www.paolodorigo.it

DAL 1985 al 2010

14-4-2010 - LA CADUTA DEGLI “DEI”

FINALMENTE UN RAPPRESENTANTE DELLO STATO ITALIANO PRESENTA IL CONTO A GIAMPAOLO GANZER

egregio emergenzialista pessimo italiano ? 08.02.1985 DO YOU REMEMBER ?

Zorooo,mezzobiondoemezzomoro

GRAN PARTE DI QUESTO COLLAGE E' COSTITUITO DA ARTICOLI DI REPUBBLICA, CHE TUTTAVIA NEL SUO ARCHIVIO NON HA CITATO GANZER A PROPOSITO DELLE SUE MONTATURE VENETE QUANDO PERSEGUITAVA I PROLETARI ED I COMUNISTI. ABBIAMO CERCATO DI COMMENTARE CON IRONICA SERIETA' LE ATTIVITA' DI QUESTO PERSONAGGIO CHE NON VUOLE ANDARE IN PENSIONE...

GANZEREIDE-media

RO$$

2010

Processo al comandante del RO$$ Giampaolo Ganzer: La Procura di Milano chiede 27 anni di reclusione
Avrebbe organizzato e gestito un'associazione criminale dedita allo spaccio internazionale di stupefacenti e altri reati

http://www.spoletonline.com/?page=articolo&id=131104

di Daniele Ubaldi

Associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, con lo scopo di realizzare una rapida carriera. Un'associazione che sarebbe stata composta da ufficiali e sottufficiali dei carabinieri del Ros - raggruppamento operativo speciale - in combutta con alcuni malavitosi. Queste le pesanti accuse rivolte dal pm di Milano Luisa Zanetti a Giampaolo Ganzer, comandante del Ros, lo stesso reparto che - il 23 ottobre del 2007 - organizzò l'operazione paramilitare che portò all'arresto di Michele Fabiani e degli altri 4 ragazzi di Brushwood.
Al termine dell'udienza di ieri, la Zanetti ha chiesto ai giudici di Milano di spiccare 18 condanne tra i 5 e i 27 anni di reclusione. Le due più pesanti, appunto da 27 anni di carcere, sono per lo stesso Ganzer e per Mauro Obinu, anche lui in precedenza nel Ros e poi passato al Sisde. I fatti cui si fa riferimento risalgono tra il 1990 e il 1997
In particolare, il 9 dicembre del 1993 Ganzer e Obinu, che secondo la procura "promossero e diressero" l'associazione criminale, avrebbero importato in Italia, a bordo della motonave Bisanzio, salpata da Beirut per Ravenna, "119 kalashnikov, 2 lanciamissili, 4 missili e munizioni". Tutti gli armamenti sarebbero stati venduti alla malavita organizzata: parte del ricavato sarebbe poi servito ad acquistare stupefacenti "da utilizzare per giocare a fare i finti trafficanti in modo da incastrare quelli veri", mentre il resto sarebbe stato spartito fra i componenti dell'associazione criminale. Pare che anche i narcos colombiani e libanesi avrebbero fatto parte dell'affare, che prevedeva anche una serie di cosiddetti "blitz" ai danni di pesci più piccoli, e con il recupero di modeste quantità di droga. Infine, Ganzer e i suoi sono anche accusati di essere andati oltre i limiti della legge che consente l'uso degli infiltrati e il ritardo nei sequestri di droga per arrivare ai vertici delle bande.
Nessun commento da parte del generale, che si è limitato a dichiarare: "Continuo con la serenità e l'impegno di sempre a fare il mio lavoro".

2

2009 un lavoro comunque interessante, con i book delle prostitute ...

quello che dovrebbe essere compito della buoncostume o di una normale polizia urbana, diventa necessario muovere i RO$$

"Aborti per le prostitute, due medici arrestati"

Repubblica — 25 giugno 2009   pagina 15   sezione: ROMA

TARIFFE dai 300 ai 2.500 euro per far abortire (spesso in fase di gravidanza già avanzata) le schiave del sesso arrivate dalla Nigeria. Sono finiti agli arresti domiciliari due "camici bianchi" con studio a Villa Bonelli: un uomo di 76 anni, E.F.T., medico di base e una donna di 48, M.T., otorino. I carabinieri dei Ros hanno la prova di almeno 27 interruzioni di gravidanza clandestine nel giro di soli quattro mesi ma gli aborti potrebbero essere stati molti di più. L' inchiesta, intitolata "Foglie nere" è stata coordinata dalla procura di Ancona, è durata almeno due anni e ha permesso di ricostruire, spiega il generale Giampaolo Ganzer, comandanemissari dell' organizzazione che esaminavano i loro book fotografici. Ciascuna di loro pagava una media di 40 mila euro. Una cifra enorme che rendeva le giovani donne schiave, per annie anni, dei loro aguzzini. Il sistema, ormai collaudato, per fiaccare la volontà e domare, fin dall' inizio, qualunque velleità di resistenza erano i terribili riti voo-doo praticati dalle "Maman", vere e proprie kapò che governavano con mano di ferro. Con i documenti falsi forniti dalla gang, le giovani donne arrivavano via terra, attraverso l' Olanda o la Francia) o per mare da Turchia, Grecia, Libia o Marocco. Una trentina di "schiave" sono già entrate nei programmi di assistenza e di riabilitazione e forse potranno tornare a una vita normale. Forse. te dei Ros, "L' intera filiera del traffickin", tratta di esseri umani cheè ormai uno dei business preferiti della grande malavita internazionale. Ben 34 gli arrestati, molti dei quali africani, in diversi paesi. La banda aveva ramificazioni in Spagna, Francia, Olanda, Germania, Grecia, San Marino e in numerose regioni d' Italia ma tutte le donne che restavano incinte durante rapporti sessuali non protetti (richiesti spesso dai clienti) venivano portate nello studio di Villa Bonelli per abortire, nonostante la legge che consente (ancora) agli extracomunitari di presentarsi in ospedale senza rischiare l' espulsione. Le ragazze (quasi tutte sotto i 20 anni) venivano reclutate dagli - MASSIMO LUGLI

 

 

 

2008

2007

ARRESTO DI ANTONIO LAGO IGLESIAS A NOVARA

http://www.paolodorigo.it/2007_08_12_SRPveneto.htm

ARRESTO DI MICHELE FABIANI ED ALTRI ANARCHICI A SPOLETO

http://www.paolodorigo.it/Questalastoriadiunodinoi.htm

2007

un po' di allarmismo non guasta mai ...

Al Copaco l' allarme del Sismi Militari a rischio di attentati

ROMA - «I nostri militari a Kabul sono a rischio di attentati». Palazzo San Macuto, ieri mattina. È in corso al Copaco, il comitato parlamentare che "sorveglia" i servizi segreti, l' audizione del capo del Sismi Bruno Branciforte. La notizia del sequestro del giornalista Daniele Mastrogiacomo non è ancora stata diffusa. Ma Branciforte descrive già a tinte fosche la situazione in Afghanistan. Ad ascoltarlo ci sono gli otto componenti del Copaco. «Le operazioni militari in corso delle truppe Usa ci preoccupano - è la sintesi dell' intervento del direttore del Sismi - perché hanno innestato un' escalation di violenza che non può non coinvolgere i nostri soldati». Le dichiarazioni allarmistiche dell' ammiraglio, e i rapporti riservati del Sismi che, già da tempo, hanno indicato tra le minacce cui sono esposte le truppe italiane in missione all' estero gli attacchi kamikaze con autobomba e i rapimenti, hanno trovato drammaticamente conferma nella notizia del sequestro del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo catturato in Afghanistan dal mullah Dadullah. Al Copaco il capo del Sismi ha poi annunciato un fatto che non può non avere importanti risvolti di politica internazionale. «Sono fresco di incontri - ha detto - con i responsabili dei maggiori servizi segreti esteri: c' è voglia di collaborazione e di ristabilire l' operatività con l' intelligence americana». «Proprio di recente - ha aggiunto Branciforte - ho incontrato gli esponenti della Cia, la cui collaborazione aveva avuto momenti di difficoltà a causa delle note vicende». Il riferimento è alle tensioni dovute alle indagini sul sequestro Abu Omar e la richiesta di estradizione (non ancora firmata dal ministro della Giustizia), avanzata dalla procura di Milano nei confronti di una ventina di agenti Cia. Subito dopo, però, l' ammiraglio ha gelato gli otto parlamentari che lo hanno convocato denunciando forti difficoltà di gestione dell' intelligence in seguito al taglio del 40 per cento del budget da parte del governo, in parallelo con quanto dichiarato qualche giorno prima da Franco Gabrielli, direttore del Sisde, che aveva lamentato una riduzione ancor più drastica, del 60 per cento. Questa notizia, in un momento così critico, ha portato il vicepresidente del Senato, Milziade Caprili, membro del Copaco, a dire che «dopo l' approvazione della legge di riforma dei servizi, e alla luce di quanto è accaduto in Afghanistan, va rivisto in finanziamento all' intelligence». Il sequestro di Mastrogiacomo, per il presidente del Copaco, Claudio Scajola, «fa parte del complesso scenario afgano che ora si complica ulteriormente perché è evidente che i taliban hanno guadagnato nuovi territori. La situazione politica italiana, però, non cambia». «Ora - ha aggiunto - siamo nelle mani della capacità dei servizi che io spero sia alta. L' ammiraglio Branciforte ha definito la nostra presenza in Afghanistan "qualificata". Ciò non toglie, tuttavia, che ci sia forte preoccupazione per la vita del rapito». Il Sismi, in Afghanistan, non è solo a lavorare per la liberazione del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. A dare la caccia agli uomini del mullah Dadullah s' è creato un pool di 007 internazionali. Oltre alla nostra intelligence, infatti, la più presente nel territorio che si trova fra la provincia di Kandahar e quella di Hellmand risulta essere in questo momento quella inglese. Sono gli agenti dell' MI6 che in queste ore stanno riversando ai nostri 007 tutte le informazioni in loro possesso sull' organizzazione terroristica talibana che ha rivendicato il sequestro. «Nessuna strada è stata tralasciata - ha assicurato il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti, con la delega ai Paesi asiatici, fra cui l' Afghanistan - la nostra intelligence ha attivato tutti i canali già sperimentati durante il sequestro del fotoreporter Gabriele Torsello». «Abbiamo una notizia che ci conforta - ammette Vernetti - che il sequestro è avvenuto senza feriti». Per individuare il posto nel quale è tenuto nascosto il giornalista di Repubblica, gli investigatori (sono presenti anche i carabinieri del Ros del generale Ganzer) potrebbero chiedere anche la collaborazione dei servizi segreti americani che, avendo in corso operazioni militari nella zona di Hellmand, hanno tutto il territorio sotto il controllo elettronico: usano i droni (gli aerei spia che volano senza equipaggio) e hanno il controllo di tutte le conversazioni telefoniche. - ALBERTO CUSTODERO

 

2007

un morto in più un morto in meno cosa cambia ?

Droga, accusò i Ros pentito suicida in cella

Repubblica — 21 settembre 2007   pagina 24   sezione: CRONACA

MILANO - Ha atteso che il suo compagno di cella lo lasciasse solo, poi, ha riposto una lettera scritta il giorno prima sul tavolino, ha annodato le lenzuola alla sbarra e si è impiccato. È finita così, lo scorso 29 agosto nel carcere di Lucca, l' esistenza di Biagio Rotondo, 59 anni, precedenti per rapine, il pentito che ha dato il via a una delle inchieste più scomode degli ultimi anni. Quella aperta nel '97 dal sostituto procuratore di Brescia Fabio Salamone, lo stesso che a più riprese, negli stessi anni, aveva chiesto, senza riuscirvi, di portare a processo l' attuale ministro Antonio Di Pietro. Il filone, però, nel 2001 è stato trasferito dalla Cassazione per competenza al tribunale di Milano. L' accusa sostiene come il Reparto operativo speciale dei Carabinieri (il Ros), dagli inizi degli anni '90 abbia inventato una serie di blitz antidroga per fare carriera e, in alcuni casi, per spartirsi coca e denari. A iniziare dall' attuale numero uno dei Ros, il generale Giampaolo Ganzer, all' epoca dei fatti comandante della sezione responsabile delle operazioni antidroga. Ma tra la quarantina di imputati, c' è anche un' intera squadra investigativa in servizio a Bergamo, diversi fedelissimi di Ganzer e anche un pm antimafia, Mario Conte, oggi trasferito a Brescia. Accuse pesantissime, che vanno a vario titolo dall' associazione a delinquere al falso, per finire al riciclaggio e al traffico di stupefacenti. «Non vi ho mai tradito», ha esordito nella sua ultima lettera il pentito, rivolgendosi ai pm di Milano, ma anche a Salamone, che avevano sempre creduto nelle sue confessioni. Rotondo era stato arrestato il 24 agosto con l' accusa di detenzione abusiva di armi e ricettazione. Durante un controllo a sorpresa, era stata rinvenuta una vecchia pistola nascosta in un tovagliolo fuori dal ristorante in cui aveva ottenuto un lavoro da cameriere mentre scontava una precedente condanna agli arresti domiciliari. «Confermo che tutto quello che ho detto corrisponde a verità - ha scritto riferendosi alle dichiarazioni che hanno dato la stura alle indagini - ritrovarmi in carcere senza aver fatto nulla è per me insopportabile». Rotondo si rammarica poi del fatto che la nuova detenzione lo avrebbe portato alla «perdita di tutto quanto ha costruito con amore e speranza». «Vi scrivo - conclude rivolto ai magistrati - per farvi sapere che non vi ho mai tradito». La missiva è stata letta ieri in aula, davanti al collegio dell' ottava Sezione penale di Milano, dal pm Luisa Zanetti, che così ha dato la notizia del suicidio. A lanciare ombre sul suicidio, sempre ieri è stato il legale del pentito, Mario Di Ielsi: «Si sentiva incastrato», ha affermato l' avvocato, facendo intendere che l' arresto effettuato quasi un mese fa appariva in realtà più come una trappola. Il legale ha riferito che nella lettera inviata ai magistrati milanesi, Rotondo ha proclamato la propria innocenza riguardo alle accuse che pochi giorni prima del suicidio lo avevano riportato in carcere. Dal punto di vista processuale, però, non cambia nulla. Le sue dichiarazioni saranno comunque utilizzabili: verranno considerate "atto non ripetibile", come prevede il codice. - EMILIO RANDACIO

 

2006

GUANTANAMO: "Così il Ros informò i pm"

Repubblica — 20 ottobre 2006   pagina 18   sezione: POLITICA INTERNA

MILANO - La missione dei carabinieri a Guantanamo è agli atti del processo. In un' informativa del Ros di Torino per il processo carico di tre MAGHREBini accusati di terrorismo internazionale, ci sono due riferimenti a «interrogatori» del Ros a detenuti di Guantanamo. Ieri i passaggi dell' informativa sono stati indicati al pm, Elio Ramondini, dal generale Giampaolo Ganzer, indicato mercoledì dal maresciallo dei Ros come colui che autorizzò la missione in terra cubana, nel novembre del 2002. L' informativa del Ros risale al 29 ottobre 2003, è firmata dal colonnello Vittorio Santoni, uno dei quattro carabinieri che sarebbero andati a Cuba.

 

 

2006

LA DELICATEZZA DELLE MANSIONI AFFIDATE A GANZER

DA CHI ?

CASO PIRELLI-TELECOM

Gli affari segreti della banda dei tre

Repubblica — 21 settembre 2006   pagina 1   sezione: PRIMA PAGINA

L' AFFARE Telecom, come sino ad oggi lo si è chiamato e per come ora viene ricostruito e documentato nelle carte del gip di Milano Paola Belsito, è la storia nera di una formidabile macchina di raccolta illegale di informazioni sensibili e del loro uso altrettanto abusivo. Un triangolo perfetto. Ai suoi vertici, la prima azienda telefonica del Paese e la sua controllante Pirelli; il servizio segreto militare, il Sismi; l' agenzia di investigazioni private "Polis distinto" di Emanuele Cipriani. Al centro, la politica, l' imprenditoria, il mondo delle professioni, giù fino ai semplici cittadini in cerca di primo impiego. SEGUE A PAGINA 3 Decine di migliaia di nomi, imprigionati nel dossieraggio informatico, schiacciati dal ricatto, dall' intimidazione, dalla manipolazione. La storia può apparire complessa. In realtà, tirandone il filo che la attraversa, svela una trama lineare che, alle origini, ha un' impronta familistica. Giuliano Tavaroli, Marco Mancini, Emanuele Cipriani - i protagonisti dell' affare - sono tre uomini legati da un' amicizia antica. Tra la fine degli anni ' 70 e i primi anni ' 80, i primi due faticano da carabinieri nella caserma di via Moscova, a Milano. Cipriani, che dei tre è il ragazzo nato bene, si fa notare per zelo e capacità in una filiale di banca. Dividono il poco che hanno e le grandi ambizioni che coltivano. Ma hanno teste molto diverse. Tavaroli e Cipriani litigano già allora ai tavoli delle pizzerie, dove il primo, rimproverato dall' amico di lasciare troppa mancia, lo apostrofa con l' accusa che è forse un' intuizione su ciò che li perderà: «Emanuele, sei un avido...». L' avidità muove Emanuele Cipriani e lo brucia tra la fine del 2004 e l' inizio del 2005. La sua vita, come quella di Tavaroli e Mancini, è cambiata. Mancini è diventato numero due del Sismi. Tavaroli si è guadagnato la fiducia di Marco Tronchetti Provera che lo ha voluto prima alla security di Pirelli e quindi a quella di Telecom. Cipriani gode dell' una e dell' altra fortuna. Ha messo su a Firenze un' agenzia di investigazioni private, la "Polis distinto", che si trasforma in una fabbrica di denari. In 8 anni, tra il ' 97 e il 2004, incassa 20 milioni di euro da due soli committenti: Telecom e Pirelli. Un fiume di contante di cui si preoccupa di cancellare le tracce con un sistema di scatole societarie e conti bancari che gli suggerisce senza troppa fantasia il suo "consulente finanziario", Marcello Gualtieri, un calabrese di Cosenza con studio di dottore commercialista a Milano. Le sue due società londinesi "Worldwide Consultants Security ltd" e "Security Research Advisor ltd." fanno da collettore del denaro che, attraverso conti della "Barclays Bank" prima, della "Deutsche bank", poi, transitano per il Principato di Monaco e il Lussemburgo, per poi approdare in Svizzera, a Lugano, su conti intestati a una società registrata in Belize (la "Financial corp ltd."). Cipriani ha deleghe su ogni conto. Non c' è sterlina, franco svizzero o euro che non si muova senza la sua firma. Cipriani ha due ossessioni: non comparire e risparmiare lì dove è possibile. Anche quando si tratta di acquistare la casa dove abitare con la famiglia a Firenze, nella centrale via Jacopone da Todi. Battezza una "Labirinto srl." che compra per 2 milioni di euro l' immobile che Cipriani va ad abitare come "affittuario" e che gli consente di grattare un bel gruzzolo all' Erario. Ma che, nel 2005, fa scoprire il gioco dei conti e sollecita la domanda che lo perde. Che lavoro fa davvero Emanuele Cipriani? Ufficialmente, normali verifiche su «singoli» e su «aziende». «Ben pagate», ammette lui, «ma regolari». Non è così. Laura Giaquinta, segretaria della "Polis" tra il 2001 e il 2004, racconta alla Procura di Milano: "Esistevano delle pratiche "Z", chiamate da noi "le celesti", dalla copertina di cartone che le conteneva. Riguardavano accertamenti richiesti dal gruppo Telecom-Pirelli, ma che venivano fornite senza un mandato ufficiale delle altre. Venivano trasmesse a mezzo fax all' ufficio security Pirelli inviando prima la pratica ufficiale spoglia degli accertamenti riservati. Immediatamente dopo, un secondo fax contenente l' appunto "bianco" partiva alla volta dello stesso fax senza alcun riferimento e con le iniziali delle persone che li riguardavano». E' il lavoro "nero" di Cipriani. Il suo vero lavoro. Che lui organizza e quindi commissiona in sub-appalto a finanzieri, carabinieri, poliziotti che arrotondano lo stipendio con intrusioni nel casellario giudiziario, negli archivi del Viminale, nelle banche dati patrimoniali e che lui archivia meticolosamente su tre hard disk, protetti da password e custoditi in cassaforte, in un' ala della sede della "Polis distinto", che Cipriani ritiene inaccessibile avendola adibita a sede del "Consolato del Ghana". I nomi sono decine di migliaia. Banchieri, imprenditori, politici, professionisti, calciatori, semplici aspiranti a un impiego in Telecom. Schedati individualmente e per "operazioni" ("Filtro", "Scanning", "Garden"). La Procura di Milano, che del dvd è in possesso, né è venuta a capo solo parzialmente («Solo una piccola parte delle pratiche è stata analizzata»). Quanto basta per far scrivere al gip che l' archivio «ricorda la colossale attività di schedatura messa in atto dalla Fiat nel lontano 1971». Naturalmente, Cipriani non fa nulla di testa propria. Ogni mossa, compresa quella che affida alla "Polis distinto" la sicurezza personale di Tronchetti Provera e della sua famiglia, è decisa e commissionata dall' amico Tavaroli. Che, del resto, deve rendere conto a pochi. Solo al vertice dell' azienda. Armando Focaroli, presidente di "Telecom Italia Audit", racconta alla Procura di Milano: «Quelle di Cipriani erano operazioni "fuori sistema" che non passavano attraverso l' Ufficio acquisti. Tavaroli non era tenuto a riferirne». Del resto, Tavaroli è lo snodo decisivo e più delicato del triangolo perfetto in cui le informazioni devono essere rubate, manipolate, utilizzate. Porta in dote il libero accesso alle comunicazioni telefoniche grazie a sistemi aziendali che non lasciano traccia. Non solo "Radar", come sin qui si è pensato, ma anche il "Sistema magistratura". Dunque è libero di muovere d' iniziativa e da una posizione di forza. Con la mano sinistra usa Cipriani per il grosso del lavoro "nero", quello di marciapiede, beneficiandolo dell' unica cosa che chiede, soldi. Con la mano destra, scambia con il Sismi e reimmette nel circuito delle informazioni riservate ciò che in questo modo ha illegalmente raccolto o intende accreditare. E lo fa con l' amico Marco Mancini, numero due del Servizio. E' un gioco semplice che spiega bene alla Procura di Milano il tenente colonnello D' Ambrosio, ex capocentro Sismi di Milano: «Mancini trasmetteva notizie riservate a Tavaroli, che a sua volta le veicolava a Cipriani. Tavaroli incaricava Cipriani di lavorare su quelle notizie e quindi le ritrasmetteva a Mancini. In questo modo, Mancini otteneva la conferma delle notizie fornite al Sismi, ricevendo una certificazione idonea ad accreditarle presso i suoi superiori». Naturalmente, anche Cipriani incontra direttamente Mancini. «Al casello autostradale per mangiarsi un panino con la cotoletta», dice lui. Testimoni della "Polis" raccontano alla Procura un' altra storia. Mancini era la fonte indicata da Cipriani con il nome in codice "Nostri mezzi". Quando Cipriani si brucia per avidità, il gioco potrebbe finire. Ma le cose non vanno così. La "Polis" viene rimpiazzata dalla "Global Security" di Marco Bernardini. Un altro "free lance" dello spionaggio nero abituato a lavorare fuori dalle regole. Lo fa per un po' , aprendo pratiche sul conto di De Benedetti, Della Valle, Gnutti, Benetton. Fino a quando non si sente perduto. Si presenta alla Procura di Milano e confessa. Racconta di quando Tavaroli, nel dicembre 2004, «era stato avvertito dal suo collaboratore Angelo Iannone che, secondo le informazioni avute dal generale Ganzer (comandante del Ros, ndr.), si sarebbe abbattuto un uragano». Racconta di una notte nei giorni di Natale 2004, quando in un gigantesco falò acceso a Lonate Pozzolo, vicino alla Malpensa, viene distrutto tutto il materiale "Polis" e "Global" ancora in possesso di "Telecom" e "Pirelli". Svela un ultimo ricatto di Cipriani. Quello che lo perde e perde i suoi amici. Dice Bernardini: «So che Cipriani ha chiesto denaro al gruppo Telecom Pirelli per non riferire la password del dvd del suo archivio sequestrato dalla magistratura, aggiungendo che avrebbe anche dichiarato di aver dato parte dei soldi da lui ricevuti a Tavaroli. Il gruppo ha ritenuto di non compensare Cipriani, ma questa circostanza ha comportato il definitivo siluramento di Tavaroli, perché per l' azienda era stato lui a creare il problema Cipriani». - CARLO BONINI

 

2006

ARRESTANO I "BRIGATISTI" CHE NON MILITANO, OSSIA ARRESTANO PER LE IDEE NON PER I REATI, UN VEZZO DEL GIOVANE GANZER CHE TORNA ALLA LUCE

l' allarme

Repubblica — 10 dicembre 2006   pagina 13   sezione: CRONACA

ROMA - L' arresto di Fabio Matteini va inserito nel quadro di un' azione «preventiva» dello Stato per impedire alle Br di riorganizzarsi e riprendere l' attività terroristica. Lo sottolinea il comandante del Ros dei Carabinieri, generale Giampaolo Ganzer, ricordando che a tutt' oggi l' arsenale delle Br, comprese le armi che hanno ucciso Massimo D' Antona e Marco Biagi, non è mai stato ritrovato. «Il lavoro continua», ha spiegato il generale: «Dobbiamo approfondire e continuare ad indagare per cercare di ricostruire l' intera rete di contatti». Contatti che lo stesso Matteini ha ammesso, senza però fare i nomi. C' è però, secondo il generale Ganzer, un punto certo da cui partire: «La genesi di quest' ultima struttura neo brigatista - spiega - va ricercata nei Nuclei comunisti combattenti, sostanzialmente radicati in Toscana». L' arresto di Matteini non è solo un' azione repressiva ma anche preventiva. «Dobbiamo impedire - ha ribadito il comandante dei Ros - la possibilità che le Brigate Rosse si riorganizzino e riprendano l' attività, nonostante non siano riuscite ad aggregare altre componenti».

