SINDACATO DI CLASSE E AUTONOMIA DI CLASSE

Luglio 2004

A proposito di una “critica” agli Slai cobas di Taranto, Dalmine, Ravenna, Melfi, Palermo, ecc. (documento rimasto senza risposta) - di Paolo Dorigo – carcere di Spoleto, sezione EIV

La lotta degli operai di Melfi, pur essendo sostanzialmente una lotta di difesa, per ripristinare condizioni degne di lavoro in una situazione allucinante di soprusi ed angherie, schiavizzazione della forza lavoro ed inutili balletti dei sindacati tutti tesi a difendere questa rara presenza di grande industria recente nel meridione, si è svolta con una decisione ed una compattezza sociale tali da spaventare il padrone Fiat e da portare al riconoscimento delle rivendicazioni (non tutte, ma buona parte) degli operai.  In questa lotta la presenza dei compagni del sindacato di classe non era secondaria o di retroguardia, come non lo è stata mai la lotta dello Slai cobas.

Questa questione del sindacato di classe, in un paese in cui occorre un particolare riconoscimento ed una particolare presenza tra i lavoratori per poterli rappresentare nelle trattative e nelle vertenze, va vista in termini generali per quanto riguarda il conflitto di classe in generale ed il movimento comunista, ed in termini specifici per quanto riguarda le varie concezioni più o meno opportuniste che, anche al di fuori della minoranza cosciente interna ai posti di lavoro ed attiva tra i lavoratori (tra cui quella dello Slai cobas) si esprimono nel nostro paese.

Vi sono infatti, al di fuori della triplice sindacale Cgil Cisl Uil (il secondo e il terzo chiaramente sono oramai da tempo, dalla fine della sterile “sinistra Cisl”, del tutto succubi ed interni al regime ed al dominio dei capitalisti, e sono sindacati composti prevalentemente di operai professionali e capi, di impiegati di carriera, burocrati, dirigenti e soprattutto ruffiani), e con l’eccezione sostanzialmente di parti della base sindacale delle varie categorie tra cui quella dei metalmeccanici Cgil, vari sindacati che si richiamano ai “Cobas”.

Innanzitutto. Cosa sono i Cobas ?

Negli anni ’70, soprattutto dopo l’esperienza dell’autunno caldo e delle assemblee operaie ed operai-studenti che dettero vita ad un profondo rinnovamento nei Consigli di fabbrica, allora strutture che contavano nella contrattazione e che vedevano folte rappresentanze di avanguardie reali delle lotte, si assistette ad una progressiva normalizzazione padronale alla quale l’autonomia operaia quasi ovunque non sapette offrire la necessaria resistenza (tra gli ultimi punti caldi dello scontro espressione dell’autonomia di classe propriamente figlia delle Assemblee autonome, le lotte contro i sabati lavorativi all’Alfa,1978, le lotte dei giovani assunti alla Fiat, estate 1979, le lotte a Marghera del 1981, le lotte dei portuali genovesi, e poche altre significative esperienze, anche nel pubblico impiego). Ciò era inevitabilmente il frutto della bastarda repressione padronale, della infamia dei dirigenti sindacali (spesso ex studenti sessantottini figli di papà che avevano poca voglia di lavorare in fabbrica e preferivano fare i funzionari sindacali, soprattutto in Cisl), tutta diretta a contenere e ricondurre il conflitto alla logica della mediazione e del riformismo filo-capitalista, ma soprattutto dei processi di ristrutturazione e regolamentazione delle lotte che  erano funzionali sia alla ristrutturazione del ciclo, con l’inserimento della robotica, delle isole e dell’automazione, sia del taglio della spesa pubblica e delle conseguenti azioni tese a gerarchizzare ogni istanza partecipativa tagliando le ali alle lotte autonome.

A cavallo di questo processo di ristrutturazione generale della società che sul piano politico lo Stato veicola attraverso via Fracchia e lo smantellamento della colonna Margherita Cagol ‘Mara’ delle Brigate Rosse di Torino, con l’avvio del “pentitismo” che serve a delegittimare nella classe operaia le avanguardie rivoluzionarie, all’interno della classe operaia non per questo cessano i fermenti, tanto che, sia prima che dopo il movimento delle “autoconvocazioni” contro le pazzesche decisioni sindacali di regime di accettare il congelamento della scala mobile e la logica della concertazione (che inizia con l’accordo del 1983 detto di “San Valentino” e varato da Giugni, con la scusa che costui era “il padre” dello Statuto dei lavoratori –che a sua volta era stato non certo una concessione ma una parziale conquista strappata con durissime e formidabili lotte dalla classe operaia-), si va a sviluppare nelle fabbriche la realtà dei collettivi e dei comitati di base (il vero significato di Cobas, comitato di base, sta appunto nella fondamentale importanza che riveste per noi comunisti e rivoluzionari l’opinione delle masse e della base di classe, che è motore di ogni cosa e produttrice di ogni realtà materiale e non, nella società capitalista come in quella socialista).

