Marco Sacchi
uno scritto del 2000
Il capitalismo di fronte
alla crisi mette
in moto tutta
una serie di
misure di varia
natura che vanno
dall’inflazione, alla disoccupazione (con l’utilizzo di
mano d’opera a
buon mercato proveniente
dai paesi dipendenti)
all’esportazione di capitali
ecc. Ma il
metodo più estremo
per salvare il
capitalismo è quello “convulsivo”: guerra verso l’esterno.
Dalla crisi del 1929
alla Seconda Guerra
Mondiale.
Dopo il crack della
Borsa del 1929,
si potenziò l’intervento dello Stato nell’economia sia in Europa.
E’ in questo periodo
che nei circoli
degli economisti accademici
anglo-americani, con in
testa Keynes, si
affermò l’idea di
dare un governo all’economia capitalistica.
Keynes sosteneva che
la stagnazione era
dovuta alla mancanza
di investimenti produttivi da parte degli industriali; per questo, come
via di uscita dalla crisi,
propugnava l’aumento della
spesa pubblica, anche
in condizioni di
deficit statale, al
fine di sostenere la domanda totale
per i beni di investimento e consumo: manovrando
questa domanda e
mettendo degli “incentivi
a spendere” si
poteva mantenere un
livello di produzione
che limitasse la disoccupazione.
Il presidente degli U.S.A. F. D. Roosvelt, -
sotto la spinta
delle lotte di enormi
masse di lavoratori
e di disoccupati prodotte dalla
crisi (1°) -
varò un grande piano di investimenti per
l’espansione e l’ammodernamento delle
infrastrutture,
nell’intento di sostenere
la domanda globale
e riavviare il
ciclo espansivo dell’economia (2°).
Queste misure
si rilevarono, di
fatto insufficienti a
sconfiggere la crisi.
Gli USA
e tutto il
mondo capitalistico uscirono
dalla crisi solo
in seguito alle
immani distruzioni operate
dalla Seconda Guerra
Mondiale.
Infatti, se
si esamina la
dinamica degli avvenimenti
politici che si
sono succeduti a
partire dalla crisi
del ’29 in
avanti si nota
che il mondo è stato
scosso da eventi
di grande portata.
Si inizia con
la rivoluzione spagnola
che portò alla
caduta della monarchia
(aprile 1931) all’avvento di
Hitler in Germania (gennaio 1933) all’apertura delle
campagne militari dell’imperialismo giapponese in Cina
fino alla guerra
di Etiopia (1935)
e alla guerra civile spagnola
(1936-1939)-
Nel tentativo di salvare
l’ordinamento, lo Stato
Capitalistico, questo comitato
d’affari della borghesia
imperialistica, cercando di
uscire dalla crisi
del 1929-33 attraverso
l’intervento statale ha
sviluppato l’industria delle
armi, mettendo in
crisi la pace
mondiale e favorendo
l’ascesa del fascismo.
M. Kaleki, in
un’acuta analisi contenuta
in un articolo presentato alla
Marshall Society di
Cambridge del 1942
(Aspetti della piena
occupazione . Edito
da Celuc Libri
1975) diceva: “Durante
la grande depressione
degli anni ’30,
in tutti i
Paesi tranne che
nella Germania nazista,
si è registrata la netta
opposizione del mondo
degli affari contro
ogni esperimento tendente
ad utilizzare la
spesa pubblica per
espandere l’occupazione (…)
ma se durante le fasi
recessive, il massimo
desiderio degli imprenditori è quello di
subentrare presto in
una fase di
veloce espansione: perché
dunque non accettano
di buon grado
il boom “artificiale” che il Governo
è in grado di offrire?
Le ragioni possono venire
distinte in tre
categorie: (1) l’avversione per l’interferenza statale,
in quanto tale, nel
campo dell’occupazione, (2)
l’avversione per il
tipo di orientamenti impressi alla spesa
pubblica (investimenti pubblici,
sostegno ai consumi) (3) l’avversione per i mutamenti
sociali derivanti dal
perdurare della piena
occupazione (…) in
un regime di
piena occupazione permanente,
la minaccia del
licenziamento perderebbe la
sua efficacia di
misura disciplinare. La
posizione del padrone
non avrebbe più dei
contorni netti, mentre
i lavoratori acquisterebbero una maggiore sicurezza
in se stessi e una
crescente coscienza di
classe. (…).
Una delle più importanti
funzioni del fascismo,
nella forma che
attualmente riveste nel
sistema nazista, consiste
nel rimuovere le
obiezioni dei capitalisti
contro il pieno impiego.
L’avversione per la
spesa pubblica, sia
sotto forma di
investimenti pubblici che
di sussidi al
consumo, viene superata
concentrando la spesa
negli armamenti.
Il fatto che gli
armamenti costituiscano la
spina dorsale della politica fascista per la
piena occupazione, viene
ad esercitare una
profonda influenza sul
suo carattere economico.
Un riarmo su
larga scala non
può prescindere dall’espansione delle forze armate e
dalla predisposizione di
piani per una
guerra di conquista,
ciò che, per
competizione, induce al
riarmo anche gli
altri Paesi.
Questo fa
sì che l’obiettivo principale della
spesa cessi gradualmente di essere il
pieno impiego per
identificarsi con la
garanzia di massimi
risultati nel campo
degli armamenti. Un’ “economia degli armamenti” implica,
implica, in particolare
dei consumatori assai
più limitati di quanto
dovrebbero essere in
una situazione di
pieno impiego.
Il sistema fascista
esordisce sopprimendo la
disoccupazione, sia sviluppa
determinando una “economia
degli armamenti” dominata dalla penuria, e sfocia
inevitabilmente nella guerra”.
L’ordine hitleriano
era riuscito ad
aprire ai capitalisti tedeschi colpiti dalla grande recessione vaste prospettive di
profitti. Un mese dopo
l’ascesa al potere,
Hitler rivolgeva un a nota
di politica industriale
alla Federazione Tedesca
dell’Industria Automobilistica presieduta
da F. Porsch. I
provvedimenti contenuti prevedevano
la costruzione rapida di
infrastrutture, agevolazioni fiscali
e sovvenzioni all’esportazione, la messa a
disposizione di manodopera (3) e di materie prime
a basso costo,
oltre che di
crediti rilevanti.
Decine di
migliaia di imprese
approfittarono del grande sviluppo dell’industria degli armamenti,
dell’esproprio della
borghesia ebraica e
dai saccheggi della
Wermacht. Parallelamente la
nuova legislazione del
lavoro significò la
totale liquidazione delle
istituzioni della classe
operaia edificate in
oltre un secolo
di lotte.
La politica di intervento
dello stato nell’economia della Germania nazista
(come quella dell’Italia
fascista e quella
del Giappone) è
stata una variante del
Capitalismo Monopolista di
Stato e come
tale tendente al
rafforzamento della proprietà
privata.
Ovviamente quanto
detto sopra, vale
non solo per
i paesi della
coalizione hitleriana.
