevate quantità di diossine (Cfr. Weber e Hagenmaier, 1997, pag.21).

Solo in epoca successiva agli anni ’70 le industrie dell’alluminio hanno adottato al posto del processo Haglund il processo Bayer dal quale non ci si attende la formazione di diossina.

 

3.8.3       Superamento dei livelli C e compromissione ambientale della laguna prospiciente Porto Marghera.

Prima di affrontare la questione posta dal P.M. in questo paragrafo dei motivi d’appello bisogna ricordare che in sede di indagini, per valutare lo stato di inquinamento dei canali e degli specchi lagunari, i consulenti dell’accusa (Sesana, Micheletti, Muller e Ferrari) avevano prelevato ed analizzato 10 campioni di sedimento in vari punti circostanti il Petrolchimico.

In mancanza di qualsiasi normativa italiana di riferimento per i sedimenti marini, i consulenti avevano fatto riferimento ad una classificazione prevista da una legge Olandese del 1993.

Sulla base di tali criteri 8 campioni su 10 erano risultati non contaminati, 1 aveva dato risultati incerti che avrebbero richiesto altre indagini e solo uno era risultato contaminato, ma si trattava del campione prelevato da un sedimento profondo del Canale Lusore-Brentelle dove il Petrolchimico non scaricava più da oltre venti anni.

 

In dibattimento, invece, i valori riscontrati nei campioni erano stati confrontati con i parametri previsti nelle Tabelle allegate al “Protocollo di Intesa per la Laguna di Venezia” del 1993; in base a tale Protocollo i sedimenti appartenenti alla tabella A potevano essere utilizzati direttamente in laguna senza alcuna precauzione, mentre per quelli appartenenti alle tabelle B e C era prescritto il loro completo e permanente confinamento per evitare il contatto con le acque lagunari.

I campioni esaminati dai consulenti erano risultati tutti rientranti nelle tabelle B e C.

 

Il Tribunale aveva ritenuto che le tabelle sopra indicate non potevano fornire un parametro di qualità valido per valutare se vi era stata o meno rottura delle condizioni di sicurezza per la pubblica incolumità: “…le tabelle B) e C) non significano pericolo reale. Ed ecco perché, a maggior ragione non esprimono condizioni di rottura di sicurezza per l’ecosistema. E’ di tutta evidenza che la scelta di un parametro di valutazione non può essere arbitraria. I limiti del Protocollo d’Intesa sono stati fissati per la definizione delle caratteristiche del materiale da utilizzare per interventi in laguna e non per definire lo stato di salute del sedimento. L’uso del Protocollo di Intesa 1993, osserva il Collegio, può quindi essere utilizzato al più per esprimere comparazioni tra lo stato del sedimento di una zona rispetto all’altra. Ed in questo senso lo si apprezza. Ma non può essere utilizzato come parametro” (sentenza pag.679).

 

In sede di motivi d’appello il P.M. ripropone il “livello C” come parametro di qualità dei sedimenti senza però indicare particolari argomentazioni a sostegno della sua tesi e a confutazione della motivazione del Tribunale.

Questo Collegio ritiene pienamente condivisibili le argomentazioni sul punto del primo giudice.

Il Protocollo di Intesa era stato stilato per disciplinare l’escavo dei canali e dei rii del centro storico di Venezia, la caratterizzazione e l’analisi chimico-fisica dei fanghi di risulta e le condizioni e le modalità del loro reimpiego in quelle zone della laguna colpite dal fenomeno dell’erosione.

La divisione dei sedimenti nelle classi A, B e C era funzionale alla determinazione dei diversi modi di reimpiego degli stessi all’interno della laguna ed anche i fanghi che eccedano la classe C potevano essere reimpiegati per il ripristino altimetrico di aree depresse al di fuori della laguna.  

Da ciò è facile dedurre che le tabelle in esame non hanno e non possono avere la funzione di determinare il livello di soglia di un pericolo reale perché, se così fosse, si sarebbe prevista l’eliminazione dei fanghi contaminati in modo pericoloso e non già la riutilizzazione come materiale da imbonimento.

 

3.8.4       Dati forniti dal dott. Vighi, C.T. di Enichem, ritenuti fondamentali dal Tribunale.

In questo paragrafo il P.M. rivolge alcune critiche metodologiche rispetto alla deposizione e alla relazione del prof. Vighi che conterrebbero “della carenze rilevantissime che da un punto di vista scientifico, fanno venir meno ogni valenza della sua tesi assolutoria” (motivi pag.1292).

Come si è già detto il prof. Vighi ha effettuato il confronto tra le impronte di diossine e furani (PCDD\F) relative a campioni di sedimento prelevati dai canali delle due zone industriali. Questo confronto è stato realizzato mediante l’analisi delle componenti principali (PCA) e cioè un metodo statistico che consente di mettere in evidenza analogie e differenze tra oggetti (nel nostro caso campioni di sedimento) caratterizzati da una serie di valori numerici relativi a diversi parametri (nel nostro caso le concentrazioni di congeneri di PCDD\F).

 

Il P.M. si lamenta del fatto che il prof. Vighi non ha spiegato come ha fatto l’Analisi dei Componenti Principali (PCA) avendo selezionato ed eliminato dei dati senza indicare quali e con quali criteri tanto che si era passati da centinaia di campioni (232+216) a pochi campioni nei canali industriali.

La doglianza dell’appellante non appare fondata.

In primo luogo bisogna ricordare che solo 216 campioni erano relativi ai canali industriali, mentre gli altri 232 riguardavano altre zone della laguna per cui, date le specifiche finalità dell’analisi eseguita dal consulente, lo studio si è concentrato sui campioni dei canali industriali.

Dalla relazione del prof. Vighi depositata il 5\4\2001 risulta che ogni campione è stato analizzato per misurare la concentrazione di 17 diversi congeneri, però non tutti i campioni prelevati permettevano di misurare tutti i congeneri alcuni dei quali presentavano valori inferiori al limite di rilevabilità analitica. Se in qualche campione non era stato possibile misurare un numero significativo di congeneri (6), il campione stesso doveva ritenersi non significativo.

 

In buona sostanza è possibile classificare una serie di oggetti (campioni di sedimento) sulla base di 17 caratteristiche prestabilite (congeneri), ma se in alcuni oggetti non sono rilevabili oltre un terzo delle caratteristiche è meglio escluderli dalla base di calcolo perché la possibilità di confusione è così elevata che il risultato complessivo della classificazione rischia di essere invalidato.

Per questo motivo il consulente ha eliminato dalla sua analisi quei campioni nei quali almeno 6 congeneri su 17 presentavano valori non misurabili seguendo un metodo scientificamente corretto.

Il P.M. contesta però la scelta fatta dal prof. Vighi di escludere tutti i campioni caratterizzati da valori inferiori al limite di rilevabilità analitica definendola “del tutto discutibile, dato che esistono metodi che permettono di inserire anche tali tipi di campioni” (motivi pag.1309).

 

La critica dell’appellante può risultare fondata da un punto di vista teorico in quanto nella scienza statistica esistono metodi che consentono l’uso di tali dati ignoti ai quali viene attribuito un valore ipotetico. Infatti si può attribuire ai dati non quantificabili un valore pari al limite di rilevabilità, oppure un valore pari a zero o ancora un valore pari alla metà del limite di rilevabilità.

Si tratta però, come appare evidente, di attribuzioni di valori arbitrari (ovviamente uguali fra loro) ai campioni esaminati e non aggiungerà alcun contenuto informativo ai campioni in esame.

Resta quindi condivisibile la scelta fatta dal consulente Vighi.

L’appellante elenca anche una serie di rilievi di carattere tecnico al procedimento usato dal consulente della difesa per l’interpretazione della PCA sulle concentrazioni di PCDD\F nei sedimenti dei canali industriali.

In particolare dice il P.M. “non si spiega quali sono i congeneri, tra i 17 utilizzati nell’elaborazione, che formano i due assi (fattori) della PCA, né i loro pesi relativi e quindi è impossibile verificare la composizione dei fattori. Questo fatto rende impossibile il controllo della elaborazione fatta dal prof. Vighi, inficiandone il significato” (motivi pag.1308).

Si è già detto che la PCA è un metodo statistico che permette di evidenziare analogie e differenze tra oggetti le cui caratteristiche sono determinate da un certo numero di variabili. Ovviamente più le variabili sono numerose, più diventa difficile determinare analogie e differenze, ma con la PCA il problema viene risolto raggruppando l’informazione contenuta nelle diverse variabili in un numero ridotto di “componenti”; di norma sono sufficienti due o tre componenti per descrivere una percentuale sufficientemente alta della totale variabilità degli oggetti.

 

Le “componenti” che rappresentano il contenuto informativo racchiuso in ciascuno degli assi non possono quindi essere identificate con l’uno o con l’altro dei parametri. Lungo ciascun asse è spiegato parte del contenuto informativo racchiuso nel complesso dei campioni e non è possibile individuare esattamente quali variabili formino i due assi secondo i quali si distribuisce la maggior parte della variabilità dei dati. Sono la distribuzione sul piano e la distanza tra i campioni che permettono di spiegare analogie e differenze tra di essi.

Il P.M. lamenta anche il fatto che il consulente non avrebbe evidenziato alcune figure contenute nella sua relazione o che non avrebbe spiegato il passaggio da una figura ad un’altra, ma si tratta di questioni meramente formali che avrebbero dovuto e potuto essere rilevate durante il giudizio di primo grado e che, comunque, non inficiano le conclusioni tratte dal consulente sulla base dei suoi studi.

 

L’accertamento del laboratorio M.P.U. di Berlino.

Il P.M., continuando l’opera di critica alla selezione dei dati di fatto attuata dal Tribunale, passa ad esaminare le questioni concernenti l’accertamento tecnico effettuato presso il laboratorio MPU di Berlino.

Si deve preliminarmente ricordare che nel corso dell’istruttoria dibattimentale erano emersi notevoli contrasti sull’esito delle analisi fatte dai consulenti del P.M. sulla entità delle sostanze inquinanti presenti su alcuni campioni di biota prelevati in laguna; in particolare i risultati riportati nella relazione dei consulenti Sesana, Michieletti e Muller e nella perizia Bonamin risultavano notevolmente inferiori ai risultati delle analisi effettuate dal consulente Raccanelli. Il Tribunale aveva allora sollecitato le parti ad effettuare un nuovo campionamento su biota prelevato negli stessi punti nei quali aveva effettuato i suoi campionamenti il consulente Raccanelli e tali campioni erano poi stati analizzati nel contraddittorio delle parti presso il laboratorio MPU di Berlino.

 

In conclusione per tutti gli inquinanti di interesse processuale i dati di Berlino erano risultati notevolmente inferiori a quelli presentati da Raccanelli.

In questa parte dei motivi d’appello il P.M. contesta la sentenza di primo grado nel punto in cui mette a confronto i risultati del laboratorio di Berlino con quelli esposti da Raccanelli valutando questi ultimi meno attendibili.

Secondo l’appellante il Tribunale non ha tenuto conto di alcuni elementi di fatto che applicati ai dati da confrontare avrebbero giustificato le differenze tra le concentrazioni di contaminanti rilevate da Raccanelli e quelle rilevate a Berlino.

 

In primo luogo bisogna tener conto della “stagionalità”; le vongole analizzate da Raccanelli erano state raccolte ad ottobre ed avevano raggiunto la fase di massimo accumulo annuale, mentre le vongole analizzate a Berlino erano state raccolte a febbraio ed erano meno grasse perché avevano esaurito le scorte energetiche durante l’inverno e presentavano quindi un carico di contaminanti inferiore del 50%. Però il calcolo di un così netto calo di peso per le vongole si basa (per quanto riferito dallo stesso Raccanelli nell’udienza dell’8\5\2001) su uno studio condotto su vongole dell’Atlantico settentrionale dove in inverno la temperatura dell’acqua è molto più bassa di quella che si può riscontrare nei canali industriali di Porto Marghera. Uno studio specifico sulle vongole della laguna non è mai stato fatto e quindi quella di Raccanelli resta una semplice ipotesi non confermata.