Affermazione molto lenta e travagliata nella società del regime dc-psi e della triplice sindacale, che viene facilitata dal crollo politico della “prima repubblica” con i contraccolpi nelle forze sindacali, esplicitamente e fellimentarmente orientate ancora una volta ad alzare il tiro nell’irrigimentare i lavoratori. Eccoci a Milano agli inizi dei ’90, con il Leoncavallo raso al suolo ancora fumante, e Pillitteri a dare dei fascisti ai lavoratori dell’ATM, e, sempre a Milano, la magistratura con Di Pietro cercare di gestire la situazione rivoluzionaria creatasi con la mediatizzazione della figura di questo commissario fattosi PM. Quindi la mafia ad operare a salvare i poteri forti, con le bombe volutamente controproducenti ai -sottesi da alcuni- obiettivi di attenuazione delle terrificanti e naziste condizioni di detenzione a Pianosa, Asinara (riaperta) ed altri kampi.  Il tutto questa volta non riesce a trattenere nelle condizioni di minoritarietà i nuovi sindacati Cobas che si vanno creando nella scuola, nel pubblico impiego, in molte fabbriche.

Oggi, tra questi, il Sin Cobas appare quello più orientatamente opportunista, una specie di estremismo compatibile, un po’ alla Canarini cresciutello, (non a caso Bernocchi è un vecchio volpone dell’opportunismo che si frapponeva alle tendenze rivoluzionarie nel movimento del ’77 a Roma, ed all’epoca non aveva certo molta legittimazione politica), mentre altre realtà sono più marginali e settoriali. In qualche modo i sindacati invece “autonomi” rappresentano la realtà del vecchio corporativismo qualunquista che è sopravvissuto in taluni settori (a parte quelli di polizia, che qui non prendiamo neppure in considerazione, perché lì sono tra le forze più oscure e fasciste nel paese), mentre l’autonomia di classe pur esprimendosi in migliaia di piccole realtà di contestazioni e scontri, rimane freddamente e spietatamente controllata dalla violenza padronale e dall’infamia perdurante delle strutture sindacali della “triplice”. Cose che si ripetono spesso negli ultimi anni (e non solo nella fase di crisi di regime del ’93-’94, da Crotone alla Zanussi di Pordenone), ed in settori anche molto scoperti dal sindacato e in situazioni con pochi lavoratori e non con le migliaia e migliaia che affluivano ai turni nei ’60-’70. Per esempio i ferrovieri, le lavoratrici delle pulizie, i forestali, così come tantissimi altri settori hanno espresso forme molto alte di lotta e di conflitto, con alcune modificazioni.

Innanzitutto il centro delle lotte si è spostato dalle varie realtà in maniera non sintetizzabile in alcuno schemino. Non si può parlare di decentramento (dalle z.i. alla campagna) né di localizzazioni particolari (il triangolo industriale).  Il padronato ha corso molto, i “distretti industriali” nuovi che sono cresciuti come funghetti in giro per l’Italia sono numerosi, le realtà che hanno iniziato a subire processi di proletarizzazione spinta sono numerosi, la precarizzazione e parcellizzazione del lavoro ha comunque creato nuovi conflitti e necessità (ed è qui soprattutto, tra lavoratori molto mobili, che pur essendo favorite condizioni di lotta avanzate, non è facile strutturare l’autonomia di classe in assemblee permanenti di massa ed in strutture di difesa –sindacati- autenticamente rappresentativi i bisogni e le necessità dei lavoratori).  Contemporaneamente la praticamente passata chiamata nominale ovunque e comunque con la fine degli uffici di collocamento e addirittura, grazie a D’Alema, con il caporalato legittimato al Sud, ma soprattutto l’estensione molto spinta del lavoro nero e del supersfruttamento degli immigrati anche in settori storicamente “protetti” come l’autotrasporto, e delle esternalizzazioni e moltiplicazione di realtà di piccolissime aziende che sfruttano specificamente in maniera spietata lavoratori senza garanzie all’interno di grandi stabilimenti ove si vengono quindi a trovare diversissime realtà aziendali –con una perdita non solo di democrazia interna e di diritti, ma anche di sicurezza sul lavoro, già prima molto precaria, perché si istituzionalizza lo scaricabarile tra realtà diverse di modo da salvare i dirigenti in caso di stragi o incidenti mortali, oltre a permettere profitti molto maggiori– tutto questo fa sì che le “belle parole” che plaudono a lotte lontane o alle quali non si è partecipato direttamente, o che auspicano il formarsi di nuovi “momenti” di autonomia di classe, mentre in realtà la situazione di milioni di lavoratori è drammatica, non sono certo all’altezza di realtà che sistematicamente e internamente alla classe lavorano direttamente all’auto-organizzazione perché necessario non solo o tanto per finalità politica immediata o tattica, quanto per la sopravvivenza e il miglioramento della vita dei compagni operai stessi che si esprimono come avanguardie della classe e che poi in genere sono i primi ad essere colpiti non tanto (come nei casi frequenti di compagni espulsi dalla Cgil per le loro affermazioni giudicate “estremiste”) per la loro identità quanto soprattutto perché estremamente fastidiosi in quanto riconosciuti ed amati dai compagni di lavoro.