La partecipazione dello Stato
Borghese nell’economia fu determinata
da fattori endogeni
quali la crisi
generale del sistema
capitalista e da
fattori esogeni tra i
quali in primo
luogo i primi
successi dell’U.R.S.S. nella
realizzazione del primo
piano quinquennale e
nell’eliminazione della disoccupazione.
Il secondo dopoguerra.
Nell’immediato dopoguerra,
anche grazie al
Piano Marshall che
permise di investire
i capitali eccedenti
americani nella ricostruzione delle industrie europee distrutte
dalla guerra, l’economia
americana era una
macchina che filava
a tutto vapore:
“Con la fine
del conflitto, l’economia
americana si venne
a trovare nella
spiacevole situazione del
tuffatore che spiccata, la
corsa sul trampolino,
si accorge che
non c’è più
acqua nella piscina.
Era necessario riconvertirle, cioè passare alla
produzione di pace;
era soprattutto necessario
che la spesa privata, compressa
durante tutto il
profitto, aumentasse in breve
tempo in misura
sufficiente per permettere
alle industrie belliche di
non ridurre il
ritmo produttivo e
con esso l’occupazione; tutto ciò mentre
il ritorno dei
giovani alla vita
civile poneva il
problema di trovare
loro un lavoro.
Negli anni dell’immediato dopoguerra,
1945-48, l’economia americana
fu convertita alla
produzione civile senza
seri problemi. Non
avendo subito danni
fisici durante la
guerra, gli Stati
Uniti raggiunsero un
livello di prosperità
molto elevato. La
domanda dei consumatori, spinta anche dall’aumento del numero delle
famiglie, dovuto al
ritorno dei soldati,
era molto forte, particolarmente per i
beni che non
erano denaro liquido.
La domanda delle imprese
per investimenti era
stata molto scarsa
durante la guerra,
in modo anche
nel settore industriale
vi era una forte domanda
arretrata” (O. Ekstein
“Economic Policy in
the United States from 1949
to 1961”).
La Guerra di Corea
(1950-1953), nell’immediato
dopoguerra portò a una
“forbice” nell’apparato industriale
U.S.A. tra l’industria
bellica completamente dipendente
dalla spesa statale
e le industrie escluse da
contratti per le
spese militari. Durante
la presidenza Eisenhower
lo stanziamento per
le spese militari
era di 40 miliardi di
dollari; alla fine
del suo mandato
Eisenhoer denunciò: “…nei
Consigli dello Stato
occorre guardarsi dall’acquisizione di autorità non
delegata, ricercata con
malizia, da parte
del complesso militare-industriale. Le
possibilità di un
tragico spostamento di potere
esistono e sono
destinate a perdurare”.
Fu Eisesenhoer a coniare
il termine “complesso
militare-industriale”.
L’economista J. Robinson
in Collected Economic
Papers Vol. III pag.
103 - 112 in “Oltre
la piena occupazione”: “I paradossi di
Keynes - costruire
delle piramidi, scavare
delle buche nel terreno -
vennero presi alla
lettera. E’ stato stimato
che negli Stati
Uniti nel 1958
le spese destinate a
ciò che eufemisticamente viene chiamata “difesa”
ammontata a più
dell’11% del prodotto
mazionale lordo, e
che nel Regno
Unito essi si avvicinavano all’8%, cifre che,
in ciascuno dei
due paesi, sono
pressappoco uguali al
volume degli investimenti industriali produttivi. Ciò
significa che arrestando
questa corsa al
riarmo si potrebbe
grosso modo raddoppiare
la capacità produttiva
del sistema industriale, senza per questo
imporre alcun sacrificio
straordinario né creare
delle pressioni inflazionistiche maggiori di quelle
già sperimentate in
passato. Ed anche s e una
simile politica viene
ufficialmente ripudiata, appare
assai evidente che l’amministrazione degli Stati Uniti
fa affidamento sull’intensificazione delle
spese militari come
correttivo contro ogni
minaccia di recessione”.
In sostanza lo Stato
della borghesia imperialista americana - reduce
dalla crisi del
’29 e da una guerra
mondiale - capì
abbastanza rapidamente la
funzione anti-ciclica della
produzione bellica, ovvero
la possibilità di
contrastare i rallentamenti ciclici usando gli
investimenti militari come
volano per l’intera
economia.
Ma la produzione bellica,
prima o poi,
in determinate condizioni
porta alla guerra.
Le guerre, infatti,
permettono di distruggere capitali e aprire
la strada a
una nuova fase
di espansione. L’obiettivo
della borghesia rimane
sempre il profitto
e non la distruzione di
capitali; quindi la
guerra è funzionale allo
sviluppo capitalistico, ma
lo sviluppo capitalistico tende a portare
alla guerra tra imperialismi concorrenti per la
spartizione del mercato
mondiale.
Le crisi americane degli
anni ’60 e
’70.
Gli Stati Uniti si
trovano in crisi
da molto tempo
prima che gli
europei se ne
rendessero conto. Kennedy
fu eletto presidente
sulla base di
una piattaforma bellicista.
Appena eletto denunciò
la crisi nel
suo messaggio inaugurale
del 1961: “L’attuale
stato della nostra
economia è preoccupante. Assumo l’ufficio sulla
scia di sette
mesi di recessione,
di tre anni e mezzo di
economia fiacca, di
sette anni di
sviluppo ridotto, e
di nove anni
di caduta del
reddito agricolo.. A
parte un breve
periodo del 1958,
la disoccupazione registrata
è la più alta della
nostra storia. Dei
cinque milioni e mezzo
di americani che
sono senza lavoro,
più di un milione sono
circa di un
posto di lavoro
da più di quattro mesi…
in breve l’economia
americana è nei
guai. Il più
ricco paese industrializzato del mondo è
quello che ha
il minore tasso
di sviluppo economico”.
Negli anni ’60 vi
fu un grande aumento della
produzione negli USA.
La politica adottata
fu quella del
“burro e cannoni”
cioè iniziare la
Guerra del Vietnam,
finanziare la corsa
per la conquista dello spazio
e nello stesso
tempo finanziare alcune
spese sociali. Questo
portò a un
aumento vertiginoso della
spesa pubblica
PRINCIPALI DATI
DELL’ECONOMIA AMERICANA DAL
1960 AL 1971 -
Medie annue dei trienni,
in miliardi di
dollari
Spesa
pubblica
Investimenti privati all’estero
Trienni Totale Militare Non militare Diretti Di portafoglio
1960-62 108,1 48,1 60,0 0,15 0,8
1963-65 129,4 50,3 79,1 2,6 0,8
1966-69 178,8 70,5 108,3 3.3 1,0
1969-71 221,3 74,9 146,4 4,2 1,2
L’incremento della
spesa statale degli
anni ’60 sfociò
negli anni ’70 nel deficit
pubblico. Così testimoniava
di fronte al
Sottocomitato sulla Finanza Internazionale e
sulle Risorse della
Commissione Finanze del Senato
Americano Dewen Daane,
membro del Consiglio
dei Governatori del
Federal Riserve System
il 30 maggio 1973: “L’anno
scorso (il 1972)
come sapete abbiamo
avuto un deficit
commerciale di 7
miliardi di dollari
e un deficit delle partite
correnti e dei
movimenti di capitale
di lungo termine
di più di 9 miliardi
di dollari”.