Comunque, anche se si volesse accettare in via ipotetica la tesi sostenuta da Raccanelli, una diminuzione del grasso delle vongole del 50% avrebbe comportato al massimo una diminuzione del carico inquinante di pari entità con un dimezzamento dei valori, ma non potrebbe mai giustificare differenze dell’ordine di quelle rilevate a Berlino ( 28 volte in meno per l’esaclorobenzene, 37 volte in meno per gli IPA, 40 volte in meno per il piombo).

A questo punto il P.M. aggiunge un’altra doglianza e cioè che prima di confrontare i dati delle due analisi occorre “normalizzarli”.

Infatti secondo l’appellante il Tribunale non avrebbe preso in considerazione quanto esposto dal dott. Raccanelli nell’udienza dell’8\5\2001 su come debba essere “condotto il confronto dei dati, e cioè normalizzandoli rispetto al contenuto di lipidi per gli organici e al contenuto di sostanza secca per i metalli, così come suggerito dagli studi e dalle procedure EPA” (motivi pag.1327); grazie a tale normalizzazione le differenze fra i risultati di Berlino e quelli di Raccanelli spariscono ed in alcuni casi i risultati di Berlino risultano superiori.

 

Appare strano che il consulente Raccanelli proponga la problematica della “normalizzazione” dei dati solo dopo essere venuto a conoscenza dei risultati di Berlino; lo stesso consulente nella sua “Relazione di perizia tecnica” aveva calcolato tutti i valori di concentrazione riscontrati nell’ittiofauna sempre sulla parte edibile senza effettuare alcuna “normalizzazione” dei dati e lo stesso metodo aveva seguito nell’effettuare i confronti tra i valori riscontrati nelle vongole raccolte nei canali industriali e quelli delle vongole di S.Erasmo. Nell’allegato 1 della sua Relazione il dott. Raccanelli commenta le notevoli differenze tra le concentrazioni da lui rilevate nelle vongole e quelle riportate in altre relazioni degli altri consulenti del P.M. (Turrio Baldassarri, Di Domenico, Bonamin, Sesana e Muller) ed esegue tutti i confronti tra concentrazioni espresse sulla parte edibile dei molluschi senza effettuare alcuna “normalizzazione” relativamente alla parte grassa.

 

Inoltre è da rilevare che tutti i consulenti delle parti hanno sempre espresso la concentrazione dei contaminanti facendo riferimento alla parte edibile senza alcuna “normalizzazione”.

Resta comunque un dato di fatto incontestabile che la quantità di contaminanti contenuta in 1 grammo di vongole resta sempre la stessa, qualunque sia il metodo utilizzato per esprimere i valori di concentrazione.

In realtà ciò che interessa ai fini processuali è accertare la quantità di contaminante assunta da un eventuale consumatore di vongole; quindi quando si deve calcolare la esposizione dell’uomo a contaminanti contenuti negli alimenti è corretto utilizzare le concentrazioni espresse sul peso fresco della parte edibile dei prodotti ittici.

 

L’appellante osserva poi che anche prendendo in considerazione i valori delle concentrazioni risultanti dai dati di Berlino e confrontandoli con le concentrazioni dei bivalvi cresciuti nel sedimento superficiale di S.Erasmo (zona antropizzata ma non direttamente influenzata dal Petrolchimico) emerge in modo chiaro la contaminazione dei molluschi che crescono nei canali della zona industriale. Infatti la tossicità dovuta a PCDD\F e a PCB è 13 volte superiore nelle vongole dei canali industriali, la tossicità dovuta a HCB è 38 volte superiore; per i metalli la contaminazione dei molluschi che crescono nei canali industriali è 7,8 volte superiore per il piombo, è 4,4 volte superiore per il cadmio.

 

Ad avviso di questo Collegio il confronto fatto dal P.M. fra le vongole che crescono a S.Erasmo e quelle che crescono nei canali industriali può fornire indicazioni su una migliore qualità del prodotto ittico in base al luogo in cui viene pescato, ma non è rilevante ai fini della decisione. Una volta stabilite le concentrazioni di contaminanti rilevate nei molluschi dei canali industriali si deve accertare se tali concentrazioni siano o meno anomale; i dati di riferimento sono costituiti esclusivamente dalla concentrazione massima ammissibile (CL) stabilita dal legislatore e, in mancanza di Concentrazione Limite, dal giudizio di “normalità” risultante dalla comparazione tra le concentrazioni rilevate nei bivalvi dei canali industriali e le concentrazioni rilevate nei diversi mari il cui pescato è ritenuto edibile e liberamente commerciabile in tutto il mondo.  

 

 Prosegue poi il P.M. prendendo in esame il seguente passo della sentenza: “…gli esperti delle difese hanno confrontato per tutti gli inquinanti di interesse processuale…..i valori mediani di concentrazione ottenuti all’esito di tale controllo con i valori mediani di concentrazione evinti prima di tale sopravvenienza, dalle relazioni degli esperti dell’accusa, Raccanelli compreso” (Sentenza,pag.804).

Secondo il P.M. il valore “mediano” non dovrebbe mai essere utilizzato: con esso infatti si eliminerebbe non solo il minimo, ma anche il massimo, ignorando i soggetti che mangeranno le vongole a concentrazione più elevata; usare il valore “mediano” vorrebbe dire, nel caso dei dati di Berlino, eliminare il campione più inquinato pescato nel canale industriale Sud dove si svolge la maggiore attività di pesca abusiva.

Per spiegare la sua obiezione l’appellante fa l’esempio di Bhopal: non si può sostenere che a Bhopal nessuno correva pericolo perché in media in India la popolazione non era esposta a nube tossica, “se a Bhopal avessero considerato la mediana, non sarebbe di fatto esistita la nube tossica, essendo la nube solo il valore tossico in un punto dell’India, e pertanto da eliminare” (Motivi pag.1330-31).

 

L’obiezione non appare fondata. Il calcolo di valori rappresentativi di una serie di dati di misura (media aritmetica, media geometrica, mediana) non elimina i valori estremi, ma si basa sull’intera serie dei dati per il calcolo. La media aritmetica si calcola dalla somma di tutti i valori diviso il loro numero, la media geometrica rappresenta la media di tutti i valori su base logaritmica, la mediana è il valore intermedio della distribuzione dei singoli valori.

La media geometrica e la mediana sono parametri sufficientemente solidi da non essere alterati troppo da valori non rappresentativi della serie di dati considerata.

La mediana è considerata in statistica particolarmente adatta in quei casi in cui la serie dei valori non segue una distribuzione normale, ma è caratterizzata da variabilità molto ampia  o presenta valori estremi che si discostano molto dalla maggioranza degli altri valori.

 

E’ evidente che un unico valore anormale non può essere considerato rappresentativo della distribuzione; la mediana non esclude questo valore dall’analisi, ma gli attribuisce un peso adeguato alla sua rappresentatività nell’ambito della serie di dati in esame.

In realtà qualunque valutazione di esposizione deve essere effettuata sui valori medi dei potenziali contaminanti, non sui valori massimi che non sono certo rappresentativi della reale situazione, ma soltanto di una situazione estrema.

Risulta quindi corretto il ricorso ai valori mediani per il confronto delle concentrazioni degli inquinanti.

Appare fuori luogo il richiamo fatto dal P.M. al caso di Bhopal per sostenere che il valore “mediano” non dovrebbe mai essere utilizzato. Nel nostro caso quando si parla di mediana ci si riferisce alla media delle concentrazioni nei canali industriali di Marghera, non a quella del mar Mediterraneo o dell’Italia in generale. Le medie, quando vengono utilizzate si riferiscono ad un sistema ben circoscritto all’interno del quale l’esposizione a sostanze potenzialmente pericolose è soggetta ad una certa variabilità.

 

L’appellante afferma poi che: “…anche con i campioni di Berlino (prelevati alla fine della stagione invernale durante la quale i bivalvi avevano consumato grassi ed espulso gli inquinanti) ad un giovane di 40 Kg: bastano 24 grammi edibili per superare la DGA prevista dal WHO a causa della concentrazione di PCDD\F e PCB.” (motivi pag.1331).

Tale affermazione non è però confermata dai dati processuali; infatti nei campioni di vongole esaminati presso il laboratorio di Berlino la concentrazione media di diossine è risultata pari a 0,48 pg\g, mentre quella dei PCB a 0,42 pg WHO-TEQ\g. La somma dei due valori porta ad una concentrazione di 0,9 pg WHO-TEQ\g. La Dose Giornaliera Accettabile (DGA) indicata dal WHO è di 1 –4 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die. Ciò significa che per un ragazzo di 40 Kg di peso la DGA è di 40 –160 pg WHO-TEQ giorno e per raggiungere tale valore lo stesso ragazzo preso in esame dal P.M. dovrebbe assumere giornalmente per lunghi periodi  44,5 –180 grammi di vongole (parte edibile).

In fine il P.M. sostiene che le medie statistiche non servirebbero a nulla quando si tratta di individuare il “forte consumatore”: con esse infatti sarebbero trascurati i soggetti che consumano il pescato abusivo dei canali industriali e che non rientrano nelle statistiche.

In vero il concetto di “forte consumatore” utilizzato dai consulenti della difesa e accolto dal Tribunale è quello emerso da un’indagine (COSES) che, come si vedrà in seguito, ha rilevato direttamente i consumi di prodotti ittici, interpellando un campione significativo della popolazione di Venezia ed elaborando i dati ottenuti per individuare il “consumatore medio” ed il “forte consumatore”. Si tratta del metodo più attendibile per rilevare la fascia di popolazione che ha un forte consumo di prodotti ittici e si tratta di un metodo che, basandosi su dati rilevati sulla popolazione oggetto di studio, presenta anche il pregio di non trascurare nessuna tipologia di consumatori. Inoltre bisogna tener presente che nella stima dell’assunzione di contaminanti da parte dell’uomo, gli esperti della difesa hanno sempre ipotizzato (in via cautelativa) una situazione in cui ai “forti consumatori” di Venezia si attribuiva un consumo costante per tutta la vita di vongole provenienti esclusivamente dai canali industriali di Porto Marghera (v. relazioni dott. Pompa del 18\4\2001 e dell’8\5\2001).

Non si può quindi fondatamente sostenere che nel presente procedimento non si sia tenuto conto dei “forti  consumatori” del pescato abusivo dei canali industriali.

 

CAPITOLO   3.9       APPELLO   P.M.

LA CONTAMINAZIONE DEL SUOLO, DEL SOTTOSUOLO E DELLE FALDE L’INQUINAMENTO VERSO LA LAGUNA L’ADULTERAZIONE\AVVELENAMENTO DELL’ACQUA E DELL’ITTIOFAUNA

 

3.9.1       TRASFERIMENTO ORIZZONTALE DI INQUINAMENTO VERSO LA LAGUNA E CONTAMINAZIONE DELLA ( e DALLA) FALDA SOTTOSTANTE IL PETROLCHIMICO E DEI SUOLI.

In questo paragrafo il P.M. cerca di dimostrare l’infondatezza dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata per cui il trasferimento di acque dal sottosuolo del Petrolchimico ai canali della laguna sarebbe irrilevante ai fini dell’inquinamento delle acque degli stessi canali.

L’appellante parte dalla constatazione fatta dal Tribunale per cui “da tutta l’area del Petrolchimico deriva un apporto per moto di trasferimento orizzontale dalla prima falda di quattro litri al secondo”.(Sent.pag.533).

Premesso che il dato sopra indicato di 4 litri al secondo, espresso in tale unità temporale, tende ad essere percepito come molto piccolo, ma che in realtà equivale e 345.600 litri\giorno e a più di 126 milioni di litri\anno, l’appellante passa ad esaminare le misure della concentrazione di diossine nelle acque sottostanti il Petrolchimico, effettuate a cura dell’ENICHEM in relazione al disposto del DM 471\99 sulle bonifiche.