 

2006

GanZer: “su Tavaroli fui solo facile pro$eta

Repubblica — 22 settembre 2006   pagina 4   sezione: POLITICA INTERNA

ROMA - Davvero il comandante del Ros, il generale Giampaolo Ganzer, informò nel dicembre 2004 che le fortune di Giuliano Tavaroli stavano per tramontare? E in che termini? E' vero che consegnò l' informazione a un suo ex ufficiale, Angelo Iannone, passato dai ranghi dell' Arma alla security di Telecom? E se è così, che ne fu di quell' informazione? La catena di domande sollevata dalla "confessione" di Marco Bernardini (titolare della "Globus", l' agenzia di investigazioni private subentrata alla "Polis" di Cipriani nel disbrigo del lavoro nero per conto di Telecom e Pirelli) alla Procura di Milano trova il giorno dopo qualche faticosa risposta. Qualificate fonti ufficiali vicine al generale Ganzer riferiscono che il comandante del Ros «non ha mai potuto riferire alcuna notizia sull' inchiesta Tavaroli per il semplice motivo che non ne ha mai avute». Che è dunque «pronto a rispondere alle domande dei magistrati, se ve ne saranno», per spiegare che, «per quel che oggi è possibile ricostruire», quel che sarebbe accaduto fu nient' altro che «un affettuoso e informale consiglio a un ex ufficiale del Ros come Iannone, per anni stimato comandante di reparto, di tenersi lontano da Giuliano Tavaroli, per il quale non era difficile immaginare un futuro di guai». Un fatto sembra certo, per quanto almeno documentano gli atti della Procura. Iannone, come ha riferito lo stesso Bernardini, non riferì la "profezia" del generale a Tavaroli, che venne a sapere indirettamente di quel colloquio soltanto dopo essere stato perquisito per ordine della Procura di Milano.

2006

Per Cuffaro 153 testi eccellenti la sentenza sempre più lontana

Repubblica — 03 maggio 2006   pagina 2   sezione: PALERMO

Dovranno venire in aula a raccontare del suo impegno antimafia e delle iniziative per rafforzare la presenza delle forze dell' ordine nei quartieri ad alta densità mafiosa come Brancaccio, ma anche della sua «contrarietà a tutti i centri commerciali». Il presidente della Regione Cuffaro raccoglie un' altra imputazione e cambia linea di difesa. Primo obiettivo raggiunto: allungare a dismisura i tempi del processo. Così, come fece Giulio Andreotti, chiama a rassegna davanti ai giudici del tribunale di Palermo una lunga teoria di testimoni eccellenti, dal ministro dell' Interno uscente Giuseppe Pisanu al presidente dell' Antimafia Roberto Centaro, dal capo della polizia Gianni De Gennaro al suo vice Antonio Manganelli, dal generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros, al generale di corpo d' armata della Guardia di Finanza, Umberto Fava. E ancora i questori e i prefetti di mezza Sicilia e una sfilza di parlamentari regionali e nazionali. Per finire con un collaboratore di giustizia, quel Mario Cusimano di Villabate che, a differenza del "collega" Francesco Campanella, dice che la famiglia mafiosa del suo paese non ricevette mai ordine di sostenere Cuffaro a nessuna elezione. Un elenco lunghissimo, 153 nomi, quello depositato dai difensori di Cuffaro, Nino Caleca e Claudio Gallina, che il tribunale presieduto da Vittorio Alcamo ha accolto integralmente disponendo la riunificazione dei due processi a carico del governatore, quello già in corso da mesi con capofila Michele Aiello, che vede Cuffaro imputato di favoreggiamento a Cosa nostra, e quello apertosi ieri per rivelazione di notizie riservate dopo che la corte d' appello ha ritenuto di accogliere il ricorso presentato dalla Procura contro il proscioglimento disposto dal gip Bruno Fasciana. Due imputazioni con oggetto gli stessi identici fatti, cioè la rivelazione, da parte di Cuffaro, delle notizie sulle indagini riservate che avrebbero favorito Aiello da una parte e il boss Giuseppe Guttadauro dall' altra. Per questo motivo, i pm Maurizio de Lucia e Nino Di Matteo hanno chiesto ieri l' unificazione dei due dibattimenti, concessa dal tribunale nonostante l' opposizione della difesa del governatore. Che adesso, però, punta ad accendere i riflettori su tutta l' azione di governo di Cuffaro e non più a limitarsi ai singoli episodi contestati. E così al ministro dell' Interno Pisanu, il governatore intende far riferire ai giudici del suo impegno per l' apertura di un commissariato a Brancaccio, della firma della convenzione per la realizzazione di una cittadella della polizia a Boccadifalco o dei fondi per la ristrutturazione del gabinetto di polizia scientifica. Informazioni che saranno chiamati a confermare anche il capo della polizia De Gennaro e il suo vice Manganelli, il questore di Palermo Caruso e il suo predecessore Francesco Cirillo. Un commissariato di polizia ma anche una caserma dei carabinieri nel quartiere del boss Guttadauro. Per questo Cuffaro chiama i vertici dei carabinieri in Sicilia, a cominciare dal generale Arturo Esposito mentre al comandante dei Ros Ganzer vuole chiedere se ha mai ricevuto richieste sulle indagini in corso da persone che non avevano motivi di ufficio. Dal cilindro dei suoi atti di governatore, Cuffaro estrae di tutto. Anche i protocolli di legalità firmati con i prefetti di tutte le province dell' Isola e le nomine dei presidente delle stazioni appaltanti per evitare le infiltrazioni della criminalità organizzata. Sugli ultimi due prefetti di Palermo, Renato Profili e Giosuè Marino, poi, il governatore conta per dimostrare quella che definisce la sua «contrarietà a tutti i centri commerciali»: Villabate come Brancaccio, dunque. Testimonianze che, nelle sue aspettative, dovrebbero smentire le dichiarazioni del pentito Campanella sul ruolo giocato dal presidente a favore del centro sponsorizzato da Guttadauro anziché per quello che stava a cuore al boss di Villabate, Nino Mandalà. Nella nuova lista testi del presidente ci sono anche i componenti del Consiglio regionale per l' urbanistica e del consiglio comunale di Villabate, ma anche il suo segretario particolare Fabrizio Bignardelli, il titolare del negozio di abbigliamenti di Bagheria Bertini, l' ex segretaria del procuratore aggiunto Lo Forte, Margherita Pellerano, il parroco di Brancaccio, Mario Golesano. In attesa dell' interrogatorio di Cuffaro, che avverrà subito dopo le elezioni del 28 maggio, ieri il processo è proseguito con l' interrogatorio di un altro degli imputati, Domenico Oliveri, il medico dell' Ausl di Bagheria che firmava le false ricette per le prestazioni in convenzione da effettuare presso le cliniche di Aiello. Sui suoi conti correnti, i pm hanno trovato milioni di euro poco compatibili con il suo stipendio da dipendente. E hanno scoperto che il medico intascava anche il 7 per cento sul fatturato da capogiro delle cliniche di Bagheria. - ALESSANDRA ZINITI

 

2006

D'alema gridava sommesso: "orrore orrore Letta bypassa Ganzer" !!!

le intercettazioni, Sismi, la grande ragnatela tra le spie e i giornalisti

Repubblica — 28 luglio 2006   pagina 16   sezione: POLITICA INTERNA

MILANO - L' affresco di un mondo con i suoi nemici, i cortigiani e perfino i suoi amori. Per tracciare il ritratto di un ambiente e dei suoi protagonisti ogni epoca ha i propri mezzi. Nel Duemila ci sono le intercettazioni. Così per capire cosa succede ai vertici del Sismi non c' è niente di meglio delle registrazioni delle telefonate di Pio Pompa, il tuttofare di Nicolò Pollari. L' uomo che viveva nell' ufficio-rifugio di via Nazionale a Roma. Come viveva in quell' appartamento ripieno di segreti? Quali erano i suoi compiti? Basta leggere i brogliacci degli investigatori per capirlo. Centinaia di telefonate in cui Pompa tesse la sua tela per poi riferire al suo "number one", a Pollari. Centinaia di nomi noti e sconosciuti, in cui ai giornalisti - di sicuro la categoria più rappresentata - si uniscono uomini della Cia e, in miscuglio che ricorda più Ciccio e Franco che James Bond, parenti che domandano soldi per comprare il motorino, donne che lo chiamano - col diminutivo di "Mimmolo" - e perfino "Gino il farmacista" che chiede (con successo) di avere una corsia preferenziale per ottenere il passaporto. Ci sarebbe da sorridere, se il ritratto non fosse per tanti versi molto amaro. Emerge infatti una sistematica attività di disinformazione compiuta dal Sismi, giovandosi di una fitta schiera di giornalisti. Uno di loro è stato indagato per favoreggiamento. Altri dimostrano legami molto, molto assidui. Sembrano concordare con Pompa il contenuto di alcuni articoli. Arrivano perfino a scrivere documenti per il Sismi. Tutto partiva da quell' appartamento al sesto piano di un palazzo ocra affacciato su via Nazionale. Campagna per diffondere notizie false, per attaccare quotidiani (La Repubblica), per affidare a giornalisti amici delle veline da pubblicare sui loro quotidiani. Le tracce di questa febbrile attività sono tutte lì, nei nastri registrati, così come in casse e casse di materiale sequestrato: cd, floppy disc, computer, che i magistrati devono ancora esaminare. Ma anche un archivio proprio sul caso Abu Omar, dossier sul Nigergate (l' inchiesta realizzata da Repubblica), Telecom, Telecom Brasile (un documento etichettato come "Il grande imbroglio") e Telekom Serbia. E ancora: fascicoli sui magistrati impegnati in inchieste che coinvolgono il Sismi, primo fra tutti proprio lui, Armando Spataro, il procuratore aggiunto di Milano. Qui, nelle dodici stanze dell' appartamento dove viveva e lavorava Pompa, sarebbero state confezionate e concordate decine di notizie finite poi sulle prime pagine di molti giornali. Frammenti di verità, voci, depistaggi, tutto mischiato insieme fino a diventare impossibile da distinguere. Gli amici giornalisti -Il telefono di Pio Pompa sembra il centralino di una redazione. I giornalisti lo chiamano in continuazione. E lui a sua volta chiama, offre notizie, chiede articoli. I nomi che compaiono più frequentemente? Andrea Purgatori (L' Unità), l' ex direttore del Riformista Stefano Cingolani, che proprio ieri è tornato a occuparsi del caso con un articolo sulla prima pagina della Stampa di Torino, Renato Farina, vice direttore di Libero, e Oscar Giannino che, sempre ieri e sempre su Libero, ha affrontato la polemica di Tronchetti Provera nei confronti del Gruppo Espresso. I tabulati parlano chiaro: dal 19 al 22 maggio di quest' anno, in appena tre giorni Andrea Purgatori dell' Unità parla con Pompa almeno sei volte. Infinite (sette in tre giorni) le telefonata di Renato Farina, il vicedirettore di Libero indagato per favoreggiamento e accusato di aver ricevuto numerosi pagamenti dal Sismi. I dialoghi lasciano poco spazio al dubbio. Ore 12,32 del 22 maggio. Farina dice: «Senti Pio, domani alle cinque vedo Spataro per un' intervista». Pompa: «Micidiale, benissimo... appena raggiungo il capo (Pollari, ndr) ti chiamo... e concordiamo un attimo». Insomma, le domande a Spataro pare fossero almeno in parte dettate direttamente dal Sismi, come dimostra anche una telefonata tra Pompa e Pollari. 22 maggio ore 13.26. Pollari: «Ma lui (Farina) sa che cosa dire?». Pompa: «Sì, ma è il caso che si ripassi la lezione insieme a noi». Insomma, un incontro preparato a lungo con Farina che non risparmia complimenti a se stesso: «La mia forza è stata la sincerità, mi spiego» ed esulta per aver concordato con Spataro di partecipare a un dibattito sull' etica del giornalismo. Telefonate e sms sui quali sta indagando la magistratura. Non è invece indagato Stefano Cingolani che pure dal 24 al 27 maggio parla nove volte con Pompa. Tre ogni giorno. è il 26 maggio (ore 18.38) quando Pio sembra dettare la linea per un articolo all' ex direttore del Riformista. Pompa: «Stefano... questi devono andare affanculo con la tua penna». Cingolani: «Ma chi dici?». Pompa: «Gli Angelucci, tutti quanti, capito?». Cingolani: «Sì, sì». Non basta. Pompa chiede a Cingolani anche di redigere un documento per il Sismi: «Si tratterebbe di mettere su la tua penna per fare... che ti devo dire... dieci cartelle di alto profilo». Cingolani, tentenna, «devo vedere le mie figlie», ma poi cede. In una telefonata del 13 giugno alle 14.00 Pompa, parlando del caso Abu Omar, racconta a Cingolani: «Esiste un documento della Commissione Europea firmato da Prodi che di fatto agevolava i voli e le rendition». Cingolani (che sta per lasciare "Il Riformista"): «Perché non la tiriamo fuori? Dai, facciamo l' ultima follia». Non andrà così, ma la notizia anti-Prodi esce comunque su un altro quotidiano. Ma Cingolani nei suoi colloqui con Pompa tira in ballo anche il Presidente della Repubblica. è il 7 giugno alle 12.25, si parla di Paolo Franchi, nuovo direttore del Riformista, al posto proprio di Cingolani. Che attacca prendendo a pretesto un articolo uscito sul Foglio. E dice: «E poi perché arriva Franchi qui e chi... chi lo vuole... chi l' ha sostenuto... l' operazione è quella che dicevo io... Macaluso e Napolitano». Cingolani lascia il Riformista, ma già in una telefonata del 9 giugno i due amici parlano del futuro e Cingolani pare quasi chiedere aiuto. Pompa: «Che c' abbiamo un sacco di cose da fa' , ma proprio tante». Cingolani: «Che vuoi fa' , ormai è finita, la prossima settimana tratto l' uscita... vabbé queste cose le scriveremo altrove... diciamo che di economia sto a posto e di esteri e di sicurezza bisogna trovare un luogo dove... scrivere, capito?». Pompa: «Non ti preoccupare, hai capito?». Cingolani: «Un luogo buono dove scrivere, così mi dedico a tutti e due i fronti che sono poi i miei e insomma, sono una firma, ecco...». Il caso Repubblica - Una telefonata tra Pio Pompa e Nicolò Pollari rivela poi l' esistenza di una vera e propria campagna di stampa orchestrata contro La Repubblica. Sono le 10.20 del 4 giugno scorso quando il numero uno del Sismi e il suo uomo di fiducia si sentono al telefono per tre minuti. Un colloquio breve, ma molto chiaro. Pompa: «Oggi c' abbiamo un ottimo articolo che ieri con Betulla abbiamo concordato, a firma di Oscar Giannino... in sostanza dice: "Vogliono scaricare (il soggetto sottinteso è proprio La Repubblica, ndr) sui servizi perché gli fa comodo". Il titolo è: "Se Repubblica attacca Telecom"». Pollari: «Va bene. Su quale giornale è uscito?». Pompa: «Su Libero, sì, in prima pagina, scritto molto bene, perché poi è venuto da me, se lo ricorda, vero? Hanno fatto proprio un' intera paginata... è proprio indirizzato a Repubblica». Pollari: «Sono molto contento. Va bene, perfetto. Grazie». E l' atteggiamento dei vertici del Sismi nei confronti di Repubblica emerge anche da una telefonata di poco successiva tra Pompa e un personaggio non identificato. è il 4 giugno, ore 10.59. Massimo: «Il capo ha letto l' articolo di Oscar Giannino e lo ha definito un capolavoro... è scritto molto bene e poi va a toccare i nervi scoperti». Pompa: «Se tu vai a leggere il libro di Pons (giornalista di Repubblica) e Oddo (Sole 24 Ore) che si alternano a D' Avanzo e Bonini sulla questione Telecom... vedi che quella è la linea che seguirà l' inchiesta». Anche Farina - il 21 maggio alle 21.12 - attacca Repubblica e, citando Gad Lerner, parla della vicenda di Giuliano Tavaroli (l' ex responsabile della sicurezza Telecom accusato di associazione per delinquere in relazione nell' inchiesta sulle intercettazioni abusive) e aggiunge: «Un mio amico mi ha detto che l' intenzione non sarebbe quella di colpire a un livello alto, ma di fermare i due, Tavaroli e l' altro. Mi sono sentito con Lerner il quale dice che questa vicenda per Repubblica è una manovra per fare fuori parecchie persone, vuole fare fuori Tronchetti Provera e tutti i suoi nemici». Telecom - Pompa e i suoi interlocutori chiamano spesso in causa anche Telecom. Oggetto principale dei discorsi: l' ombra che grava sul colosso della telecomunicazione per l' inchiesta della Procura di Milano sulle intercettazioni abusive. Il 26 maggio alle 19.43 Pompa ne parla direttamente con Pollari: «Telecom ha prodotto due documenti che ha inviato all' Authority e alla Procura, dove dice: "Allora questi sono i sistemi di intercettazione dichiarati..." e poi hanno aggiunto altri sistemi che non erano dichiarati ma che dicono di aver scoperto solo ora! Le chiamano "strutture nascoste di intercettazioni"». Pollari: «Ma erano irregolari». Pompa: «Ma certo che erano irregolari». Pollari: «Allora erano abusive». Pompa: «Erano abusive assolutamente. Loro adesso dicono: "Ce ne siamo accorti adesso"... questo disegna la linea difensiva». Non basta. Farina il primo giugno alle 20.44 riferisce: «C' è anche quest' altra notizia che Tavaroli avrebbe accompagnato Ludwig (il maresciallo Pironi dei Ros, che ha confessato di aver partecipato al sequestro Abu Omar, ndr) sei mesi dopo il sequestro per prendere un colloquio di lavoro dal responsabile della sicurezza Pirelli...che è quello che ha preso il posto di Tavaroli quando lui è passato da Pirelli a Telecom, però questo non ha odorato positivamente Ludwig e non se n' è fatto nulla». E Farina aggiunge: «Ti dico anche questa: coincide con il periodo con cui Pironi avrebbe voluto passare al Sismi». Quindi i due cominciano a parlare di Telecom Brasile. Pompa chiede a Farina: «Ma tu l' hai capita l' operazione che stanno mettendo in piedi? è che la Cia in Brasile aiuta Telecom». Farina: «Ho capito il concetto, la Cia aiuta in Brasile Telecom e in cambio si fa aiutare». Pompa: «E la Telecom che sale la "forcible abduction"». Abu Omar, Tavaroli e la Cia - è il 24 maggio. Ore 11.08. Pio Pompa parla con una donna la cui identità non è stata ancora accertata. Donna: «Hai visto Repubblica, c' è una frase che parla della spy story di Abu Omar e di Tavaroli, dice che presto potrebbero emergere collegamenti con operazioni della Cia compiute in Italia». Pompa: «Ho letto l' articolo, è coerente». Il giorno dopo, alle 21.12, ecco di nuovo ricorrere il nome di Tavaroli. è sempre Pompa a parlarne e a metterlo in relazione con la Cia parlando con Farina: circola una voce, dice l' uomo del Sismi, «cioè che Tavaroli era stato pagato quindicimila dollari o euro al mese dalla Cia ed è una cosa che circola tra gli investigatori... a questo punto vuol dire che il nesso Tavaroli, Cia e Abu Omar è chiaro», sostiene Pompa con il suo interlocutore. Un groviglio quasi inestricabile. Cui Pompa e Farina, il 10 giugno alle 16.09, aggiungono altri nomi molto pesanti. Una ricostruzione che raccoglie voci di ogni tipo. Farina: si sente dire che «nel rapimento di Abu Omar, dinanzi al "no" del Sismi, Gianni Letta (ex sottosegretario del governo Berlusconi) bypassando Ganzer (il comandante dei Ros, Reparti Operativi Speciali dei carabinieri) avrebbe incaricato, non so attraverso quali anelli di congiunzione, il Ros di fare quell' operazione d' accordo con la Procura, cioè l' anello sarebbe Letta-Dambruoso (l' ex pm milanese che all' epoca del sequestro si occupava di terrorismo islamico)». Al Zarqawi - L' 8 giugno alle 11.32 Pompa parla con Andrea Purgatori, che lo chiama per parlare della morte in Iraq di Al Zarqawi, il giorno prima. Pompa: «Sai come l' hanno beccato? Sulla base del video che ho trovato io, e feci lo scoop!». Poi aggiunge: «Quello ha girato delle immagini all' aperto dove si vedeva dietro, e da quelle immagini l' hanno beccato. Perché lo demmo noi il video a loro (gli americani, ndr), capito?». A quel punto i due si accordano perché Pompa invii a Purgatori materiale, - «compreso la foto satellitare del posto, se i tuoi la vogliono», specifica Pompa - e si salutano. Poi Pompa riceve una telefonata da un non meglio identificato «Pinin». Gli investigatori annotano: «Pinin riferisce a Pio di aver parlato con Robert e che questi gli ha comunicato che gli americani dicono che hanno fatto tutto loro». Passa mezz' ora e Cingolani del Riformista chiama Pompa e gli chiede come hanno fatto a prendere Zarqawi, chi sarà il successore e il nuovo scenario politico della resistenza. Poco dopo, altra conversazione sul presunto capo terrorista, questa volta con Gianmarco Chiocci del Giornale. Lui, che dice di avere già il video che avrebbe incastrato Zarqawi, chiede: «Mi mandi, se c' è, un' analisi su Al Zarqawi. Io poi dopo ci attacco il pezzo?». E Pompa: «Io ti mando il comunicato tradotto di Al Qaeda, chi sarà il futuro capo». - FERRUCCIO SANSA CRISTINA ZAGARIA

 

2006

Interrogammo a Guantanamo

Repubblica — 19 ottobre 2006   pagina 12   sezione: POLITICA INTERNA

MILANO - «Andammo in quattro a Guantanamo, tutti del Ros, a interrogare detenuti nel campo, su mandato del Comando generale nella persona del generale Ganzer. Non riferimmo all' autorità giudiziaria nulla sulla nostra attività». Le parole di un maresciallo dei Ros di Torino nell' aula della prima corte d' assise di Milano, scatenano la rivolta degli avvocati: «Si conferma che gli investigatori italiani, sia i carabinieri che la polizia, hanno più volte usato fonti di discutibile liceità ed eticità, giungendo formalmente e, su espressa autorizzazione dei vertici, ad oltrepassare le mura di Guantanamo e a pescare informazioni da persone che notoriamente sono sottoposte a torture e non godono dei diritti civili e umani» dice l' avvocato Sandro Clementi. «Questa è la prova - continua il legale - che l' autorità italiana ha legittimato l' esistenza di strutture illegali come la base statunitense in territorio cubano ». Il maresciallo dei Ros è stato ascoltato come testimone nel processo a carico di tre algerini tra cui l' ex imam di Varese, Abdel Majid Zergout, accusati di terrorismo internazionale. L' imam e gli altri imputati sono accusati di aver creato «la cellula italiana del Gruppo islamico combattente marocchino» (Gicm). Anche se non direttamente coinvolti in attentati, sarebbero i reclutatori e i finanziatori del gruppo, «legato a Bin Laden», accusato della strage nel 2003 a Casablanca in cui morirono 45 persone. «Nessuna delle persone che sentimmo, nel novembre del 2002, rispose alle domande, perciò non informammo l' autorità giudiziaria e comunque a Guantanamo - il carabiniere racconta al pm Elio Ramondini - Si trattava di colloqui informali, durante i quali prendevamo appunti e su cui abbiamo redatto dei report per capire se esistesse un rischio di attentati in Italia». Il maresciallo ha chiarito che «nulla di quella attività fu riversato nel processo in corso», anche se ha ammesso che, in un secondo momento «in via informale furono avvisati della spedizione a Guantanamo Marcello Tatangelo e Sandro Ausiello della Procura di Torino». Durante «la prima e l' unica missione del Ros» presso la base americana in territorio cubano, nel novembre del 2002, «furono probabilmente sei le persone cui furono poste domande - dice il testimone - senza la presenza di avvocati». Di queste «solo una rispose, a proposito delle sue conoscenze a Bologna». L' avvocato Clementi e il legale di Zargout, l' avvocato Luca Bauccio, a margine dell' udienza parlano di «un' ombra inquietante sulle indagini sul terrorismo islamico». La presenza di investigatori italiani a Guantanamo non è una novità, ma per il senatore di Rifondazione Milziade Caprili, vice presidente del Senato e membro del Copaco: «Se le notizie rese dal maresciallo dei Ros venissero confermate ci troveremo di fronte ad un fatto gravissimo che assomma all' incostituzionalità l' aggravante di aver legittimato l' illegalità, riconosciuta da tutti a livello internazionale, del carcere di Guantanamo». I giudici della prima corte d' assise, presieduta da Luigi Cerqua, si sono ritirati per decidere sulla richiesta delle difese di ascoltare come testimoni il tenente di Bologna, il maggiore di Roma e il colonnello di Genova, che insieme con il maresciallo fecero parte della squadra che di Guantanamo. Per il sostituto procuratore Elio Ramondini: «Nessuna autorità giudiziaria avrebbe mai accettato di mettere agli atti di un' inchiesta l' eventuale contenuto dei colloqui». Anche se «non era una missione segreta» dice la procura di Bologna, «la missione del Ros - dice il pm Luca Tampieri- serviva per capire se gli arrestati avevano informazioni su personaggi che vivevano a Bologna (liberati e riarrestati dagli americani in Afghanistan ndr). Sono stati sentiti come persone informate sui fatti, non c' era bisogno né di rogatorie né di avvocati». - CRISTINA ZAGARIA