Inoltre, la
maggiore produttività dell’Eiropa
e del Giappone rispetto agli
USA negli ’50
e ’60 modificò
profondamente i rapporti
di forza economici tra i paesi capitalisti
e portò alla
disgregazione del sistema
monetario internazionale stabilito
nel 1944 a
Bretton Wood.
La produttività degli USA
è, infatti calata
dal 3,2% medio
annuo del 1946-1968
all’1,9% del 1968-1972
(e allo 0,7%
del 1972-1979), mentre
l’Europa e il
Giappone mantenevano, in generale tassi
di sviluppo più
alti di quelli
americani. Le quote
di mercato perse
dagli USA (meno 23%
negli anni ’70
rispetto agli anni
’60) sono state conquistate quasi per intero
dalla Germania Federale
e dal Giappone.
La corsa al riarmo negli
anni ’80.
Il manifestarsi della crisi
capitalista negli anni
’70 comportò un
aumento dell’aggressività
dell’imperialismo
americano, in particolare
nel confronti dei
paesi socialisti e dei paesi
che tentavano di liberarsi
dal gioco imperialista (come il Nicaragua,
l’Angola ecc.).
Gli anni ’80 furono
caratterizzati da un’enorme
spesa militare degli
USA. L’amministrazione Reagan
spese per un
totale di 2.200
miliardi di dollari
per il settore militare, e
nel 1984 superò
il bilancio militare
del 1969, l’anno di
massima spesa per
la Guerra del
Vietnam. Mai sino
allora il bilancio
militare statunitense aveva
registrato un aumento
del 50% in
periodo di pace.
Circa il 50% dei
fondi destinati dal
Pentagono all’acquisto di
armamenti era andato
ai 20 maggiori
contrattisti, che avevano
monopolizzato la produzione
dei più dei
più importanti sistemi.
Si era così consolidato ulteriormente il monopolio che
i colossi dell’industria avevano costruito negli
ultimi decenni. Alcune
esempi: la General
Dynamics aveva ricevuto
il contratto per
la produzione dei
cacciabombardieri F-111 nel
1962, quando era
stata cancellata la
produzione dei B.58 e,
una volta terminata la
produzione degli F-111,
aveva ricevuto nel
1974 il contratto
per la costruzione dei cacciabombardieri F.14. Alla McDonnel
Douglas, una volta
cessata la produzione
degli F-14, era
andata nella 1970
il contratto per
la produzione degli
F-15. Alla Lookhed il
contratto per gli
aerei di trasporto
C.54, una volta
cessata la produzione
dei C.141. Inoltre,
la Loockehed per
trent’anni aveva fornito
alla Marina tutti
i missili balistici
dei sottomarini dai
Polaris ai Poseidon,
dai Trident I ai Trident
II.
I costi principali sistemi d’arma avevano continuato a
crescere, superando le
previsioni di bilancio. Il bombardiere Stealth
B-2, prodotto dalla
Northorop, aveva raggiunto
il costo di
circa 600 miliardi
di dollari (all’incirca 700 miliardi di
lire dell’epoca) e
l’Aeronautica ne chiedeva
172 per un
costo complessivo di
75 miliardi di
dollari.
Rilevava la
rivista “Time” del 27/02/88
in un servizio intitolato “Il
pentagono in vendita”:
“Spendendo 160 miliardi
di dollari l’anno
in colossali forniture
il Dipartimento della
Difesa statunitense è
divenuto la più
grande e importante
impresa d’affari del
mondo”.
Nel 1983 fu varato
il programma denominato
Iniziativa di Difesa Strategica (S.D.I.).
Originalmente tale progetto
prevedeva la realizzazione di un complesso
sistema a tre
stadi, noto come
“scudo spaziale” capace
di intercettare i
missili balistici intercontinentali (I.C.B.M. = Intercontinental Ballistic Missile) con
base di lancio
a terra con
base di lancio
a terra e
i missili balistici
con base di
lancio sottomarina (S.L.B.M. =
Submarine Launche Missile) e le loro
testate nucleari, durante
tutte le fasi
della loro traiettoria.
L’architettura della
SDI prevedeva una
serie di piattaforme, dotate di vari
tipi di sensori
e armi, e
sistemi di intercettazione con base a
terra: alcune piattaforme
avrebbero avuto la
funzione di identificare e tracciare i
missili in fase
di lancio, elaborare
con i computer di bordo
i dati per la loro
intercettazione; altre, la
funzione di distruggere i
missili, nella prima
e seconda fase,
con armi a
energia diretta (raggi
X, fasci di
particelle neutre); altre,
la funzione di
distruggere i veicoli
di rientro, nella
terza e quarta
fase, con armi
a energia cinetica
(missili intercettori con guida
terminale, lanciati da
piattaforme orbitanti o da
rampe a terra).
Da parte di molti
scienziati e esperti
di questioni strategiche, si metteva in
evidenza che uno
stato in possesso
di uno “scudo spaziale”, anche
se imperfetto, avrebbe
potuto lanciare un
attacco nucleare di
sorpresa, sapendo che
lo “scudo” sarebbe
stato in grado
di neutralizzare uno
scoordinato colpo di
rappresaglia. Inoltre, le
armi ad energia
cinetica, che apparivano
le più fattibili per uno
spiegamento a breve termine rispetto a
quelle a energia
diretta, avrebbero potuto
essere usate per
distruggere i satelliti
militari dell’avversario che,
“accecato”, sarebbe stato
più vulnerabile in
un attacco nucleare.
I circa 300 satelliti
attivi, dei 170
sono militari (dati
del 1991 tratti
dal libro “Tempesta
del deserto” di
D. Bovet - M. Dinucci, edizioni
ECP) svolgono importantissime funzioni militari e
civili: tra quelle
militari vi sono
la raccolta di
informazioni, le comunicazioni, l’allarme precoce contro un
attacco ecc. Costituiscono quindi
un sistema nevralgico
di primaria importanza.
Le prime armi
anti-satellite (ASAT = Anti-Satellite) sono state costruite
e sperimentate negli
Stati Uniti nel
1959, quelle sovietiche
nel 1969; da
allora i programmi
ASAT sono proseguite.