 

Il P.M. ricorda che nell’ambito degli accertamenti fatti dall’ENICHEM entro l’anno 2000 sulle acque sottostanti il Petrolchimico in ottemperanza a quanto disposto dal DM 471\99 erano stati raccolti 55 campioni. Rispetto al totale dei campioni solo per 6 era stata effettuata anche l’analisi delle diossine. In tutti questi 6 campioni diossine e composti simili erano stati rilevati in valori misurabili; in particolare tre campioni avevano presentato valori superiori al limite fissato dal DM 471\99 in 4 pg\l (campione 001700, 634 pg\l- TE\I; campione 001638, 26,2 pg\l – TE\I; campione 00126, 4,60 pg\l – TE\I).

Il primo di tali campioni presentava quindi un livello estremamente elevato di diossine ed inoltre aveva evidenziato anche la presenza di diossina 2,3,7,8 – TCDD a livello elevato (10,6 pg 2,3,7,8 – TCDD\I).

 

Considerato che con un campionamento numericamente molto limitato (6 campioni) erano stati rinvenuti due casi di contaminazione particolarmente alta si doveva dedurre che livelli simili non potessero essere considerati un evento sporadico e raro.

Fra tutti i 6 campioni in questione l’intervallo dei valori misurati è compreso fra un minimo di 2.31 pg\l (I-TE) e un massimo di 634 pg\l (I-TE) e, conseguentemente, la media è di circa 112 pg\l (I-TE).

Quindi partendo dall’ipotesi di una contaminazione media dell’acqua di falda di circa 112 pg\l (I-TE) e di un rilascio di 4 litri\secondo di questa acqua verso i canali, ovvero di 126 milioni di litri\anno, il quantitativo di diossine (I-TE) potenzialmente trasportate annualmente verso i canali risulta dell’ordine di circa 14 miliardi di pg (I-TE)\anno (circa 14 mg (I-TE)\anno).

Si osserva che “un solo milligrammo I-TE può contaminare ogni anno ad un livello pari a 10 volte quello di fondo un quantitativo di sedimento pari a 100 tonnellate, certamente non trascurabile. Date le caratteristiche di elevatissima persistenza ambientale delle sostanze in esame, l’impatto di più anni successivi si somma portando ad un progressivo aumento delle concentrazioni nei sedimenti. Vale la pena di sottolineare che 1 mg I-TE di diossine corrisponde ad un valore 14 volte inferiore rispetto a quello che sarebbe immesso in laguna nell’arco di un anno con un trasporto di 4 litri\secondo di acque contaminate al valore medio di quelli misurati a cura dell’ENICHEM.” (motivi pag.1346).

In conclusione il trasferimento orizzontale di inquinamento dalla falda sottostante il Petrolchimico alla laguna non può essere considerato trascurabile (come ha fatto il primo giudice), ma considerevole e prevedibile.

Indubbiamente le considerazioni fatte dal P.M. possono apparire convincenti e fondate, ma risultano basate su dati di fatto non corretti.

 

Esaminando la tabella allegata al database informatico EniChem S.p.a. – Stabilimento di Porto Marghera – Banca dati idrogeologica e qualitativa, realizzato da Aquater S.p.a. il 31\5\2000, si rileva che i due campioni citati dal P.M. con i valori di diossine più alti (campione 001700, 634 pg\l e campione 001638, 26,2 pg\l) corrispondono rispettivamente al piezometro N4387 ed N3671 che sono piezometri superficiali e pescano nell’acqua del terreno di riporto.

Come si è già detto in precedenza, l’acqua del terreno di riporto non costituisce una falda dotata di moto proprio, ma è acqua stagnante di impregnazione. Di conseguenza non può apportare alcunché in laguna e pertanto la presenza si diossine in quest’acqua (ampiamente prevedibile trattandosi di liquido che impregna una massa di rifiuti) non rappresenta in nessun modo un rischio diretto nei confronti della laguna.

 

Poiché le acque di impregnazione non hanno la possibilità di muoversi in senso orizzontale verso la laguna essendo acque stagnati, bisogna chiedersi se per le stesse sia possibile un trasferimento verticale verso le acque della falda sottostante che invece sversa in laguna 4 litri al secondo.

Una risposta a questa domanda ci viene fornita dalla stessa tabella sopra citata.

I piezometri N4458 e N4387 sono situati praticamente nello stesso punto dello stabilimento, ma N4387 pesca nelle acque di riporto, mentre N4458 pesca in quelle di prima falda; il primo ha la concentrazione più elevata indicata dal P.M. (634 pg\l), mentre il secondo ha una concentrazione pari a 3,6 pg\l addirittura più bassa del limite di 4 pg\l stabilito dal DM 471\99.

Si può quindi affermare che il trasferimento verticale fra acque di impregnazione e acque di prima falda è limitatissimo.

 

Detto questo e preso atto che solo le acque di prima falda possono apportare sostanze alla laguna si deve passare ad esaminare i risultati dei piezometri che effettivamente pescano in prima falda.

Tre di tali piezometri presentano valori inferiori al limite di 4 pg\l (N2834: 2,31 pg\l; N3460: 2,89 pg\l; N4458: 3,68 pg\l), il quarto invece (N2894 situato a oltre 200 metri dalla Darsena della Rana) presenta un valore di 4,6 pg\l di poco superiore al limite.

In base ai valori effettivi riscontrati nelle acque della prima falda si deve concludere che il valore medio non è di 112 pg\l come calcolato dal P.M., ma di 3,37 pg\l che è ovviamente inferiore al limite di 4 pg\l fissato dal DM 471\99.

Quindi con una contaminazione media dell’acqua di falda di circa 3,37 pg\l ed un rilascio di 4 litri\secondo di questa acqua verso i canali, il quantitativo di diossine potenzialmente trasportato nel corso di un anno verso i canali risulterebbe dell’ordine di circa 0,42 mg\l per anno e non già di 14 mg\l per anno come calcolato dal P.M.

 

Ma in realtà neanche il dato di 0,42 mg\l per anno può ritenersi corretto in quanto non tiene conto del noto fenomeno del “ritardo” in base al quale la diossina si muove più lentamente rispetto alla velocità della falda (già di per sé molto bassa).

Il fenomeno del “ritardo” è dovuto al fatto che le diossine hanno una scarsissima idrosolubilità ed una affinità molto elevata per il carbonio organico contenuto nel suolo. Quindi quando l’acqua di falda contaminata dalla diossina avanza verso la laguna ed incontra porzioni di terreno senza diossina o con concentrazioni molto più basse, la diossina presente nella falda tende ad aderire al terreno.

Quindi, tenuto conto dei modesti valori di diossina riscontrati nelle acque della falda, dei bassi valori di velocità e portata delle falde (già valutati ed accertati in precedenza) e dei diversi processi di assorbimento e dispersione a cui la diossina è soggetta nel percorso tra falda e laguna, si deve convenire con il Tribunale che l’apporto di contaminanti in laguna da parte della falda sottostante il Petrolchimico è veramente insignificante e comunque non rilevante al fine di provare la sussistenza dei reati di disastro, avvelenamento e adulterazione oggetto del presente procedimento.

 

3.9.2       I parametri di rischio disponibili per le diossine e composti simili (PCDD, PCDF e PCB “dioxin – like”).

In questo paragrafo il P.M. prende in esame la questione dei “limiti soglia” cioè di quei limiti fissati dalle organizzazioni internazionali, con criteri precauzionali, per definire i valori di dose giornaliera tollerabili di presenza di diossine e composti simili nelle sostanze alimentari.

L’appellante lamenta il fatto che la sentenza, adeguandosi alle argomentazioni dei consulenti delle difese, avrebbe fatto costante riferimento ai valori indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) trascurando invece il contenuto del documento del Comitato Scientifico della Commissione Europea per la protezione degli alimenti (SCF).

 

Occorre ricordare che l’ OMS aveva fissato un valore di dose giornaliera tollerabile per le diossine e composti simili (TDI) presenti negli alimenti pari a 1 – 4 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die.

Invece l’SCF aveva indicato nel 2000 un TDI inferiore pari a 1 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die, parametro in vigore per tutto il dibattimento di primo grado.

In fatto la doglianza del P.M. non risulta fondata. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale tutti i consulenti (tanto della difesa che della Pubblica Accusa) e, di conseguenza, il Tribunale nella sentenza, hanno sempre fatto riferimento al valore più basso fra quelli indicati dall’OMS e cioè 1 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\giorno corrispondente esattamente a quello indicato dall’SCF.

A riprova di ciò basterà esaminare le tabelle contenute nelle pagine 879 e 946 della sentenza ove vengono presi in considerazione sia l’estremo inferiore che quello superiore dell’intervallo 1-4 pg\g indicato dall’OMS ed il margine di sicurezza viene calcolato rispetto al dato minimo di TDI.

 

Il P.M. rileva poi che dopo la chiusura del dibattimento, e precisamente nel 2001, l’SCF aveva aumentato il TDI a 2 pg WHO-TEQ\kg peso corporeo\die sottolineando che, considerate le assunzioni medie di diossine e PCB dioxin-like attraverso la dieta, nei paesi europei di 1,2 – 3,0 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\die, una percentuale considerevole della popolazione europea dovrebbe superare il TDI indicato dal Comitato.

Quindi, secondo l’appellante, i valori di riferimento del Comitato sarebbero già superati per l’inquinamento di fondo per una parte di rilievo della popolazione con la conseguenza che ogni esposizione che vada ad aggiungersi a quella di fondo deve essere considerata alla luce dell’affermazione che quest’ultima è già critica. In altre parole sarebbe sufficiente una minima esposizione aggiuntiva per superare il valore di TDI stabilito da SCF.

 

A questa obiezione si può replicare facendo presente che nel caso in esame manca qualsiasi termine di raffronto e cioè l’indicazione dell’esposizione di fondo dei consumatori veneziani. Per valutare il rapporto tra esposizione di fondo ed esposizioni aggiuntive il dato essenziale di partenza è costituito dalla stima di carico totale di diossine e di composti diossino-simili negli abitanti della laguna. Non esistono studi che riportino tali stime e non vi sono elementi per ipotizzare che i veneziani abbiano un carico totale di diossine più elevato di quello di persone residenti in altre aree.

Bisogna inoltre evidenziare che la componente alimentare ittica viene assunta dall’appellante come aggiuntiva rispetto al carico totale derivante dall’esposizione conseguente alla componente alimentare di fonte diversa. In realtà se la dieta alimentare degli abitanti della laguna fosse costituita esclusivamente dai pesci e dai molluschi contaminati, dovremmo togliere dal carico totale di diossine quello relativo ad alimenti di altra natura.

Il Tribunale ha tenuto conto di tutto ciò valutando l’assunzione complessiva di diossine da tutti gli alimenti comprendendo un consumo medio di prodotti ittici pari a 30 grammi\die ed il risultato è stato tranquillizzante (Vedi tabella a pag.890 della sentenza).

Il P.M. sostiene poi che non è corretto parlare, come fa la sentenza a pag. 799, di distanze di ordini di grandezza tra la dose di assunzione di sostanze tossiche e la dose di assunzione che non ha provocato effetti tossici in sede sperimentale sull’animale e, a maggior ragione, nell’uomo. Gli studi effettuati dal Comitato Scientifico Europeo su animali sperimentali avevano evidenziato che il TDI di 2 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\die era inferiore da 10 a 25 volte rispetto a dosi per le quali era ritenuto possibile un effetto avverso sull’uomo e inferiore di un fattore 5 rispetto alla dose stimata priva di effetti.In realtà gli studi a cui fanno riferimento il Comitato Scientifico Europeo ed il P.M. non riguardano l’uomo, ma il ratto (è lo stesso P.M. a precisarlo a pag.1358 dei motivi), mentre gli studi eseguiti sull’uomo confermano che le distanze che separano le classi di dosi che hanno provocato effetti tossici nell’uomo e quelle alle quali sono esposti i residenti della laguna sono distanti diversi ordini di grandezza (v. Greene, Hays, Paustenbach (2003), Basis for a proposed reference dose (RfD) for dioxin of 1-10 pg\Kg-day:a weight of evidence evaluation of the human and animal studies,in J. Toxicol. Environ. Health B. Crit. Rev., 6:115-59).