È quindi negativo il protarsi nel movimento comunista di logiche da orticello che rimandano ad una debolezza e ad un minoritarismo tipici di chi proclama apertamente la necessità di “ricostruire” (perché RI-costruire ?  quando mai, dopo la seconda guerra mondiale, il PCI è stato autentica avanguardia rivoluzionaria della classe ?  è il PCI che si vorrebbe ricostruire  ?   quello della “via italiana al socialismo”  ?   quella dei servizi d’ordine dei portuali che sprangavano i compagni studenti delle organizzazioni più invise ai dirigenti sindacali (come Lotta comunista o Potere operaio -laddove vi riuscivano- ?)   è il PCI di Berlinguer o di Longo  ?   è quello di Secchia ?

A questo genere di domande non possiamo che rispondere NO.

È un altro Partito. Che deve dirigere la rivoluzione.  E che ha bisogno che tra le masse proletarie vi sia la maggiore partecipazione possibile alla politica.  E se questo significa anche sindacati rivoluzionari ma non minoritari né isolati,  se questo significa anche organizzazioni specifiche delle donne,  dei giovani,  degli anziani,  di quartiere,  di paese,  di lotta contro l’inquinamento,  per la sicurezza nelle strade, e perché no, contro la droga pesante e chi ne difende sotto sotto la circolazione nonostante le apparenze,  contro lo sfruttamento delle donne –e non contro le prostitute o le schiave della malavita più infame-,  contro la mala-sanità e la corruzione e il furbonismo che attraversano tutta la società, bene allora ben vengano queste organizzazioni, e che ci siano comunisti che vi lavorano dentro,  fuori e contro la logica del “tanto apparecchiamo la situazione in un modo o nell’altro”,  “dobbiamo trovare per forza una mediazione”  e  “rivolgiamoci ai parlamentari e ai giornali ed alle autorità” come forma principale di lotta, non è certo un male ma un bene.

Nel caso di Melfi, alcuni compagni hanno contestato agli operai dello Slai Cobas, di aver sbagliato a non votare a favore dell’accordo perché così hanno lasciato “il merito ai bonzi sindacali”.  In realtà occorrerebbe parlarsi meglio tra i compagni delle varie realtà e città italiane, ed imparare ad avere più fiducia di chi si conosce, in fin dei conti, meno di quanto si pensi, prima di esprimere una critica del genere, anche perché in realtà in un caso del genere è vero il contrario.

Infatti –e questo non solo perché il 23% dei voti contrari è una buona percentuale di sinistra (i bolscevichi prima del ’17 non rinunciavano ad esprimere la propria minoranza anche nelle situazioni più “sociali”) nell’ambito di una realtà come quella–   quando delle avanguardie operaie, appartenenti o meno a un sindacato rivoluzionario o di opposizione che siano,  sono partecipi con i contenuti delle loro proposte e la dedizione alla lotta, prima durante e dopo le mobilitazioni,  ma, nonostante il frutto della lotta sia anche loro,  rinunciano a sottoscrivere la mediazione raggiunta perché limitativa, proprio per questo,  danno un buon contributo sia alla coscienza critica delle masse (che va sempre sollecitata senza rompere durante la lotta in strada o sul campo, ma che può anche arrivare alla rottura nelle decisioni ai voti proprio perché le masse sono molto sensibili all’espressione delle diverse opinioni, –checchè ne pensino i piccolo borghesi che rifiutano tout-court l’idea che le masse siano le reali artefici della storia anche nelle “fasi di riflusso” delle lotte– ) e tra l’altro lasciano aperto uno spazio politico ad ulteriori lotte e conflitto per andare oltre quella parziale tappa che si è raggiunta in quel particolare momento.

Ecco che la critica di sinistra è diventata in questo caso, di destra.

Situazioni del genere avvengono spesso quando si vuole affermare, come sostengo da ben oltre questi dieci anni e passa di schifosa galera, una logica ipercriticista tra situazioni che dovrebbero cercare di imparare le une dalle altre. Soprattutto quando si assumono per dati generali quelle che sono situazioni specifiche e particolari.

Prendiamo la situazione del “nord-est”.

La ristrutturazione padronale ha determinato una situazione talmente integrata, spinta e repressivo-convulsiva della realtà economica, che è veramente difficile per le esigenze dei lavoratori esprimersi. Ciononostante si vanno esprimendo varie realtà di autonomia di classe. 

Ma quale espressione politica esse possono avere se non riescono neppure a darsi forme stabili di organizzazione sindacale rivoluzionaria o comunque di opposizione al regime padronale e Statale che vige spietatamente sulla vita dei lavoratori, dei loro familiari, e di noi che per i lavoratori e per la loro emancipazione sotto la guida della classe operaia, del proletariato e del suo partito, diamo la vita ?  Anche nella clandestinità del fascismo, il PCd’I non disdegnava il lavoro clandestino sindacale, che anzi era alla base della formazione del partito stesso.