 

2005

Pizzini, talpe e raccomandazioni 'Aiello, un uomo di Provenzano'

Repubblica — 08 giugno 2005   pagina 6   sezione: PALERMO

ROMA - «Rispettalo come se fossi io, lascialo libero». è il 1993 quando Giovanni Brusca riceve un pizzino da Bernardo Provenzano. Il capo dei capi di Cosa nostra gli raccomanda caldamente un imprenditore che avrebbe dovuto effettuare alcuni lavori per la realizzazione di una strada interpoderale ad Altofonte. «L' ingegnere Michele Aiello di Bagheria», dice Brusca. Lo stesso Aiello, si scoprirà solo più di dieci anni dopo, di un altro pizzino, quello trovato in tasca a Totò Riina il 15 gennaio del ' 93, al momento della sua cattura. Nell' aula bunker di Rebibbia a Roma, il boss di San Giuseppe Jato pentito e il capitano Ultimo raccontano al Tribunale presieduto da Vittorio Alcamo di quell' Aiello citato nei biglietti dei capi di Cosa nostra. «Le indagini dei colleghi dell' Arma territoriale - spiega il colonnello Sergio De Caprio - lo identificarono come un tale Aiello di Altofonte». Solo nel 2004, a indagine sulle "talpe" iniziata, gli inquirenti si ricordarono di quel pizzino dimenticato tra le carte e scoprirono chi era l' Aiello interessato ai lavori della strada interpoderale di Altofonte: un noto imprenditore di Bagheria «raccomandato» da Bernardo Provenzano in persona. Racconta Giovanni Brusca: «Provenzano mi chiese di occuparmi della "messa a posto" dell' imprenditore Aiello di Bagheria. Mi arrivò un suo pizzino in cui mi diceva di rispettarlo, come se fosse la sua stessa persona. Ci fece arrivare la "messa a posto", due tranche da trenta milioni, e poi non gli abbiamo chiesto più niente, né subappalti né forniture. Non l' abbiamo più disturbato». Un rapporto, quello con Aiello, gestito direttamente da Provenzano. «Io Aiello non l' ho mai visto né conosciuto», chiarisce Brusca. E di questo «strano» appalto assegnato a un' impresa raccomandata si era accorto anche un altro capomafia di Altofonte, oggi anche lui pentito, Gioacchino La Barbera. Che di Aiello non conosceva né il volto né il nome, se non quello della sua impresa, la Stradedil. Fu così che, dopo aver letto sui giornali delle vicissitudini giudiziarie di Aiello e delle sue imprese, La Barbera chiamò la Procura per riferire di quel piccolo episodio del quale non aveva mai parlato. «Ricordo - ha detto ieri in aula - che arrivarono mezzi nuovi di zecca per un lavoro vicino alla cava di Rabottone. Chiesi al proprietario della cava, Totò Buttitta, di chi fossero e mi disse che erano di una persona disponibile, vicina a noi. Poi ne parlai con Brusca e Bagarella e mi dissero di lasciare stare». Fin qui i pentiti. Ma la trasferta romana è servita anche per ascoltare altri due testi del processo alle "talpe": il capitano Ultimo, appunto, e il comandante del Ros dei carabinieri, il generale Giampiero Ganzer. Al centro delle domande dei pubblici ministeri Maurizio de Lucia e Nino Di Matteo la figura del maresciallo Giorgio Riolo, uomo di punta delle operazioni tecniche del Ros a Palermo, poi rivelatosi uno degli informatori di Michele Aiello e di Cosa nostra. E di indagini mandate in fumo da qualche "talpa" il capitano Ultimo ne ha ricordate un paio, a cominciare da quella sull' autoscuola "Primavera" di via Daita, frequentata dai favoreggiatori di Provenzano. Ganzer, che ha avuto modo di conoscere Riolo a partire dal ' 96, ha confermato che l' investigatore era molto apprezzato per le sue capacità tecniche e, insieme con altri colleghi, era stato proposto per un encomio per l' attività che aveva portato alla cattura di Riina. E a firma di Ganzer sono le note di valutazione di Riolo, giudicato sempre eccellente. Tanto che il generale precisa: «Tutti i suoi superiori hanno provato dispiacere e incredulità quando sono venute fuori le vicende penali che lo riguardano». Superiori ai quali, come ha dimostrato l' avvocato Massimo Motisi producendo la nota, Riolo nel febbraio del ' 99 aveva regolarmente comunicato l' assunzione della moglie nella clinica di Michele Aiello, senza che questo destasse alcuna perplessità. - ALESSANDRA ZINITI

 

2005

Operazioni truccate, GanZer a giudizio

Repubblica — 14 giugno 2005   pagina 29   sezione: CRONACA

ROMA - Sette anni di indagini e 29 udienze preliminari. Per una storia nera che "Repubblica" cominciò a documentare nel marzo del 2001. Ieri, la magistratura di Milano ha presentato il conto. Il giudice dell' indagine preliminare Andrea Pellegrino, accogliendo le richieste dei pubblici ministeri Luisa Zanetti e Daniela Borgonovo, ha concluso che, dal 1991 al 1997, la sezione antidroga del Ros dei carabinieri, il nucleo di eccellenza investigativa dell' Arma, si è costituita e mossa come un' associazione per delinquere. Ha trafficato in stupefacenti, assicurando l' impunità ai suoi grossisti. Ha occultato denaro e droga frutto dei sequestri. Complice un magistrato di provincia che ne ha tollerato e condiviso gli abusi, ha trasformato agenti sotto copertura in provocatori. Ha manipolato prove e corpi di reato. Ha dato lustro al Reparto truccandone le operazioni. Venticinque imputati vanno a giudizio per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, peculato, falso. Sono ufficiali (tre) e sottufficiali (otto) dell' Arma, un magistrato e un pugno di trafficanti (due dei quali hanno scelto il giudizio abbreviato e sono stati già ieri condannati). Con tre nomi in elenco che pesano più degli altri: il comandante del Ros, Giampaolo Ganzer; il generale Mauro Obinu, che dell' antidroga del Ros è stato comandante e oggi dirige la divisione crimine organizzato del Sisde; Mario Conte, già sostituto procuratore a Bergamo e oggi pm a Brescia. Il processo si aprirà il 18 ottobre a Milano, di fronte alla ottava sezione del tribunale. Ma per misurare l' urto che oggi investe l' Arma è sufficiente annotare una circostanza. Nel pronunciare la decisione che consegna le responsabilità del Ros al dibattimento, il gip Pellegrino ha disposto l' immediata trasmissione della sua ordinanza al ministero della Difesa, a significare l' urgenza del problema che si apre ora in sede politica e militare (anche il Csm è stato sollecitato dal gip ad affrontare la posizione disciplinare del sostituto procuratore Conte). La storia che raccontano i cinquanta faldoni dell' inchiesta (istruita nel 1997 in completa solitudine dal pm di Brescia Fabio Salamone, alimentata dalle dichiarazioni del "pentito" Biagio Rotondo, dalle ostinate indagini di un avvocato di Pescara, Maria Di Ielsi, e quindi, dopo un penoso limbo, trasferita per competenza alla Procura di Milano nel 2001) non interpella infatti soltanto le responsabilità dei singoli imputati, ma denuncia un «metodo» investigativo. Un «format» di successo ripetuto nel tempo con le operazioni "Cedro" (1991), "Hope" (1993), "Lido" (1994), "Shipping" (1994), "Cobra" (1994), "Cedro uno" (1997). Perché «di successo» se ne era dimostrata la formula. «Il Ros - scrivono i pm e accredita ora il gip con la sua ordinanza - instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedite al traffico degli stupefacenti senza procedere né alla loro identificazione, né alla loro denuncia». Ordina quindi «quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello stupefacente importato». Sono routine che nulla hanno a che vedere con «operazioni sotto copertura». Sono «istigazioni ad importare in Italia sostanza stupefacente», a «raffinarla» se necessario, a «smerciarla», per poi chiudere la rete su pesci piccoli che fanno numero, salvo perdere di vista quelli più grossi all' origine del traffico. Si muove molta droga e con la droga molto denaro. Quando ce n' è bisogno, anche armi (accade nel 1993 a Ravenna, quando dalla motonave "Bisanzio" sbarcano «119 kalashnikov, 2 lanciamissili, 4 missili e numeroso munizionamento»). Basta contare su un magistrato di provincia (Mario Conte, allora sostituto procuratore a Bergamo) che radichi la propria competenza sulle operazioni e le avalli pur sapendole truccate. Durante le 29 udienze di fronte al gip, il generale Ganzer si è difeso chiedendo di essere interrogato. Con una lunga memoria ha circoscritto tempi e modi delle sue responsabilità nel comando delle operazioni al centro dell' inchiesta, nonché i suoi rapporti con il magistrato Conte. Ha negato alla radice i reati che gli vengono contestati e lo ha fatto ponendo un problema. Che alza la posta di questo processo e ne fa un problema dell' Arma. Del suo comando generale. Se esiste un "metodo Ganzer" - è l' argomento dell' ufficiale - quel "metodo" nulla ha a che vedere con le conclusioni dei pm e del gip di Milano. Era un metodo che non aveva un solo padre e che ora qualcuno, oltre a lui, dovrà cominciare difendere. - CARLO BONINI

 

 

2005

MA IL TARANTINO non fu uno scandalo del 2010 ? SIGNIFICA CHE IN ITALIA UNA COSA CHE NON FA SCANDALO NON FUNZIONA ? forse è un'omonimia ? (Non mancano i riferimenti incrociati agli ultimi tra i più scandalosi provvedimenti ad personam e pro-mafia dell'esecutivo: uno recita "con infamia e senza Lodo", un altro "mi Mangano le parole", altri ancora si concentrano sullo scandalo Tarantino-D'Addario-Berlusconi definito "Puttanopoli" con ironica vignetta dal titolo "Al tappone and sex senility".  tratto da http://www.pmli.it/manifestazioneromastampa.htm il 15-4-2010)

IL PROBLEMA CHE CI PONIAMO E': PERCHE' GANZER COLPISCE SCHIAVISTI DI PROSTITUTE E COCA OUT ?

is a problem of market control ?


Coca, maxiblitz europeo manette nella Milano-bene

ROMA - Un pieno di gente "per bene" nella Milano delle "seratine" della moda e dello spettacolo. Un pieno di cocaina (una tonnellata e mezzo) raffinata a Moron, in Argentina, destinata all' Italia e trasportata in Europa attraverso il porto di Valencia, Spagna, occultata in carichi di carbone vegetale. Un pieno di denaro contante (due milioni e mezzo di euro) e di pasticche di ecstasy (110 mila) pronte a prendere la strada di Italia, Spagna e Olanda e intercettate in Francia, a Montpellier. Dopo tre anni di indagini, coordinate dalla Direzione Centrale dei Servizi Antidroga, e di lavoro con le polizie argentina, spagnola e francese, il Ros dei carabinieri e la Procura di Trento (dove tutto è cominciato in qualche discoteca) tirano la rete dell' operazione "Trabajo", lavoro, e alla fine della giornata, con la droga, contano gli arresti: sessanta. Con qualche nome che fa più chiasso di altri. Come quelli dei fratelli Ulivieri: Leopoldo Bernardino e Marco Morgan, figli della contessa milanese Giuseppina "Pinin" Garavaglia, già animatrice della Milano anni '80 prima di diventare ospite frequente di talk show televisivi. Secondo l' accusa, Leopoldo Bernardino (arrestato durante un coca-party a Ibiza, dove vive) era il cassiere dell' organizzazione. Marco Morgan, che viveva in casa con la madre, il contabile. Incaricato di mettere insieme il contante raccolto con lo spaccio sulla piazza di Milano e quindi di trasferirlo al fratello in Spagna. L' arresto dei due fratelli si è portato dietro un altro pezzo di mondanità milanese: Davide Rombolotti e Paolo Tarantino, organizzatori di eventi e grandi feste, spalancando all' indagine dei Ros - come è stato stigmatizzato dal generale Ganzer - «un vasto giro di spaccio». Con ramificazioni in altre importanti "piazze": Genova (dove ieri sono state arrestate due modelle e, nel tempo, 25 corrieri), Bari. Secondo l' indagine, a tirare le fila del traffico dall' altra parte dell' oceano l' argentino Diego Emiliano Corzo (arrestato ieri in uno scantinato a Ibiza), verosimilmente con la complicità della potente famiglia Losono, proprietaria delle miniere di carbone vegetale nella regione del Chaco. A muovere la cocaina, un esercito di corrieri cui, come documentano alcune delle centinaia di intercettazioni telefoniche, è capitato anche di affidarsi alle veggenti per esser certi di non essere intercettati. Per come è finita, non è servito.

 

 

2005

RAGAZZI SCHERZIAMO I RO$$ VIVONO DI ARIA MICA MANGIANO ...

Maresciallo del Ros arrestato per tangenti

Repubblica — 22 novembre 2005   pagina 26   sezione: CRONACA

BERGAMO - Un maresciallo del Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri (Ros) è stato arrestato ieri a Bergamo mentre cercava di farsi pagare una tangente di alcune migliaia di euro da un imprenditore locale. Alberto Lazzeri Zenoni, questo il nome del maresciallo, stando all' accusa avrebbe cercare di convincere l' uomo a dargli i soldi sostenendo che gli avrebbe potuto evitare problemi con la Guardia di Finanza. Lazzeri Zenoni era già indagato anche dalla procura di Milano per spaccio e traffico di droga. Sempre a Milano, lo stesso maresciallo è coinvolto nel cosiddetto processo ai Ros insieme al pm Mario Conte, al generale Giampaolo Ganzer, al colonnello Mario Obinu e ad altri sette sottoufficiali dell' Arma.

 

Eppure chi oggi mi accusa all' epoca non disse niente

Repubblica — 14 giugno 2005   pagina 29   sezione: CRONACA

MILANO - Dove finisce il generale e dove comincia l' imputato? Come convivono dentro a uno stesso uomo - questo signore di sessant' anni con lo sguardo di ferro e la sigaretta facile - l' ufficiale dell' Arma abituato alle asprezze della repressione, e il cittadino che si trova all' improvviso nel tritasassi della giustizia? Giampaolo Ganzer è appena uscito dall' aula bunker del Tribunale di Milano, quella dove di solito si fanno i maxiprocessi a mafiosi e 'ndranghetisti. Ha appena sentito il giudice che lo rinviava a giudizio come capo di un' associazione di narcotrafficanti sbocciata all' interno del Ros dei carabinieri. Eppure ai giornalisti che lo aspettano fuori Ganzer sa mostrare solo la faccia di uomo dello Stato: «Aspetto serenamente il giudizio». Intende dimettersi? «Io ho la coscienza a posto, poi ci penseranno i miei superiori. Se non avessi la coscienza a posto l' avrei fatto anche prima». Ma sarebbe inumano che fosse tutto qui. Che, dentro di sé, Giampaolo Ganzer non fosse arrabbiato come una belva. E mezz' ora dopo, davanti ad una tagliata di manzo e a un bicchiere di Chianti, si scopre che Ganzer è davvero arrabbiato. Perché il generale di ghiaccio dentro di sé la speranza di uscire di scena da questo pasticcio la nutriva davvero. Era convinto che il giudice preliminare Andrea Pellegrino potesse firmare la sentenza che lo avrebbe tolto dai guai, evitandogli l' onta del processo pubblico. Invece niente da fare. Processo il 18 ottobre. «Lo hanno fissato anche in fretta». In fondo è meglio così, generale. «Sì, forse sì». A dare la speranza a Ganzer di uscire di scena erano stati quei cinque giorni in cui, davanti al giudice, aveva cercato di togliersi di dosso i sospetti. E, da ultimo, pochi giorni, fa, le duecento pagine di memoria consegnate al giudice per ripercorrere le accuse e cercare di smontarle una per una. è pensando a quelle duecento pagine che Ganzer si concede l' unico sprazzo polemico: «Hanno fatto di tutta l' erba un fascio, non hanno voluto distinguere. è come se quelle duecento pagine non le avessero nemmeno lette». Ma le duecento pagine sono lì, sul tavolo. E lì, inevitabilmente, di sassi dalle scarpe il generale se n' è tolto più d' uno. Perché le accuse contro di lui, dice, riguardano in grande parte fatti e inchieste avvenute prima del 1994, quando lui con il reparto antidroga del Ros c' entrava zero. E quelle avvenute sotto il suo comando lo avrebbero visto soltanto firmare relazioni predisposte da altri, nella marea di carte che un comandante di reparto ha la responsabilità di firmare. Si intuisce, leggendo questa memoria, che di fronte ad alcuni dei comportamenti del nucleo del Ros di Bergamo anche Ganzer inorridisce: come quando, spendendo il suo nome, dei marescialli vanno in Svizzera per riciclare in dollari i miliardi per pagare i narcos colombiani. è a questi comportamenti che Ganzer pensa quando lamenta «mi hanno messo nel mucchio». Ma di altre si assume la responsabilità, come per la partita di droga rimasta per sei mesi negli armadi del Ros di Roma, e qui Ganzer è costretto a scontrarsi con un suo amico di sempre, il pm Armando Spataro, che su quella partita di droga è divenuto teste d' accusa nei suoi confronti: «Il dottor Spataro all' epoca dei fatti non eccepì quelle perplessità manifestate poi al pm di Brescia». E ad avere la memoria corta sarebbero anche i dirigenti della Direzione centrale antidroga, divenuti anch' essi testi a carico. «Ora mi accusano di avere fatto tutto questo per brama di carriera: ma io di avanzamenti non ne ho avuto neanche uno - racconta Ganzer - e dei miei compagni di corso sono diventato generale per ultimo...». Quello che Ganzer né dice né scrive è il perché di tutto questo, della macchina che si è messa in moto e rischia di stritolarlo. Ma dentro di sé, giura chi gli ha parlato in questi mesi, ha le idee chiare anche su questo. - LUCA FAZZO

 

2004

INCOMPRENSIONI ?

Il generale Subranni sotto inchiesta per la mancata cattura di Provenzano

Il generale dei carabinieri Antonio Subranni, ex comandante del Ros e della divisione "Palidoro", è indagato dalla Direzione antimafia di Palermo per il mancato blitz del 31 ottobre 1995 a Mezzojuso, che avrebbe potuto portare all' arresto del boss Bernardo Provenzano. Su questa vicenda la Procura ha avviato un' inchiesta in seguito alle dichiarazioni del colonnello Michele Riccio. «Fui fermato», ha sostenuto l' ufficiale. Per questa indagine sono già indagati l' ex comandante del Ros, il generale Mario Mori, attuale direttore del Sisde, e il colonnello Mauro Obinu, ex vice del Ros, oggi anche lui al servizio segreto civile. I vertici del Ros hanno sempre negato ogni responsabilità e il generale Mori ha presentato una controquerela nei confronti di Ilardo. Ieri, in commissione Antimafia, l' attuale comandante del Ros, Gianpaolo Ganzer, ha difeso l' operato dei suoi predecessori. Sulla vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina, Ganzer dice: «Ci furono incomprensioni a livello investigativo-giudiziario».

 

 

2004

Ci portavano lire da cambiare in dollari per i colombiani

Repubblica — 24 maggio 2004   pagina 26   sezione: CRONACA

MILANO - Era direttamente a nome del generale Giampaolo Ganzer che i marescialli dei Ros ripulivano in Svizzera i fondi destinati a finire nelle casse dei narcotrafficanti colombiani. A raccontarlo agli inquirenti è un poliziotto svizzero, Sergio Azzoni, ispettore cantonale della polizia del Canton Ticino. Anche Azzoni è uno specialista delle operazioni «sotto copertura» e delle infiltrazioni, e anche lui finirà nelle grane: a settembre dello scorso anno viene arrestato su ordine della Procura federale di Berna, le accuse non vengono rese note pubblicamente. Ma si dice che Azzoni sia stato accusato di avere tenuto nascosto qualcosa di troppo ai magistrati che indagano sul coté svizzero dell' affare Ganzer. Ecco cosa racconta a verbale, in Italia, il 14 maggio 1999 il "Serpico" ticinese: «Non sono in grado di precisare esattamente la data ma verosimilmente nell' ottobre 1993 ricevetti una telefonata del maresciallo Palmisano il quale mi rappresentava che, dietro precisa autorizzazione del colonnello Ganzer, da noi conosciuto come uno degli ufficiali responsabili del Ros dei carabinieri, aveva bisogno di cambiare un certo quantitativo di valuta italiana in dollari per retribuire una fonte colombiana che gli aveva consentito di svolgere dei servizi che non mi furono precisati (in realtà i soldi finiranno ai clan per pagare la droga, ndr)». «Nel primo episodio il denaro era raccolto in mazzette con la fascetta come se fossero state prelevate in banca e potevano ammontare a non meno di duecento milioni, ricordo che il Palmisano aveva particolare premura <...& Nella seconda occasione la cosa che mi colpì fu che quando in banca si dovette contare il denaro ci accorgemmo che non solo era contenuto in buste ma era sistemato alla rinfusa con molte banconote vecchie e di piccolo taglio. Ricordo che tale fatto infastidì i funzionari della banca. Ricordo anche che quando riferii il particolare al mio superiore manifestammo insieme perplessità per come il denaro ci era stato portato <...& Anche in questo caso l' ammontare era di duecento milioni circa <...&». (l. f.)