L’appellante, infine, critica il Tribunale che, pur avendo citato più volte l’U.S. Environmental Protection Agency (US.EPA) come ente di grande rilievo tra le agenzie di credito indiscusso, ha invece completamente ignorato le stime di rischio dello stesso ente per le diossine e composti simili.

 

Ricorda il P.M. che l’US EPA in uno studio del settembre 2000 (“Exposure and human health reassessment of 2,3,7,8 – Tetrachlorodibenzo-p-dioxin and related compounds – Part. II, Preliminary Draft”) stima un incremento di rischio cancerogeno dell’ordine di 1 su 1000 per un’esposizione aggiuntiva di 1 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\giorno )in termini di PCDD, PCDF e PCB), ma queste valutazioni di rischio non sono mai state riportate nella motivazione della sentenza.

Rileva questo Collegio che quelle dell’EPA sono semplici stime di rischio basate su modelli matematici e non su effetti osservati ed è per questo motivo che il Tribunale si è basato solo sugli effetti osservati (unico indice possibile di pericolo reale) e sui valori di TDI fissati dalle Agenzie nazionali e internazionali che disciplinano il rischio alimentare.

 

3.9.3       L’esposizione di fondo e il contributo dei PCB “Diossina-simili” (Dioxin-like) alla tossicità equivalente.

Secondo gli appellanti la sentenza impugnata, al fine di giungere ad una corretta stima del rischio derivante dal consumo dell’ittiofauna per cui è processo, non avrebbe tenuto conto, in modo scientificamente appropriato, del contributo in termini di tossicità equivalente dei PCB dioxin-like.

Il P.M. ricorda come l’OMS, il Comitato Scientifico dell’EU e anche l’EPA abbiano più volte sottolineato la necessità di considerare congiuntamente diossine (PCDD, PCDF) e PCB (simili alla diossina); infatti se non si considerasse il contributo dei PCB dioxin-like si otterrebbe una grave sottostima del rischio per l’esposizione umana.

Il Comitato Scientifico Europeo ha stimato i livelli medi di fondo per l’esposizione degli adulti europei attraverso la dieta nella seguente misura: per diossine PCDD e PCDF (quindi senza PCB) compresi tra 0,4 e 1,5 pg I-TE\Kg p.c.\die; per i soli PCB compresi fra 0,8 e 1,5 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\die.

 

Sommando i due dati la stima dell’esposizione globale degli adulti europei attraverso la dieta a PCDD, PCDF e PCB dioxin-like è, secondo lo stesso Comitato Scientifico Europeo, pari a 1,2 – 3,0 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\giorno.

La considerazione del contributo dei PCB dioxin-like in Europa comporterebbe dunque un incremento delle concentrazioni tossicologicamente equivalenti di un fattore tra 2 e 3 rispetto alla valutazione basata solo sulle diossine.

Anche per l’EPA la considerazione del contributo dei PCB dioxin-like comporterebbe un incremento delle concentrazioni tossicologicamente equivalenti di un fattore sino a 2, rispetto alla valutazione basata solo su diossine (PCDD e PCDF).

Vi è poi uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità per la Regione Veneto (“Studio sulla detossificazione di microinquinanti persistenti” del 1999) per il quale la considerazione del contributo dei PCB dioxin-like comporta un incremento delle concentrazioni tossicologicamente equivalenti nei bivalvi della laguna di Venezia di un fattore di circa 1,6 rispetto alla valutazione basata solo su PCDD e PCDF.

Secondo il P.M. si può quindi affermare che l’uso di un fattore correttivo 1,6 da applicare ai dati di concentrazione di PCDD e PCDF può ragionevolmente evitare una sottostima dell’esposizione complessiva e del rischio correlato.

Fatte queste premesse, l’appellante ricorda che correttamente il suo consulente dott. Zapponi, nella relazione dal titolo: “Valutazione del rischio della 2,3,7,8-tetraclorodibenzodiossina e composti assimilabili in relazione ai dati della laguna di Venezia”, aveva fatto uso di un fattore di correzione 1,5 da applicare ai dati di concentrazione relativi alle sole diossine per tener conto del contributo dei PCB dioxin-like.

Sbaglia quindi il Tribunale quando a pag.906 della sentenza definisce come errore esiziale dell’esperto dell’accusa Zapponi l’uso di un fattore di correzione 1,5 per definire la stima della concentrazione equivalente complessiva di PCDD, PCDF e PCB espressa in WHO-TEQ.

 

Rileva questo Collegio che l’errore evidenziato dal Tribunale non riguarda il modo di determinare il fattore di correzione seguito dal consulente Zapponi sull’esempio delle più accreditate agenzie nazionali ed internazionali, ma il fatto che il consulente abbia preteso di calcolare i PCB mediante un fattore di conversione generale applicabile a tutti i molluschi su campioni per i quali non era stata effettuata alcuna indagine, trascurando al contempo i dati reali raccolti su altri campioni nei quali erano stati ricercati anche i PCB. Leggendo la sentenza impugnata risulta in modo certo che il Tribunale ha sempre considerato l’apporto congiunto della contaminazione derivante dalle diossine con quella dovuta ai PCB dioxin-like giungendo alla conclusione dell’esistenza di un ampio margine di sicurezza per l’eventuale consumatore delle vongole dei canali industriali.

Il Tribunale, per giungere alle conclusioni sopra indicate, non si è basato sulle stime di rischio prospettate da Zapponi, ma su dati del modo reale validamente acquisiti agli atti del processo.

Si tratta dei valori rilevati in 9 campioni di vongole prelevati nei canali industriali di Marghera: di questi 9 campioni, 5 erano stati esaminati dall’esperto dell’accusa Raccanelli e 4 dal laboratorio MPU di Berlino: Questi erano gli unici dati disponibili in quanto le indagini di Raccanelli e del laboratorio di Berlino erano le uniche che avevano ricercato i PCB nelle vongole dei canali industriali.

 

Dall’esame dei valori riscontrati in questi campioni è emersa l’esistenza di un margine di sicurezza, rispetto al TDI di 1-4 pg previsto dalla WHO, che oscilla da un minimo di 3 volte, considerando i dati di Raccanelli e il consumo di un forte consumatore, a un massimo di 215 volte, considerando i dati di Berlino e i consumi di un medio consumatore.

In particolare la concentrazione di PCB osservata da Raccanelli è pari a 0,92 pg\g, mentre per la verifica effettuata a Berlino tale valore scende fino a 0,42 pg\g.

Basta moltiplicare queste concentrazioni reali per i dati reali di consumo riportati dalla relazione COSES per ottenere l’esposizione reale dei consumatori veneziani: così partendo dai dati di Raccanelli, l’esposizione totale a diossine + PCB è pari per il consumatore normale, a 0,04 pg\kg p.c.\die (0,02 pg\kg p.c.\die di diossine + 0,02 pg\kg p.c.\die di PCB), mentre è di 0,33 pg\kg p.c.\die per i forti consumatori (0,18 pg\kg p.c.\die di diossine + 0,15 pg\kg p.c.\die di PCB).

 

I valori sono ancora più bassi prendendo in considerazione le concentrazioni misurate a Berlino; infatti l’esposizione scende per i consumatori normali a 0,018 pg\kg p.c.\die (0,010 pg\kg p.c.\die di diossine + 0,008 pg\kg p.c.\die di PCB) e a 0,143 pg\kg p.c.\die per i forti consumatori (o,076 pg\kg p.c.\die di diossine + 0,067 pg\kg p.c.\die di PCB).

Indubbiamente vi è una differenza fra le stime effettuate dalle varie agenzie (e anche dal consulente Zapponi) sul contributo dei PCB dioxin-like alle concentrazioni tossicologicamente equivalenti e i dati reali risultati dalle analisi di Raccanelli e del laboratorio di Berlino, ma tale differenza risulta facilmente spiegabile.

Infatti è pacifico che le fonti di diossine e di PCB sono diverse, pertanto i rapporti di concentrazione tra diossine e PCB sono diversi quando è diverso l’ambiente analizzato; inoltre è dimostrato che ogni specie di animale ha una specifica caratteristica metabolica nei confronti delle diossine e dei PCB, per cui, a parità di assunzione, i rapporti tra diossine e PCB cambiano nelle diverse specie.

Giustamente quindi il Tribunale si è attenuto esclusivamente ai rapporti rilevati in modo reale nelle vongole dei canali industriali oggetto del presente giudizio e non ha accolto le stime generali perché non sufficientemente adeguate ad un accertamento tranquillizzante dei dati necessari alla decisione.

3.9.4       Il consumo di bivalvi, la “resa” ovvero la percentuale edibile rispetto al lordo e le stime di esposizione.

3.9.4.1.1     

Conseguenze che derivano applicando ai dati dei consulenti della difesa i parametri di “resa” (rapporto tra la parte edibile ed il lordo) dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione.

Sempre nel tentativo di dimostrare la erroneità delle valutazioni fatte dal Tribunale circa i valori delle dosi di sostanze contaminanti assunte dagli abitanti della laguna mangiando mitili provenienti dai canali della zona industriale il P.M. prende in esame uno dei dati fondamentali ai fini di tale calcolo e cioè la “resa” (rapporto tra la parte edibile ed il lordo) dei bivalvi in questione.

 A tal fine l’appellante si richiama ai parametri di “resa” degli alimenti elaborati dall’Istituto Nazionale per gli Alimenti e la Nutrizione (“Tabelle di Composizione degli Alimenti – Aggiornamento 2000” a cura di E. Carnevale e L. Marletta, Roma 2000).

 

In particolare tali dati indicano una parte edibile pari al 25% per le vongole e al 32% e per le cozze.

Applicando i parametri sopra indicati ai dati statistici di consumo del COSES, ritenuti dalla sentenza come una stima reale, si ottengono dei valori netti di consumo giornaliero pro capite di vongole e cozze che risultano quasi 2 volte più elevati di quelli indicati dal Tribunale a pag. 855 della sentenza sia per i consumatori medi che per i forti consumatori.

Tali consumi, moltiplicati per la concentrazione di diossine indicata nella perizia Bonamin (1,85 pg\ I-TE\g) e sommati all’esposizione derivante dai PCB dioxin-like (calcolata col fattore di correzione universale 1,5 proposto da Zapponi ed esaminato nel paragrafo precedente) porterebbe al superamento del limite di 2 pg WHO-TEQ\kg p.c.\die, previsto dal Comitato Scientifico Europeo.

Quindi, secondo il P.M., alla luce dei dati forniti dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione si può affermare che erano sbagliati i dati di “resa” emersi nel processo di primo grado perché la resa effettiva delle vongole è pari al 25%.

 

Anche in questo caso le conclusioni dell’appellante non possono essere condivise. Ci si dimentica infatti di tutti i dati reali emersi nel corso del dibattimento.

In primo luogo è proprio un esperto del P.M., il dott. Raccanelli, che, nel corso della deposizione resa all’udienza del 7\11\2000, afferma che le vongole esaminate nel suo studio, pescate nei canali industriali della laguna, presentavano una parte edibile pari a circa il 10% del peso lordo.

Sul punto concorda sostanzialmente anche l’esperto della difesa, dott. Pompa, il quale nella sua relazione del 18\4\2001, aveva riferito che, pur essendo a conoscenza del fatto che il dott. Raccanelli aveva indicato una resa del 10% per le vongole, aveva per i suoi calcoli adottato un valore leggermente superiore (14%) a scopo cautelativo.

Nel corso del dibattimento il P.M. non aveva mai contestato i dati di resa delle vongole forniti dal suo consulente e dal dott. Pompa, perché altrimenti sarebbe stato estremamente agevole verificare anche tali dati nel corso delle indagini svolte presso il laboratorio di Berlino.