Le conseguenze
economiche e sociali
della politica di
riarmo negli anni ‘80
Uno degli effetti della spesa
militare sull’economia statunitense negli anni ’80
è stato il
fenomeno del rigonfiamento artificiale dei costi:
essendo divenuto il
Dipartimento della Difesa
uno dei principali
acquirenti di macchine
utensili e uno
dei maggiori promotori
di ricerca e sviluppo,
la sua disponibilità di mezzi
di pagamento aveva
contagiato l’intera industria
delle macchine utensili,
inducendo una lievitazione dei prezzi del
settore, con la
conseguenza di una
perdita di competitività, una minore propensione
agli investimenti e
la perdita di
posti di lavoro nell’industria. (4°)
Con un deficit del
bilancio federale che
alla metà degli
anni ’80 superava
già i 100 miliardi di
dollari annui, l’amministrazione Reagan ricorse ai
mercati finanziari internazionali e, per attirare
negli USA capitali
stranieri, operò un elevamento
dei tassi di
interesse: questo richiamò
negli USA capitali
crescenti, soprattutto europei e
giapponesi, ma la
maggiore domanda di
dollari sui mercati
valutari faceva salire
la quotazione della
moneta statunitense, con
la conseguenza che
molti prodotti statunitensi, come le macchine utensili,
tessili e agricole divenivano meno
competitivi. Dato che per le
stesse aziende statunitensi diveniva più
conveniente importare tale
prodotti, il deficit
della bilancia commerciale
degli Stati Uniti
cresceva fino a
superare i 150
miliardi di dollari
annui poco dopo la
metà degli anni
’80. Il peso
della crisi ricadeva su
ampi settori dell’economia interna. L’industria manifatturiera perdeva nel
periodo 1980-85 2.300.000
posti di lavoro
(International Herald Tribune
10.06.85), 93.000 aziende
agricole - informava
il Dipartimento dell’Agricoltura (“The Associated Press” del 11/03/85) erano
insolventi o sull’orlo
del fallimento e
ciò provocava il
fallimento di centinaia
di banche agricole.
Ampi strati della
popolazione, colpiti dalla
crisi economica e
dal taglio della
spesa pubblica, vedevano
peggiorare la loro
situazione, mentre aumentava
il numero dei
disoccupati, dei senzatetto,
degli emarginati.
Documentava la
rivista Time del
10.10.88: “Dal 1977
al 1988 il
reddito delle famiglie che
costituivano il 20
per cento più
povero della popolazione, calcolata al netto
dell’inflazione, è calato
di oltre il
10 per cento. Il numero
di persone che
vivono al di
sotto della linea
di povertà. Sceso
dai 40 milioni del 1960
ai 23 milioni scarsi nel
1973, è risalito
a 35 milioni nel 1983,
restando da allora
tale livello. Nel
frattempo, per l’1 per
cento più ricco
di tutte le
famiglie, il reddito
è salito vertiginosamente dal ’74, da
174.000 dollari a
304.000 dollari l’anno.
Dice il democratico
californiano George Miller, membro
del Congresso e
Presidente di comitato
che si occupa dei problemi
delle famiglie: “Stiamo
creando qualcosa che
somiglia a un
manubrio per il
sollevamento dei pesi:
i poveri sono
più poveri e
c’è ne sempre di più.
I ricchi sono
più ricchi e
c’è ne sempre di più.
E la classe media? Dato
che una sua
parte cade in
povertà un’altra si
arricchisce, essa si
sta restringendo”
Il deficit di bilancio
da 150 a oltre 150
miliardi di dollari
annui (Newsweek, 15/10/90),
il debito federale
è arrivato nel
1990 a 12.409 dollari per
abitante rispetto ai 3.889
dollari di dieci
anni prima (Time
del 15/10/90), un
indebitamento pubblico e
privato complessivo tale
da rendere il
debito pro-capite statunitense 70 volte maggiore di
quello del Terzo
Mondo.
Scriveva W. Pfaff
sul Los Angeles
Times del 30/11/91:
“L’indebitamento e
il relativo declino
della competitività degli
Stati Uniti diminuiscono la capacità di
leadership. La leadership globale
degli Stati Uniti
oggi si basa
fondamentalmente sulla loro potenza
militare”.
Il commercio mondiale delle
armi.
Verso la fine degli
anni ’60, la
Guerra del Vietnam
e l’insieme degli
impegni mondiali presero
a gravare in
maniera sempre più pesante
sulle risorse degli
Stati Uniti, dando
il loro contributo
all’inflazione e al
disavanzo della bilancia
dei pagamenti. In
questo contesto vendere
armi all’estero e
venderne il più
possibile, si configurò come il tentativo di
“scaricare” all’estero una
parte delle difficoltà
interne dell’economia americana,
tentativo che non
poteva non essere favorito
dal consolidamento delle
economie dell’Europa e
del Giappone e
dal rapido arricchimento, dopo il 1973,
dei paesi produttori
di petrolio del
Medio Oriente. Così
alla fine degli
anni ’60 il Pentagono prese a impegnarsi in un aggressiva
politica di vendite militari
all’estero.
A metà degli anni ’60
il ricavato delle
vendite di armi
era sul miliardo
di dollari annui, a
metà degli anni ’70
era salito sui
10 miliardi di dollari annui,
nel 1980 aveva
raggiunto i 15
miliardi di dollari annui.
Se il contributo alla riduzione
del disavanzo della bilancia
dei pagamenti fu
uno dei motivi
che indussero il
ministero degli USA a
prendere l’iniziativa della vendita
di armi, esistevano
agli inizi degli
anni ’70 altri motivi. Le
imprese produttrici si
trovavano in quel
periodo con una
notevole capacità in
eccesso per effetto
dell’imponente domanda di
armi verificatosi durante
la Guerra del
Vietnam; grazie ad essa,
infatti sia l’occupazione sia la capacità
produttiva militare si
erano espanse rapidamente. Ma
quando, verso la
fine della guerra,
quella domanda diminuì
rapidamente, le imprese
impegnate nella produzione
militare riuscirono a
ridurre l’occupazione, ma
non ridussero la
capacità produttiva.
Nel quadro della crescente
instabilità internazionale, tutti
i principali paesi
del Medio oriente utilizzarono i maggiori introiti per acquistare armi nell’intento di costituirsi come potenza
militare regionale. I dati
parlano chiaro: nel 1991
l’Arabia Saudita ha
chiesto di poter
acquistare armamenti dagli
Stati Uniti per 20 miliardi di
dollari. Contemporaneamente
Israele ha rivendicato maggiore assistenza militare da parte
statunitense. L’Egitto, dal
canto suo ha
subordinato il suo
appoggio militare all’operazione “Tempesta del
Deserto” ad una
fornitura statunitense per
un valore di
6 miliardi di
dollari. Tutto questo
ha reso effervescente il mercato clandestino
delle armi e alimentato gli
scambi petrolio-armi
realizzati a livello internazionale sfruttando le triangolazioni finanziarie e
commerciali.
Di fatto, il meccanismo petrolio-armi si
era già attivato
da molto tempo.
Del resto, molte
importanti banche probabilmente evitano il tracollo
anche grazie a questi
meccanismi; infatti, la
“stabilità istituzionale”
di molte banche sembra discutibile, quando esaminando i
crediti concessi a
paesi del Terzo Mondo. Se si confrontano
i loro prestiti con il
loro capitale, si
trova che nel
1984 tutte le
nove maggiori banche statunitensi avevano collocato
prestiti ai Messico, Brasile, Argentina e Venezuela per un ammontare superiore al loro capitale netto.