 

 

2004

Processate il generale GanZer la procura di Milano contro il Ro$

Repubblica — 14 aprile 2004   pagina 25   sezione: CRONACA

MILANO - Nessun timore reverenziale. Ieri mattina i pubblici ministeri Luisa Zanetti e Daniela Borgonovo chiudono l' inchiesta - durata anni, rimbalzata da una Procura all' altra - sul marcio all' interno del Ros, il reparto speciale dei carabinieri. E il documento finale dice che, secondo i pm milanesi, il marcio investiva i massimi vertici del Ros: il generale Giampaolo Ganzer, comandante generale del Raggruppamento. è suo il nome che compare in testa all' elenco degli indagati che la procura chiede di portare a giudizio per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e altri reati. Insieme a Ganzer e a un folto gruppo di suoi sottoposti, il rinvio a giudizio viene chiesto anche per un magistrato: Mario Conte, pubblico ministero a Brescia, accusato di avere fornito copertura agli affari sporchi del Ros negli anni in cui era in servizio a Bergamo. Per alcuni degli indagati, la procura chiede invece l' archiviazione. Tra questi dovrebbe esserci Mauro Obinu, ex numero 2 del Ros, oggi in forza ai servizi segreti. è la conclusione di una storia lunga, complicata e dura da digerire. Una storia iniziata nel 1997, quando un piccolo spacciatore si presentò al pm bresciano Fabio Salamone raccontando dello strano modo in cui la cellula del Ros di Bergamo gestiva le inchieste antidroga. Erano i carabinieri, diceva il "cavallo", a fare arrivare carichi di cocaina dall' estero, a contattare gli acquirenti, a fare scattare poi i blitz. Una prassi che le polizie antidroga di tutto il mondo - in testa gli americani della Dea - hanno sempre usato. Peccato che, come hanno raccontato le indagini successive, nella rete dei Ros finissero sempre pesci piccoli, mentre insieme ai boss svanissero carichi di droga e malloppi di quattrini. E che tutto avvenisse all' insaputa della magistratura, con l' eccezione del dottor Conte: che avallava operazioni spregiudicate un po' in tutta Italia. «Il Ros prende in carico lo stupefacente al suo arrivo in Italia, omettendo ogni doverosa attività di controllo su quantità e qualità. Lo trasporta e lo detiene, anche per lunghi periodi di tempo, talvolta lasciandolo nella disponibilità incontrollata di trafficanti», si legge negli atti dell' inchiesta milanese. Non è la prima volta che il Ros, fiore all' occhiello dell' Arma, finisce sotto accusa. Ma è la prima volta che a venire investito dalla bufera è il suo comandante in capo. Il generale Ganzer è uno degli ufficiali che, nel bene e nel male, hanno fatto la storia recente dell' Arma. Formatosi negli anni Settanta nella squadra speciale Antiterrorismo guidata da Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ganzer si è poi riconvertito nella lotta al crimine organizzato, accumulando molti successi ma anche qualche episodio oscuro, tutti in qualche modo connessi alla gestione dei confidenti: come quando su "dritta" di un pentito diresse il blitz contro i calabresi che stavano organizzando un sequestro a Germignaga, e che vennero uccisi tutti quanti nonostante fossero disarmati. O come quando un suo collaboratore, il maresciallo Angelo Paron, venne arrestato per avere lasciato mano libera alle razzie di una banda di "pentiti" sulla Riviera del Brenta. Ora, su di lui, si abbatte una tegola che mette in forse la sua permanenza nel ruolo di comandante. il pusher Nel 1997 un piccolo spacciatore denuncia al pm bresciano Fabio Salamone le strane "prassi" dei carabinieri del Ros di Bergamo l' inchiesta A Pescara viene scoperta una raffineria di droga gestita dai Ros. Emergono sparizioni dal narcotraffico per centinaia di milioni di lire il magistrato Insieme al generale Ganzer, tra gli indagati finisce anche il pubblico ministero Antonio Conte, che avrebbe "coperto" i traffici dei Ros i ricorsi Le eccezioni di competenza rallentano l' indagine che viene trasferita a Milano, poi a Bologna, infine, a gennaio 2001, ritorna a Milano gli atti L' anticipazione di Repubblica del 22 ottobre; in alto a destra il comandante Ganzer - LUCA FAZZO MARCO MENSURATI

 

2004

SCANDALO IRAQ-SISMI: GANZER "questa volta nun c'entro niente io"

Il documento misterioso e gli errori del manipolatore

Repubblica — 12 giugno 2004   pagina 1   sezione: PRIMA PAGINA

CARLO BONINI e GIUSEPPE D' AVANZO La campagna elettorale si chiude nel segno di uno dei suoi capitoli, impropriamente, diventato centrale: la liberazione degli ostaggi. Soprattutto ora che anche Prodi, sollecitato, ritaglia un suo ruolo nella vicenda, spiegando di aver attivato nei 55 giorni della crisi, canali con i partiti moderati iracheni. «Ho fatto il mio dovere di presidente della Commissione europea e di italiano. Se è servito, non posso che essere felice». Lo stesso fa Berlusconi a Washington, che ora accusa l' opposizione di «antipatriottismo masochistico, paranoico, vergognoso». Per fare della liberazione degli ostaggi il tema di chiusura della campagna è stata necessaria, tra giovedì e venerdì, un' ultima opera di manipolazione, di cui è possibile ricostruire la storia e indicare l' ambiente in cui è stata veicolata ai media. Il manovratore potrebbe aver commesso un errore. Aveva la necessità di sex up, di rendere più appetibile, la ricostruzione ufficiale offerta dal governo all' opinione pubblica. Ha lavorato in fretta e con mosse alquanto grossolane. Vediamo perché. Dalla bulimia mediatica scatenata l' 8 di giugno si possono ricavare gli elementi base della ricostruzione governativa, irrobustita dal manipolatore. Ricapitoliamoli. L' intelligence italiana ha individuato il covo-prigione. I nostri agenti segreti raccolgono informazioni preziose che indicano come imminente e concreto il pericolo che gli ostaggi o uno di essi sia ucciso l' 11 giugno, alla vigilia delle elezioni. A questo punto, per dirla con le parole del ministro dell' Interno e della Difesa, «l' azione di forza era l' unica via percorribile». L' indirizzo della prigione viene «girato» agli americani che se lo vedono confermare da loro fonti e, martedì 8 giugno, in un sobborgo a sud di Bagdad, chiudono il lavoro in due minuti. Purtroppo, nell' eccitazione di utilizzare questo successo operativo a fini politici, molti - da Berlusconi a Frattini - incappano in rilevanti sviste. La più evidente è il luogo della liberazione. Sud di Bagdad per Frattini. Sud di Bagdad per Berlusconi nella mattinata dell' 8 giugno. A sera, Berlusconi ricolloca l' operazione a nord, meglio, a nord-ovest di Bagdad. Ramadi, 110 chilometri dalla capitale, dove dice di essere stato liberato l' ostaggio polacco. Ieri, si cambia ancora. Con un comunicato ufficiale Palazzo Chigi indica ancora a sud di Bagdad il luogo della prigione. E' la prima incertezza. La seconda investe direttamente il ruolo avuto dalla nostra intelligence. Erano stati «i nostri agenti» a indicarne la posizione alla prima divisione corazzata e alle forze speciali del generale Sanchez? Gli americani non accennano nemmeno a questa eventualità: le informazioni le hanno avute da una loro fonte prezzolata. Né vi accennano i polacchi, che pure hanno contribuito al buon esito dell' azione grazie alle indicazioni di un economo «trattato» dalla loro intelligence. Che cosa ha fatto allora il Sismi? Non si sa. E' certo, al contrario, che a 72 ore dagli eventi non ha ancora comunicato alla magistratura né il luogo della liberazione, né il numero né l' identità e il destino dei carcerieri (uno, forse due) che ancora martedì sorvegliavano gli italiani. Su questo scenario, già gravemente in bilico, si allungano altre due ombre. E' stato pagato un riscatto? Lo sostengono fonti di "Emergency", confermando, di fatto, il «mercato» denunciato dal Commissario della Croce Rossa Maurizio Scelli. Ci sono state ore o, addirittura, giorni di vigilia angosciosi come ha raccontato Berlusconi? Pare di no. Il generale Sanchez, in 50 minuti ottiene l' autorizzazione da Roma e in soli due minuti (quindi senza sparare un colpo) la task force si porta via gli ostaggi in elicottero. Di fronte a questa catastrofe informativa che non riesce a essere cancellata dall' alluvione mediatica, a Palazzo Chigi devono aver deciso le contromosse. Soprattutto, una. Che può essere raccontata così. La nostra intelligence non aveva soltanto individuato il covo ma era anche in grado di ascoltare le conversazioni tra i carcerieri. Da queste, tra sabato 5 giugno e lunedì 7 giugno, gli agenti hanno compreso che le Brigate Verdi si preparavano a uccidere gli ostaggi. Che si preparasse questo «scenario angosciante» lo sostengono pubblicamente il ministro dell' Interno Beppe Pisanu e il ministro della Difesa Antonio Martino. Aver evitato l' esecuzione piega di fatto ogni critica alle ambiguità dell' operazione. Chi avrebbe potuto sollevarle se ai nostri connazionali era stata salvata la vita? Occorreva, però, una evidenza. Il manipolatore si mette al lavoro. Una buona evidenza sarebbe la rivendicazione già pronta degli assassini. Quel che segue ne è la storia. Giovedì 10 giugno. Sono passate le 19. Un ufficiale dei carabinieri chiama la Procura di Roma. Riferisce che la «cellula per le esecuzioni di Al Quds» ha rivendicato «l' epurazione dei tre italiani» sul sito Internet della sigla terroristica Ansar Al Islam. L' ufficiale non dice di più. Si limita a leggere il testo della rivendicazione. Di più, si può capire da una nota di agenzia delle 20.21 ispirata da «fonti vicine al ministro dell' Interno». Qui si legge che le Brigate Al Quds, che già hanno ucciso il cuoco Antonio Amato, «applicano la legge del taglione agli ostaggi italiani», per punire «l' arrogante Presidente italiano Berlusconi». Ai magistrati non viene fornita la schermata della rivendicazione e fino a ieri, 11 giugno, ignoreranno che si tratta di un «forum» Internet che ha accompagnato quel testo con qualche sarcastico commento. Ora bisogna chiedersi: chi «strappa» quel documento al web? La risposta dovrebbe essere semplice ma diventa invece un mistero inglorioso. Le polizie giudiziarie in Italia sono quel che sono e conviene interrogarle tutte. Dunque: all' Antiterrorismo della Polizia di Stato non ne sanno nulla e aggiungono: «Di questa storia non vogliamo sapere nulla». Il generale Ganzer, comandante del Ros dei carabinieri, addirittura sorride: «Non siamo stati noi a lavorare quell' informazione ed è inutile che mi chiediate chi è stato perché non lo so». Si autoesclude anche la Guardia di Finanza. Restano dunque i servizi segreti. Una qualificata fonte della direzione del Sisde dichiara: «Di quella rivendicazione non sappiamo nulla». Più complicato intercettare direttamente la versione del Sismi. Obliquamente, l' intelligence militare fa sapere a Repubblica di non avere alcun ruolo in questa storia. Di fatto, i tre tentativi di mettersi in contatto con il direttore Nicolò Pollari o con il suo staff vengono lasciati cadere dal Servizio: «Richiameremo...». Dunque, il documento della rivendicazione non ha padre. La faccenda diventa ancor più interessante quando, sollecitato da una Procura irritata, il Ros, ieri pomeriggio, invia una prima nota di spiegazione dell' accaduto. Che si apre così: «E' stato rilevato...». Da chi?, chiedono ancora in Procura. Si promette una seconda nota. Che non arriva. Arriva una telefonata: «Abbiamo ricevuto la segnalazione in modo informale da ambienti di intelligence...». E' un supplemento di informazione denso come l' aria. E' utile, allora, seguire la sola traccia ineliminabile di questo affare: il sito. Che cos' è e chi c' è dietro www. ansarnet. ws/vb? Il sito è stato aperto soltanto il 31 maggio ad Atlanta, Stati Uniti (ne rifacciamo la storia in queste pagine) da tale R. Rashid, domiciliato a Londra al 184 High Holborn. Chi è R. Rashid? Al suo numero di telefono (+44-207-831-2310) risponde un fax. Il suo domicilio è la sede della stampa araba accreditata a Londra (Arab press house). A quel domicilio di "Rashid" ce n' è soltanto uno: Abdel Rahman Al Rashed, direttore del network all news Al Arabiya, accusato da sempre di eccessiva vicinanza agli Stati Uniti. Questo sito non appartiene dunque ad Ansar Al Islam. Non è la riproposizione del sito del gruppo fondamentalista che ha sgozzato l' ostaggio Nick Berg mostrandone le immagini. Questo sito, agli addetti, appare più un' esca costruita da qualche intelligence occidentale per raccogliere, tra i radicali e fondamentalisti islamici, nomi, contatti, notizie, avvisaglie di possibili attentati. Ragionevolmente, però, "Rashid" o il suo provider dovrebbero essere stati tempestati di chiamate quantomeno dalle «fonti investigative» che divulgano la notizia, consegnandola ai media e ai magistrati. Curiosamente, non è avvenuto. Per altro, trattandosi di provider occidentali, il computer da cui è stata spedita nel «forum» la rivendicazione è facilmente individuabile. Queste conclusioni, che possono essere messe insieme da chiunque, non sono state fornite ai magistrati. Il perché è chiaro. Il documento di rivendicazione non serve per le indagini (la magistratura è soltanto la sponda della manipolazione). La rivendicazione deve soltanto spingere l' opinione pubblica a credere che gli ostaggi stavano per essere uccisi. Dunque, quel che conta non è come il governo ha risolto la crisi, ma che lo ha fatto con successo. Ma la fretta ha costretto all' errore il manipolatore. Non c' è nessun apparato di investigazione e sicurezza che rivendica la paternità di quel lavoro ed è ragionevole pensare che questi apparati possano documentare le loro estraneità. Le modalità di trasmissione della «rivendicazione», per altro, non sono quelle di un apparato investigativo. Se si esclude il mondo dell' investigazione e dell' intelligence c' è solo un ambiente che può nascondere il «padre» della manovra. E' il governo. E' un fatto che, giovedì sera, della notizia è al corrente lo staff politico del ministro dell' Interno. E questo sostiene di essersi mosso in questa vicenda, quale che sia quel che ha fatto, sempre con l' autorizzazione di Palazzo Chigi. Vedremo nelle prossime settimane se la Procura di Roma avrà la forza per venire a capo di queste mosse abusive che, in ogni caso, si aggiungono al rosario di domande senza risposta, di ricostruzioni contraddittorie di cui il governo, prima o poi, dovrà pure rendere conto. Palazzo Chigi, ieri, con una nota ufficiale ha riconfermato la sua traballante versione, annunciando che «sin d' ora opporrà soltanto il silenzio». Al contrario, dopo l' ultima manipolazione, diventa più necessario di ieri che Berlusconi racconti finalmente come sono andate le cose.

 

2004

Ecco le accuse al capo del Ro$

Repubblica — 24 maggio 2004   pagina 26   sezione: CRONACA

MILANO - «...Promuovevano, costituivano, dirigevano e organizzavano all' interno del Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri un gruppo dedito alla commissione di una serie indeterminata di illecite importazioni e cessioni di ingenti quantità di eroina, cocaina e hashish, utilizzando la struttura, i mezzi e l' organizzazione dell' Arma dei carabinieri e abusando della propria qualità di pubblici ufficiali...». Per questo, il 19 ottobre, a Milano, compariranno sul banco degli imputati, davanti al giudice preliminare Andrea Pellegrino, due tra gli uomini-chiave dell' Arma nella lotta alla criminalità: il generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri, e il colonnello Mauro Obinu, ex ufficiale dei Ros, oggi capo della sezione Crminalità organizzata del Sisde, accusati di associazione a delinquere finalizzata al traffico degli stupefacenti, peculato e falso. Insieme a Ganzer e Obinu, verranno citati in giudizio con le stesse accuse un magistrato (il pubblico ministero bresciano Mario Conte), un capitano, sette sottufficiali e un appuntato. Tutti del Ros. Il decreto che fissa l' udienza è stato notificato nei giorni scorsi agli imputati. E insieme al decreto diviene pubblica la richiesta di rinvio a giudizio che costituisce l' atto finale dell' inchiesta iniziata sette anni fa a Brescia dal pm Fabio Salamone grazie alle rivelazioni di un rapinatore, Biagio Rotondo detto il Rosso, "arruolato" in carcere dai carabinieri del Ros: inchiesta rimbalzata di procura in procura tra tensioni e veleni, e approdata infine alla Direzione antimafia di Milano nelle mani dei pm Luisa Zanetti e Daniela Borgonovo. è una inchiesta delicata e scivolosa, raccontata nei mesi scorsi da Repubblica, su cui l' atto finale fornisce nuovi, sconcertanti dettagli. Nuovi episodi, nuovi verbali che solo ora vengono alla luce. E che hanno convinto la Procura milanese che - per quanto incredibile possa sembrare - all' interno del Ros agiva indisturbata una struttura deviata, che trafficava quantità impressionanti di stupefacenti fuori da ogni controllo e da ogni norma. E non solo stupefacenti: Ganzer e Obinu sono accusati di avere importato in Italia a bordo della motonave "Bisanzio", salpata da Beirut e approdata a Ravenna il 9 dicembre 1993, «centodiciannove kalashnikov, due lanciamissili, quattro missili e numerose munizioni», destinati alla malavita organizzata e venduti in cambio di una somma di denaro di cui si ignora la destinazione finale. Ignota, d' altronde, risulta essere la sorte di buona parte del denaro che veniva gestito da quella struttura dei Ros. La convinzione finale raggiunta dagli inquirenti è che una parte consistente dei fondi (e si parla di molti miliardi di lire) sia stata versata direttamente dai Ros nelle casse dei "cartelli" di narcotrafficanti colombiani e libanesi cui si rivolgevano per ordinare la droga da fare sbarcare in Italia e da consegnare - senza nessun controllo - ai propri trafficanti di fiducia in vista dei "blitz" presentati come brillanti operazioni di servizio. Che spesso, si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, si concludevano con l' arresto solo dei pesci piccoli e il recupero solo di parte della droga. Anche per questo Ganzer e i suoi uomini sono accusati di essere andati completamente al di fuori della legge che consente l' utilizzo di infiltrati nelle organizzazioni criminali e il ritardo nei sequestri di droga per arrivare ai vertici delle bande, ma in nessun modo prevede che possa essere una forza di polizia a ideare e a gestire in prima persona un traffico di droga: importandola, raffinandola, immagazzinandola e trovando gli acquirenti, e finanziando coi soldi dello Stato i narcos produttori. - LUCA FAZZO

 

2003

Mori SI SCAVALLA DA GANZER

Mori sui carabinieri spacciatori Metodi estranei alle mie regole

Repubblica — 23 ottobre 2003   pagina 14   sezione: POLITICA INTERNA

ROMA - Nei giorni scorsi, la Procura di Milano ha avvertito la ragionevole urgenza di ascoltare, come persona informata sui fatti, il prefetto Mario Mori, oggi direttore del Sisde ma, soprattutto, comandante del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri fino al 16 gennaio del 1999. Un' urgenza - va da sé - dettata da una circostanza oggettiva (più di uno degli ufficiali dell' Arma indagati è transitato in questi ultimi due anni nei ruoli del servizio segreto civile) e da curiosità investigative semplici da afferrare. Sapeva Mori quale minestra cucinava Giampaolo Ganzer nelle sezioni antidroga del reparto di eccellenza di cui era stato comandante e, ancor prima, vicecomandante (dall' agosto '92 al gennaio '97)? Era al corrente che, in almeno sei circostanze, erano stati truccati presupposti ed esiti di altrettante operazioni dal «alto impatto»? Poteva forse spiegare come e perché si fosse costituito quell' anomalo triangolo che per anni ha consentito a un sostituto procuratore di Bergamo (Mario Conte), a un pugno di sottufficiali di quella stessa città e ai responsabili investigativi della sezione antidroga del comando centrale del Ros di lavorare a mano libera in ogni angolo del Paese? Chi e in forza di quali norme aveva autorizzato prassi operative abusive? Per il prefetto Mori la deposizione a Milano non è stata una prima volta. Come documenta un verbale agli atti dell' inchiesta di cui Repubblica è in possesso, l' ex comandante del Ros aveva già avuto modo di discutere dell' affare negli uffici della Procura di Brescia il 16 aprile del 1999. Quando all' istruttoria lavorava ancora il pubblico ministero Fabio Salamone. Altri tempi. Ma identiche questioni. E, soprattutto - lo vedremo subito - risposte capaci di sottrarre al «sistema Ganzer» alibi protetti da una catena gerarchica che si vuole stretta da vincoli di omertosa colleganza. Già, sulla testa del suo ex vice-comandante, Mario Mori decide di non aprire alcun ombrello. Al contrario, tira con attenzione una linea che ne fissa le responsabilità gerarchiche e operative. Che lo fotografa quale terminale autosufficiente delle scelte che tra il '94 e il '97 si consumano sull' asse Roma-Bergamo. Che bolla le routine operative degli uomini sotto il suo comando come «estranee alla normale prassi seguita dal Ros». Leggiamo. «Dalla metà del '94 - ricorda Mori - e per i tre anni successivi, l' aliquota che operava a Bergamo passò agli ordini del Secondo Reparto del comando centrale del Ros. Si trattava di personale particolarmente qualificato nell' attività antidroga che si voleva utilizzare in modo più penetrante sull' intero territorio nazionale. E non c' è dubbio che il Centro di Roma ne conosceva e dirigeva le attività. Come dicevo, questi uomini dipesero prima dal Secondo Reparto comandato dal tenente colonnello Obinu (indagato ndr.), quindi dal Reparto comandato dal colonnello Ganzer (indagato ndr.)». Mori, dunque, non ebbe mai modo di entrare nelle scelte operative di quella «aliquota». Di più, ancora oggi, non riesce a spiegarne almeno due «anomalie». «Non so dire - annota il verbale di testimonianza - come mai la gran parte dei provvedimenti iniziali delle indagini, quali i decreti di ritardato sequestro o arresto, siano stati richiesti e ottenuti dalla Procura di Bergamo, anche quando le indagini si presentavano di competenza di altre procure della Repubblica. Certo, non si trattava di una valutazione che potesse competere soltanto al maresciallo Lovato (il sottufficiale più alto in grado della «aliquota» di Bergamo, oggi indagato ndr.)». E ancora: «Non so come mai tutte quelle indagini siano state presentate all' autorità giudiziaria sempre facendo riferimento a ipotesi isolate di traffico di stupefacenti e non a quella associativa». «Certamente - affonda - la scelta di operare esclusivamente con operazioni di consegna controllata dello stupefacente arrestando coloro che ritiravano la droga, senza ulteriori sviluppi per individuare le organizzazioni di trafficanti, i loro canali di approvvigionamento e distribuzione, esulava dalla normale prassi operativa seguita dal Ros. Evidentemente, quelle scelte erano frutto di accordi diretti con il magistrato». Un fatto Mori dà per scontato. Che denaro e stupefacenti sequestrati nel corso delle operazioni dovessero essere consegnati alla magistratura. E che se questo non avvenne - come sistematicamente non è avvenuto - non fu per ordini da lui impartiti, ma, semmai, in loro violazione. «Escludo - si legge nel verbale di deposizione - di aver mai impartito in qualità di comandante direttive o anche semplici autorizzazioni diverse da quelle imposte dalla legge. Sia per quel che riguarda il sequestro e deposito del denaro, che la custodia della sostanza stupefacente». «Ovviamente non autorizzai mai nessuno - insiste l' ex comandante - neppure a trattenere lo stupefacente sequestrato per impiegarlo in successive operazioni di polizia giudiziaria, al di fuori di quelle autorizzate dalla magistratura». Come è facile vedere, nelle parole di Mori il «sistema Ganzer» - per come ricostruito nella monumentale istruttoria della Procura di Brescia e nelle conclusioni che oggi ne trae quella di Milano - non solo non trova dunque sponda, ma al contrario spigoli che ne fotografano le prassi abusive. Al punto da convincere l' attuale direttore del Sisde a voler mettere a verbale già in quell' aprile del '99 un giudizio definitivo su quelle routine operative che dissimulavano l' istigazione «con attività sotto copertura». «Se fossi venuto a conoscenza di eventuali provvedimenti, formali o meno, rilasciati a uomini del Ros per autorizzarli ad aprire in proprio canali per far affluire stupefacente in Italia, lo avrei impedito». - CARLO BONINI

 

2003

la figura del "corvo", UN METODO MAFIOSO PER COPRIRE UNA COSA PRESENTANDONE UN'ALTRA, una strategia per uccidere la giustizia possibile in futuro, attraverso un presente marchiato dai dubbi

Ro$$, sotto torchio il pm indagato

Repubblica — 23 ottobre 2003   pagina 14   sezione: POLITICA INTERNA

MILANO - Il magistrato infila di buon passo l' entrata di Palazzo di Giustizia e, confondendosi tra la folla delle udienze, raggiunge gli uffici della Dda. Per il pm bresciano Mario Conte è il giorno del faccia a faccia con i colleghi milanesi che indagano sulla presunta struttura parallela dei Ros, capace di «stimolare» con agenti infiltrati il traffico di droga dal Sudamerica. Nei primi anni '90, da pm della procura di Bergamo, Conte aveva coordinato le inchieste sul narcotraffico. Oggi, su quelle indagini si allunga l' ombra di una partita condotta sottotraccia e al di fuori dalle regole. I magistrati della Dda milanese - i pm Daniela Borgonovo e Luisa Zanetti - sono chiamati a illuminare le zone d' ombra che coprirebbero partite di coca comprate e rivendute "fuori registro". All' interrogatorio partecipa anche il capo dell' ufficio, l' aggiunto Ferdinando Pomarici. La porta della stanza al sesto piano si chiude alle 9, per riaprirsi solo alle 19, quando Conte esce accompagnato dal suo difensore, l' avvocato Angelo Giarda: «Credo che il dottor Conte abbia dimostrato, anche documentalmente, che le scelte investigative furono ispirate a criteri di trasparenza e correttezza». La «tranquillità» di Conte contrasta con il clima pesante che circonda l' indagine. Non è un caso che lo stesso Pomarici abbia voluto essere presente in prima persona, accanto alle due colleghe che si trovano ora a chiudere un' indagine tormentata durata sette anni, passata attraverso altre due procure, Brescia e Bologna, prima di ritornare a Milano, da dove era iniziata nel 1997. Sullo sfondo aleggia la guerra interna al Ros, con scambi di accuse e anonimi. Non ultimo, probabilmente, quello arrivato un mese fa a cinquanta magistrati milanesi. Il «corvo» insinua una "combine" tra uno dei due pm dell' inchiesta ed altri giudici per «pilotare le prove e arrivare alla condanna di alcuni imputati». A preoccupare è la tempistica (l' anomino si fa vivo quando l' inchiesta sui Ros è ormai alla stretta finale) e le minacce trasversali: «Abbiamo le intercettazioni ambientali degli accordi illeciti, tutti i magistrati sono sorvegliati e controllati», ma soprattutto l' annuncio di aver consegnato il dossier al «Comitato popolare per la giustizia», lo stesso che ha denunciato a Brescia i pm Ilda Boccassini e Colombo. Nonostante i veleni, l' inchiesta continua. Nelle scorse settimane, i pm avevano interrogato il generale Giampaolo Ganzer, attuale comandante dei Ros. «In quegli anni - si è difeso Ganzer - mi seguivo praticamente a tempo pieno di mafia ed ero impegnato nell' indagine per la cattura di Totò Riina. Non avevo tempo di seguire altre operazioni». Proprio su richiesta della difesa di Ganzer è stato sentito, in qualità di testimone, anche il prefetto Mario Mori, attuale capo del Sisde ed ex comandante dei Ros. L' aggiunto Pomarici fa scudo: «Abbiamo tempi strettissimi, entro una settimana chiuderemo gli interrogatori e poi valuteremo il materiale probatorio. Certo, si tratta di un procedimento complicato, istruito da altri magistrati e composto da migliaia di pagine, ma confido sulle colleghe Borgonovo e Zanetti». - PIER FRANCESCO FEDRIZZI

 