 

Bisogna comunque ricordare che il dott. Raccanelli ha personalmente analizzato 5 campioni di vongole e che all’inizio delle operazioni di analisi le vongole vengono pesate (peso lordo), quindi vengono sgusciate e poi viene pesata la parte edibile (peso netto) prima di procedere con le analisi vere e proprie: Quindi il consulente del P.M. ha eseguito personalmente le operazioni preliminari di pesatura ed ha potuto verificare direttamente le “rese” dei molluschi esaminati. E’ fuor di dubbio che se Raccanelli avesse rilevato un valore di resa significativamente superiore al 10% lo avrebbe riferito in dibattimento.

Il valore leggermente superiore indicato dal consulente Pompa (14%) trova una giustificazione fisiologica nel fatto che la quantità di acqua che imbibisce il mollusco interno (parte edibile) può leggermente influenzare il peso del campione.

 

A questo punto è giusto chiedersi come mai i dati forniti dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione siano tanto diversi da quelli riferiti in dibattimento dai consulenti delle parti.

In linea generale bisogna ricordare che la pubblicazione dell’INRAN dalla quale sono stati tratti i dati era dedicata in via pressoché esclusiva alla composizione chimica e al livello energetico degli alimenti, e non invece alla determinazione precisa del rapporto tra parte comunque edibile dei prodotti esaminati e scarto non commestibile.

Ma l’elemento più rilevante consiste nel fatto che la “resa” del 25% per la parte edibile della vongola determinata dall’INRAN concerne una specie particolare di vongola, la amigdala decussata, diversa dalle tapes philippinarum che sono state l’oggetto delle consulenze nel presente procedimento.

La vongola amigdala decussata, caratterizzata da un guscio molto sottile e da una resa molto maggiore rispetto ad altre, è molto rara in laguna e comunque non risulta essere mai stata raccolta ed esaminata fra i campioni prelevati per le consulenze del presente processo che hanno sempre riguardato la vongola tape philippinarum (come si rileva dalla descrizione contenuta nei verbali di campionamento condotti nel marzo 2001 e nei verbali preliminari delle analisi presso il laboratorio MPU di Berlino).

In conclusione si può affermare che anche per determinare la “resa” dei bivalvi il Tribunale si è giustamente attenuto ai dati reali raccolti nel corso del dibattimento che sono risultati essere gli unici corrispondenti alle circostanze di fatto che il giudice doveva prendere in considerazione ai fini della decisione.

 

3.9.4.2

I dati dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione sui consumi medi   giornalieri pro-capite di molluschi in Italia per il 1994-96.

L’appellante contesta la sentenza anche per quanto riguarda i dati dei consumi medi giornalieri dei veneziani.

Si deve infatti ricordare che i calcoli della dose giornaliera di assunzione di sostanze inquinanti da parte dei veneziani tramite una dieta contenente mitili sono stati fatti dal primo giudice tenendo conto del consumo di tale prodotto ittico desunto da una indagine effettuata dal COSES – Comune di Venezia – nel 1996.

Secondo il P.M., invece, il calcolo deve essere effettuato sulla base delle statistiche di consumo dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione relative al territorio nazionale desumibili da uno studio INN – CIA del 1994\96.

 

Osserva l’appellante che lo studio indicato muove da una distinzione essenziale tra consumo medio totale pro-capite e consumo pro-capite medio per i “soli consumatori” (11,6% della popolazione) identificati come diversi dai “non consumatori” e dai “consumatori sporadici”; partendo da tale base ed effettuando tutta una serie di calcoli, analiticamente riportati nei motivi d’appello, si arriva a conclusioni circa l’effettivo consumo giornaliero di vongole e mitili quasi simili a quelle indicate dai consulenti dell’accusa e disattese dal Tribunale perché smentite dall’indagine Coses.

In realtà non sembra accettabile, ai nostri fini, il criterio indicato per calcolare il consumo. Infatti secondo tale criterio i soli “consumatori” (pari all’11,6% percento della popolazione nazionale) mangerebbero tutto il prodotto ittico nazionale. Ciò risulta palesemente illogico se si tiene conto del fatto che nella categoria dei “consumatori” rientrerebbero solo coloro che mangiano molluschi assiduamente trascurando quindi tutti coloro (88,4%) che mangiano pesce in modo non assiduo e cioè una o due volte alla settimana, o anche una volta al mese.

 

Per poter sostenere che l’11,6% della popolazione mangia tutto il prodotto ittico, si dovrebbe provare che tutto il resto della popolazione (e cioè la stragrande maggioranza) non ne mangia mai.

Si tratta di una conclusione palesemente illogica che porta ad un sovradimensionamento dei valori di consumo da parte della categoria dei “veri consumatori”.

A queste considerazioni si deve anche aggiungere che risulterebbe veramente inspiegabile far ricorso a statistiche di carattere nazionale pur avendo a disposizione una indagine condotta proprio sui consumi dei veneziani da parte di una fonte che non può definirsi sospetta e cioè il Comune di Venezia che è anche parte civile nel presente processo.

Si deve quindi condividere la decisione del Tribunale di dare credito all’indagine COSES al fine di determinare i reali consumi di prodotti ittici da parte dei veneziani.

 

3.9.5       Alcune considerazioni su “gli esiti della valutazione tecnica correttamente operata (per il Tribunale) dagli esperti delle difese (relazione Pompa 18\4\2001)” relativamente alla comparazione con i dati di altri paesi.

A questo punto il P.M. torna al tema della concentrazione media di diossine nei bivalvi dell’area industriale della laguna per contestare quanto affermato in proposito dalla sentenza di primo grado e cioè che “tutte le concentrazioni di diossine rilevate in pesci e molluschi della laguna Veneziana sono confrontabili con le concentrazioni di diossine (0,1 – 1 pg TE\g) riscontrate in pesci e molluschi edibili, provenienti da aree che risentono di un impatto antropico diretto moderato” (Sentenza pag.876).

L’appellante rileva che in realtà la concentrazione media di diossine nei bivalvi campionati nell’area industriale della laguna, rilevata nell’ambito della perizia Bonamin, Di Domenico et al. (1997) è pari a 1,85 pg I-TE\g. e viene a collocarsi al secondo posto, in ordine di grandezza, della serie di 11 dati riportati a pag. 876 della sentenza e desunti da una pubblicazione della Agenzia Europea per l’ambiente TasK 4 e da una pubblicazione dell’EPA.

 

Il P.M. ricorda anche un documento dell’Unione Europea sull’esposizione, per ingestione attraverso la dieta, a diossine e PCB correlati nei paesi membri pubblicato nel giugno 2000. Nella Tabella 5 di tale documento sono elencati 49 valori relativi ad alimenti ittici europei campionati nel 1995-1999 e solo 5 sono superiori alla concentrazione media (1,85 pg I-TE\g) rilevata nei bivalvi di Venezia dalla perizia Bonamin, Di Domenico et al.

Risulta quindi evidente, per l’appellante, che la concentrazione di diossine nei bivalvi della laguna è superiore a quella (0,1 – 1 pg TE\g) riscontrata nei pesci e nei molluschi provenienti da aree con impatto antropico diretto moderato.

Osserva questo Collegio che i dati reali della contaminazione sulla base di tutti i dati raccolti nel corso del dibattimento (analisi effettuate dal Consulente del P.M. Raccanelli, dal laboratorio di Berlino, dai consulenti Zapponi, Di Domenico e Turrio Baldassarri) hanno portato ad indicare un valore medio di contaminazione da diossine pari a 1,09 pg I-TE\g sostanzialmente diverso da quello indicato dal P.M.

 

La spiegazione di questa diversità si ricava dal fatto che l’appellante prende in considerazione solamente i risultati della perizia Bonamin che effettivamente era arrivata a determinare un valore medio di contaminazione pari a 1,85 I-TE\g.

Esaminando il contenuto della perizia Bonamin si rileva che nella stessa compare un campione di cozze che presenta un valore di concentrazione particolarmente elevato (4,9 pg I-TE\g); si tratta di un valore che lo stesso consulente del P.M. dott. Zapponi definisce come “raro” ( V. relazione “Concentrazioni nei bivalvi dell’area industriale di Venezia: alcune considerazioni aggiuntive” del 15\5\2001).

Quindi la perizia Bonamin si basa sull’esame di 7 campioni di cui 2 concernenti cozze (uno dei quali con un valore di concentrazione definito “raro”), a fronte di 9 campioni di vongole esaminati complessivamente da Raccanelli e dal laboratorio di Berlino e risultati avere un valore medio di concentrazione pari a 1,09 pg I-TE\g.

 

Bisogna inoltre ricordare che nel presente processo tutti i consulenti (sia dell’accusa che della difesa) hanno sempre affrontato il problema dell’esposizione dell’uomo a contaminanti attraverso il consumo di vongole pescate abusivamente nei canali industriali, mentre non si sono mai occupati di cozze per una serie di motivi ben precisi: 1) ai pescatori abusivi non sono mai state sequestrate cozze; 2) in tutte le consulenze del P.M. sono state raccolte ed analizzate vongole e mai cozze; 3) anche l’indagine del laboratorio di Berlino ha preso in considerazione solamente le vongole.

Comunque l’obiezione dell’appellante risulta totalmente irrilevante ai fini della decisione in quanto anche la concentrazione di 1,85 pg\g indicata nella perizia Bonamin non è neppure la metà di quella indicata dalla Comunità Europea (con il Regolamento n.2375\2001 del 29\11\2001) per la edibilità dei prodotti ittici (pari a 4 pg\g) ed è lontana anche dal “livello di attenzione” che fa scattare le indagini per la bonifica dei siti fissato a 3 pg\g dalla Raccomandazione della Commissione Europea emanata il 4\3\2002 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee in data 9\3\2002.

 

3.9.6       Microinquinanti tossici nella laguna di Venezia. Le diossine e i composti simili: La perizia tecnica di V. Bonamin, A. Di Domenico, R. Fanelli, L. Turrio Baldassarri (1977), la correlata Consulenza tecnica di L. Simonato, L. Tomatis, P. Vineis e G.A. Zapponi (1998) e l’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità (A. Di Domenico, L. Turrito Baldassarri, G. Ziemacki, 1996).

Il P.M. lamenta il fatto che le perizie e consulenze tecniche indicate in intestazione siano state più volte citate ed utilizzate nel corso del procedimento e nella stesura della motivazione della sentenza, ma frequentemente in modo impreciso e senza considerarle in tutti gli aspetti di rilievo.

Prima di procedere nell’esame di questa doglianza occorre fare una breve premessa per ricostruire la successione delle indagini, delle perizie e delle consulenze in questione.

Dal punto di vista temporale vi è prima di tutto una indagine dell’Istituto Superiore di Sanità datata 21\11\96 sulla contaminazione di bivalvi nelle aree di allevamento e mitilicultura della Laguna Veneta, svolta dagli esperti Alessandro Di Domenico, Luigi Turrio Baldassarri e Giovanni Ziemacki.

 

Tale indagini aveva avuto come oggetto 20 campioni di biota raccolti in larga maggioranza in zone della Laguna Veneta ufficialmente destinate all’allevamento ed alla pesca in quanto un solo campione era stato prelevato in area industriale ed uno in area prevalentemente o esclusivamente urbana; la media del complesso dei campioni aveva fornito un valore di concentrazione di diossine di circa 0,52 pg I-TE\g e nel rapporto conclusivo gli esperti avevano osservato che le concentrazioni rilevate erano confrontabili “con livelli frequentemente riscontrati …in aree sotto l’influenza di un impatto antropico diretto da moderato a trascurabile”.

Nel 1997 era stata disposta dal P.M. Ennio Fortuna la perizia Bonamin, della quale erano stati coautori anche Di Domenico, Turrio Baldassarre e Ziemacki (autori dell’indagine ISS), volta ad indagare l’impatto degli scarichi industriali sulla qualità dell’ambiente e dei prodotti ittici lagunari.

Tale perizia aveva recepito le determinazioni di PCDD e PCDF già effettuate dall’indagine ISS ed aveva ampliato i campionamenti nell’area industriale.