Solamente una
di esse le supera,
la britannica Lyods, che
nel 1984 aveva
impegnato in prestiti
a questi quattro
debitori il 165% del
suo capitale, mentre
la Midland le batteva
tutte con un
vertiginoso 205%.
Viceversa, la
banca americana con
il maggiore scoperto,
la Manufactures Hannover, nel 1984 doveva farsi
rimborsare dai maggiori debitori
“solamente” il 173%
del suo capitale.
Nel periodo
compreso tra il
1980 e il 1989, l’ammontare
complessivo delle esportazioni petrolifere dei paesi
arabi dell’OPEC questi
paesi hanno investito
il 38% delle loro rendite
in petroldollari nell’acquisto
di armamenti per un
totale di 426
miliardi di dollari. Il
solo Iraq, nel
decennio considerato, ha
acquistato grandi sistemi
d’arma per un
ammontare di 25
miliardi di dollari, cifra
che non computa gli
acquisti irakeni di attrezzature militari di supporto,
delle munizioni e
delle. Nel periodo
1971-1985 Iraq, Iran, Arabia
Sudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar
e Baharain hanno
assorbito il 23,2%
delle esportazioni totali
dei maggiori sistemi
d’arma verso i
paesi del Terzo Mondo.
La prima
Guerra del Golfo
(1991)
Sono
state diverse le cause
che hanno scatenato
la Guerra del Golfo del
1991. Una di
queste è stata
l’esigenza dell’imperialismo
USA di
riprendere sotto controllo l’Iraq, che cercava di
diventare uno dei
più grandi produttori
mondiali conquistando militarmente i pozzi di
del Kuwait (cosa
che gli avrebbe
permesso di influire
sul prezzo del
mercato mondiale del
petrolio).
Il
prezzo del petrolio
ha avuto una
storia relativamente tranquilla
dalla seconda metà dell’ottocento fino ai primi
anni ‘7° del
XX° secolo quando, i
6 paesi del
Golfo membri del
Golfo fecero raddoppiare
il prezzo medio del greggio, portandolo
a superare per
la prima volta
i 10 dollari a barile.
L’aumento del costo
del barile significava da
un lato, un
fetta più grossa
per gli “sceicchi”
(ovvero la casta semifeudale
dominante nei paesi
arabi, per lo
più legata all’imperialismo americano) e dall’altro,
costi di produzione
maggiori per gli
europei e i
giapponesi, più dipendenti
dalle importazioni petrolifere
che non gli
U.S.A. (le cui merci
guadagnarono di fatto
in competitività nella
concorrenza sul mercato mondiale).
Intanto la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere attuata in
alcuni paesi arabi (quali l’Algeria e la
Libia) e l’embargo
selettivo sull’export di petrolio
attuato verso gli
U.S.A. e i paesi europei
sostenitori di Israele,
il mondo arabo
iniziava a scrollarsi
di dosso, il
sistema di saccheggio
impostogli
dall’imperialismo. Si manifestava
così pure a
questo livello la
forza raggiunta dal
moto nazionalrivoluzionario
d’Asia e d’Africa che l’insurrezione iraniana del 1979
ravvivò. (5°)
L’aumento
del prezzo del
petrolio (quintuplicato in
due anni e
poi raddoppiato nei successivi
8 – 9 anni) concorse
con il ciclo mondiale delle
lotte operaie del 1969-1972 ad
accrescere i costi
di produzione dei
capitalisti europei e
giapponesi nel momento
in cui finiva un trentennio
di sviluppo e
più acuto diventava
il bisogno del
capitale ad abbassare
i costi di
produzione.
Nei 25 anni
successivi al 1973,
prese corpo la
controffensiva dei paesi
imperialisti tesa a ridurre
la rendita petrolifera e il potere
politico-economico dell’OPEC. Le conseguenze
si sono viste: l’OPEC è stata in sostanza
ridimensionata. L’Iraq è stato scagliato
con l’Iran. La
Libia, il Sudan e
la Siria sono stati
continuamente sotto tiro.
E infine nel
1991 arrivò la
micidiale operazione contro l’Iraq.
La
guerra del golfo
fu necessaria all’imperialismo U.S.A. per riprendere
sotto controllo il
costo del petrolio.
Ed è esattamente quel che
è successo dopo
la distruzione dell’Iraq
se è vero che
in “termini reali
in dollari del
1973, il prezzo
medio del greggio
OPEC è risultato, nei primi
mesi del 1998 a
3,81 dollari a barile,
è cioè circa un terzo soltanto di quello che
era il suo prezzo storico del
1982 (9,87 dollari a barile). (“Arabians Trends”
dicembre 1998). Se si
considera che un
barile e poco
meno di 160 litri,
questo vuol dire
che il greggio, il primo
motore dell’industria, dei
trasporti e della
vita urbana del mondo intero, viene attualmente a
costare ai paesi
imperialisti non più
di 40/100 lire
a litro.
Questa
rapina è vitale
per gli imperialisti americani (che sono i
massimi consumatori mondiali
di energia per
usi industriali e
domestici) in quanto
consente loro, di
conservare un livello di
consumi interni altrimenti
impossibile data la
contrazione del potere
d’acquisto dei salari.
E’ anche attraverso
i proventi di
questa rapina che
i paesi imperialisti cercano di evitare
la recessione, preservare la
pace sociale (6°) e
finanziare gli eserciti
che devono terrorizzare le masse sfruttate
delle “periferie” mondiale.
Un’altra
causa della Guerra
del Golfo è
stata rappresentata dalla
necessità dell’imperialismo
U.S.A. di controllare manu-militare il Golfo per
indirizzare il flusso
dei petroldollari verso il
mercato finanziario americano. Gli U.S.A. possono così sottrarre ai paesi europei e
ai giapponesi una notevole
quantità di capitali
finanziari, riequilibrando temporaneamente
la loro disastrosa
situazione debitoria dei
partner europei e
giapponesi.
La
Guerra del Golfo stata
la prima applicazione della teoria denominata M.I.C. (Mid Intensity Conflict). Questa
teoria è nata
con la fine della “Guerra Fredda” dalla necessità
di mutare la
dottrina strategico-tattica
in conseguenza del
crollo dell’U.R.S.S.
Il New York
Times del 07/02/’90
riportava la notizia che il
Sottosegretario alla Difesa Dick
Cheney aveva predisposto
un documento programmatico che stabiliva le
regole dell’impiego del
potenziale militare U.S.A.
nel periodo 1992-1997: in tale
documento si raccomandava di porre l’accento
sull’eventualità di conflitti
armati con potenze regionali
quali Siria e
l’Iraq. La dottrina
del M.I.C. presuppone a
livello militare l’impiego
di forze di
rapido intervento, armate
dei nuovi mezzi,
potenti e flessibili,
risultato dell’applicazione della
tecnologia avanzata ai mezzi
di distruzione.