2003

garantisti e lo scandalo del Ro$$

Repubblica — 23 ottobre 2003   pagina 1   sezione: PRIMA PAGINA

IL "GARANTISMO" italiano è una burletta casereccia cucinata alle cozze. Bisogna guardare all' affare del Ros dei carabinieri per rendersene conto. Se ci fossero garantisti da qualche parte - ovvero gente interessata a che il processo penale, e quindi l' istruttoria che lo precede, sia fair, cioè corretto - si sarebbe udita la loro voce. Invece il racconto dei trucchi e dei maneggi di "un' associazione per delinquere armata" costituita all' interno del Raggruppamento Operativo Speciale dei carabinieri ha prodotto soltanto un assordante silenzio. Tacciono i cavalieri senza macchia e senza paura del "giusto processo". Ammutoliti appaiono gli avvocati e le camere penali. Tace il Comando generale dell' Arma. Senza parole è la consorteria togata che, perlomeno, può vantare di aver condotto fino al termine un' indagine penosa. Privi di parola se ne sono stati per ventiquattro ore i tromboni che ogni giorno suonano lo spartito della "malagiustizia". Eppure qualche considerazione "garantista" merita il quadro accusatorio ricavato dai cinquanta faldoni dell' inchiesta milanese (qui non importano le responsabilità individuali che soltanto un processo può accertare). Salta fuori che il nucleo di eccellenza investigativa dei carabinieri istigava al delitto, manipolava le fonti di prova, introduceva droga in Italia, addirittura l' ha raffinata e venduta a organizzazioni di narcotrafficanti che l' hanno distribuita nelle nostre città in cambio di denaro che dio solo sa che fine ha fatto. I pubblici ministeri sostengono che questo stato di cose è il frutto della degradazione etica e professionale di un gruppo di ufficiali ambiziosi che ha scelto questa scorciatoia cinica per aggiungere qualche grado alla giubba. In realtà, come molti sanno (come politici sanno e infatti hanno il Ros come il diavolo) l' affare è più antico, più grave e minaccioso. Quel che la Procura di Milano racconta nella sua istruttoria è soltanto l' esito di un sistema investigativo che ha perso qualsiasi contatto con le regole dello Stato di diritto. Il Ros del generale Giampaolo Ganzer, dal 1993 nel nucleo investigativo (oggi ne è il comandante), ha "firmato" - per stare alle storie più recenti - le indagini contro "Iniziativa comunista" per venire a capo della morte di Massimo D' Antona o l' inchiesta contro i no global e "disobbedienti" napoletani e calabresi per venire a capo dei disordini di Genova 2001. In entrambi i casi, il Ros si muove in una prospettiva che può essere raccontata così. Ganzer individua un ambiente, punta un colpevole possibile, concepisce un' ipotesi d' accusa. Gli investigatori dell' Arma intercettano, spiano, osservano, pedinano. Ne ricavano frasi, eventi, luoghi che, in assenza di contraddittorio e senza il controllo di un pubblico ministero, possono essere acconciati secondo le necessità accusatorie edificando una conveniente cabala induttiva. Lavorare a mano libera e senza controllo sulla materia viva dell' indagine è il sistema che piace al Ros di Ganzer. Una volta organizzato il quadro, il Ros si cerca in giro per l' Italia il pubblico ministero disposto a non farla tanto lunga con la solidità delle fonti di prova raccolte. Con i nessi delle ipotesi accusatorie, con un' attendibile congruenza dei reati da contestare. è accaduto che gli investigatori di Ganzer debbano fare il giro di tre o quattro procure prima di trovare il pubblico ministero sensibile all' urgenza di un mandato di arresto. Il sistema di Ganzer ha di fatto modificato la natura stessa del Raggruppamento operativo speciale. Il nucleo investigativo nasce per assicurare alle inchieste più complesse dei pubblici ministeri italiani l' alta specializzazione di una polizia giudiziaria capace, per risorse e intelligenza, di competere alla pari con le grandi organizzazioni del crimine e del terrore politico. Un' investigazione di alto livello non autonoma, non prigioniera di un corpo separato, ma connessa ai nuclei d' eccellenza delle altre polizie (lo Sco della polizia, il Gico della Guardia di Finanza) e al servizio di una magistratura a cui il Paese assegna il compito di garantire sicurezza e ordine contro i fenomeni criminali e eversivi più pericolosi. è questo legame con le indicazioni di un pubblico ministero e la verifica di un giudice che Ganzer interrompe. Come possono testimoniare, se volessero, le decine di ufficiali e sottufficiali (più o meno quaranta) che hanno precipitosamente abbandonato il Raggruppamento negli ultimi anni, Ganzer trasforma l' attività di investigazione tipica della polizia giudiziaria in un' attività informativa simile al lavoro di un servizio segreto. Il generale la battezza con il nome di info-investigazione. Chi decide su quale terreno, intorno a chi e perché lavorare non sono più le notizie di reato o le esigenze processuali delle procure, ma le curiosità, diciamo così, del nucleo e il calendario dell' attualità. Il Ros deve essere in prima pagina in tutte le questioni che attraggono l' attenzione dell' opinione pubblica, sembra dica il generale ai suoi collaboratori. Se c' è Genova, si lavora sui no global. Se D' Antona è assassinato, le Brigate Rosse o quelle che possono essere le Brigate rosse. Al di sopra e al di là delle indicazioni di un pubblico ministero, tanto quello che firma il risultato dell' inchiesta da qualche parte, prima o poi, si trova. Se il terrorismo islamico inquieta il Paese, si trasforma repentinamente dalla sera alla mattina il nucleo specializzato in criminalità organizzata in struttura info-investigativa sul terrorismo islamico. Poi, è sufficiente istruire un' ipotesi, intercettare, spiare, osservare, pedinare e sempre, in qualche modo, ne viene fuori un Rapporto da consegnare ai pubblici ministeri e a una conferenza stampa. Con soddisfazione dei governi, del Comando generale dell' Arma dei carabinieri, delle carriere. A questo punto, i garantisti avrebbero già da preoccuparsi, ma i loro inquieti pensieri sarebbero ancora acerbi perché, a ben vedere, il "sistema Ganzer" (chiamiamolo così) anticipa le innovazioni a cui la maggioranza politica sta lavorando ipotizzando di riscrivere il rapporto tra polizia e pubblico ministero affidando alla sola polizia la gestione della prima fase delle indagini e la verifica dell' esistenza di un' ipotesi di reato. In questo disegno, che ha l' autorevole avallo del capo del governo, il pubblico ministero diventerebbe l' "avvocato della polizia". Quando il reato è stato avvistato o comunque solo a indagini avviate, viene informato il pubblico ministero perché quel che gli si chiede è di offrire le sue cognizioni tecnico-giuridiche al servizio dell' ipotesi accusatoria confezionata in questura o in caserma. Con queste regole, Ganzer andrebbe a nozze perché la sua piccola riforma se l' è già fatta e realizzata da solo con il suo Ros. Con buona pace dei garantisti alle cozze. Perché è del tutto evidente che rovesciare il rapporto tra polizia e ufficio del pubblico ministero - come Ganzer ha fatto per anni e come sembra volere la maggioranza - non dà più incisività alla repressione dei reati e non rafforza le garanzie dell' imputato. Garantisce soltanto coloro che possono contare su amicizie e solidarietà, i più forti nel condizionare corpi di polizia centralizzati alle dirette dipendenze del governo, aprendo lo spazio - è il caso di dirlo - a un uso politico della giustizia penale. è singolare che dinanzi a tanta perversione dello Stato di diritto e alla deformazione dell' essenziale principio dell' uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, i garantisti tacciano. Nel centrodestra, come nel centrosinistra. Tra i magistrati come tra gli avvocati. O che le voci che si alzano risultino così ambigue. Come quella del ministro dell' Interno Giuseppe Pisanu che a tarda sera ha dichiarato di «non avere dubbi»: «Le cose andranno per il giusto modo e tutto si risolverà per il meglio». Frase difficile da decifrare. "Il meglio" per chi? Per il generale Giampaolo Ganzer che si libererà dalle accuse di Milano e tornerà a fare il suo mestiere info-investigativo? O "il meglio" per il cittadino che rischia di finire, senza alcuna garanzia e diritto, nelle maglie dell' info-investigazione del generale Ganzer? - GIUSEPPE D' AVANZO

 

2003

morte in servizio

Cercate nelle carte del Ro$$ perché mio figlio è morto

Repubblica — 10 novembre 2003   pagina 21   sezione: POLITICA INTERNA

MONZA - Giuseppe Incorvaia è un padre di 74 anni che ha perso un figlio. E' un padre carabiniere che ha perso un figlio carabiniere. Si chiamava Salvatore. Se n' è andato a 24 anni, il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un colpo alla tempia esploso dalla sua pistola di ordinanza. Da quella notte di 9 anni fa, Giuseppe non ha smesso un solo giorno di chiedere conto della morte del suo primogenito. Non si è rassegnato alle conclusioni dell' Arma e della magistratura di Monza, che sotto il suo dolore hanno presto tirato una riga in cui si legge: «suicidio». Ha chiesto la riesumazione delle spoglie di suo figlio e ora, seduto nello studio del suo avvocato, Francesco Mongiu, dice: «Salvatore è stato assassinato da uomini che portavano la sua e la mia stessa divisa. Carabinieri. E il segreto della sua morte va cercato nelle operazioni del Raggruppamento operativo speciale dell' Arma, il Ros». Salvatore non prestava servizio nel Ros. Era vicecomandante della stazione di Vimercate... «Le chiedo la pazienza di ascoltare questa storia dall' inizio alla fine. E forse allora capirà se sono solo un povero vecchio...». Da dove vuole cominciare? «Dalla mattina del mio compleanno di nove anni fa, il 13 giugno 1994. Andai a trovare Salvatore a Vimercate, dove viveva con la moglie e la sua bimba, che allora aveva solo 20 mesi. Era inquieto, come mai lo avevo visto. E dopo una notte di insistenze, mi disse: "Papà, ormai sei fuori dall' Arma... E' meglio che tu non sappia". Aggiunse soltanto che si trattava di una storia in cui entravano pezzi grossi al di sopra di ogni sospetto e che di mezzo c' era un maresciallo». E la cosa finì lì? «No. La mattina del 15 giugno mi chiese di accompagnarlo dal comandante della compagnia, a Monza. Era a lui che diceva di voler raccontare tutto. Voleva lasciare Vimercate ed essere trasferito a Genova. Il comandante non si fece trovare. E Salvo, probabilmente, firmò così la sua condanna. Che venne eseguita quella notte stessa. Uscì di casa dopo cena, con la sua macchina, una Audi. Era in borghese...». Era armato? «Salvatore girava sempre armato. E con il proiettile in canna». Quando seppe che era morto? «Il mattino successivo. Alla porta di casa venne a bussare un maresciallo. Fu brutale: "Suo figlio si è suicidato". Salii in macchina con lui e percorremmo neppure un chilometro dalla caserma. Ecco, guardi pure da solo...». Giuseppe Incorvaia solleva il lembo di un fascicolo di cartone color rosa. Ne estrae quindici foto. I suoi occhi si riempiono di lacrime. Salvatore è al posto di guida della sua Audi. Il capo, reclinato sul poggiatesta, è martoriato dal foro di entrata di un proiettile che gli ha devastato la tempia destra. Le braccia, composte lungo i fianchi, si stringono in grembo, dove è appoggiata con il calcio rivolto verso il basso la sua calibro 9 parabellum. Il vetro sul lato passeggero dell' Audi è infranto. I finestrini posteriori sono semi-aperti. Nel portaoggetti alla base del cambio, una cartuccia inesplosa. Giuseppe Incorvaia si fa forza. «Sul posto, trovai il colonnello Ludovico Triscari, allora comandante del gruppo carabinieri di Monza. Parlava con un giornalista e lo sentii dire con un tono perentorio: "Questo è un suicidio. Punto e basta". Ero sconvolto, ma tutta quella sicurezza prima mi ferì, quindi mi lasciò allibito. Soprattutto quando cominciai a girare intorno alla macchina». Da cosa fu colpito? «Ho fatto indagini per 40 anni. Come era possibile che il vetro sul lato passeggero fosse infranto visto che mio figlio si era sparato un colpo alla tempia destra e dunque il proiettile correva in direzione opposta? Perché quei finestrini posteriori aperti? Perché una cartuccia inesplosa nel portaoggetti? Perché il bossolo del colpo esploso era sul sedile posteriore? Perché la mano destra di mio figlio, che si supponeva avesse impugnato l' arma al momento di fare fuoco, era immacolata, senza neppure una traccia di sangue?». Quali risposte si diede? «Che mio figlio era stato ucciso. Che conosceva i suoi assassini, almeno due, uno dei quali sedeva dietro di lui e aveva aperto i finestrini per evitare gli effetti della detonazione nell' abitacolo. Senza sapere, però, che l' arma di mio figlio aveva il colpo in canna. E dunque, quando aveva preso la sua pistola, per armarla aveva istintivamente tirato il carrello, espellendone la cartuccia inesplosa. Lo dissi al colonnello Triscari: "E lei questo lo chiama suicidio?"». Non la ascoltarono? «L' Arma dispose un' autopsia insultante, indegna, che, si figuri, annotava possibili dissapori tra mio figlio e sua moglie. Un' autopsia! La Procura di Monza, dopo tre mesi, archiviò. Era un maledetto imbroglio». Cui lei non si rassegnò. «Nel novembre del '95, mi rivolsi all' avvocato Mongiu e chiesi la riapertura delle indagini. E fu allora che accadde qualcosa di inatteso. Vennero a cercarmi i marescialli Salvatore Corbo e Sebastiano D' Immé. Erano i due colleghi di mio figlio. Mi dissero che avevano saputo della riapertura delle indagini e che avevano notizie importanti da comunicare al mio avvocato». Lo fecero? «No. O forse non ne ebbero il tempo. D' Immé venne ucciso il 6 luglio del '96 durante un normale controllo antirapina. I suoi assassini vennero localizzati qualche tempo dopo a Milano dai carabinieri e uccisi. Tutti, tranne uno, che si è sempre dichiarato innocente. Corbo venne trasferito e credo abbia capito che per vivere è meglio dimenticare». Ritiene che anche quella di D' Immé sia stata una morte legata al segreto di suo figlio? «Ne sono certo per quel che ebbi modo di ascoltare, nel '96, al processo di Verona nei confronti della cosiddetta banda di Alceo Bartalucci, conosciuta anche come la banda dei pentiti». Cosa c' entra questo processo, adesso? «Un bravissimo cronista dell' Unità, Giovanni Laccabò, aveva scoperto che negli atti di quel processo era il filo che portava alla morte di mio figlio». Quale filo? «La banda dei pentiti aveva commesso, indisturbata, decine di rapine in Val Padana durante la prima metà del '94, fino a quando non aveva ucciso un agente di polizia, Massimiliano Turazza. La Procura di Verona aveva scoperto che la banda era coperta dai carabinieri del Ros. Meglio, da un suo maresciallo, Angelo Paron. Che in cambio di informazioni, riforniva la banda con armi e munizioni da guerra in dotazione alle forze di polizia e, soprattutto, gli assicurava libertà di azione. Per rapine e traffico di stupefacenti». E come si arriverebbe da qui alla morte di suo figlio? «Insieme al maresciallo Paron del Ros di Padova, venne processato anche il colonnello Triscari del gruppo carabinieri di Monza. Ricorda? L' ufficiale che si era affrettato ad archiviare la morte di Salvatore come suicidio. Era accusato di aver taciuto le informazioni che gli era state trasmesse dal suo Nucleo Operativo sulla presenza, nella sua zona di competenza, del "pentito" Alceo Bartalucci. Che non solo girava dove non doveva. Ma girava armato». E dove girava? «Nella zona di Vimercate. Dove era mio figlio». Lei crede che suo figlio sia morto perché aveva incrociato questa storia? Che questo fosse il suo segreto? «Oggi ne sono certo. Mio figlio aveva scoperto operazioni illecite del Ros, coperte da un colonnello. E per questo è stato ammazzato». Come si è concluso il processo di Verona? «In primo grado, Triscari è stato condannato. Mentre Paron è stato assolto, perché chi lo accusava ha ritrattato. So poi che nei suoi confronti la Procura fece appello. Ma non ha poi così importanza». Che cosa ha importanza allora? «Che il generale Ganzer non ha sin qui dato le spiegazioni che dovrà pur dare un giorno». Come comandante del Ros? «Non solo. Ganzer arrivò al Ros dopo aver lavorato a Verona, dove, come accertò il processo, in qualità di comandante provinciale aveva gestito il "pentito" Bartalucci. Mi pare abbastanza per chiedergli: chi ha ucciso Salvatore?». - DAL NOSTRO INVIATO CARLO BONINI

 

2003

Carabinieri e spacciatori leggi violate per fare carriera

Repubblica — 22 ottobre 2003   pagina 14   sezione: POLITICA INTERNA

????????????????????????????????????

 

2003

Associazione criminale nel Ro$$

Repubblica — 22 ottobre 2003   pagina 1   sezione: PRIMA PAGINA

MILANO - Questa è una storia nera di cui la Procura della Repubblica di Milano è venuta a capo dopo sette anni di indagini cui pochi desideravano mettere mano e che Repubblica è in grado di documentare. è la storia di un' associazione per delinquere che ha vestito e veste la divisa del Raggruppamento operativo speciale dell' Arma dei carabinieri. Di venti manovali in divisa, agli ordini di un ufficiale che, oggi, del Ros è il comandante. Il generale Giampaolo Ganzer. Dal 1991 al 1997, le routine operative della sezione antidroga del reparto investigativo di eccellenza dei carabinieri sono state declinate in un grumo di abusi, malaffare, illecito arricchimento personale, peculati, provocazioni, istigazioni, ricatti. Almeno venti militari, tra ufficiali e sottufficiali, hanno sistematicamente violato le norme e le prassi che disciplinano le operazioni antidroga sotto copertura, trasformandosi in trafficanti e raffinatori di stupefacenti in proprio. Arresti obbligatori di latitanti sono stati omessi, falsificando regolarmente i rapporti all' autorità giudiziaria che talvolta non ha visto e, spesso, quando ha visto ha preferito girarsi dall' altra parte. Centinaia di milioni di lire di denaro contante frutto di sequestri durante le operazioni sono stati sottratti alle regole della confisca per essere riciclati. La pubblica e consapevole menzogna è stata moneta corrente per confondere e deviare l' opinione pubblica, per svuotare il diritto di difesa degli imputati. Il ricorso alle intercettazioni telefoniche spesso non ha trovato giustificazione né formale né sostanziale nelle indagini. E tutto questo, con un' aggravante, annota la Procura di Milano: «Essere l' associazione per delinquere armata». A sollecitarne le mosse, ora il tornaconto personale, ora il lustro di rapide progressioni in carriera. A plasmarne prassi e metodo, dissimulandone la natura, la pianificazione attenta e personale del suo architetto, il generale Giampaolo Ganzer, oggi comandante del Ros, e di due consapevoli complici: l' ufficiale dell' Arma Mauro Obinu, già comandante della sezione antidroga del Ros e oggi nella divisione criminalità organizzata del Sisde, il servizio segreto civile, nonché il sostituto procuratore della Repubblica, Mario Conte, già pubblico ministero a Bergamo, oggi magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Brescia. Ventisette informazioni di garanzia hanno già raggiunto gli indagati in questo affare. E con un atto istruttorio di 40 pagine che precede le richieste di rinvio a giudizio, a loro è stata comunicata la «chiusura delle indagini preliminari» e la contestuale "discovery" di una cinquantina di faldoni istruttori su cui la pubblica accusa si prepara a celebrare il processo. Processo che sembrava non dovesse riuscire ad approdare ad un esito, quale che fosse. Istruito dal pm di Brescia Fabio Salamone, l' intero, monumentale incarto aveva infatti conosciuto un' avvilente navetta tra procure della repubblica, prima di approdare in Cassazione ed essere quindi assegnato, due anni or sono, a Milano. Dove ora a firmare i provvedimenti non sono solo i due sostituti titolari dell' inchiesta, i pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia Daniela Borgonovo e Luisa Zanetti, ma anche - a sottolinearne il peso - il procuratore aggiunto Ferdinando Pomarici. Un magistrato di robusta esperienza, dai modi equilibrati e certo libero, come racconta la sua storia professionale, da ogni possibile sospetto di inimicizia per l' Arma dei carabinieri. Vediamo, dunque. * * * All' inizio degli Anni 90, l' Arma intravede nelle grandi indagini antidroga una frontiera professionale su cui misurare duttilità e intelligenza dei propri ufficiali e sottufficiali, ma anche un laboratorio in cui sperimentare routine eccentriche rispetto ad antiche e ossificate pratiche da caserma. Esportabili - se testate positivamente - anche nella lotta all' eversione o alla criminalità organizzata. La legislazione adegua le proprie norme, disegnando per i cosiddetti "agenti sotto copertura" una rete di norme "scriminanti" che li sottrae ad alcuni obblighi di legge, tutelandone l' incolumità e l' anonimato. Gli agenti possono infiltrare le organizzazioni nazionali e internazionali del narcotraffico. Chiedere e ottenere dalla magistratura di ritardare il sequestro di carichi di stupefacenti. Evitare l' arresto di pesci piccoli, se questo serve a individuare e catturarne di grossi. Sono norme che, se soltanto maneggiate con scrupolo, hanno alta incidenza operativa e non deragliano da un sistema equilibrato di garanzie. Nel Ros, evidentemente, qualcuno fa altri pensieri. Quella improvvisa libertà operativa viene declinata, nella peggiore delle ipotesi, come nulla-osta all' abuso, a costituirsi come corpo separato. Nella migliore, come efficace strumento per liberarsi dei fastidiosi lacci e lacciuoli con cui le procure della Repubblica imbrigliano la "fantasia" del Reparto. A Roma - siamo nel 1993 - al comando di via Ponte Salario è arrivato un giovane ufficiale, Giampaolo Ganzer. Ha fretta di crescere e non ne fa mistero. Nel ' 94, dirige il II reparto investigativo, competente per le operazioni antidroga e, in meno di quattro anni, percorre l' intera catena gerarchica. Prima come comandante del Reparto analisi, coordinamento e osmosi operativa (' 95-' 97), quindi come vicecomandante del generale Mario Mori (oggi direttore del Sisde). Diventerà comandante del Ros nel 2001. Ganzer ha un metodo. E il metodo - ricostruisce l' inchiesta della Procura di Milano - si fa «sistema». Il Ros istruisce le sue operazioni ottenendo una delega in bianco dall' autorità giudiziaria. Che serve a legittimare iniziative che di legittimo non hanno né la premessa né l' esito. Ma che rispondono a una routine. Leggiamo dagli atti: «Il Ros instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedite al traffico di stupefacenti senza procedere né alla loro identificazione né alla loro denuncia». Ordina quindi «quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro». Che non si tratti di «operazioni di infiltrazione» lo capisce anche un bambino. «Si tratta - annota la Procura di Milano - di istigazione ad importare in Italia sostanze stupefacenti». Fabbricato artificiosamente il reato attraverso l' istigazione, è ora necessario che su qualcuno ne venga schiacciata la responsabilità attraverso il falso, la menzogna, l' abuso. Scrivono i magistrati: «Il Ros rappresenta falsamente all' autorità giudiziaria e alla Direzione Centrale dei servizi antidroga inesistenti accordi tra le organizzazioni italiane acquirenti e i fornitori. Accordi asseritamente appresi grazie ad agenti infiltrati». è una storiella buona per chi vuole o ha interesse a berla, ma necessaria a liberare la mossa successiva. «Il Ros prende in carico lo stupefacente al suo arrivo in Italia, omettendo ogni doverosa attività di controllo su quantità e qualità. Lo trasporta e lo detiene, anche per lunghi periodi di tempo, talvolta lasciandolo nella disponibilità incontrollata di trafficanti». Provvede dunque alla «installazione di laboratori per la affinazione», alla «ricerca degli acquirenti, attraverso la mediazione di mediatori pagati». «Istiga all' acquisto, diffondendo sul mercato la notizia della possibilità di acquisire stupefacente». Il gioco è fatto. Il resto è banale dettaglio. Sul terreno, le operazioni vengono condotte a mano libera, forzando, aggirando ogni tipo di norma, falsificando verbali di sequestro e arresto, barattando il prezzo della libertà con i latitanti. Quel che conta è ostentare «la positiva conclusione di eclatanti operazioni». L' importante è mettere le manette a qualcuno per poi agitare un pugno di arrestati - quale che ne sia lo spessore - da consegnare al pubblico ministero e ad un verdetto di certa colpevolezza. è una giostra ad alta redditività penale (e per alcuni anche economica) in cui tutti guadagnano. Investigatore e pubblico ministero. Bisogna soltanto decidere se salirci o meno. Bisogna, soprattutto, che un magistrato presti la propria faccia e la propria firma, autorizzando il Ros a operare dalle Alpi alla Sicilia, aggirando le norme sulla competenza territoriale delle singole Procure e tenendo così lontani i ficcanaso. * * * Il sostituto procuratore Mario Conte, in quegli anni sconosciuto magistrato di provincia, sulla giostra decide di salire. A Bergamo, che non è neppure sede di una Direzione distrettuale antimafia, è lui l' interfaccia di Ganzer. Su sua indicazione, fa da ombrello, firmando quel che c' è da firmare, alle deleghe che gli presentano i sottufficiali del Ros in forza al nucleo di Brescia, Gilberto Lovato, Rodolfo Arpa, Gianfranco Benigni, Michele Scalisi, Alberto Zanoni Lazzeri, autorizzandoli a operare sull' intero territorio nazionale, di concerto con il comando Ros di Roma, e con gli ufficiali e sottufficiali delle sezioni antidroga che nel tempo vi si succedono (Mauro Obinu, Carlo Fischione, Costanzo Leone, Laureano Palmisano, Vincenzo Rinaldi). Scrivono i magistrati di Milano: «Con Obinu e Ganzer, il sostituto procuratore della Repubblica Conte promuove, costituisce, dirige, organizza l' associazione a delinquere. Ne delinea il modus operandi. Gestisce la collaborazione dei trafficanti Enrique Luis Tobon Otoya (colombiano ndr.), Ajaj Jean Chaaya Bou (libanese ndr.) e Biagio Rotondo, agevolandone l' attività anche durante i periodi di detenzione. Fornisce un contributo rilevante con direttive e provvedimenti, emessi anche al di fuori della competenza territoriale. Partecipando personalmente, in più occasioni, ad interventi operativi». Conte sembra dunque godere di assoluta extraterritorialità. E di una qualche sicumera. Quando infatti l' inchiesta lo investe, chiede e ottiene di essere trasferito a Brescia, nell' ufficio accanto a quello del pubblico ministero che su di lui ha avviato l' indagine, Fabio Salamone. Il metodo Ros battezza almeno sei operazioni antidroga documentalmente minate da «falsi materiali e ideologici». Che la Procura di Milano individua e illumina come fonte di prova d' accusa: "Operazione Cedro" (1991); "Operazione Lido" (1994); "Operazione Shipping" (1994); "Operazione Hope" (1993); "Operazione Cobra" (1994); "Operazione Cedro Uno" (1997) (per il dettaglio, vedi le schede in queste pagine). Il Ros - annota in un suo bilancio la Procura - «si appropria di almeno 502 milioni di lire», «senza precisarne o documentarne la destinazione». E lo stesso accade per «65 chilogrammi di stupefacente» che, non solo non viene sequestrato, ma viene spacciato e dunque reintrodotto nel mercato per mano di uomini dell' Arma. La giostra gira e molti - troppi - fingono di non vedere. Perché? E come è stato possibile? Sono domande - lo vedremo - che meritano di non esser lasciate cadere e che offrono qualche sorprendente risposta. - CARLO BONINI

 

2003

Appalti Foggia, si indaga in Procura il capo del Ro$$

Repubblica — 08 febbraio 2003   pagina 2   sezione: BARI

La torta degli affari foggiani deve nutrire molte bocche, non tutte circoscritte nel territorio dauno. L' inchiesta sulla gestione degli appalti pubblici, avviata alcuni mesi fa dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari, ora allarga il raggio delle indagini, mobilitando anche i vertici del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Ieri mattina, a Bari, il generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros, ha fatto visita al sostituto procuratore antimafia, Gianrico Carofiglio, che coordina l' inchiesta insieme con il collega Giuseppe Scelsi. Accompagnato dal maggiore Domenico Ruscigno, comandante del Ros di Bari, l' ufficiale ha discusso con il pm gli sviluppi che la delicata indagine ha preso nelle ultime settimane. L' inchiesta, rimasta segretissima per alcuni mesi, è emersa un mese fa in occasione della visita barese della Commissione antimafia. L' allarme era stato lanciato da Giuseppe Lumia, presidente dell' antimafia fino al 2001, che proprio a Foggia aveva ribadito la necessità di «capire esattamente quali sono i collegamenti tra malavita e mondo economico, nonché le collusioni del sistema delle istituzioni con personaggi tutt' altro che raccomandabili, riguardo agli appalti». E proprio queste collusioni tra imprenditori e mondo criminale sono l' oggetto dell' inchiesta finita sui tavoli della Direzione distrettuale antimafia di Bari. Sulle indagini, vista l' estrema delicatezza dell' argomento, gli inquirenti continuano a mantenere il massimo silenzio, ma la presenza del generale Ganzer a Bari non è passata inosservata. L' interesse della Commissione antimafia alla vicenda, più che una motivazione, può essere ritenuta una spinta in più per chi da tempo lavora alacremente per sciogliere quelle collusioni. (m.chia.)
 