 

Al contempo era stata disposta una consulenza tecnica diretta a valutare l’esposizione umana alla diossina e ad analizzare e stimare i rischi tossicologici con incarico conferito a L. Simonato, L. Tomatis, P. Vineis e G.A. Zapponi.

Il P.M. nei motivi d’appello contesta quanto sostenuto nella sentenza impugnata in relazione all’indagine ISS e alla perizia Bonamin e cioè che le conclusioni dell’indagine ISS fossero “non dissimili da quelle prese dagli stessi studiosi (Di Domenico, Turrio Baldassarri e Ziemacki) nella sede della relazione di consulenza redatta per la pubblica accusa”.

Secondo l’appellante i periti nominati dal P.M. avevano fatto un ampio campionamento soprattutto in zona industriale con 12 campioni (9 su bivalvi e 3 su pesci) non compresi nell’indagine ISS ed il perito Bonamin era giunto a determinare un valore medio di contaminazione per i bivalvi dell’area industriale pari a 1,85 pg I-TE\g ben diversa da quella determinata nel corso dell’indagine precedente.

 

Le affermazioni del P.M. non risultano condivisibili. In primo luogo sembra davvero difficile parlare  di ampio campionamento per la perizia Bonamin rispetto alla indagine ISS. Infatti i 9 campioni di bivalvi descritti nella perizia sono così composti: 2 campioni riguardano cozze che, per i motivi esposti nel paragrafo precedente, devono ritenersi ininfluenti al fine di valutare l’esposizione dei consumatori veneziani; un campione è lo stesso esaminato nell’indagine ISS del 1996 e 5 sono gli stessi esaminati nell’altra relazione dei consulenti del P.M. Sesana, Micheletti e Muller. Vi è quindi un solo nuovo campione che ha fornito un valore pari a 1,2 pg\g.

In buona sostanza per quanto riguarda le concentrazioni di diossine nelle vongole (e non nelle cozze) dei canali industriali si può affermare  che i valori medi non si discostano sostanzialmente da quelli rilevati nello studio ISS.

 

Restano quindi valide le conclusioni di tale studio nel senso che le concentrazioni riscontrate “sono di fatto propriamente confrontabili con i livelli frequentemente riscontrati (circa 0,2 – 1 pg\I-TE\g) degli stessi contaminanti in pesci e molluschi normalmente utilizzati per l’alimentazione umana provenienti da aree sotto l’influenza di un impatto antropico diretto da moderato a trascurabile”.

Le stesse conclusioni sono raggiunte dagli altri consulenti del P.M. Sesana, Micheletti e Muller che dopo aver analizzato altri campioni di vongole e aver confrontato la concentrazione di diossine rilevata nelle stesse con quelle rilevate nella letteratura, affermano: “i risultati sui molluschi della laguna di Venezia, se riferiti alle indagini norvegesi, coincidono quasi completamente con i valori appartenenti alla parte superiore della scala di valori normali” (relazione Sesana et al. pag.4).

 

Questo dato viene ribadito anche da altri consulenti del P.M. e cioè Simonato, Tomatis, Vineis e Zapponi che nella loro relazione scrivono: “ le analisi di vongole (campioni 7484\A e 4411\A) provenienti da aree sottoposte a inquinamento industriale o urbano effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità sono caratterizzate da valori 0,87 – 1,3 pg I-TE\g, …confrontabili con quelli di altre aree a contaminazione moderata o bassa”.

Per quanto riguarda la Consulenza tecnica di Simonato, Tomatis, Vineis e Zapponi, il P.M. lamenta il fatto che sia stata citata nella sentenza in modo molto parziale tanto da impedirne l’appropriata e corretta comprensione.

E’ vero che tale consulenza, a seguito della presentazione di uno studio epidemiologico descrittivo geografico, afferma testualmente: “Non emergono, dall’analisi di questi dati, elementi che depongono a favore di un rischio più elevato nella popolazione lagunare rispetto a quella della terraferma” (frase riportata nella motivazione della sentenza), ma poi aggiunge : “ mentre dall’insieme della crescita nel tempo di alcune sedi tumorali (LNH, mammella, rene, tutti i tumori) emerge la necessità di indagini più approfondite per poter individuare possibili fattori eziologici, tra i quali vanno inclusi anche esposizioni legate all’inquinamento della laguna” (frase non citata nella sentenza).

 

Alla consulenza è stata allegata una tabella che mette in evidenza nel periodo tra il 1987 e il 1994 un incremento, rispetto al riferimento regionale, statisticamente significativo, di tutti i tumori nell’area di Venezia e di Mestre, dei tumori della mammella nelle donne di Venezia e di Mestre e dei linfomi non Hodgkin nei maschi di Venezia. Si tratta di un incremento che merita grande attenzione e che non è coerente con l’affermazione della sentenza a pag.1011: “Conclusioni incompatibili con aumento di rischio nello scenario delineato in imputazione mette a capo la consulenza espletata nel 1997 per conto della Procura Circondariale Veneziana, dagli esperti Tomatis, Simonato, Vineis e Zapponi”. In realtà l’attestato incremento di tumori è per definizione compatibile con un aumento di rischio.

 

Inoltre la Consulenza di Simonato et al. include varie conclusioni e raccomandazioni non citate nella motivazione della sentenza. In particolare si conclude per la presenza di una contaminazione della Laguna in gran parte dovuta a scarichi industriali, che comprende varie sostanze cancerogene bioaccumulabili, le quali per un’esposizione prolungata anche a piccole dosi possono comportare un incremento di rischio cancerogeno, sia con effetto additivo che sinergico. La consulenza raccomanda poi l’eliminazione di scarichi in laguna suscettibili di incrementare l’inquinamento, il divieto di consumo e immissione sul mercato di prodotti ittici provenienti dalle aree industriali della laguna, la definizione appropriata delle aree in cui consentire la pesca e l’allevamento, la bonifica e il monitoraggio dell’inquinamento.

 

Rileva l’appellante che di tutto ciò nulla si dice in sentenza.

Ad avviso di questo Collegio il Tribunale non ha trascurato il contenuto della consulenza Simonato et al., ma lo ha valutato, anche se in maniera concisa, dandone una interpretazione sostanzialmente corretta.

Quanto al risultato ottenuto dalla consulenza, consistito nell’accertamento di un incremento totale dei tumori, un incremento dei tumori della mammella tra le donne e un incremento dei linfomi non Hodgkin, lo stesso P.M. riconosce che non è adeguatamente identificabile la causa di tale fenomeno tanto che gli stessi consulenti prospettano la necessità di indagini più approfondite per poter individuare possibili fattori eziologici fra i quali vanno ovviamente inclusi anche le esposizioni legate all’inquinamento della laguna.

 

Le conclusioni dello studio di Simonato et al. confermano che allo stato attuale non è possibile dimostrare alcun rischio per la salute umana direttamente collegabile alle condizioni della laguna.

Non vi è prova scientifica che l’aumento riscontrato del numero dei tumori sia collegabile a esposizione per ingestione.

Giustamente il P.M. afferma che il risultato ottenuto dalla consulenza Simonato merita grande attenzione. Ma questo invito all’attenzione può essere rivolto a chi ha la responsabilità di una adeguata politica sanitaria ed ambientale, non ad un’autorità giudiziaria chiamata a decidere sulla responsabilità di singoli individui che devono rispondere di reati gravi come il disastro, l’avvelenamento e l’adulterazione di sostanze alimentari. Ai fini del giudizio penale sono sempre necessari dati di fatto adeguatamente provati.

Anche le raccomandazioni contenute nella consulenza come ad esempio quella di escludere dalla pesca le aree della laguna caratterizzate da inquinamento industriale e le aree con intenso traffico di motobarche o quella di eliminare gli scarichi in laguna suscettibili di incrementare l’inquinamento suonano come semplici indicazioni di ciò che sarebbe opportuno fare in vista di una maggior tutela dei consumatori di prodotti ittici.

Nella stessa consulenza, però, non vi è alcuna prova che il consumo di pesci e molluschi provenienti dalla laguna sia pericoloso per la salute non essendo stato individuato alcun elemento probatorio a sostegno di tale ipotesi.

 

La stessa raccomandazione fatta dai consulenti di vietare il consumo e l’immissione sul mercato di prodotti ittici provenienti dalle aree industriali della laguna risulta essere una misura suggerita dagli stessi a scopo cautelativo, ma non è una indicazione di rischio per la salute dei consumatori.

Basterà ricordare che (come si è già accennato in precedenza) l’Unione Europea (con il Regolamento n.2375\2001 del 29\11\2001 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea come Legge 231\5 del 6\12\2001) ha individuato la concentrazione limite (CL) proprio per le diossine ammesse nei prodotti ittici, ai fini della loro edibilità e della loro libera commercializzazione, nell’ambito dei paesi UE in 4 WHO-TEQ\g di prodotto fresco, concentrazione che è più di quattro volte superiore a quella media riscontrata dagli esperti dell’accusa nelle vongole dei canali industriali.

 

A ciò si deve aggiungere quanto stabilito dalla Raccomandazione della Commissione Europea emanata il 4\3\2002 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee in data 9\3\2002 relativa alla riduzione della presenza di diossine e furani nei mangimi e negli alimenti. Tale Raccomandazione suggerisce un nuovo modo per affrontare il problema delle concentrazioni di diossine negli alimenti basato sulla introduzione di una nuova classe di livelli di concentrazione che prendono il nome di “livelli d’azione” che si distingue dalla classe di valori presi in considerazione per la edibilità dei prodotti. Il documento della Commissione Europea raccomanda, qualora le concentrazioni di diossine negli alimenti superino i “livelli d’azione”, l’avvio di indagini per individuare la fonte di contaminazione dell’alimento in modo da adottare i provvedimenti necessari per risolvere il problema; in ogni caso l’alimento resta comunque edibile e commerciabile fino a quando la concentrazione di diossine non supera il livello di concentrazione limite di 4 pg\ WHO-TEQ\g.

 

La stessa Raccomandazione fissa per le diossine nei prodotti ittici il “livello d’azione” in 3 pg\g di prodotto fresco. Ciò significa che il “livello d’azione” è di circa 3 volte superiore a quello medio riscontrato nelle vongole dei canali industriali ed è quasi 7 volte superiore alla concentrazione media di diossine presente in tutti i molluschi raccolti in laguna.

In conclusione per i parametri europei le vongole raccolte nei canali industriali di Porto Marghera non solo sono edibili, ma la quantità di diossine in esse presenti è tale da non consigliare neppure l’adozione di provvedimenti urgenti per la bonifica dei siti di provenienza.

 

CAPITOLO   3.10   APPELLO  P.M.

IMMOTIVATA E CONTRADDITORIA ASSOLUZIONE DEGLI IMPUTATI DA TUTTE LE CONTRAVVENZIONI LORO RISPETTIVAMENTE CONTESTATE CON PERMANENZA IN ATTO.

In questo capitolo il P.M. impugna la assoluzione pronunciata dal Tribunale, in maniera immotivata e contradditoria, per tutte le contravvenzioni contestate agli imputati nell’ambito del secondo capo d’imputazione.

Ricorda l’appellante che già nell’originario capo d’imputazione erano contestate varie contravvenzioni in materia ambientale e di igiene del lavoro per fatti commessi “fino all’autunno del 1995”; con la contestazione suppletiva effettuata all’udienza del 13\12\2000 erano state contestate altre violazioni contravvenzionali nonché la permanenza in atto.

Il Tribunale aveva assolto tutti gli imputati da tutte le contravvenzioni perché il fatto non sussiste senza alcuna motivazione e nonostante le prove raccolte nel corso dell’istruttoria dibattimentale.

La doglianza del P.M. risulta parzialmente fondata.

Occorre però fare una preliminare distinzione fra le varie contravvenzioni che l’appellante elenca nei suoi motivi.

In vero il capo d’imputazione è chiaramente incentrato sulla contestazione dei delitti di avvelenamento, adulterazione e disastro, ma vi sono menzionati anche numerosi riferimenti normativi che richiamano fattispecie contravvenzionali.