Questa
dottrina ha imposto
alle forze armate
degli Stati Uniti
una revisione della
loro strategia, in
quanto esse erano
preparate principalmente ad
affrontare un conflitto
ad Alta Intensità,
ossia una guerra
fra NATO e
Patto di Varsavia, e
secondariamente un
conflitto a Bassa Intensità
contro i movimenti
di liberazione del
Terzo Mondo (alcuni esempi
di applicazione sono
stati, nell’America Centrale
degli anni ’80 in
Nicaragua, in Salvador e
nel Guatemala).
E’ in questo
periodo che assumeva
crescente importanza, per
la “presenza avanzata”
statunitense, il fianco
sud della NATO,
in particolare la
rete di basi
nel meridione d’Italia,
da Gioia del Colla a Taranto,
da La Maddalena a Sigonella.
Tale presenza, costituita
da forze sia
convenzionali che nucleari,
sarebbe stata ulteriormente potenziata, come confermavano i Ministri della
Difesa della Nato
il 12 dicembre 1991. Venuta meno la “minaccia dell’Est” si
individuava ora la
“minaccia dal Sud” per
giustificare soprattutto il
potenziamento del ruolo strategico
del meridione d’Italia, naturale
base di lancio
e supporto degli
interventi militari in
Medio Oriente, Nord Africa e
nei Balcani.
In
questo quadro si
inseriva il nuovo
modello di difesa
italiano, presentato nel novembre 1991. Tenendo conto della
vulnerabilità dell’economia
italiana, dipendente dall’importazione di materie prime e
dall’approvvigionamento
petrolifero, il nuovo
modello di difesa
passato dalla “Difesa avanzata”
alla “Presenza avanzata
con il compito aggiuntivo di
“difendere gli interessi esterni
e contribuire alla sicurezza internazionale” nelle
aree di crisi.
Il
nuovo modello di
difesa richiede un
esercito più professionale, con conseguente riduzione
della leva, e
nuovi armamenti: dai
Tornado, dotati di nuove
capacità di interdizione dei sistemi di
comunicazione e delle difese
aere nemiche, a una
seconda miniportaerei con aerei
a decollo verticale,
idonea a operare
in aree lontane.
Inoltre
la Guerra del
Golfo è stata
un banco di
prova delle tecnologie
della ricerca militare
degli anni 80,
pensiamo alle cosiddette
“bombe intelligenti” o agli
Scud e ai Patriot; infatti,
essa ha contribuito
a rilanciare l’iniziativa della Difesa StRATEGICA
S.D.I. (le cosiddette “Guerre
Stellari”) dando nuovo
impulso alla ricerca
nel settore militare. La Guerra del Golfo,
accrescendo la già enorme
spesa militare di
300 miliardi di
dollari annui e
vanificando con il
rilancio della produzione
bellica i tagli
previsti al bilancio della
difesa, aggravò il
deficit federale, a
ulteriore scapito della
spesa sociale e
delle condizioni economiche
delle fasce più
povere della popolazione.
Riferiva
il corrispondente del
Corriere della Sera
in un articolo del 02/11/’91 che titolava “Una
situazione così pesante
non si ripeteva dai tempi
della Guerra del golfo”:
“La settimana di
lavoro è stata
più corta perché
la produzione ristagna,
le richieste di
sussidi di disoccupazione sono aumentate. La
situazione è nera”.
In
Francia i costi
della Guerra del
Golfo venivano calcolati
dal giornale l’Expansion
(Medicine et Guerre
Nuclèare n. 2
1991) in: 3 – 6
miliardi di franchi
quale costo dell’operazione Daguet ossia la
partecipazione delle forze
armate francesi all’Operazione Tempesta del Deserto, 5,5 miliardi quale
perdita delle esportazioni verso il Kuwait e
l’Iraq, 16 miliardi
quale aggravio delle
imposte petrolifere, 40
miliardi in seguito
al mancato pagamento
di debiti da
parte dell’Iraq; 60
miliardi in seguito
alla mancata esportazione di prodotti francesi
nei paesi arabi:
50-100 miliardi in
seguito al rallentamento della crescita del prodotto interno lordo.
Il
totale delle perdite
sono state circa
tra i 175 e oltre
i 227 miliardi di franchi,
per compensare il
deficit, il governo
decideva una serie
di tagli ai
bilanci della Sanità,
dell’Assistenza sociale, dell’Istruzione ed altri per un
ammontare valutato di
30 miliardi di
franchi. L’unico a
non essere intaccato
è stato il
bilancio della difesa,
che era già
forte ascesa con un
incremento del 30%
destinato alle forze nucleari.
Le
spese militari U.S.A.
negli anni ‘90
“Prevedo
di rivedere la
nostra politica sugli armamenti
e di affrontare la questione
con l’altro grande
Paese venditore di
armi nell’ambito di
uno sforzo a
lungo termine per
ridurre la proliferazione delle armi”. Questa
fu la promessa elettorale di
Clinton in fatto di
armi, a Guerra
del Golfo appena
conclusa.
Ma
dopo un anno
di presidenza Clinton,
le vendite di
armi erano di
fatto già raddoppiate: il governo USA
aveva ritenuto opportuno
non contrastare il
positivo effetto che
la Guerra del
Golfo aveva avuto
sull’economia americana attraverso
il rilancio delle
commesse militari (in
particolare per quanto
riguardava il settore aerospaziale, l’elettronica,
l’informatica ecc.).
Dal
1993 al 1997
il governo statunitense ha venduto, trattato
o concesso armi
per l’equivalente di
190 miliardi di
dollari. Per riconoscenza, l’industria delle armi
ha finanziato la
campagna elettorale 1998
del Partito Democratico con
una cifra che si
aggira sui 2
milioni di dollari.
Le esportazioni
mondiali di armamenti
costituiscono una percentuale molto ridotta della produzione
globale degli armamenti:
meno del 3%
della produzione di
armi viene, infatti
esportata. Per le
industrie militari U.S.A. (che
pure raggiungono il
55% del totale
mondiale) le esportazioni di armi rappresentano un affare minore
- anche se non
trascurabile - rispetto
alle colossali commesse
nazionali assicurate dal
Pentagono (il quartiere
generale delle forze
armate americane). Le
esportazioni di armi
- al di là del
valore economico -
hanno comunque anche una valenza politica,
nel senso che
si inseriscono nella
strategia complessiva del
governo U.S.A. per
assicurare condizioni favorevoli
ai profitti delle
multinazionali americane su scala
mondiale (ad esempio, sia
l’amministrazione Bush S. sia,
in seguito, l’amministrazione Clinton hanno
ampiamente sfruttato il
ruolo preponderante degli
U.S.A. nella vittoria
su Saddam Hussein
per aumentare la
quota di mercato
delle compagnie americane
in Medio Oriente
a scapito delle
compagnie francesi e
inglesi).
Passando
alle spese per
la R&S (ricerca
e sviluppo) militare,
tra il 1992 ed il
1995 gli U.S.A.
hanno speso 162
miliardi di dollari,
ossia il doppio
di quanto spendono
tutti gli altri
stati (in altri
termini, circa il
2/3 del totale mondiale).