 

2003

Quel "piano Cobra" di GanZer per imbrogliare il pm Spataro

Repubblica — 24 ottobre 2003   pagina 21   sezione: POLITICA INTERNA

MILANO - Si era a metà degli anni '90 e la giostra manipolatrice battezzata dal generale del Raggruppamento Operativo speciale dei carabinieri Giampaolo Ganzer - Repubblica lo ha documentato nei giorni scorsi - girava a pieno regime. Confidente nei suoi risultati, certa dell' omertà dei suoi interpreti. Quando - è il 1994 - accade che un pubblico ministero decida di non voltarsi dall' altra parte. Quel pubblico ministero si chiama Armando Spataro, ex consigliere del Csm oggi rientrato alla Direzione distrettuale antimafia di Milano, dove ha speso la sua intera vita professionale. E dove, in quel 1994, ricevette la telefonata di un «amico di antica data». L' allora colonnello Giampaolo Ganzer. Quel che segue è il racconto di come l' ambizioso ufficiale del Ros tentò di giocare il pubblico ministero che di lui si fidava. E' il canovaccio di un imbroglio, di cui Spataro, l' 8 maggio 1999, dà conto in un verbale al pubblico ministero di Brescia Fabio Salamone, oggi agli atti dell' inchiesta di Milano. Leggiamo. «Conoscevo Ganzer dagli anni del terrorismo, quando faceva parte delle speciali sezioni investigative. Ne apprezzavo qualità professionali e umane e il nostro rapporto di amicizia si era andato consolidando. Continuavamo a sentirci e, talvolta, a vederci. Dunque, non mi meravigliai quando, all' inizio del '94, ricevetti una sua telefonata. Ganzer mi chiedeva di riceverlo in Procura a Milano, insieme ad un altro ufficiale del Ros di Roma...». I tre si incontrano qualche giorno dopo. Nell' ufficio di Spataro, siedono Ganzer e l' allora capitano Carlo Fischione della sezione antidroga (oggi tra i 27 indagati a Milano ndr). I due carabinieri espongono al magistrato il canovaccio di un piano battezzato "Cobra". Sufficientemente generico per non «impegnarsi» in dettagli che potrebbero incuriosire l' interlocutore. Abbastanza preciso negli esiti per ingolosirlo. Spataro ne conserva un nitido ricordo: «Ganzer mi disse che il Ros disponeva di un confidente colombiano che aveva rivelato l' arrivo nel porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi di cocaina. Ricordo che Ganzer disponeva di nome della nave, data di arrivo e numero di container. La cocaina, aggiunse, era destinata alla piazza di Milano e il confidente era disposto a fornire al Ros le indicazioni necessarie per seguire il carico fino a destinazione e catturare i destinatari della merce». Un gioco da ragazzi. Per il quale era necessaria solo una firma sotto un decreto di ritardato sequestro dello stupefacente. Rischio modesto, massimo successo. «Una operazione come tante altre - chiosa Spataro a verbale - Dissi ai due ufficiali che l' operazione mi pareva del tutto praticabile». Il decreto di ritardato sequestro viene firmato. Con delle istruzioni precise: «Doveva essere dato avviso alla Procura di Massa e alle procure in cui lo stupefacente sarebbe transitato. Bisognava intervenire qualora si fosse rischiata la perdita del «carico». In ogni caso, i carabinieri avrebbero dovuto riferire sulla sorte della cocaina». Spataro non sa che è stato appena ingannato. Comincia a sospettarlo soltanto quando, qualche giorno prima del previsto arrivo della cocaina a Massa, Ganzer lo raggiunge al telefono per «intervenute difficoltà». La storiella che viene venduta al magistrato ha dell' incredibile. State a sentire: «Mi venne detto che il confidente aveva riferito che i suoi accordi con i colombiani prevedevano la sua diretta responsabilità qualora il carico fosse stato sequestrato oltre la barriera doganale. Dunque, era necessario, per proteggere il confidente, intercettare il carico sulla banchina del porto, simulando un intervento cui sarebbe stato dato grande risalto con una conferenza stampa. I colombiani avrebbero ricevuto gli articoli via fax e così non avrebbero avuto a che dire con il confidente. A Milano la droga sarebbe stata portata dopo dal Ros perché gli acquirenti non ne conoscevano la provenienza, dunque non si sarebbero insospettiti dal sequestro di Massa». Spataro comincia a mangiare la foglia, ma non se la sente di rovesciare il tavolo. Non ancora. «Il nuovo quadro mi sembrava strano e decisamente macchinoso, ma per la fiducia che riponevo in Ganzer non posi alcuna seria obiezione». La farsa in banchina può dunque consumarsi. Il 21 febbraio '94, 213 chilogrammi di cocaina vengono sequestrati nel container TPHU 690328-3 a bordo della «motonave Saint Pierre», salpata dal porto di Cartagena (Colombia). Un giovane sostituto di Massa, Augusto Lama, deve mettere la sua faccia accanto a quella di chi ha effettuato la «brillante operazione». A beneficio di taccuini e tv. Il gioco è fatto. Il Ros trasferisce la cocaina a Roma, nella caserma di Ponte Salario. Qualcuno dovrebbe informare Spataro. Ma nessuno lo fa. Ganzer si «dimentica» dell' amico magistrato. E non per settimane. «Per mesi non ebbi notizie. Cominciai a preoccuparmi. Telefonai a Ganzer e lui mi disse che l' operazione non era ancora compromessa. Finché, un giorno, trovandomi a Roma, mi presentai nella caserma di Ponte Salario. Mi portarono nell' ufficio di Fischione dove in un armadio blindato mi mostrarono numerosi panetti di cocaina. Che fosse cocaina e fossero 200 chili me lo dissero loro». Non un pezzo di carta, non uno straccio di evidenza che fosse quella di Carrara. Ma - va da sé - se si lavora a mano libera questa è la prassi. E la prassi prevede variazioni in corso d' opera. Ganzer torna a inabissarsi. E solo «per caso», tre mesi dopo, inciampa in Spataro. Ancora a Roma. Questa volta decide di dirglielo. Quella cocaina non andrà più a Milano perché «c' è un trafficante di Bari intenzionato a comprarne 30 chili...». Anche per l' amico Spataro è troppo. Il magistrato capisce che può o meno superare la soglia dell' istigazione a delinquere in compagnia di Ganzer. Decide di non farlo. «Era trascorso un anno dal sequestro di Massa. Preparai un decreto di immediata distruzione dello stupefacente. Telefonai a Ganzer, che prese atto. Nei giorni successivi, ricevetti il verbale di distruzione». La «brillante operazione» era finita. E, con lei, un imbroglio e un' amicizia. «Avvertii il procuratore Minale e i colleghi pm Nobili, Romanelli, Alma, Marcelli. Intendevo metterli sull' avviso qualora fosse toccato a loro trattare vicende analoghe...». - CARLO BONINI

 

2002

ganzer costruisce la montatura a cosenza e la presenta sul cenone di Natale degli Italiani insieme alla montatura Pegna (Digos Napoli e Bologna) - una montatura ricorda quella di venezia del '85 (IL DIARIO di Deaglio la ricorda)

Arresti no global è bufera sui Ro$$

Repubblica — 20 novembre 2002   pagina 9   sezione: POLITICA INTERNA

ROMA - E' polemica sul Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri (Ros), l' organo investigativo che più di altri ha firmato le indagini che hanno portato all' arresto dei 20 no global. Una polemica che si è affacciata fin da venerdì sulla pagine dei giornali dove si raccontava di un Ros che ha bussato, ma invano, alle porte delle procure per ottenere quegli arresti finché non ha trovato "aperta" quella di Cosenza. La questione è esplosa ieri con interpellanze parlamentari e ieri sera ha voluto rispondere lo stesso numero uno del reparto d' eccellenza dell' Arma, il generale Giampaolo Ganzer negando che «ci siano dossier dei Ros vaganti per l' Italia alla ricerca di una procura compiacente». Il comunicato è arrivato in diretta alla redazione di Porta a Porta dopo l' ultimo attacco, quello dei Disobbedienti. Nel salotto di Vespa, Casarini - come già aveva fatto nel pomeriggio Anubi d' Avossa - ha detto che «chi come il Ros intercetta centinaia di telefonate senza rendere conto a nessuno, è un pericolo per la democrazia». Ecco perché occorre sapere «quanti sono i Ros, di quanti soldi dispongono e che attività svolgono». I si dice dei giorni passati hanno preso corpo ieri mattina. Il primo è l' onorevole Nichi Vendola (Rifondazione), commissario dell' Antimafia: «Il Ros - dice - ha consumato una vendetta portando di procura in procura, in un pellegrinaggio meschino, una paccottiglia che non può tenere in piedi alcun genere di accusa». Nel pomeriggio l' onorevole Paolo Cento (Verdi) deposita un' interpellanza al presidente del consiglio e ai ministri dell' Interno e della Difesa, per chiedere di «limitare i compiti dei Ros e verificare eventuali abusi in questa indagine». Fausto Bertinotti parla di «forze con propensione eversiva nei corpi della polizia dello Stato e in pezzi della maggioranza». Sergio Cofferati giudica «incredibili e senza fatti concreti le accuse ai no global». Ieri sera, dopo l' ultimo attacco in diretta a Porta a Porta, la replica scritta del generale: «Le sezioni anticrimine di Genova e di Catanzaro hanno condotto distinte indagini delegate dalle procure e nel rigoroso rispetto dei mandati ricevuti. Pertanto, nessun' altra autorità giudiziaria avrebbe potuto essere, ne è stata, in alcun modo informata dell' esito degli accertamenti svolti e non esiste alcun dossier vagante per l' Italia alla ricerca di una procura compiacente». Intanto il Movimento e tutte le sue anime, dai Cobas ai cattolici, ha annunciato gli appuntamenti della settimana: venerdì a Termini Imerese con gli operai della Fiat e sabato la manifestazione nazionale a Cosenza. - CLAUDIA FUSANI

Dietro il comunicato del Viminale dubbi sul Ro$$ e su tre procure

ROMA - L' inerzia dell' inchiesta cosentina sui new global cambia traiettoria. Con mossa pazientemente lavorata in quel di Alghero, buen retiro scelto per lasciar posare la polvere di un week-end complicato, il ministro dell' interno Giuseppe Pisanu decide di disinnescare il dirompente potenziale politico dell' indagine, imbrigliandone i protagonisti. Nella scelta del ministro è evidente un segno politico, che ripropone intatto il metodo bipartisan del «modello Firenze». Ma a ben vedere, nelle ventidue righe di comunicato rassegnato dal Viminale alle quattro e mezza del pomeriggio di ieri, c' è qualcosa di più. «Un calendario di lavoro», per usare la anodina definizione di una fonte dello staff del ministro. A dirla tutta, il canovaccio di un robusto atto istituzionale che, in un inedito confronto tra prerogative della magistratura e poteri dell' esecutivo in materia di sicurezza nazionale e libertà dei singoli, interpella direttamente metodi e scelte di almeno tre Procure della Repubblica (Cosenza, Napoli, Genova) e della polizia giudiziaria (Ros e Digos) che quegli uffici ha scelto come referenti. Che sollecita entrambi - inquirenti e investigatori - ad adempimenti di legge sin qui evidentemente disattesi, prefigurando i possibili esiti di scelte che non dovessero raccogliere l' invito. Vediamo. <* * *& «Il ministro - si legge nel dispaccio licenziato dal Viminale - segue con grande attenzione gli ulteriori, possibili effetti che i provvedimenti della magistratura di Cosenza potrebbero determinare sull' ordine pubblico. A tal fine, avvalendosi degli strumenti che la normativa vigente gli attribuisce, chiederà al procuratore della Repubblica di Cosenza di fornirgli ogni utile elemento conoscitivo che emerga dall' inchiesta in corso». Nel passaggio, è una prima notizia e - lo vedremo - un riferimento a quel che sin qui non è accaduto. La norma cui il Viminale fa riferimento è l' articolo 118 del codice di procedura penale ("Richiesta di copie di atti e informazioni da parte del ministro dell' Interno"). Parliamo di tre commi di legge il cui uso (di cui non si ricordano significativi precedenti) consente al ministro dell' Interno di forzare il segreto di indagine, acquisendo dal fascicolo del magistrato che procede «informazioni ritenute indispensabili per la prevenzione dei reati per i quali è previsto l' arresto in flagranza». La tecnicalità va sciolta. Perché nel caso dell' inchiesta cosentina sui new global, nasconde un semplice sillogismo e un' implicita censura. Se è vero - ragiona il Viminale - che il pm Domenico Fiordalisi ha individuato un epicentro eversivo in quel di Cosenza, capace di «sovvertire la globalizzazione dei mercati», annullare «il regolare funzionamento delle attività di governo», esportare terrore e devastazione in ogni angolo del Paese, prassi avrebbe voluto che lui stesso o il suo Procuratore capo ne avessero informato il ministro dell' Interno. Vale a dire il terminale di Governo e Parlamento per quel che attiene le garanzie di un corretto equilibrio tra libertà individuali e sicurezza collettiva. Così non è stato, evidentemente. Perché nulla - nonostante il «pericolo imminente e concreto» che covava in quel dell' università di Arcavacata - la Procura di Cosenza aveva ritenuto di dover comunicare in due anni di indagine sulla «Rete ribelle del Sud». E come lei, del resto, il Ros dell' Arma dei carabinieri, il questore e il responsabile della Digos di Cosenza. Una prima annotazione. Di qui in avanti, Pisanu non attenderà più cenni spontanei. Vincerà questa curiosa ritrosia di uffici giudiziari e apparati di sicurezza con il codice in mano. Per il pm Fiordalisi non è una buona notizia. Ma non lo è neppure per il comandante del Ros Bruno Ganzer, per il questore di Cosenza Romolo Panico e il suo dirigente Digos. <* * *& Le "cattive" notizie per chi sino ad ora ha lavorato all' affare new global tuttavia non finiscono qui. Perché l' avviso ai naviganti del Viminale muove da Cosenza per raggiungere nuovi approdi. Leggiamo ancora dal dispaccio: «Il ministro Pisanu ha confermato la piena fiducia nell' azione della magistratura, auspicando, da un lato, la rapida conclusione di tutte le indagini attinenti allo svolgimento di pubbliche manifestazioni. Dall' altro, che anche i competenti procuratori generali delle Corti di appello, data la delicatezza e l' ampiezza dell' inchiesta, assicurino la piena attuazione delle attività di coordinamento e di vigilanza informativa che la legge prevede». Nella clausola di stile "istituzionale" che conferma «piena fiducia nell' azione della magistratura», Pisanu indica in realtà il presupposto in assenza del quale il Viminale - e verosimilmente il Parlamento - sono pronti a metterla in mora quella fiducia. Parliamo della «rapida conclusione di tutte le indagini». Nell' uso del plurale, il ministro dell' interno indica infatti un punto di sofferenza politica non solo nel lavoro della Procura di Cosenza, ma anche in quelle di Genova e Napoli. Insomma, come per la «Rete ribelle del sud», anche le inchieste sull' irruzione nella «Diaz», sulle devastazioni a Genova, sulla morte di Carlo Giuliani, sulla caserma Raniero e i fatti napoletani del 17 marzo 2001 non possono e non devono trascinarsi oltre un tempo ragionevole. Che, pare di capire, è arrivato a scadenza e che ulteriormente dilatato rischierebbe di compromettere l' equilibrio raggiunto a Firenze. Dall' una e dall' altra parte. Tra chi indossa felpe e chi divise. Del resto che nella «conferma di piena fiducia» del Viminale alla magistratura vi sia poco di rituale, è confermato dalla seconda tecnicalità cui Pisanu ricorre per indicare in quali strumenti quella fiducia dovrà tradursi. Il ministro sollecita infatti i Procuratori generali di corte d' appello di Genova, Napoli e Cosenza (in quest' ultimo caso si tratta del Procuratore generale di Catanzaro) ad avvalersi d' ora in poi per le indagini che in qualche modo rimbalzano sulle vicende dei new global dell' articolo 372 del codice di procedura penale (questa la norma cui viene fatto riferimento). Di quella norma cioè che consente di imporre per via gerarchica il coordinamento delle indagini tra diverse procure della Repubblica. Di più: che consente nel caso in cui quel coordinamento non si realizzi, di appropriarsi delle indagini. - CARLO BONINI

 

 

Ma il pressing del Ro$$ sui giudici a Genova diventa un boomerang

Repubblica — 05 dicembre 2002   pagina 6   sezione: POLITICA INTERNA

ROMA - Esiste un capitolo non scritto dell' affare genovese che racconta la grande sconfitta di un metodo investigativo e delle sue ambizioni. Che annuncia l' uscita di scena dell' uomo che di questa sconfitta è ritenuto responsabile: il generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros dei carabinieri. Fonti qualificate informano che dopo il collasso dell' inchiesta di Cosenza, le scelte istruttorie rassegnate dai pm genovesi Anna Canepa e Andrea Canciani nell' ordinanza del gip Elena Daloiso accelerano «oggettivamente» il suo avvicendamento al comando del reparto investigativo di eccellenza dell' Arma. Questione di breve tempo. «Poche settimane - azzardano le fonti -. E comunque non oltre i primi mesi del nuovo anno». Perché? In questa storia conviene procedere a ritroso. Illuminare quanto accaduto nelle prime settimane del giugno scorso negli uffici della Procura di Genova. In quei giorni, i sostituti procuratori Canepa e Canciani affidano all' allora Procuratore capo Francesco Meloni (lascerà l' incarico per raggiunti limiti di età di lì a poco) le prime conclusioni di un' inchiesta complessa quanto meticolosa sugli episodi di devastazione e violenza che hanno sfregiato Genova nelle giornate del 20 e 21 luglio 2001. E' stato un lavoro tutt' altro che facile quello dei due pm. E dai sorprendenti esiti istruttori. I due magistrati chiedono infatti che agli indagati di cui si accingono a sollecitare l' arresto venga contestato il reato di devastazione e saccheggio. L' opzione ha un segno giuridicamente raffinato, politicamente non neutro. Fotografa una forma di spontaneismo violento che nei giorni del G8 procede per aggregazioni improvvise e altrettanto inaspettate contaminazioni tra il «blocco bianco» e il «blocco nero», cui la pancia del movimento avrebbe dato, alternativamente, pigro rifugio o, peggio, consapevole copertura. Epperò proprio questa opzione incrocia un improvviso antagonista. Negli stessi giorni in cui della richiesta di custodia cautelare, così come istruita dalla Procura, si avvia ad essere investito il gip Daloiso, negli uffici del Procuratore e dei due sostituti Canepa e Canciani fa capolino il comandante del Ros di Genova. Ha con sé un rapporto di un migliaio di pagine, diviso in voluminosi tomi dalla copertina plastificata. Nella trama che l' incarto propone, le giornate del 20 e 21 luglio sono esemplificazione di un programma associativo di segno eversivo e transnazionale incubato nei mesi precedenti il G8. I black bloc ne sono la prova sotto il profilo «organizzativo». Mentre Internet è il luogo oscuro dell' elaborazione politica violenta. Di più: il punto di raccordo di alcune delle sigle antagoniste che il Ros legge come altrettanti attori di un programma di «guerra» preordinato che a Genova avrà il suo teatro. La distanza concettuale che divide l' impostazione del Ros da quella che all' istruttoria hanno dato i due sostituti Canepa e Canciani con il conforto del Procuratore capo salta agli occhi. Ma salta agli occhi soprattutto la corrispondenza di impianto tra il rapporto del Ros di Genova e la cornice istruttoria con cui la Procura di Cosenza imprigionerà di lì a pochi mesi Francesco Caruso e soci. Questo forse spiega il perché quel rapporto resterà lettera morta a Genova e troverà al contrario fortunato ascolto in Calabria. E forse chiarisce anche il nulla in cui lo lascerà annegare la Procura di Genova. Non è dato sapere se sia stata solo una coincidenza a sovrapporre in giugno le richieste di custodia cautelare e le monumentali conclusioni del Ros. E' certo, al contrario, che la coincidenza ha avvelenato per mesi il clima di collaborazione. Il sospetto si è andato ingrassando con il passare delle settimane, alimentato da curiose fughe di notizie che, in estate, chiedevano pubblicamente conto del perché nonostante un imponente lavoro di indagine dell' Arma, la magistratura genovese colpevolmente prendesse tempo, rinviasse una decisione facile facile: arrestare quanti avevano devastato Genova inseguendo un progetto sovversivo. E' altrettanto certo che fino a diciotto giorni fa, quando la procura di Cosenza ottiene i suoi ordini di cattura, a Genova nulla si sapesse di quell' indagine. Salvo scoprire a cose fatte che alcuni degli atti di polizia giudiziaria effettuati a Genova e per conto della procura di quella città erano finiti de plano nei fascicoli del dottor Domenico Fiordalisi senza che questi ne avesse mai fatto formale richiesta. Un pasticcio, nella migliore delle ipotesi. Un pasticcio che ora imbarazza il comando generale dell' Arma e, se le fonti di Repubblica hanno ragione, anticipa l' addio del generale Giampaolo Ganzer. - CARLO BONINI

 

2002

PIRELLONE NISBA ?