Vi è il richiamo agli artt. 17 e 18 del D.P.R. 19\3\1956 n.303 “Norme generali per l’igiene del lavoro”; agli artt.1 sexies d.l. 27\6\85 n.312 “Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale”; all’art. 9 D.Lgs.15\8\91 n.277 in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici.

 

Per questo primo gruppo di contravvenzioni che il P.M. asserisce di aver contestato con la formulazione del capo d’imputazione bisogna rilevare che oltre al riferimento numerico agli articoli manca qualsiasi descrizione di condotte, attive od omissive, corrispondenti alle contravvenzioni richiamate, né vi è alcuna indicazione di carattere temporale che consenta di individuare l’inizio dell’attività punibile e, soprattutto, quali degli imputati debbano rispondere per tali violazioni.

In mancanza degli elementi sopra indicati, essenziali per una corretta e giuridicamente valida contestazione di contravvenzioni, il Tribunale ha giustamente valutato tale elencazione di norme come contestazione di colpa specifica e cioè come modalità di causazione degli eventi di avvelenamento, adulterazione e disastro con violazione di norme cautelari.

 

La situazione appare invece diversa per altre norme richiamate nel capo d’imputazione e cioè per gli artt.3, comma 3°, 1, comma 1° lett. a) b) c), 9, 10, 16, 24, 25, commi 1,2 e 3, 26, 31 e 32 D.P.R. 10\9\82 n.915 recante norme di attuazione delle direttive CEE relative ai rifiuti, poi sostituito dal D.Lgs. 5\2\97 n.22.

In questo caso il capo d’imputazione descrive condotte astrattamente idonee ad integrare la violazione delle disposizioni elencate. Si tratta di quella parte della contestazione relativa alla asserita gestione abusiva delle discariche di cui si è parlato a lungo nei primi capitoli di questa motivazione. In buona sostanza, come si ricorderà, si è ritenuto che gli imputati si fossero attenuti alle disposizioni regolanti la gestione dei rifiuti dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 e che su di loro non gravasse l’obbligo di attivarsi per risanare i siti inquinati dai predecessori. Non sembra necessario riproporre in questa sede gli argomenti già esposti a sostegno di tali conclusioni che vengono ora integralmente richiamate.

 

Si può quindi affermare che gli imputati dovevano essere assolti dalle contravvenzione in materia di gestione di rifiuti perché il fatto non sussiste, così come ha deciso il Tribunale.

Completamente diversa appare invece la situazione per quanto riguarda la normativa di cui agli artt.9,ult.co., 15, 21, 25 e 26 Legge 10\5\1976 n.319 recante norme per la tutela delle acque dall’inquinamento; artt.10, 13,15 e 26 Legge 15\3\63 n.366 “Nuove norme relative alle lagune di Venezia e Marano”; artt.1 e 9 Legge 16\4\73 n.171 “Interventi per la salvaguardia di Venezia” e art.3 D.P.R. 20\9\73 n.962 recante “Norme per la tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque”.

In questo caso il capo d’imputazione descrive in modo preciso la condotta contestata agli imputati e cioè l’aver effettuato nelle acque della laguna scarichi idrici con concentrazioni di sostanze inquinanti superiori ai limiti previsti dal D.P.R. 962\1973. In particolare si è contestato agli imputati di aver effettuato “scarichi dei fanghi, dei catalizzatori esausti (esempio quelli a sali di mercurio) e degli altri sottoprodotti di risulta dei trattamenti, attraverso gli scarichi 2 e 15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai limiti previsti dal D.P.R. 962\73”.

 

La generica descrizione delle condotte configuranti le contravvenzioni in esame risulta integrata e completata dalla documentazione acquisita agli atti processuali e cioè dai numerosissimi bollettini interni delle analisi compiute sugli scarichi del Petrolchimico il cui contenuto è stato ampiamente discusso dalle parti nel corso dell’istruttoria dibattimentale.

Da tali bollettini si ottiene, oltre alla conferma dei numerosi superamenti dei parametri tabellari di cui al D.P.R. 962\73 da parte degli scarichi del Petrolchimico, anche l’indicazione temporale delle singole violazioni.

La difesa degli imputati non può quindi sostenere la tesi della mancata contestazione formale di tali contravvenzioni in quanto la formulazione del capo d’imputazione, integrata dalla documentazione acquisita nel corso del dibattimento e discussa nel contraddittorio delle parti, ha messo in grado gli imputati di difendersi nel migliore dei modi.

Per altro si tratta di circostanze di fatto che nessuno degli imputati ha mai contestato, anzi i consulenti della difesa hanno esaminato e studiato i bollettini non già per negare l’esistenza dei superamenti dei limiti tabellari da parte degli scarichi, ma per dimostrare il progressivo miglioramento della situazione confermata dalla discesa della percentuale di superamenti dal 4,4% del 1990 all’1% del 2000.

Ha quindi sbagliato il Tribunale quando ha assolto gli imputati dalle contravvenzioni in esame perché il fatto non sussiste.

In realtà le prove acquisite dimostravano l’avvenuto superamento dei limiti tabellari di cui al D.P.R. 962\73 in numerose e ripetute occasioni e non poteva esserci dubbio sulla sussistenza delle contravvenzioni.

 

In questa sede si deve però prendere atto del decorso del termine massimo di prescrizione di anni quattro e mesi sei, sia se calcolato dal luglio 1994 (epoca dalla quale non si ha più in atti la prova documentale dei superamenti tabellari), sia se calcolato dall’autunno del 1995 come indicato nella contestazione originaria.

Sul punto il P.M. ha fatto presente nei suoi motivi d’appello che in data 13\12\2000 aveva integrato il capo d’imputazione originario contestando al permanenza in atto per tutte le contravvenzioni.

Osserva il Collegio che in questa sede interessa esaminare la questione della permanenza posta dal P.M. esclusivamente con riferimento alle contravvenzioni relative al superamento dei limiti tabellari in quanto per tutte le altre contravvenzioni si ritiene di confermare la assoluzione perché il fatto non sussiste.

 

Per quanto riguarda le contravvenzioni concernenti il superamento dei limiti tabellari risulta invece importante, ai nostri fini, decidere se possa o meno parlarsi di permanenza, in quanto la soluzione del problema in un senso o nell’altro viene ad incidere sul calcolo del termine di prescrizione.

L’appellante sostiene la tesi della configurabilità della natura permanente del reato relativo al superamento dei limiti tabellari richiamando una decisione delle Suprema Corte in cui si afferma testualmente: “ La contravvenzione di cui all’art.21, terzo comma della legge n.319 del 1976 è caratterizzata da un elemento ulteriore rispetto ai casi previsti dai due commi precedenti, indicati nello stesso articolo, ossia dal superamento nello scarico dei limiti di accettabilità……Trattasi, dunque, di reato permanente, poiché la omissione colposa di misure atte ad evitare che lo scarico superi i limiti della tabella, implicando un dovere positivo di controllo e di intervento, non si risolve in un inadempimento istantaneo, ma si protrae nel tempo. Il prelievo dei campioni evidenzia soltanto il protrarsi di una azione antigiuridica. E’ compito dell’imputato offrire la prova che la permanenza è cessata per avere egli compiuto atti idonei a tale scopo” (Cass. Pen. 21 luglio 1988 n.8318).

 

Analogo principio vale per quanto riguarda il reato relativo alla mancata adozione di misure idonee ad evitare l’aumento temporaneo dell’inquinamento: “ E’ omissivo permanente il reato previsto dagli artt.21 e 25 legge 10 maggio 1976 n.319, che consiste nel mancato adempimento dell’obbligo di adottare misure necessarie ad evitare un aumento anche temporaneo dell’inquinamento, poiché la situazione dannosa o pericolosa si protrae nel tempo a causa del perdurare della condotta antigiuridica di colui che effettua lo scarico” (Cass.pen sez. III, 7 settembre 1987 n. 9776).

Ad avviso di questo Collegio il sopra indicato orientamento della Cassazione appare poco convincente soprattutto perché prevede esplicitamente una inversione dell’onere della prova in contrasto con i principi del nostro ordinamento.

 

In effetti la Cassazione, in epoca più recente, ha corretto tale indirizzo giurisprudenziale stabilendo che il reato di cui all’art.21, comma 3° della legge 319\76 che consiste nel superamento dei limiti di accettabilità prescritti “non può essere ritenuto di natura permanente a meno che non si provi in concreto che lo scarico extratabellare sia continuo, e cioè che l’alterazione della accettabilità ecologica del corpo recettore si protragga nel tempo senza soluzione di continuità per effetto della persistente condotta volontaria del titolare dello scarico” (Cass. Sez. III, 16 novembre 1993).

Nello stesso senso si è pronunciata la Cassazione in data 3 febbraio 1995 con specifico riferimento alla legge 171\73 “Interventi per la salvaguardia di Venezia” statuendo che: “Mentre lo scarico oltre i limiti tabellari, di cui all’art.9, sesto comma ultima parte della Legge 16\4\73 n.171 è per sua natura reato non permanente, essendo legato ad un accertamento specifico in un dato tempo, invece lo scarico senza autorizzazione, di cui al medesimo art.9, sesto comma, prima parte citata legge n.171 del 1973, la natura del reato permanente è collegata alla persistenza della condotta omissiva del titolare fino a quando non risulti provato il possesso del titolo abilitativo rilasciato da parte della pubblica amministrazione competente”.

Quest’ultimo orientamento appare maggiormente accettabile anche perché prevede che la prova della continuità del carattere extratabellare dello scarico deve essere fornita dall’accusa secondo i fondamentali principi del nostro ordinamento.

Bisogna ricordare che nel caso del Petrolchimico le prove raccolte attestano solo superamenti occasionali dei limiti tabellari (anche se con una certa frequenza), ma non vi è prova di una continuità di tale situazione illegittima.

In conclusione, ad avviso di questo Collegio, si impone una declaratoria di improcedibilità nei confronti degli imputati Porta, Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri, Burrai, Necci, Parillo e Patron relativamente alle contravvenzioni concernenti i superamenti tabellari di cui al D.P.R. 962\73 perché estinte per intervenuta prescrizione ed in tal senso deve essere riformata sul punto l’impugnata sentenza.

 

CONCLUSIONI SUL II° CAPO DI IMPUTAZIONE

Dopo avere esaminato le singole doglianze proposte dal P.M. e dalle altre parti appellanti nei confronti della sentenza impugnata relativamente al secondo capo d’imputazione, sembra necessario fare una valutazione complessiva delle decisioni del Tribunale sui vari aspetti dell’ipotesi accusatoria.

Come si è già detto nella premessa, la base dell’accusa era costituita dalla contestazione dei reati di avvelenamento e adulterazione colposa di acque o sostanze destinate all’alimentazione.

Queste accuse sono risultate in fatto non provate.

Per quanto riguarda i pesci e i molluschi pescati nei canali industriali bisogna ricordare che i risultati delle analisi dei campioni, ampiamente discussi nel corso del dibattimento, hanno sostanzialmente escluso l’esistenza di un pericolo reale per la salute pubblica derivante dal consumo alimentare di tale tipo di biota.

 

Le concentrazioni di inquinanti rilevate nei pesci e nei molluschi pescati nei canali industriali sono risultate inferiori alle Concentrazioni Limite stabilite dalla legge per i singoli inquinanti ai fini della edibilità; per gli inquinanti rispetto ai quali non risultava fissata per legge una Concentrazione Limite si è appurato che la loro presenza rientrava comunque nei limiti considerati in tutto il mondo normali per la edibilità.

In considerazione del fatto che gli abitanti della laguna hanno una propensione al consumo di prodotti ittici particolarmente elevata, si è calcolato con cura particolare il consumo di tali prodotti da parte dei veneziani sulla base di uno studio specifico condotto dallo stesso Comune di Venezia.

Il consumo così quantificato di prodotto ittico è stato poi moltiplicato per le dosi medie di inquinanti riscontrate nei mitili pescati nei canali industriali ottenendo la dose media di assunzione di tali inquinanti nel lungo periodo da parte dei consumatori veneziani.