Tale cifra spiega
e riassume il
predominio mondiale militare
degli U.S.A. a
livello mondiale (almeno nelle
guerre convenzionali… non ci
può scordare la
vittoriosa guerra di
liberazione nazionale del
Vietnam sugli imperialisti americani e
l’attuale pantano iracheno
in cui si sono cacciati
gli U.S.A e
i loro alleati).
Nel
1997, l’85% delle
spese mondiali per
la difesa era assicurata da
22 paesi “ad
alto reddito”: a
loro volta gli
U.S.A. rappresentavano il
50% di quella percentuale
(ovvero generavano il
42,5% delle spese
militari mondiali).
Nei
primi giorni del
gennaio 1999, in
un discorso per
radio Clinton annunciò
nuovi stanziamenti per
le spese militari
per 100 miliardi
di dollari nell’arco
di 6 anni (circa 170
miliardi di lire
al cambio dell’epoca), dichiarando che le
“forze armate meritano
un riconoscimento per
le complesse missioni
con straordinaria precisione,
come il recente
bombardamento di Baghdad”
(7°)
Si
trattava del massimo
incremento del bilancio
del Pentagono dal
1991 (8°): il 24
marzo 1999 iniziò
la guerra di
aggressione degli imperialisti NATO/USA e
europei nei confronti della
Repubblica Federale Jugoslava.
(9°)
I
bombardamenti sulla Jugoslavia,
effettuati quasi esclusivamente con materiali bellici
americani; hanno comportato
il consumo di
circa la metà
dell’arsenale NATO;
conseguentemente, è iniziato
un nuovo ciclo
di commesse miliardarie
(in dollari) per il
complesso
militare-industriale
americano, che ha
funzionato da volano
per l’intera economia
U.S.A. allontanando lo spettro
del ristagno paventato
dagli economisti borghesi
per il
secondo semestre del
1999.
Crisi
economica, necessità dell’integrazione europea e riarmo
Una
delle conseguenze della
crisi economica è
l’esasperazione della
concorrenza, per decidere
che debba fare
le spese dell’eccedenza del capitale (10°), essendo
l’attuale crisi economica
una crisi di
sovrapproduzione di capitale.
La causa di
essa sta nel
fatto che nell’ambito
del modo di produzione
capitalistico a un
certo punto si
crea un conflitto inconciliabile tra la
produzione di plusvalore
e la realizzazione del valore
prodotto. I capitalisti
dovrebbero investire tutto
il plusvalore estorto,
anche così facendo
il tasso di
profitto diminuisce o
non aumenta (11°). Se i profitti
attesi non aumentano o
diminuiscono, i capitalisti
cessano l’accumulazione, con
la conseguenza di non valorizzare tutto il plusvalore
estorto. Diminuisce il
capitale impegnato nella
produzione e aumenta il
capitale impegnato nella
sfera finanziaria che diventa
la parte più
grande del capitale
(si pensi che
secondo stime correnti
il mercato dei
titoli aveva raggiunto
nel 1994 i
14.000 miliardi di
dollari U.S.A., ossia
il doppio del
P.I.L. che aveva
all’epoca gli U.S.A.).
Il capitale finanziario
tende a crescere
e la crisi assume la
veste di crisi
finanziaria. I movimenti
propri del sistema
finanziario diventano essi stessi
un’ulteriore fattore di
sconvolgimento del capitale
impegnato nella produzione
di merci e
una via attraverso
cui la crisi compie il
suo cammino.
Ne
deriva un’enorme accelerazione del processo di
concentrazione dei capitale
che tentano di
raggiungere la “massa
critica” indispensabile per
reggere lo scontro
con i concorrenti (11°). Tale processo,
nel corso degli
ultimi anni, ha
trovato una proiezione nello sforzo di ciascuna
grande potenza imperialistica di costituire aree
economiche integrate, al
cui interno si
cerca di portar e al
minimo la concorrenza
tra i capitali, in modo
da concentrare i
propri sforzi nella
lotta contro i
concorrenti esterni. In
tal senso si
sono mossi gli
U.S.A., che hanno
cercato attraverso il
Nafta di costituire
un’area di libero
scambio. Allo stesso
modo il Giappone,
il secondo grane
polo imperialista, si
muove da tempo
per sottomettere alla
propria influenza un’area
del Pacifico dai
confini sempre più
ampi e che rappresenta un
punto focale dello
scontro
interimperialistico.
Confrontarsi
con queste due
aree a dominanza giapponese e
statunitense è divenuto impossibile
senza gettare sul
piatto della bilancia
un potenziale economico
del medesimo ordine
di grandezza: i
paesi europei, con
la Germania in
prima fila debbono
quindi abbandonare ogni
ambizione di contare
nelle relazioni internazionali per la lotta per
la supremazia se
continueranno ad agire
in ordine sparso
senza avere, presi
singolarmente, una capacità
economica paragonabile a
quella dei concorrenti. Dentro questo quadro
dei rapporti mondiali
sta quindi l’esigenza
materiale dell’integrazione
europea.
Nella
concorrenza con l’imperialismo U.S.A., i paesi
imperialisti europei si
stanno dotando di
mezzi adeguati per
avere una voce
in capitolo sulle
questioni internazionali, soprattutto
dopo la guerra
contro la Jugoslavia,
che è stata per i
governi europei un
vero e proprio schiaffo militare oltre che politico, in
quanto lo strapotere
della forza militare
americana rispetto a
quello europea è risultata
schiacciante agli occhi dei
vari governi europei
che si sono accodati all’imperialismo U.S.A. nell’aggressione
alla Jugoslavia.
Nel
vertice di Helsinki
che si tenne il 10
e 11 dicembre 1999, il
Consiglio Europeo, prese la
decisione di creare
un corpo d’armata
totalmente europeo.
Per
permettere lo svilupparsi
di questo progetto,
occorre un incremento
dei fondi destinati
alla ricerca e
allo sviluppo per
l’ammodernamento degli eserciti.
Conseguentemente
a queste decisioni
e alla guerra contro la
Jugoslavia le maggiori industrie
europee stanno facendo
affari d’oro: il gruppo
tedesco-statunitense Daimler
Chrysler Areospace (DASA) e quello
francese Areospatiale-Matai hanno
dato vita alla
EDAS (European Atronautic Defense and Space) un
colosso che vale
un fatturato potenziale
di oltre 25
miliardi di dollari,
il primo in
Europa e terzo
al mondo. Poi
c’è la costituzione di Astrium
che rappresenta il
matrimonio tra la
stessa Dailmer e la
franco-britannica Matra
Marconi Euro, che dovrebbe operare
nel comparto spaziale.
Il
progetto Eurodifesa quindi
è avviato dal
punto di vista
politico e economico:
il problema principale
dal punto di
vista militare è
che gli eruppi
devono fare salti
mortali per raggiungere
o quanto meno
avvicinarsi agli standards
di armamenti dell’esercito americano.
L’apparato
bellico americano risulta
sempre il più potente
che c’è nel
mondo: alla fine
degli anni ’90
possedeva 8.239 carri
armati, 26.000 mezzi
corazzati di vario
tipo, 5.703 pezzi
di artiglieria, 4905
aerei da combattimento, 2.157 elicotteri d’attacco.