 

2001

Droga, carabinieri nella bufera

Repubblica — 10 marzo 2001   pagina 13   sezione: CRONACA

MILANO - Nell' ufficio del sostituto procuratore della Repubblica Daniela Borgonovo è arrivata un' inchiesta ampiamente istruita, con una quarantina di nomi iscritti al registro degli indagati, che da due anni va inutilmente cercando un giudice naturale che ne tragga una conclusione. Le domande che quelle carte pongono suonano così: cosa è stata per tutti gli anni '90 la sezione antidroga del Ros dei carabinieri? Un reparto d' eccellenza che ha consentito di tranciare i fili del traffico internazionale degli stupefacenti, eliminandone i protagonisti? O è stato forse, per riassumere le gravi conclusioni dell' inchiesta del sostituto procuratore di Brescia Fabio Salamone, «un' associazione a delinquere» in divisa che del traffico di stupefacenti aveva fatto non il mezzo d' indagine, ma il fine della sua attività? Che ha «abusato» dei suoi poteri, omettendo arresti dovuti? Che ha «riciclato» i proventi in denaro della droga sequestrata? Questa inchiesta, segreta al punto che nulla per quattro anni è trapelato, ha già seminato molti veleni. E molti ancora ne seminerà, se è vero che il magistrato che l' ha istruita, Fabio Salamone, è imputato a Venezia dove il Ros lo ha denunciato per abuso di ufficio. Se è vero che un ex sostituto procuratore di Bergamo (oggi sostituto procuratore a Brescia), Mario Conte, coinvolto nell' inchiesta da Salamone, ha chiesto conto alla magistratura ordinaria e al Csm dei metodi di indagine del suo collega. Insomma, un pessimo garbuglio che vale la pena raccontare dall' inizio. Quando, 1997, un «cavallino» scosso si presenta alla Procura della Repubblica di Brescia. Già, li chiamano così: «cavallini». Gente svelta, che nel mercato della cocaina ha una funzione insostituibile nel piazzare una partita importante. Quella di trovare i grossisti disposti ad acquistare la merce che arriva da fuori e quindi i dettaglianti pronti a smerciarla. Il nome di quel «cavallino» scosso che nel 1997 si decide a varcare l' ingresso della Procura non ha importanza. Chiamiamolo B., e diciamo pure che in quel momento sa di non avere nulla da perdere. E' terrorizzato perché capisce di essere finito in un ingranaggio da cui uscire vivi è una scommessa. E' stato arrestato in Germania, ha un futuro in galera. Decide di parlare. Con Salamone. Dovete immaginarlo quell' interrogatorio. E il pacchetto di «Ms» del magistrato che si svuota mentre il racconto del «cavallino» prende corpo e contorni. «Dottore - spiega - i carabinieri del Ros mi hanno incaricato di comprare cocaina e trovare clienti. Io l' ho fatto e loro mi seguivano. Fotografavano e prendevano nota di chi incontravo. Poi, scattava l' operazione. Ma, ecco la sorpresa, ad essere arrestati erano sempre i pesci piccoli, i cavallini. Mai quelli grossi. Questa storia è andata avanti per un po' . E allora ho cominciato ad avere paura...». Salamone ascolta, ne parla con il «capo», Tarquini, e quindi decide di non cestinare quel verbale. Anche perché le indicazioni del suo interlocutore sono precise. E la «squadretta» antidroga cui quelle informazioni conducono è ad un tiro di schioppo: Bergamo. E' un nucleo del Ros, comandato dal maresciallo Gilberto Lovato, e composto da quattro sottufficiali: Vincenzo Rinaldi, Michele Scalisi, Rodolfo Arpa, Gianfranco Benigni. Lovato è un uomo brillante, capace. Su di lui, nell' Arma, molti sono pronti a giurare. E ottimi sono i suoi rapporti alla Procura di Bergamo, dove il sostituto Mario Conte, è il terminale delle operazioni antidroga condotte dalla squadra. Il gruppo si muove molto. Le loro operazioni sotto copertura vanno ben oltre la circoscrizione giudiziaria di Bergamo. Si spingono in Emilia, a Genova, Livorno, in riviera adriatica, in Abruzzo. E sempre con successo. Arresti e sequestro di importanti partite di cocaina. Salamone decide di verificare quelle operazioni e distribuisce le prime deleghe a Guardia di Finanza e Polizia. Comincia così una lunga serie di interrogatori in carcere. Molti degli arrestati dal Ros sono ormai condannati con sentenza passata in giudicato, degli assoluti «signor nessuno» finiti nel dimenticatoio delle cronache, ma i loro racconti presentano curiosi elementi in comune con le dichiarazioni di B., il primo «cavallino» ad aver parlato e ad aver ottenuto (per poi perderlo e tornare in galera) il programma di protezione per i pentiti. Molti sostengono di essere stati direttamente ingaggiati dai carabinieri. Salvo ritrovarsi in manette e quindi condannati al posto dei «grossisti». In almeno un caso - un sequestro di 150 chili di cocaina - Salamone accerta la mancata verbalizzazione del contestuale sequestro di un miliardo e 400 milioni di lire. Che fine ha fatto quel denaro? In parte - sosterrà l' inchiesta - viene utilizzato per acquistare nuove partite di cocaina. In parte, sparisce nel nulla. Gli interrogatori consegnano ai verbali di Salamone una ventina di nomi di altrettanti trafficanti, italiani e colombiani, che le operazioni del Ros avrebbero risparmiato. Molti, verificherà Salamone, sono inseguiti da anni da mandati di cattura. In particolare, il colombiano Otoja, che, arrestato in Italia, conosce una vicenda processuale anomala che gli consente, presto, di ottenere gli arresti domiciliari. Perché? Il registro degli indagati di Brescia è un fiorire ininterrotto di ipotesi di reato. Traffico di stupefacenti, abuso, associazione per delinquere, riciclaggio. Più l' indagine affonda e percorre a ritroso l' attività del nucleo Ros di Bergamo (vengono verificate tutte le operazioni a partire dal '91), più nulla, agli occhi di Salamone, sembra salvarsi dal sospetto. Soprattutto quando - è il settembre del '97 - una raffineria di cocaina scoperta a Rosciano (Pescara) si rivela essere uno stabilimento sotto copertura del Ros e i quattro campesinos colombiani che vi vengono sorpresi, dei poveri disgraziati che dal Ros sono stati «assunti» e a cui il Ros ha messo a disposizione la materia prima da raffinare oltre agli alloggi a Roseto degli Abruzzi. Salamone insomma - e siamo ormai nel '98 - si convince che l' attività del Nucleo di Bergamo sia andata ben oltre quello che la legge consente in materia di operazioni sotto copertura. Che un conto è inserirsi in un traffico di stupefacenti, ritardando sequestri e arresti. Altro è importare la cocaina acquistandola in Colombia, ingaggiando e dunque istigando al reato intermediari e consumatori. Altro insomma è agire sotto copertura, altro è «provocare». Tra le informative che arrivano sul tavolo del magistrato di Brescia, quelle su «carichi controllati» via mare approdati a Genova, Livorno, Napoli. E agli aeroporti di Milano e Bergamo. Quanta di quella droga - si domanda in quei mesi Salamone - era «controllata» dal Ros? E quanta, al contrario, attraverso lo stesso canale, e «grazie allo stesso canale», è potuta approdare sul mercato italiano? I nomi dell' intera squadra antidroga del Ros di Bergamo finiscono nel registro degli indagati insieme a quelli di trafficanti di stupefacenti. Salamone si consiglia con il Procuratore capo Tarquini. Vorrebbe perquisire gli uffici della sezione antidroga di Roma del Ros. Il ponte di comando, insomma. Anche perché è da lì - ne è convinto - che l' intera attività del nucleo di Bergamo è stata diretta. Ma viene scelta la linea della prudenza. Prima di iscrivere al registro degli indagati il colonnello Ganzer e il suo vice (e quindi successore al comando della sezione), Mauro Obinu, si decide di interrogare i sottufficiali. Qualcuno di loro - pensano a Brescia - crollerà. Ma le cose vanno diversamente. Salamone non lo sa, ma i sottufficiali del Ros che interroga, nascosti sotto il bavero della divisa, hanno dei microfoni che registrano integralmente i colloqui con il magistrato. Anche quel che non viene messo a verbale. Anche dunque gli scoppi di ira di Salamone che nelle pause di interrogatorio lo fanno imprecare nei confronti di Ganzer, un uomo che di fronte ai suoi interlocutori non fa mistero di disprezzare e promette di travolgere nell' inchiesta. All' inchiesta è rimasto poco da vivere. I sottufficiali del Ros denunciano per abuso Salamone alla Procura di Venezia. Nelle sue parole sostengono la prova di un' inchiesta minata dal pregiudizio, da una antica inimicizia nei confronti del Ros. Ma all' inchiesta è rimasto poco da vivere anche perché nelle sue maglie finisce il nome del magistrato Mario Conte, pm di Bergamo, referente della squadra di Lovato. Per competenza, dunque, gli atti raccolti in 60 faldoni partono alla volta di Milano. Piercamillo Davigo è l' estate del '99 se ne libererà dichiarandosi a sua volta incompetente a beneficio della Procura di Bologna. Ma nessuno avrà più tempo e voglia di lavorarci su quegli atti. Fino al gennaio scorso, quando la Cassazione decide che è a Milano che quelle carte devono tornare. Sulla scrivania della dottoressa Daniela Borgonovo. Che dovrà ricominciare lì dove tutto si è interrotto. I protagonisti, del resto, sono tutti rimasti al loro posto: inquirenti e inquisiti. Ad uno solo di loro, il destino ha giocato un tiro mancino: il sottufficiale del Ros Gianfranco Benigni oggi è in carcere. Lo hanno arrestato a Forlì qualche tempo fa. L' accusa: droga. - CARLO BONINI

 

2001

NOTIZIE O PROPAGANDA ?

Un mese appostati sull'Orinoco il carico era nascosto sott'acqua

Repubblica — 10 febbraio 2001   pagina 27   sezione: CRONACA

ROMA - «Adesso che è finita, mi viene quasi da ridere», sogghigna il segugio dei Ros aspirando forte la prima sigaretta della giornata. «Ma lì, in mezzo alla giugla, tra i moschitos, il caldo afoso, gli acquazzoni improvvisi e violenti, mi sembrava di impazzire. E' stata dura, ma alla fine restare appollaiati sulla sponda dell' Orinoco a qualcosa è servito». La conferenza stampa è finita. Il procuratore Vigna si attarda a prendere un caffè con il comandante dei Ros, generale Palazzo e con il suo vice, il colonnello Ganzer. Fuori, lungo i viali alberati che circondano l' immesa caserma Ogaden, uno dei due protagonisti della più spettacolare e imponente operazione antidroga dell' ultimo ventennio si lascia andare ai ricordi. Le immagini degli appostamenti decisivi si spostano in Venezuela. «Per un mese», ricorda il segugio, «eravamo stati ad attendere in un albergo, il Best Western di Caracas. Giorni e giorni di intercettazioni ad ascoltare un dialogo assurdo e quasi folle tra due persone. Poi, un giorno, intercettiamo una chiamata da un cellulare. E tra le tanti frasi dette, ce n' è una che ci fa saltare sulla sedia. Parlano di uova. Uova che stanno finalmente nello stesso paniere. E a dirlo sono due pedine importanti di questa storia: Elias Lemos, un greco e Luis Antonio Navia, uno del cartello di Medellin. Dal servizio speciale antidroga della nostra ambasciata arriva un' altra segnalazione. Ci dicono che una nave, la Suerte, già conosciuta e segnalata, sta per partire dall' Africa diretta in Venezuela. La stessa segnalazione, frutto di un lavoro di intelligence tra tre diverse polizie, venezuelane, americane e colombiane, indicano anche il punto in cui verrà effettuato il carico: alle foci del fiume Orinoco». I due ufficiali del Ros fanno i bagagli e si spostano nella giungla. I tre gruppi di intelligence sanno tutto. Tranne forse la cosa principale: dove viene custodito il carico, in attesa dell' arrivo del mercantile. Ci avevano detto solo che la coca veniva trasferita dalla Colombia con dei camion. Ma ignoravamo la destinazione precisa dentro la foresta amazzonica». I servizi colombiani si danno da fare e attraverso gli informatori ottengono la soffiata decisiva: «Sulle sponde dell' Orinoco». Notizia utile ma ancora troppo vaga. Dove cercare? «Partiamo», ricorda ancora l' ufficiale del Ros, «e ci piazziamo in un punto che si presta ad un trasbordo sul fiume. Arrivano altre informazioni. L' ultima, fornisce le coordinate esatte». L' appostamento dura quasi un mese. Il 12 agosto la nave "Suerte" lascia il porto di Palua, in Venezuela, e scende verso la foce dell' Orinoco. Per 14 ore incrocia, lentissima, al largo. Poi scende verso Sud e attende. «Noi», aggiunge il segugio, «cerchiamo di capire dove si trova il carico. Siamo convinti che sia in mezzo al fiume. Qualcuno propone di calarci in acqua e andare a scoprire. Ma nessuno se la sente. Una notte, scopriamo il nascondiglio: avevano chiuso la coca dentro dei barili di plastica, avvolti dentro delle reti e ancorati sul fondo». Il mattino dopo arrivano delle lance con potenti motori fuoribordo, tirano su le reti, caricano e dirigono a tutta la velocità verso l' Oceano. Duecento miglia in mezzo alla giungla. Alla foce, attende la nave. Carica a sua volte la merce, la nasconde e prende il largo. La "Suerte" viene seguita per due giorni. Poi il 17 agosto è bloccata in mezzo all' Atlantico. Ci vorranno dieci ore di perquisizione e l' indicazione dell' ufficiale di rotta prima di scoprire il nascondiglio. «Noi eravamo certi del carico, ma non riuscivano a trovarla», spiega l' ufficiale dei Ros. Dieci tonnellate di coca purissima stivata in una doppia paratia saldata elettricamente. Invisibile a occhio nudo. Anche perché il carico ufficiale è un prodotto ad alto rischio, il Bhi che potrebbe sprigionare idrogeno. I documenti confermano e sono in regola. L' accesso era una piccola botola anche questa saldata perfettamente. La nave è sequetrata, il carico scoperto. Ci sono già una montagna di prove per far scattare il blitz. Una seconda nave è bloccata vicino alle Canarie, la "Prestige". La voce raggiunge la Grecia e l' Albania. Qui, da un paio di mesi, soggiornano i colombiani. Ma è tardi. Ci sono i primi arresti. Qualcuno parla e delinea la struttura dell' organizzazione. L' Albania era una garanzia. «Se il piano avesse funzionato», spiega l' ufficiale, «ogni anno sarebbero arrivate 40 tonnellate di cocaina. I russi avevano già preso gli accordi. Sarebbero atterrati con i loro aerei privati. Da lì, avrebbero poi coperto la distribuzione nell' est europeo». - DANIELE MASTROGIACOMO

 

2001

PRIMA DELL’UTILIZZIMO 11 $$ETTEMBRE

Il day after dell'Arma Non siamo criminali

Repubblica — 11 marzo 2001   pagina 10   sezione: CRONACA

ROMA - «Qualche sbavatura è possibile, vedremo, c' è un' inchiesta. Ma quello che proprio non mi va giù è che si dica che il nostro è un metodo, addirittura un sistema criminale. E' una falsificazione macroscopica perché noi abbiamo sempre operato con l' ok della magistratura». Un' altra pessima giornata per l' Arma dei carabinieri e il suo reparto di eccellenza, quello dei migliori che vivono sempre in missione. Il nuovo cazzotto sorprende il colonnello Giampaolo Ganzer, il comandante operativo del Ros, in un sabato che doveva essere finalmente tranquillo dopo la bufera Provenzano. «I nostri agenti - dice - operano sotto copertura e come provocatori con il pieno assenso delle leggi e dei codici». Brutta storia questa dell' inchiesta di Milano, prima di Brescia, che indaga circa quaranta uomini del Ros col sospetto che abbiano messo in piedi un' associazione a delinquere per il traffico di cocaina e il riciclaggio dei denari sequestrati ai trafficanti nelle casse pulite del Raggruppamento. «La maggior parte dell' attività dei nostri reparti antidroga - insiste Ganzer - vive sulla base dell' acquisizione e della consegna controllata di stupefacente così come dice la legge». Tradotto, un po' quelle cose che si vedono nei film: agenti infiltrati che si travestono da pusher, da consumatori di droghe e recitano un ruolo nell' associazione criminale fino a quando non sono mature le prove per arrestare. Solo a quel punto, che può arrivare dopo mesi e anche anni vissuti col pericolo di essere scoperti da un momento all' altro, il finto criminale cala la maschera e indossa di nuovo i panni dell' agente. C' è un' inchiesta che, secondo Ganzer, ha fatto scuola e ha chiarito una volta per tutte ruoli e metodi. Era il 1995 quando la procura di Firenze, il Ros con l' ok del pm Margherita Cassano, ora membro del Csm, e del procuratore capo Piero Luigi Vigna, ora procuratore nazionale, infiltrarono per quasi un anno nei cartelli colombiani un maresciallo del Ros e V.F., un ex militante della destra, già coinvolto e poi prosciolto dall' accusa di aver partecipato all' attentato a Saxa Rubra. L' operazione portò al sequestro in Italia, all' aeroporto di Firenze, di oltre mille chili di cocaina. Al processo - ventotto le persone condannate fra cui colombiani, spagnoli e italiani, i vari snodi del narcotraffico - nacquero però molti dubbi sui metodi di indagine del Ros. Due, soprattutto: almeno 135 chili di cocaina erano stati spacciati; tre miliardi erano stati inviati in Colombia dagli investigatori. «Il 18 gennaio 1999 - dice Ganzer sentenza alla mano - la Cassazione, confermando quella condanna spiega in tre pagine cosa vuol dire e cosa implica lavorare sotto copertura e provocare. L' agente può provocare e sollecitare l' acquisto dello stupefacente e tutta le attività strumentali connesse all' acquisto, cioè quelle che precedono come la sollecitazione a vendere, e quelle che seguono come la detenzione, il trasporto, l' esportazione e l' importazione». «E' lecito tutto, provocare e sollecitare, purché si inserisca in un' attività criminosa in atto» aggiunge l' avvocato Guido Puliti difensore dei due infiltrati all' epoca del processo Pilota. Dunque anche costruire una raffineria come quella di Pescara, stabilimento sotto copertura del Ros? «Guardi - aggiunge il colonnello - che quella storia è stata ampiamente chiarita citando proprio la sentenza di Cassazione della Pilota...». Tutto lecito, in una logica quasi machiavellica, purché finalizzato all' arresto dei boss e al sequestro di beni e droga. E però l' inchiesta di Milano dice che il sistema Ros mette in manette i pesci piccoli e lascia fuori quelli grossi. «Ma se, sempre nella Pilota, abbiamo fatto arrestare e condannare in Colombia almeno dieci boss...» replica il colonnello. E i soldi che spariscono, così come i chili di cocaina? «Sui soldi nulla so. Circa la cocaina posso dire che a volte facciamo consegne controllate per proseguire e monitorare il traffico». Attività al limite del lecito autorizzate dai magistrati. La procura di Milano, infatti, indaga anche il pm di Bergamo Mario Conte che ieri ha voluto solo dire: «La mia attività trova conferme in sentenze della Cassazione». Così al limite e pericolose che forse poi non puoi nemmeno controllare tutto, ogni lira e ogni grammo di coca. «Quelle sotto copertura sono attività molto complesse e rischiose - dice il procuratore Vigna - se ci sono state smagliature è giusto trovare i responsabili. Tutti però dobbiamo riconoscenza al Ros per l' attività che ha svolto e svolge contro la criminalità organizzata sequestrando tonnellate di cocaina». - CLAUDIA FUSANI

 

2000

CASO "PISTA GERI", ALTRA MONTATURA DI STATO

attenzione non stiamo parlando di piste di coca o di F1

E la Procura convoca i capi dell' intelligence

Repubblica — 30 maggio 2000   pagina 7   sezione: POLITICA INTERNA

ROMA - La Procura di Roma prosegue nell' inchiesta sulla fuga di notizie che così tanto - lamentano gli inquirenti - ha danneggiato l' indagine sull' omicidio D'Antona. Il procuratore Vecchione, che procede per l' ipotesi di reato di rivelazione di segreto, smentisce in quanto "priva di fondamento" la voce che ci possa essere un carabiniere indagato. E però trapela fra mezze ammissioni che nell' ufficio al primo piano di piazzale Clodio sono già stati sentiti, solo per ricostruire storicamente i fatti, alcuni nomi da novanta dell' intelligence italiana. Ad esempio il responsabile dell' Ucigos, il prefetto Ansoino Andreassi, che si è definito "il legale rappresentante della parte lesa", in quanto il suo ufficio è titolare della pista Geri; il numero due del Ros dei carabinieri, il colonnello Giampaolo Ganzer, che sull' omicidio sta seguendo con i suoi uomini una pista diversa da quella della polizia; il comandante del secondo reparto del comando generale dell' Arma, il colonnello Leonardo Gallitelli, e il colonnello Vittorio Tomasone, comandante provinciale del reparto operativo. è probabile che all' elenco manchino altri nomi, altri ufficiali, sottufficiali e poliziotti, ma il riserbo è totale. Se è top-secret il contenuto degli incontri in procura, è possibile ipotizzare il tipo e la qualità delle domande. Perchè questi non sono nomi qualunque: Andreassi, Ganzer e Gallitelli erano, ad esempio, tutti presenti l' 11 maggio al Viminale alla riunione interforze convocata dal ministro Bianco per fare il punto sull' allarme terrorismo, l' ultimo aggiornamento prima della Festa della polizia e dell' anniversario della morte del professor D'Antona. Tomasone, invece, potrebbe, per via del suo ruolo, aver saputo spiegare i dettagli delle operazioni dei carabinieri per cui è stato arrestato Aladin Hamidovic, lo zingaro teste-chiave dell' inchiesta Geri. Che c' entra tutto questo con la fuga di notizie? Per dirla con le parole del gip Otello Lupacchini in Commissione stragi, "questa è stata una dolosa rivelazione di segreto da parte di un organo pubblico", e cioè "di ambito politico, giudiziario o investigativo". Gli unici che sapevano erano polizia, carabinieri, magistrati e politici. Qui si nasconde la talpa. è probabile che uno dei punti che più hanno interessato la procura sia proprio il capitolo zingaro su cui fra l' altro il Ros si è preoccupato di inviare in questi giorni a piazzale Clodio una dettagliata relazione. Una storia poco chiara in cui hanno molta importanza le date. Il 28 febbraio Aladin Hamidovic, appena liberato dal centro immigrati di Ponte Galeria dove era stato trattenuto perchè senza permesso di soggiorno, viene sentito per la prima volta in quanto possessore della scheda telefonica brigatista. Tramite lui la Digos arriva ad una ragazza e poi a Geri. Il 21 aprile, altra data importante, il bambino-testimone individua e riconosce Geri. Il 29 aprile Hamidovic viene arrestato per furto di auto dai carabinieri. Un arresto pieno di coincidenze: Aladin, 26 anni, viene controllato la prima volta alle due del mattino, con lui c' è la sua fidanzata Silvana Pilotti. Li portano alla stazione di Roma Eur e poi in via Cavour. Aladin ha un permesso di soggiorno per motivi di giustizia di cui si occupava la Digos. La polizia viene avvisata? Fatto è che Hamidovic e amica vengono rilasciati per essere di nuovo fermati la sera del 29 intorno alle undici davanti al campo nomadi: fermo per furto di auto. Gli atti dei carabinieri vengono firmati il giorno dopo, strano anche questo. L' 11 maggio, tre giorni prima della fuga di notizie, c' è il processo in direttissima. Aladin è condannato a un anno e sei mesi. La fidanzata Silvana dice in aula che è tutto falso, che la Uno bianca non era stata rubata, che era tutta una macchinazione. Non le credono e la denunciano per falsa testimonianza. "Strano arresto - dice l' avvocato dei due, Massimo Cittadino -. Credo che Aladin sia rimasto vittima di uno scontro di poteri". Di certo è una brutta fine per due testi-chiave dell' inchiesta D' Antona. E di certo per tutto questo la polizia si è arrabbiata moltissimo. Senza contare poi le volte in cui, dopo il 29 aprile, pattuglie antidroga hanno sostato sotto casa di Geri per "semplici controlli". Ieri il membro laico del Polo nel Csm Mario Serio ha chiesto l' apertura di un procedimento per verificare "eventuali pressioni" sui magistrati titolari dell' inchiesta D' Antona. Una richiesta che ha diviso l' organo di autogoverno dei magistrati. Contrari soprattutto i membri laici dei Ds e Magistratura democratica. - di CLAUDIA FUSANI

 

2000

grasso dell' "antimafia" era contro il "giusto processo" anche nel 2002

Grasso: Più controlli

Più controlli pubblici nell'affidamento delle opere, sui subappalti e sui tempi di realizzazione. Il procuratore Pietro Grasso durante la conferenza stampa per l'ultima operazione antimafia (presenti il vicecomandante del Ros, Giampaolo Ganzer e il comandante della sezione anticrimine di Palermo Michele Sini) è tornato a ribadire che «se il meccanismo dei controlli funzionasse a pieno regime con la piena applicazione delle leggi vigenti nel settore degli appalti l'attività della magistratura si ridurrebbe». «Occorre insistere - ha aggiunto - questo piuttosto che impegnarsi in ipotesi di concorso esterno difficilmente dimostrabili, anche se gli appalti costituiscono uno dei maggiori affari di Cosa nostra. Negli appalti pubblici - conclude - ci sono compiacenze e omissioni che non aiutano affatto l'opera repressiva».