 

I dati ottenuti sono apparsi tranquillizzanti in quanto le dosi di assunzione dei veneziani sono risultate di molto inferiori rispetto alle classi di dosi astratte capaci di generare effetti dannosi osservati; addirittura sono risultati inferiori perfino ai limiti-soglia fissati da varie agenzie internazionali in via precauzionale e quindi dotati di un fattore di sicurezza che li tiene lontani dalle soglie di pericolo reale.

Gli appellanti hanno tentato di mettere in discussione tali risultati senza però riuscirvi, come si è visto in precedenza nel corso dell’esame dei singoli motivi sul punto.

Si deve altresì escludere la sussistenza di un pericolo reale per la salute pubblica derivante dalle acque di falda.

La tesi accusatoria secondo la quale le acque di falda sarebbero state contaminate dagli inquinanti provenienti dai rifiuti tossico-nocivi accumulati nel corso degli anni in varie discariche create sia all’interno che all’esterno del Petrolchimico non ha trovato conferma.

Infatti nessun pozzo ad uso umano o ad uso agricolo situato all’esterno del Petrolchimico è risultato contaminato in base alle analisi eseguite ed acquisite agli atti del processo. Le acque della prima falda sottostante l’impianto industriale sono risultate assolutamente non utilizzabili a fini antropici per la loro qualità (eccessiva salinità), per la loro insignificante quantità nonché per il divieto tassativo di emungimento al fine di evitare il fenomeno della subsidenza.

Il contributo fornito dalle acque della prima falda sottostante il Petrolchimico (pacificamente contaminate) all’inquinamento dei canali industriali è risultato sostanzialmente insignificante.

Quindi anche sotto questo profilo si può escludere l’esistenza di un qualsiasi pericolo reale per la salute pubblica.

Nel corso di questo processo si è invece accertato in modo chiaro il grave inquinamento dei canali industriali Nord e Brentella, situati nell’ambito della prima zona industriale, e che tale inquinamento tende a diminuire man mano che ci si sposta verso la seconda zona industriale ove è insediato il Petrolchimico.

 

Si è altresì appurato che tale inquinamento è stato provocato dalle industrie che operavano fin dagli anni ’20 nella prima zona industriale e che, gradatamente si è diffuso, a seguito dei dragaggi e dei movimenti dei natanti, fino a raggiungere i canali della seconda zona industriale.

A tutto ciò si deve aggiungere anche il fatto, egualmente appurato nel corso del presente processo, che la seconda zona industriale è stata interamente costruita sui rifiuti solidi provenienti dalla prima zona industriale e che tali rifiuti, a contatto con le acque dei canali, hanno continuato a generare inquinamento.

Come si è già detto, il contributo apportato dal Petrolchimico all’inquinamento delle acque e dei sedimenti dei canali è risultato estremamente modesto in quanto dovuto all’afflusso delle acque di falda provenienti dal sottosuolo contaminate dai rifiuti delle discariche e agli scarichi idrici nelle occasioni in cui superavano i limiti tabellari.

 

In presenza di tale situazione di fatto circa l’origine dell’inquinamento dei canali si è proceduto alla valutazione delle concentrazioni di inquinanti nei sedimenti della seconda zona industriale e si è appurato che tali concentrazioni non raggiungono mai il livello degli effetti osservati e non superano neppure i limiti di accettabilità determinati dalle varie agenzie internazionali con l’applicazione di fattori di sicurezza.

A questo punto, dopo aver escluso per i motivi sopra indicati, la sussistenza dei reati di avvelenamento e adulterazione, resta da chiedersi se possa comunque ravvisarsi la sussistenza del contestato reato di disastro colposo in relazione al contributo che il Petrolchimico ha fornito nel corso degli anni all’inquinamento dei canali industriali e dei relativi sedimenti e, più in generale, al deterioramento ambientale dell’ecosistema lagunare.

 

Agli imputati viene contestato il reato di “disastro innominato colposo” ai sensi degli artt.434 e 449 c.p.; per la dottrina e la giurisprudenza il disastro sussiste se vi è esposizione a pericolo della pubblica incolumità provocata da un evento di danno per persone e cose.

Non può accettarsi una definizione di disastro che non preveda il requisito del danno per le persone e per le cose incentrandosi unicamente sul pericolo per la pubblica incolumità perché in tal caso si arriverebbe alla punibilità del mero pericolo di disastro innominato al di fuori dei casi in cui il mero pericolo di disastro è normativamente punito ex art.450 c.p. e cioè dei casi tassativamente indicati in tale articolo ( “pericolo di disastro ferroviario, di un’inondazione, di un naufragio, o della sommersione di una nave o di un altro edificio natante”).

 

Ma se per la sussistenza del disastro innominato colposo è necessario un evento di danno per le persone e per le cose, è altresì necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti.

Nel caso in esame non è possibile parlare di un evento di danno grave e complesso nel senso naturalistico dell’espressione in quanto l’inquinamento dei canali lagunari si è verificato progressivamente nel corso degli anni ad opera prevalentemente di varie attività industriali estranee al presente procedimento e con un modesto contributo del Petrolchimico.

Comunque anche volendo accettare la tesi dell’evento di danno a formazione progressiva, manca il secondo requisito del pericolo per la pubblica incolumità che, notoriamente nei delitti contro l’incolumità pubblica, è il pericolo concreto.

In altre parole è sempre necessaria l’esistenza di un pericolo reale e concreto che deve essere accertato sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili e formulando un giudizio di massima concretezza sulla base di tutte le circostanze esistenti al momento del fatto.

Il presente procedimento non è riuscito ad evidenziare la presenza di un concreto pericolo reale derivante dall’inquinamento cagionato dal Petrolchimico perché i sedimenti provenienti dai canali  circostanti lo stabilimento hanno evidenziato concentrazioni di inquinanti che non raggiungono mai il livello degli effetti osservati e non superano neppure i precauzionali limiti di accettabilità.

In conclusione risulta condivisibile la decisione del Tribunale di escludere la sussistenza dei delitti di disastro innominato colposo, di avvelenamento, di adulterazione e degli altri reati contravvenzionali contestati diversi da quelli che verranno di seguito indicati; conseguentemente la sentenza impugnata deve essere confermata, fatta eccezione per il capo relativo alle contravvenzioni concernenti il superamento dei limiti tabellari di cui al D.P.R. 962\73 da parte degli scarichi idrici del Petrolchimico per le quali si impone una parziale riforma con declaratoria di improcedibilità essendo le stesse estinte per prescrizione.

 

Nei termini di cui sopra va dunque parzialmente riformata l’impugnata sentenza, e gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte vanno conseguentemente condannati al pagamento in solido delle spese processuali dei due gradi del giudizio.

Attesa la varietà e complessità delle numerose questioni sottoposte all’esame della Corte, il termine per la redazione dei motivi della decisione è fissato, ex art. 544, 3° co., cpp, in novanta giorni.

 

P.Q.M.La Corte d’Appello di Venezia-seconda sez. penale-

 

Visti gli artt. 605, 531, 533, 535, 592, 538, 539, 541 c.p.p., 62 bis c.p.,

in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Venezia in data 2/11/2001 appellata dal P.M., dalle Parti Civili specificate in intestazione, e dall’imputato Cefis Eugenio, dichiara non doversi procedere nei confronti di Cefis Eugenio e di Sebastiani Angelo in ordine ai reati loro ascritti perché estinti per morte degli imputati medesimi; dichiara non doversi procedere nei confronti di Bartalini Emilio, Calvi Renato, Grandi Alberto, Gatti Pier Giorgio e D’Armino Monforte Giovanni in ordine al reato di lesioni personali colpose consistite in malattia di Raynaud in danno di Donaggio Bruno per essere estinto per intervenuta prescrizione; dichiara non doversi procedere nei confronti dei predetti imputati in ordine ai reati di lesioni personali colpose consistite in epatopatie in danno di Bartolomiello Ilario, Poppi Antonio, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe, Sicchiero Giorgio, nonché in danno di Brussolo Sergio, Granziera Enrico, Foffano Ferdinando, Leonardi Giannino, Pardo Giancarlo e Serena Rino, perché estinti per intervenuta prescrizione; escluse, quanto ai reati di omicidio colposo per angiosarcoma epatico, le aggravanti di cui al 3° comma dell’art. 589 c.p., 61, nn 1, 3, 5, 7, 8 e 11 c.p., nonché la continuazione ex art. 81 cpv c.p., dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati Bartalini, Grandi e Gatti in ordine al reato di cui all’art. 589, 1° e 2° co., c.p., ai danni di Simonetto Ennio, nonché nei confronti degli imputati medesimi e degli imputati Calvi e D’Arminio Monforte in ordine ai reati ex art. 589, 1° e 2° co., c.p. ai danni di Agnoletto Augusto, Zecchinato Gianfranco e Pistolato Primo, perché estinti tutti i reati stessi per intervenuta prescrizione; dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte in ordine ai reati ex art. 589, 1° e 2° co., c.p., ai danni di Battaggia Giorgio, Fiorin Fiorenzo e Suffogrosso Guido, concesse prevalenti attenuanti generiche, perché estinti per prescrizione; dichiara gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte, esclusa la cooperazione colposa ex art. 113 c.p. ed applicato l’art. 41 c.p., colpevoli del reato ex art. 589, 1° e 2° co., c.p., ai danni di Faggian Tullio, e, concesse prevalenti attenuanti generiche, li condanna alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno; concede agli imputati stessi i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna; condanna i medesimi predetti imputati, nonché il responsabile civile Edison S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, al risarcimento, in solido, dei danni subiti dalle costituite parti civili prossimi congiunti di Faggian Tullio, da liquidarsi in separata sede, assegnando intanto ai figli Faggian Stefano e Faggian Alessandro la somma di euro 50.000,00 (cinquantamila) ciascuno, ed ai fratelli e sorelle costituiti la somma di euro 8.000,00 (ottomila) ciascuno, a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva ex lege;

condanna altresì in solido i predetti imputati ed il responsabile civile Edison S.p.A. alla rifusione delle spese di costituzione ed assistenza nel presente giudizio delle parti civili medesime, che liquida in complessivi euro 19.718,30 comprensivi di onorari, diritti, spese, accessori e IVA, come da relativa parcella; assolve gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte dal reato di omissione dolosa di cautele da cui sono derivati infortuni ex art. 437, 1° e 2° co., c.p. per condotte tenute fino a tutto il 1973, perché il fatto non costituisce reato; dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti, D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach, Gaiba, Fabbri, Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, in ordine al reato di cui all’art. 437, 1° co., c.p., in relazione all’omessa collocazione di impianti di aspirazione, dal 1974 al 1980, perché estinto per prescrizione;dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati Porta, Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri, Burrai, Necci, Parillo e Patron in ordine alle contravvenzioni di cui al DPR 962/73 contestate nel secondo capo d’imputazione, perché estinte per intervenuta prescrizione; condanna gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte al pagamento in solido delle spese processuali dei due gradi del giudizio;conferma nel resto l’impugnata sentenza;visto l’art. 544 c.p.p.,fissa in giorni 90 il termine per il deposito della sentenza.

 

Venezia, 15 dicembre 2004.

Francesco Aliprandi -  Presidente

Gino Contini             - Consigliere est

Antonio Lucisano -     Consigliere est

 

UNA NETTA LINEA DI DEMARCAZIONE TRA IL GIUDIZIO STORICO EMESSO DAL PROLETARIATO IN LOTTA SIN DAGLI ANNI 60-70 CON DIVERSE E MOLTEPLICI FORME DI LOTTA, DALLE SENTENZE DELLA BORGHESIA, COSTRUITE PERALTRO CON PROCESSI MOLTO TARDIVI

 

Riprodotto liberamente perché degli atti pubblici non c’è copyright

Questo per gli stronzi che si fan belli sulle cose altrui pensando così di esserne proprietari

Paolo Dorigo, coordinatore provinciale SLAI/COBAS – sindacato di classe – provinciale VENEZIA