234 navi da
battaglia, una flotta
che comprende 12
portaerei e 138 corazzate
e incrociatori. A
tutto bisogna aggiungere
l’arsenale nucleare: 33.550
ordigni che possono essere lanciati dai sottomarini, dalle navi, dagli
aerei o con
i missili balistici.
Se si
confronta queste cifre
con quelle dei
paesi europei che
vogliono creare l’Europs
risulta in maniera
eclatante la supremazia
americana, l’Italia, Francia,
Gran Bretagna, Germania
e Spagna possono
mettere assieme: 6495
carri armati, 3.725
cannoni, 2032 aerei,
875 elicotteri e
486 navi.
Alcune
osservazioni conclusive
Quanto
si qui esposto conferma che
più aumenta la
crisi:
-
più lo stato imperialista dominante (gli U.S.A.)
diventa aggressivo per
cercare di mantenere
la supremazia
politico-militare mondiale
in funzione dei
profitti delle sue
multinazionali.
-
più aumentano le tensioni
tra i paesi imperialisti concorrenti
per assicurarsi
quote di profitto
sui mercati mondiali
e più
la guerra
commerciale tra gli
imperialisti concorrenti tende
a
a trasformarsi in una nuova
guerra interimperialistica per
la
spartizione dei
mercati mondiali.
Come
si diceva all’inizio,
la guerra rappresenta
una valvola di
sfogo per le
contraddizioni del modo
di produzione capitalistico, poiché essa
distrugge i mezzi
di produzione (macchinari, uomini e valore-capitale) eccedenti e, quindi,
con tali distruzioni apre
la strada ad
un nuovo periodo
di accumulazione capitalistica.
Davanti
alla tendenza alla guerra
imperialista sempre presente,
compito dei comunisti
non è cero propagandare pacifismo
e nonviolenza, ma dichiarare guerra
alla guerra, alla
guerra del capitale
bisogna opporre la
guerra popolare contro esso,
per la sua definitiva eliminazione.
Per questi
motivi è necessario
costruire e rafforzare un
Partito Comunista fondato sul marxismo-leninismo-maoismo che è
l’unico strumento che
può permettere alla
classe operaia e
alle masse popolari
di trovare una via
di uscita positiva
dalla crisi generale
del capitalismo, in
direzione del socialismo.
“O la
rivoluzione fermerà la
guerra, o la
guerra farà sorgere
la rivoluzione” (Mao
Tsetung)
Note
1°
Negli Stati Uniti
tra il 1936 e il
1937 ci furono
oltre mille occupazioni
di fabbrica con
la partecipazione di
mezzo milione di operai e
6912 scioperi che
coinvolsero 1.861.000 operai.
2°
Merita di sottolineare che le differenti
soluzioni politiche che
il capitalismo assunse
di fronte alla
crisi degli anni
’30 (New Deal
negli Stati Uniti,
Nazionalsocialismo in Geramnia)
erano, caratterizzate
dell’elemento comune dell’intervento dello Stato
nell’economia.
3° Tutte
le maggiori aziende
tedesche durante la
Seconda Guerra Mondiale approfittarono
della manodopera dei
campi di concentramento per ridurre i costi
di produzione.
Ad
esempio la I.G. Farben
impiantò ad Auschwits
una fabbrica di
gomma sintetica.
Secondo
la storica Anni Lacroix Riz dai 12
ai 14 milioni di lavoratori
stranieri in gran parte
ebrei e prigionieri
di guerra sono stati
utilizzati dalle aziende
tedesche durante la
Seconda Guerra Mondiale.
4° La lievitazione artificiale dei prezzi
delle industrie produttrici
di macchine utensili
non ha fatto altro, in
realtà, che aggravar4e
una situazione dipendente
dalla più elevata composizione organica del capitale
americano e dalla
conseguente minore competitività delle merci americane
rispetto ai concorrente
europei e giapponesi.
5°
Questo moto fa
parte di un
processo che ha
visto il nostro
secolo ricco di
guerre e rivoluzioni
da parte delle
nazioni dipendenti contro il
dominio dei paesi
imperialisti. La lotta
antimperialista è stata sempre
(a partire dal
Messico del 1911-1938
e nell’Iran dalla “rivoluzione costituzionale” di
Mossaqued del 1951-1953 alla
rivoluzione del 1979) parte
costituente dello scontro
di classe locale
e internazionale.
Sull’importanza
delle rivoluzioni nei paesi
dipendenti vedere le
tesi II° Congresso
dell’Internazionale Comunista
del 1920, che mettono in
evidenza che una
delle caratteristiche dell’imperialismo consiste appunto nella
divisione del mondo
tra una minoranza
di stati oppressori
e una larga maggioranza di
stati oppressi.
6° Si è
visto cosa è
successo nell’estate del
2000, quando il
greggio ha raggiunto
i 37 dollari al barile,
ci furono proteste in
tutta Europa dalla
Spagna alla Scandinavia, con blocchi dei
porti (Barcellona),
scioperi dei camionisti,
dei pescatori ecc.
7° A metà
del 1998, in
una sola note
sulla irakena furono
scagliati dalle navi
americane 280 missili
Tomahawk, tanti quanti
quelli scagliati nella prima guerra del
golfo.
8° E del
massimo incremento salariale
dal 1982 (quando
Reagan iniziò la
cosiddetta “deregulation”
dell’economia americana).
9° Bisogna
ricordarsi che lo
smembramento della Jugoslavia
iniziò nei primi
anni ’90, dopo che
il Fondo Monetario
Internazionale - di
fatto controllato dagli
U.S.A. - aveva
negato alla Repubblica
Federale Jugoslava un credito
di grande entità;
a tale diniego fecero infatti,
immediatamente seguito la
secessione della Slovenia
e della Croazia,
subito riconosciute dal
Vaticano e dalla
Germania.
10° Diceva
Marx, “Diminuzione del
saggio di profitto
e accumulazione del
capitale sono semplicemente diverse manifestazioni di
uno stesso processo:
ambedue sono manifestazioni dell’aumento della produzione
del lavoro” (Il Capitale
Vol. 1° Cap. 22).
11° Il
plusvalore viene prodotto
solo dal lavoro
umano. Tanto più
alto è la quota di
macchine e di
investimenti tecnologici (il
capitale costante) nel
processo di produzione,
tanto minore è
il tasso di
profitto. Dato che
la molla del
processo di processo
di produzione capitalistico è il profitto,
ogni progresso tecnologico
tende a trasformarsi per i lavoratori
nel suo contrario:
invece di facilitare
il lavoro e
ridurre la fatica,
esso porta al
licenziamento di una
parte dei lavoratori e a un aumento
dello sfruttamento per
coloro che restano,
“liberalizzazione” e
“flessibile” sono vocaboli
di moda in
questo contesto.
SACCHI MARCO (scritto del 2000)
Sullo stesso argomento in
questo sito: scritto di Paolo Dorigo dell’aprile 1982 (pdf, 37 pagine)