 

1999

PARIS PARIS a Ganzer non dispiace il bistrot

Br, missione in Francia a caccia degli irriducibili

Repubblica — 10 giugno 1999   pagina 19   sezione: POLITICA INTERNA

ROMA - Obiettivo: Parigi. Le indagini sull' omicidio D' Antona - freddato giovedì 20 maggio alle 8,13 - puntano diritte alla Francia. Alla ricerca degli irriducibili delle Br-Pcc e dell' Udcc. Polizia e carabinieri marciano in parallelo, coordinati dalla procura di Roma, cercando di individuare sia le facce già note del terrorismo nostrano, sia quelle meno note, i cosiddetti fiancheggiatori che, dieci anni fa, non furono protagonisti di fatti clamorosi, non furono mai arrestati, ma soltanto segnalati, anche se già militavano attivamente nelle Br. Per la Francia ieri è partito Marcello Fulvi, il numero due dell' Ucigos, la struttura della polizia che si occupa del terrorismo e che coordina tutte gli uffici della Digos in Italia. Una missione supersegreta affidata al funzionario che per anni ha indagato sulle Brigate rosse. Fulvi e Ansoino Andreassi, responsabile della polizia di prevenzione, hanno esaminato a lungo il documento di rivendicazione dell' omicidio D' Antona, concludendo che si tratta di un testo pensato e almeno in parte scritto da una mano che, già ai tempi delle Br ortodosse, si è impegnata nella stesura di altre risoluzioni strategiche. Impossibile, com' è ovvio, sapere se l' improvvisa partenza di Fulvi sia legata a qualche eccezionale scoperta: come, ad esempio, una segnalazione degli investigatori d' oltralpe che potrebbero aver indicato qualche mossa falsa dei tanti terroristi che vivono in Francia, in molti casi con un regolare permesso di soggiorno, dopo aver scontato le pene inflitte dai tribunali locali. Di certo, la missione francese conferma due cose. La prima: che gli epigoni delle Br-Pcc e dell' Udcc sono attivamente ricercati e vengono considerati come i possibili ispiratori dell' omicidio. Alla stregua degli irriducibili (al Corriere della Sera ieri è giunta la missiva, con il timbro della censura, firmata da cinque brigatisti di Novara che hanno rivendicato il delitto). La seconda: che l' Italia ha deciso di tentare, per l' ennesima volta, la carta di riportare in Italia quei brigatisti la cui estradizione è sempre stata negata dalla Francia. Al punto che il governo e lo stesso ministero della Giustizia avevano dato questa battaglia per persa. In proposito, il Guardasigilli Oliviero Diliberto, che dopo l' omicidio ha ripreso in mano il lungo elenco di terroristi in attesa di estradizione, ha dichiarato a Repubblica: "Quella era una pratica da considerare chiusa. La Francia ha fatto i suoi processi. Li ha conclusi. Ha emesso le condanne. E ci ha detto che non avrebbe rimandato nessuno in Italia". Ma non è solo la polizia che si muove sulla pista francese. I carabinieri del Ros stanno facendo lo stesso. Anche in questo caso le indagini sono condotte da un militare - il colonnello Giampaolo Ganzer, vicecomandante della struttura - che per anni ha lavorato sulle Bierre. Il Ros ha ripreso le indagini che, il 5 settembre del 1989, portarono la sezione anticrimine di Roma a bloccare a Parigi, in Faubourg St.Antoine 212, gli stessi brigatisti ricercati oggi: Simonetta Giorgieri, Gino Giunti, Nicola Bortone, Carla Vendetti. I carabinieri sono convinti che questi e altri fiancheggiatori meno noti, che allora non furono arrestati, ma che hanno continuato a sognare il partito armato, potrebbero avere a che fare con l' omicidio D' Antona. Basti pensare alle dichiarazioni sulla necessità "della guerra antimperialista" e della "lotta armata" che la Giorgieri, pisana e già militante nei primi anni ottanta della colonna toscana delle Br, ha continuato ad inviare dal carcere francese dove nel 1997 ha finito di scontare la pena per associazione eversiva. Si trovano su Internet documenti del febbraio e del settembre 1990 e del giugno 1994 dove compaiono le firme di Giorgieri, Vendetti, Bortone, Giunti - ora tutti liberi - Maria Cappello, Fabio Ravalli, Marco Venturini ad altri, ancora detenuti, fine pena mai. Lo stile e i contenuti di quei documenti assomigliano in modo impressionante a quelli delle 28 pagine che hanno rivendicato l' omicidio D' Antona. Tra i volti meno noti ma più interessanti per gli investigatori c' è quello di Desdemona, studentessa pisana, militante dichiarata degli Ncc, secondo gli investigatori già passata nelle file delle Br-Pcc quando scelse la clandestinità nel gennaio 1995, il giorno in cui la polizia a Roma arrestò il suo compagno, Luigi Fuccini, per associazione eversiva. "Desdemona - ha dichiarato ieri la sorella - è una libera cittadina senza pendenze penali. è scomparsa, è vero, come è vero che ha fatto politica nell' area della sinistra. Forse ha deciso di cambiare vita, chissà, è una sua libera scelta". Non sanno più nulla di lei. Da anni. - di CLAUDIA FUSANI e LIANA MILELLA

 

1996

ANCHE SUL ROGO ALLA FENICE FECERO NOTIZIA !

 

QUANDO LA FANTASIA TORTA UTILE

FANTASIA DI MERDA, COMUNQUE

un attentato contro Pavone e Ganzer insieme ! una trovata carnevalesca, combinare una cosa del genere su due persone che forse si sono viste 3 volte in tutta la vita !

E' IL BOSS CAPRIATI IL COLLEGAMENTO TRA IL PETRUZZELLI E IL ROGO ALLA FENICE DI VENEZIA

Repubblica — 29 giugno 1996   pagina 16   sezione: CRONACA

VENEZIA - E' nei traffici tra la malavita pugliese e quella veneziana che si cerca la verità sul rogo della Fenice. Un intreccio che ruota intorno alla figura di Antonio Capriati, boss della città vecchia di Bari, attualmente imputato in Puglia di incendio doloso al processo per il rogo del Petruzzelli, e coinvolto, nel Veneto, nell' ambito dell' inchiesta contro la mafia del Brenta. Secondo il pentito Salvatore Annacondia, che rivelò gli intrighi che stavano dietro all' incendio del Petruzzelli, Capriati sarebbe stato in collegamento stretto, per le sue attività, con il boss della mafia del Brenta, Felice Maniero, e con la sua banda. "Se serviva qualche cortesia, qualche favore, o una persona che dovesse arrivare sul posto, si sapeva che in tal zona c' era Maniero Felice" ha dichiarato il pentito durante il primo maxi processo alla mafia del Brenta. Secondo un altro pentito, Adriano Barbiero (sentito anche lui per il rogo del Petruzzelli ed intimo amico di Capriati, sostiene Annacondia), lo stesso Capriati, insieme ad una banda di baresi che si occupava di traffici di droga in collegamento con il clan Fidanzati, avrebbe organizzato nel Veneto un attentato, poi non portato a termine, contro il procuratore antimafia di Venezia Francesco Saverio Pavone e il colonnello dei carabinieri Giampaolo Ganzer. Quanto basta per far drizzare le orecchie agli investigatori impegnati nella ricerca di eventuali collegamenti tra la malavita del nord e del sud e gli incendi della Fenice e del Petruzzelli. Antonio Capriati, "capo mandamento" della criminalità organizzata pugliese, è uno dei principali tra i 21 imputati per il rogo del teatro di Bari. Secondo le accuse di Salvatore Annacondia, avrebbe organizzato l' incendio del Petruzzelli, poi eseguito materialmente da due professionisti, per lucrare sui fondi della ricostruzione e togliere dai guai il gestore del teatro Ferdinando Pinto (che però ha sempre negato), il quale avrebbe accumulato parecchi debiti col cassiere del clan Capriati, Vito Martiradonna, detto "Vitino Lenèl". Di legami e di cene tra Pinto e Capriati ha parlato anche l' altro pentito, Adriano Barbiero, che compare anch' egli in entrambe le inchieste, quella barese e quella veneziana. Ma Pinto ha negato anche questo. Secondo l' accusa, Capriati avrebbe organizzato l' incendio del Petruzzelli insieme a Savino Parisi detto "Savinuccio", boss del quartiere Japiggia di Bari, con cui era da tempo in affari. I magistrati pugliesi accusano i due di una lunga serie di crimini e di essersi, di fatto, spartita la città. I magistrati pugliesi e quelli veneti ora intendono accertare se la mano del clan Capriati, accusata di aver incendiato il Petruzzelli, si è allungata anche sul rogo della Fenice, in collegamento con gli eredi della banda di Maniero. La criminalità organizzata veneta non è infatti scomparsa dopo il pentimento del boss, mette in guardia il procuratore capo di Venezia Vitaliano Fortunati. "Lavora in silenzio, in maniera sotterranea - dice - non bisogna illudersi. Ogni spazio lasciato libero viene presto riempito". - dal nostro corrispondente ROBERTO BIANCHIN

 

1995

APOLOGIA DI REATO

E IL CARABINIERE BEFFO' I NARCOS

Repubblica — 20 settembre 1995   pagina 19   sezione: CRONACA

FIRENZE - Per quasi un anno "Bruno" è stato un uomo dei narcos. Per loro ha trasportato su un aereo Falcon dalla Colombia alla Toscana più di mille chili di cocaina. Ha preso in consegna la droga all' aeroporto di Medellin. Ha visto con i suoi occhi i poliziotti colombiani che caricavano la cocaina sull' aereo. L' ha portata oltre oceano facendo scalo in Portogallo e in Olanda e atterrando a Peretola, il piccolo aeroporto di Firenze. Ha rischiato di scomparire nell' uragano Lucy. Ha tenuto i contatti con gli acquirenti italiani, mafiosi e uomini della banda della Magliana. Ha scoperto una rete incredibile di collusioni. E alla fine ha beffato i potenti cartelli colombiani. "Bruno" è un giovane sottufficiale del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri, ed è il protagonista della più audace operazione sotto copertura mai organizzata in Italia. "La migliore, la più prolungata, la più pericolosa, la più proficua", l' ha definita il procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna che ieri, raggiante come non mai, con i sostituti Silvia Della Monica e Margherita Cassano e con gli uomini del Ros ha incassato gli elogi del presidente della Repubblica. Scalfaro ha telefonato personalmente per complimentarsi. Il bilancio dell' operazione "Pilota", seppur ancora provvisorio, è di tutto rispetto. Sequestrati mille chili di cocaina, del valore di 40 miliardi all' ingrosso, 200 al dettaglio. Arrestate diciannove persone per associazione a delinquere e traffico internazionale di stupefacenti. Filmati decine di narcos e di collusi. Intercettate, grazie ad un altro sottufficiale infiltrato sotto copertura nell' organizzazione, decine di operazioni bancarie, mobiliari e immobiliari eseguite dai trafficanti colombiani e dai loro clienti italiani. Il tutto senza confidenti e senza pentiti. Sintetizza Vigna con il suo solito linguaggio colorito: "Qui non si è trattato della solita confidenza del genere ' Sta arrivando un bastimento carico di... Per quanto mi risulta, mai fino ad oggi un nostro uomo era andato con un aereo in Colombia a organizzare questa beffa alle organizzazioni criminali". Perciò "Bruno" e i suoi compagni che dopo di lui si sono infiltrati fra i narcos rischiano la vita e le loro vere identità sono un segreto impenetrabile. "Faremo il possibile - giura Vigna - per tenerne coperto il volto anche al processo". Poi tocca al generale Mario Nunzella, comandante del Ros, ai suoi vice, colonnelli Mario Mori e Giampaolo Ganzer, e al generale Vittorio Galliano, direttore del servizio operazioni della Direzione centrale antidroga, descrivere i momenti drammatici dell' operazione, i rischi corsi da "Bruno", dagli altri agenti infiltrati e dagli altri uomini del Ros che hanno pedinato i trafficanti e protetto come angeli custodi i compagni infiltrati. L' operazione è partita alla fine del ' 94, quando i Ros hanno saputo che i narcotrafficanti colombiani stavano studiando la possibilità di abbandonare il tradizionale trasporto della cocaina via mare per passare all' aereo, mille volte più rapido e - si supponeva - meno rischioso. E' stato allora che "Bruno", un giovane sottufficiale appassionato di volo cui era stata costruita una nuova identità, è riuscito a prendere contatto con alcuni colombiani che vivevano in Italia e ad offrirsi come pilota. I cartelli di Cali, Medellin, Barranquilla, Pereira avevano progetti grandiosi. Consorziati fra loro, si dicevano pronti all' invio di "quantità illimitate" di cocaina, fino a tremila chili per volta. In marzo hanno messo alla prova "Bruno", affidandogli un campione di 200 chili da consegnare ai clienti italiani. Per assicurarsi che non facesse il furbo, i narcos hanno trattenuto "in garanzia" uno dei suoi soci - in realtà un altro agente sotto copertura. Sono stati giorni drammatici, Carabinieri e magistrati hanno vissuto lunghi momenti di angoscia. Poi tutto è filato liscio, la cocaina è giunta a destinazione, il "socio" è stato gentilmente accomiatato. Ma durante quel primo viaggio "Bruno" ha capito su quali e quante collusioni potessero contare i narcos. Era all' aeroporto internazionale di Medellin, sul Falcon, quando ha visto avvicinarsi due camionette della Guardia Civil, la polizia locale: dalle camionette sono scesi un bel po' di agenti che hanno caricato sull' aereo la cocaina dei narcos. Per questo la polizia colombiana, a differenza di quelle portoghesa, olandese e spagnola, non è stata informata dell' operazione. Il pericolo era troppo forte. Ma ora i magistrati italiani sono certi che le autorità colombiane saranno liete di collaborare nell' inchiesta. Quando i duecento chili "di prova" arrivarono in Italia, in marzo, magistrati e carabinieri furono ben attenti ad arrestare un paio di trafficanti lontano da Firenze, in modo che nessuno potesse sospettare di "Bruno". L' operazione proseguì, e il 14 settembre "Bruno" è atterrato una seconda volta a Peretola con 845 chili di cocaina. A questo punto è iniziata l' operazione di smantellamento della rete in Italia. I trafficanti sono finiti uno dopo l' altro in galera. Fra gli arrestati c' è un boliviano che si fa chiamare Eduardo Arambide: è il responsabile di tutti i pagamenti, il cassiere, il primo anello del riciclaggio. E c' è un palermitano, Paolo Carista, che sarebbe un uomo della famiglia di Porta Nuova, quella di Pippo Calò, da oltre un decennio legata a Roma con la Banda della Magliana. E poi ci sono napoletani e calabresi. Spiegano gli investigatori: "Come i cartelli colombiani si consorziano per rifornire di droga i mercati europei, così in Italia i gruppi criminali si consorziano per ricevere la sostanza, sempre e comunque sotto l' egida di Cosa Nostra". Smantellata la rete del narcotraffico, si apre ora la fase forse più interessante dell' inchiesta: quella sul riciclaggio. Fra gli investimenti individuati grazie al lavoro dell' agente infiltrato nel circuito finanziario dei trafficanti ve ne sono alcuni - pare di grande rilievo - in Italia. - di FRANCA SELVATICI

 

1991

indagine a verona per narcotraffico: ganzer é indagato un anno dopo il "blitz"

PALERMO - PADOVA, COLPO AL NARCOTRAFFICO

Repubblica — 13 dicembre 1990   pagina 23   sezione: CRONACA

VENEZIA Nel Veneto l' eroina arrivava dalla Sicilia nascosta dentro le salsicce e gli insaccati spediti al nord da una ditta palermitana, mentre la cocaina, giunta in Spagna dal Sudamerica, veniva poi scaricata a Palermo assieme alle cassette del pesce importate da alcune società ittiche. Nella notte tra lunedì e martedì i carabinieri della sezione anticrimine di Padova hanno compiuto un blitz arrestando una trentina di persone a Palermo, Milano, Vicenza, Padova e Venezia per associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, un traffico gestito dalle famiglie vincenti dei Savoca e Spadaro da Palermo e da quella dei Fidanzati da Milano. A firmare i 34 mandati di cattura è stato il giudice istruttore veneziano Francesco Saverio Pavone: il magistrato che, secondo un piano organizzato dalla mafia nell' agosto dell' anno scorso, piano poi fallito a causa delle confessioni di un pentito, doveva saltare in aria con un' Alfetta 1800 camuffata da gazzella dei carabinieri assieme a Francesco Di Maggio, il giudice milanese già collaboratore dell' alto commissario Domenico Sica, e al colonnello dell' Arma Giampaolo Ganzer, ora comandante del gruppo di Verona. Dei 34, cinque sono riusciti a sfuggire alla cattura, mentre tre sono stati raggiunti dal provvedimento in carcere, dove erano rinchiusi per altri reati, uno è deceduto, un altro è rinchiuso in una galera del Sudamerica ed infine gli altri 24 sono stati arrestati all' alba dell' 11 dicembre mentre dormivano nei loro letti. In carcere sono finiti il commerciante palermitano di carni Luigi Mortillaro di 32 anni, e il titolare di alcune società ittiche, Antonio Manzella, 40 anni di Palermo. Quindi Antonino Duca, 50 anni, residente a Padova dopo essere stato in soggiorno obbligato in un paesino della provincia veneta; cognato dei fratelli Fidanzati, il suo nome è stato fatto più volte dopo l' omicidio di Natale Mondo, il collaboratore del commissario Nini Cassarà. Mondo fu assassinato dalla mafia perché era riuscito ad infiltrarsi proprio nella cosca di Duca. Ma il vero pezzo da novanta della lista è Gaetano Fidanzati, 54 anni, il boss dell' Arenella trasferitosi alla fine degli anni Settanta a Milano per avviare un' attività di onesto antiquario, almeno apparentemente, ma dove in realtà avrebbe diretto il traffico di cocaina in tutto il nord Italia (si racconta che aveva posto una taglia di 200 milioni in cocaina sulla testa del pentito Totuccio Contorno). Da alcuni mesi Fidanzati si trova in un carcere argentino. Anche il fratello Carlo è entrato in questa inchiesta perché accusato di aver gestito tra l' 82 e l' 86 il traffico di eroina nel Veneto, ma due anni fa è morto. Sono stati arrestati altri siciliani: Rosario Lonardo, 50 anni, anche lui residente nel Padovano dove era arrivato in soggiorno obbligato, Giuseppe Tarantino, 57 anni, legato al commerciante Manzella, Paolo Russo, 32enne di Enna da tempo trapiantato a Milano e legato alla cosca dei Madonia. Ma anche tra i veneti ci sono personaggi di spicco, un nome sembra contare in particolare, quello del chioggiotto Armando Boscolo meneguolo, 41 anni, finito in manette un mese fa perché accusato dallo stesso magistrato veneziano di associazione per delinquere di stampo mafioso per il ruolo avuto nel riciclaggio dei miliardi di una decina di sequestri di persona messi a segno nel Veneto e in Lombardia. Secondo i carabinieri della sezione anticrimine padovana, Boscolo sarebbe stato il tramite tra le bande dei sequestratori e le cosche palermitane, colui che garantiva con il denaro dei riscatti i finanziamenti da investire nel traffico della droga. L' organizzazione inizialmente, grazie alle coperture fornite dai due commercianti di insaccati e di pesce, gestiva un traffico di quattro-cinque chilogrammi ogni settimana di sostanze stupefacenti, eroina in particolare. In seguito il volume degli affari sarebbe aumentato e negli ultimi anni la merce trasportata si è aggiunta la cocaina avrebbe toccato i venti chilogrammi alla settimana. Il giudice istruttore Pavone, alle spalle del quale hanno lavorato le procure della Repubblica di Venezia e Padova, ha coordinato le indagini svolte dai carabinieri, accertamenti che avrebbero trovato un prezioso supporto informativo da parte dell' alto commissario: alcuni pentiti con le loro dichiarazioni fornite a Domenico Sica e ai suoi collaboratori, infatti, avrebbero confermato e completato il lavoro di investigazione compiuto dai militari dell' Arma. - di GIORGIO CECCHETTI

 

1991

2 OTTOBRE 1991 CORTE D'ASSISE DI VENEZIA DEMOLISCE LE MONTATURE DEL OTTOBRE 1983-MAGGIO 1986, A PROCESSO E SUBITO ASSOLTE (NON CI SONO I TERMINI PER PROCEDERE PROCESSUALMENTE) DALL'ACCUSA DI COSTITUIRE IL "BRACCIO POLITICO DELLE BR-PCC", 19 PERSONE ARRESTATE E SCARCERATE MEDIAMENTE DOPO 1 ANNO, 1 IMPUTATO MORTO SUBITO DOPO LA SCARCERAZIONE (DARIO RIGOLON), CIRCA 500 MILIONI DI LIRE DI RIPARAZIONI DANNI GIUDIZIARI, MA GANZER NON E' IN AULA PER LA SUA PRODEZZA CONTINUATA ED AGGRAVATA, COSTRUITA CON GABRIELE FERRARI, OGGI CONSIGLIERE CSM, E MICHELE DALLA COSTA, OGGI PG DI TRIESTE, ALL'EPOCA PM A VENEZIA

1989

LA COPERTURA DEL GIORNALISTA DI CRONACA GIUDIZIARIA VENEZIANO PIU’ NOTO DEGLI ‘80

UCCIDETE IL MAGISTRATO VENEZIANO

Repubblica — 03 agosto 1989   pagina 2   sezione: STATO E LA PIOVRA

VENEZIA La gelosia di una giovane donna padovana abbandonata dal convivente, già inquisito dalla magistratura palermitana per associazione a delinquere assieme ad altri 44 mafiosi, ha fatto venire alla luce il progetto di uccidere un magistrato veneziano, l' ex giudice istruttore Francesco Saverio Pavone, che da anni indaga sulla criminalità organizzata nel Veneto, e di un ufficiale dei carabinieri, il tenente colonnello Giampaolo Ganzer, responsabile del nucleo anticrimine della legione di Padova. Secondo un rapporto inviato alla procura della Repubblica padovana, a capo dell' organizzazione che stava ideando l' attentato, sarebbero alcuni uomini di punta della mafia. All' azione avrebbero dovuto partecipare anche due terroristi mediorientali, interessati ad uno scambio droga-armi. Alla magistratura padovana era già arrivato un lungo esposto anonimo in cui venivano rivelati particolari interessanti su un traffico internazionale si sostanze stupefacenti e su un attentato in preparazione contro un magistrato. Il 21 luglio scorso i sostituti procuratori Antonio Cappelleri e Carmelo Ruberti interrogano Mara Mazzucco, 31 anni, arrestata dai carabinieri assieme all' ex convivente Adriano Barbiero, 40 anni, titolare di un ristorante nella cintura urbana di Padova, e ad altre due persone per la detenzione di trenta grammi di cocaina. Gli inquirenti sospettano che sia lei l' autrice di quell' esposto e la mettono sotto torchio. Dopo alcune ore i due magistrati interrogano Barbiero e gli contestano di aver partecipato alla preparazione del progetto per uccidere il giudice veneziano, lui nega. Gli parlano di uno strano viaggio a Francoforte, che Barbiero spiega sostenendo di essere andato in Germania per trovare alcuni amici. Non ci sono prove certe, ma i sospetti sono pesanti. Gli inquirenti padovani riescono poi a ricostruire tutti i particolari. A spingere una famiglia mafiosa, particolarmente radicata nel Veneto, anche grazie agli elementi in soggiorno obbligato, ma, soprattutto, attraverso la malavita della riviera del Brenta, ad organizzare l' attentato, il primo al di fuori della Sicilia, sarebbero stati gli ostacoli posti dal giudice Pavone con le sue inchieste e il traffico internazionale di droga. Gli attentatori avrebbero dovuto utilizzare un' Alfetta 1800 mascherata da gazzella dei carabinieri. All' azione avrebbe dovuto partecipare anche due palestinesi. Non è la prima volta che nelle indagini dei carabinieri padovani sul traffico di eroina compaiano elementi legati al terrorismo mediorientale, utilizzati come corrieri e interessati a riportare in patria armi. Ma proprio sei mesi fa è terminato un processo nell' ambito del quale sono emerse ampie zone d' ombra sull' attività investigative degli inquirenti. Sul banco degli imputati c' erano quattro siriani, di cui due furono condannati a sei e nove anni di reclusione per aver portato in Italia un chilo di eroina, e un presunto ufficiale dell' Olp, il giordano Hussein Kasin Hakam Badar. Quest' ultimo venne assolto con formula piena dall' accusa e durante il processo sostenne di aver agito come agente provocatore al servizio dei carabinieri. Al giudice Pavone, che da alcuni mesi ha chiesto ed ottenuto il trasferimento alla pretura di Mestre, intanto è stata aumentata la scorta. Il magistrato non sembra particolarmente scosso dalla notizia. Non sono un eroe spiega ma con le indagini che ho condotto e che sto terminando, pur essendo stato trasferito, potevo aspettarmelo. Il magistrato proprio in questi giorni sta concludendo l' inchiesta sulla malavita della riviera del Brenta: gli imputati sono un centinaio e le accuse vanno dall' omicidio (ne sono stati compiuti 17 in pochi anni e tutti fino ad ora insoluti) al traffico di droga, dalla rapine (quelle miliardarie messe a segno al casinò e nei grandi alberghi di Venezia) al riciclaggio di denaro sporco attraverso la gestione delle case da gioco jugoslave. Inoltre Pavone ha condotto le indagini su tredici sequestri di persona, di cui tre terminati con l' omicidio dei rapiti. - di GIORGIO CECCHETTI

 1988

ARRESTA FRANCESCO MOISIO ED ALTRI COMPAGNI, CON UNA SCANDALOSA MONTATURA, A MARGHERA

1987

ARRESTA NUMEROSI GIOVANI E COMPAGNI, ACCUSATI DI APPARTENERE AD UNA INSESISTENTE COLONNA VENETA DELLA UdCC. TUTTI PROSCIOLTI AL TERMINE DELL'ISTRUTTORIA, CONDOTTA CON DALLA COSTA MICHELE, CHE SI SCAVALLA POI IL CASINO GIRANDOLO A IONTA A ROMA, MENO 2, ASSOLITI AL PROCESSO. I 14 ARRESTI COSTARONO CIRCA UN ANNO DI PEDINAMENTI E INTERCETTAZIONI, CIRCA 90 RAPPORTI DI P.G.

1985

VEDASI LA PAGINA

http://www.paolodorigo.it/Antireatiassociativi.htm